Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

L’Organizzazione Pastorale del dopo Concilio


L’uomo e le sue azioni sono sempre al centro del pensiero occidentale. La questione antropologica diviene questione centrale della riflessione cristiana soprattutto in seguito al Concilio Vaticano II. La Chiesa del post – Concilio è una Chiesa in ricerca, in servizio ed in crescita che ha preso atto dei cambiamenti sociali ed ecclesiali del nostro Paese. È questo un momento in cui l’episcopato italiano s’interroga sull’ evengelizzazione e mette a punto un progetto pastorale. “Evangelizzazione e sacramenti” è il Primo Convegno ecclesiale del dopo – Concilio che si è tenuto a Roma dal 30 Ottobre al 4 Novembre del 1976. La Chiesa italiana riscopre la fondamentale dimensione storica del suo operare ed agire.
Il Progetto Pastorale degli anni 80 portò il titolo di “Comunione e Comunità”. Il periodo era particolarmente difficile: si era diffuso un ateismo teorico e pratico. Il documento programmatico riflette sulla ecclesia ad intra per poter progettare la missione evangelizzatrice ad extra (sull’ecclesia ad extra). Secondo il filosofo Armando Rigobello la coscienza morale degli italiani negli anni 70 e 80 era mutata ed aveva bisogno di nuovi modelli. C’era il rifiuto della tradizione e mediazione, radicazione di atti violenti, nuova morale non desunta dai valori, riduzione soggettivistica di ogni scelta etica, mentalità nichilista.
Per questo la Chiesa celebra a Loreto dal 9 al 13 Aprile 1983 il Secondo Convegno Ecclesiale “Riconciliazione Cristiana e cristianità degli uomini”. La Chiesa locale è il luogo di riconciliazione del Paese. La Nota Pastorale pubblicata alla fine del Convegno “La Chiesa in Italia dopo Loreto”, ha l’intento di richiamare l’attenzione su ciò che si è vissuto, riassumere il messaggio che il Convegno ha affidato alla Chiesa: il Convegno deve diventare storia e la storia deve essere realtà e testimonianza concreta di riconciliazione in se stessa e nella comunità degli uomini.
Lo scenario cambia negli anni Novanta. La caduta dei Totalitarismi in Europa ha dato una svolta. Il tema posto all’attenzione delle comunità italiane è evangelizzazione e testimonianza della carità. La carità è virtù privilegiata della nuova evangelizzazione essendo “essenza di Dio”. Il Terzo Convegno Ecclesiale fu a Palermo dal 20 al 24 Novembre 1995 dal titolo “Il vangelo della carità per una nuova società in Italia”. Questo convegno si soffermò sui giovani, famiglie, poveri, impegno sociale e politico. Si invitano i cristiani a diventare “sale” e “luce” per una convivenza giusta e pacifica. La Chiesa in questo clima culturale deve offrire un nuovo contributo al Paese in ricerca. Una delle priorità emerse a seguito del Terzo Convegno è l’evangelizzazione nuova della cultura e l’inculturazione della fede. Il progetto è di colmare le fratture che col tempo si sono create tra Vangeli e culture.
Oggi l’episcopato italiano ritiene che evangelizzazione e catechesi siano due tappe obbligate.
La programmazione per il primo decennio del 2000 è su Cristo (Nostro programma): da conoscere, imitare e vivere. Si potrà trasformare così con Lui la Storia, fino al compimento della Gerusalemme Celeste. In questo momento storico, il pensiero cristiano si interroga sul paradigma dell’uomo, per proporre nella cultura postmoderna la “visione cristiana” dell’uomo. Il problema uomo è al centro delle riflessioni della Chiesa; innanzitutto bisogna mettersi in ascolto della cultura del nostro mondo, dando importanza alla memoria storica, per non perdere di vista le esperienze. Al centro della riflessione c’è la rottura fra Vangelo e Cultura. Oggi più che mai la questione antropologica è destianta ad accompagnarci. Il progetto culturale mette in rapporto la fede cristiana con l’antropologia. Il Cardinale Ruini a Bologna parlando di mutamenti propone di non adeguarsi, ma modificare, orientare, convertire questi atteggiamenti. Per proporre il futuro pensiero cristiano, bisogna interrogare le antropologie odierne. Non è semplice intercettare le tendenze contemporanee. Possiamo parlare di “razionalizzazione” e “secolarizzazione”. L’uomo postmoderno ha inventato il “progetto – felicità”, e schivo delle relazioni interpersonali, persegue il piacere, senza il quale è propenso alla chiusura anticipata della vita. La posizione del pensiero che si ispira al Cristianesimo deve recuperare e rilanciare una visione unitaria dell’uomo come persona senza dimenticare la dimensione corporea. Grazie ad Internet è cambiato il modo di intendere la fisicità del corpo umano. Una nuova problematica degli ultimi tempi è quella del pluralismo delle etiche in confronto alle prospettive dell’etica cristiana.
Il compito etico oggi consiste nel creare un futuro di convivenza pacifica caratterizzato da estraneità morali e diversità di religioni. Non dimentichiamo la globalizzazione che chiede una veloce capacità di adeguamento. La Chiesa propone di costruire un futuro degno della persona umana.    

Teologia in Dialogo


In una pagina di Marx viene illustrato un paragone tra gli economisti ed i teologi; i primi non ammettono che “due tipi di situazioni”: risultano artificiali le istituzioni feudali, mentre quelle borghesi appaiono naturali; i secondi, individuano soltanto “due tipi di religioni”: quella che non viene da loro è frutto dell’invenzione umana, mentre quella che elaborano è una emanazione di Dio [1].
Le distinzioni che il nostro autore stigmatizza, ormai, sono diventate anacronistiche. Tutto viene stabilito in maniera procedurale: è il “dibattito pubblico” l’area nella quale stabilire quali “verità” debbano prevalere. Il dialogo aperto a tutti, la messa in campo di tutte le opzioni impongono la resa ad una etica dell’agire comunicativo [2]. Le questioni teologiche risentono di questo clima culturale, sociale. La Chiesa, però, deve essere, per riprendere una espressione di Italo Calvino, capace di distinguere cosa nel dibattito pubblico non è inferno e farlo durare. Giovanni Paolo II, nella Redemptor hominis, al n. 14, scrisse che «la Chiesa deve […] essere consapevole […] di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché la vita umana divenga sempre più umana». Si tratta, dunque, di avversare unicamente quanto minaccia il processo continuo della nostra umanizzazione piena! Impegno che apre un dialogo, non irenico, con questioni che la contemporaneità rubrica, nell’agenda del dibattito pubblico, sotto la voce “urgente”. La Chiesa, benché immetta nella contingenza del nostro tempo “verità eterne”, deve annunciarle con parole comprensibili anche a chi adotta gli strani e talvolta straniti “lessici della contemporaneità[3].
Il punto fermo è questo: dialogare per far comprendere che la fede non induce a condurre battaglie formali assisi sull’asse dell’accademismo, ma suscita un “agire cristiano” in un mondo alla ricerca del Senso. Un teologo invita a meditare la lezione: «la fede […] è esigenza di azione […] esigenza di efficacia temporale» [4].

Esigenza di azione, efficacia temporale: in riferimento all’azione della fede cristiana ciò significa dialogare ed agire efficacemente per trovare il Senso. La domanda che occorre farsi è questa: di che cosa vive l’uomo? «Ogni uomo praticamente vive del suo progetto di senso» [5]. Praticamente: nella prassi, cioè, si deve realizzare un progetto; non uno qualunque, bensì, sensato. Perché non portare ad ognuno la Parola per vedere se non si possa trovare nella “proposta cristiana” il “fondamento dell’esistenza”? Proposta che, sebbene di origine Trascendente, deve calarsi nelle diversità culturali, nei molteplici linguaggi dei saperi e delle varie nazionalità. Un “progetto di senso”, non può non essere anche “culturale”. Una domanda preliminare si impone: quando una cultura è vera? Un Pontefice che ha segnato un’epoca nella comunicazione della fede, ha detto: «La vera cultura è umanizzazione, mentre la non cultura e le false culture sono disumanizzanti» [6]. Le preoccupazioni teologiche, immettere la Parola nelle parole del “pubblico dibattito” sulle “sorti dell’umanità”, passano attraverso la sola questione decisiva: battersi per una cultura che umanizzi e non disumanizzi l’uomo!

Le parole che i credenti prelevano dai “lessici egemoni” del nostro tempo, costituiscono solo una iniziale condivisione della semiosfera dei non credenti; poi, però, mostrino decisamente di saperle arricchire dei nutrimenti vitali della Parola. L’Evangelo mostri che si può raccontare (costruire?) una realtà diversa nella quale non predominino le elefantiasi egologiche originate e giustificate con il miraggio della crescita economica e tecnologica. Leggere e raccontare l’oggi tenendo, come diceva Barth, in una mano il giornale e nell’altra la Bibbia, significa mostrare che il cristiano pone, come segno di rottura, la carità, sola categoria fondante i rapporti umani. Amare Dio ed amare l’uomo, capolavoro dell’agape cristiana, possono diventare i punti fermi a partire dai quali rinegoziare i modi di stare al mondo, di fare Storia:
 «La carità che ama il prossimo non è diversa da quella che ama Dio. Non c’è una seconda carità» [7]. Annunciare la Verità nella carità: mantenere, cioè, il “rigore della Dottrina” in piena armonia con la necessità di mostrare un “volto amico” all’uomo postmoderno. Questa è la via della Chiesa: saper stare, senza squilibri nocivi per se stessa e gli altri, tra il “rigore” e l’“immaginazione” che trova nuovi modi di trasmissione del deposito della fede [8].
La teologia deve esprimersi con il rigore imposto dalle verità di fede, ma pure ricorrendo all’immaginazione riguardo alle modalità di linguaggio da eleggere per evangelizzare. Il compito è arduo solo a prima vista… Abbiamo nella Bibbia una pluralità di linguaggi per narrare la Rivelazione: poesia, proverbi, parabole, cronache… Se oggi si deve innanzitutto fare riferimento alla parte emozionale, patica, dell’uomo, la proposta teologica dispone di un arsenale semantico rassicurante. Il simbolo, l’espressione mitica possono fare molto nel deserto postmoderno allestito con decostruzioni e linciaggi continui alla religione ed alla metafisica. Uno studioso delle religioni indica una strada percorribile:
«oggi si sta comprendendo una cosa di cui il XIX secolo non poteva avere nemmeno un presentimento ovvero che il simbolo, il mito […] appartengono alla sostanza della vita spirituale che è possibile mascherarli, mutilarli, ma che non li si estirperà mai» [9]. Quante ideologie, teorie politiche sono alterazioni o mutilazioni mitiche, caricature, dell’originario messaggio cristiano? Ebbene, anche le metamorfosi cruente e spaventose del lascito cristiano – seppure in una declinazione mondana – non accendono una lieve eppur pungente nostalgia dell’Altro? Se ne conclude: «Se le Immagini non fossero al tempo stesso un’apertura verso il trascendente, in qualsivoglia cultura, per quanto grande e ammirevole la si ritenga, si finirebbe per soffocare» (Immagini e simboli, p. 154).

Le religioni, il Cristianesimo in particolare, immettano nelle culture il necessario contributo di Immagini, Simboli, affinché non si atrofizzino nell’immanenza e sentano, velatamente, il richiamo del Trascendente. Il compito diventa tanto più urgente quanto più cresce la consapevolezza che un “paradigma comunicativo” tecnico, specializzato, sta diventando pericolosamente dominante! Troppo in fretta mutano cose e linguaggi: «ogni vent’anni, ma a volte anche prima, cambia il modo di funzionare degli oggetti di uso quotidiano […]. La cosa è cominciata in grande stile con la rivoluzione elettronica […]. È una rivoluzione che muta quel che è stato vero per millenni: che i vecchi erano più esperti» [10].
 La rivoluzione elettronica muta radicalmente, in grande stile, cose e linguaggi: i giovani, utenti privilegiati delle nuove tecnologie, paiono più esperti dei vecchi. In realtà, azzerare quanto abbiamo alle spalle non è l’equivalente del progresso. Un deposito di saggezza, di sapienza religiosa possono patire una totale sostituzione da parte degli oggetti e dei modi di pensare, di parlare inaugurati dalla rivoluzione elettronica? I Simboli, le Immagini del mondo che fu hanno perso ogni funzione e valore? Non lo crediamo! Riscoprire il gusto della parola intrisa di sapienza biblica, misurare la portata e l’efficacia delle parole sulla Parola non è operazione da consegnare alle oziose romanticherie di una mentalità ridotta a reperto museale. Ai giovani in particolare, invio una considerazione di un teologo e filosofo del Novecento:
«La parola è un seme che cerca la terra, dice il Signore nella parabola del seminatore […] ha in sé […] il potere di incominciare a creare vita. Non possiamo riceverla come la mente assimila un concetto, ma come la terra accoglie il seme» [11].
Il “cristiano” è terra ed allo stesso tempo seminatore! La semina avviene in vista della nascita, della crescita… della vita. In realtà, anche le cose della fede entrano in noi concettualmente. A differenza delle nozioni utili per operare con le nuove tecnologie, però, il sapere teologico incide sulla “vita spirituale”,  giova alla umanizzazione intesa quale rinnovamento ontologico e non meramente fenomenologico. Studiare la mente, i suoi modi di apprendimento, le modificazioni indotte nel pensiero dalle nuove tecnologie non è inutile per la teologia; tuttavia, la finalità nel coltivare tali interessi è di più ampio respiro.
Ogni conoscenza si dà sempre entro l’esigenza insopprimibile di prendere in considerazione, per dirla con Mounier, il volume totale della persona: «Per studiare la mente non si potrà mai trascurare l’intera verità sull’uomo, nella sua compatta unità di essere fisico e spirituale» [12].
La teologia cristiana non discute per frantumi dell’uomo. Lo sguardo della fede è più ampio perché non svalorizza il visibile, né assolutizza l’invisibile. Spostiamoci sul terreno filosofico con uno studioso di Logica e Metafisica. Egli individua, riferendosi ai modi di vedere il mondo, una miopia ed una xenofobia ontologiche.
La prima consiste nel «pensare che esistano soltanto certe cose per il semplice fatto che non ne abbiamo viste altre, o perché l’esistenza di altre cose non ci ha mai sfiorato l’anticamera del cervello»; riguardo alla seconda, scrive:
«si fa fatica a riconoscere diritto di cittadinanza a quelle entità che fanno a pugni con lo status quo ontologico su cui si reggono la nostra filosofia e la ricerca scientifica più consolidata» [13].

Piegando le osservazioni di Varzi agli interessi teologici, tiriamo alcune conclusioni. Che il nostro sguardo (noetico e fenomenico) sia limitato non significa che, automaticamente, la realtà finisca laddove riusciamo a comprenderla, a percepirla… Ci sono – diceva un drammaturgo inglese – più cose in cielo di quanto ne sappia la nostra filosofia! Il non aver pensato a qualcosa, poi, non ne certifica l’inesistenza. Provate a spostare tutto sul piano misterico dell’esistenza di Dio. Si ha una “paura mista ad odio” (xenofobia) verso quanto non è immediatamente amministrabile, sequestrabile sotto le insegne del sapere scientifico e filosofico. La Rivelazione, tuttavia, a prescindere dal fatto che sia credibile, dimostrabile, è assolutamente conveniente. Non sto dicendo che va pensata in termini utilitaristici: si tratta di aver chiaro che «conveniente è un’ipotesi che si incontra col desiderio dell’uomo, adatta al cuore e alla natura dell’uomo» [14].
Don Giussani faceva pure riferimento, altrove, alla coscienza esistenziale di ciò che Cristo, la  fede e la Chiesa sono: essa è costituita, spiegava, non da ragionamento o studio… tale “coscienza esistenziale” è «frutto di un incontro» [15].
Un incontro che muta radicalmente il concetto di “speranza”: da politico, ideologico, si fa teologico; infatti, il cristiano, dice Giussani, «è, per natura, in polemica con le speranze “mondane”» (Moralità, cit. p. 13).
Un incontro tra due soggetti è quanto di più umanizzante si possa dare e, in più, ciò che rende davvero “personale” il ‘dire’:
«La parola […] sorge in modo estremamente personale. Il parlare con Dio è […] genialità personale» (p. 25).

Il “desiderio umano”, rettamente inteso, è importante, fondante per l’antropologia teologica. L’ipotesi Dio (semmai volessimo considerare ipotetica la rivelazione di un Redentore) si incontra, a livello ontologico, con la domanda di Senso che l’uomo rivolge ad un Tu; cuore e natura umana si realizzano, strutturano compiutamente quando ammettono come conveniente ascoltare la proposta del Tu. Dio è Logos, Parola che incontra il “desiderio del linguaggio umano” che è quello di trovare una attendibile “grammatica del Senso” e noi siamo vuoti, disperatamente desertificato il cuore, se il desiderio di dire parole sensate non è visitato da Colui che è il Senso! Dio arriva nel mondo e si rende annunciabile. Il Logos non ha problemi a calarsi (kenosis linguistica) nei balbettii nervosi che siamo capaci di articolare.
La teologia è sulla strada giusta quando entra nei “dibattiti pubblici” riconoscendo che mostrare Dio è possibile, ma dimostrarlo, no! [16].
 In realtà, abbiamo necessità di armonizzare teologia negativa (procede dicendo chi, cosa Dio non è) e teologia affermativa; si tratta di tenere assieme queste due strade: «Senza la teologia negativa si cade nell’idolatria, senza quella affermativa si corre il pericolo dell’afasia» [17].
Si deve affermare qualcosa intorno a Dio con la consapevolezza di essere in possesso di parole da rimettere in discussione, ma anche con la certezza che è fondamentale non scadere nel mutismo. Dio viene definito Totalmente Altro, ma non è un sinonimo di Totalmente Indifferente. Il Suo essere Altro è la migliore garanzia che può esserci relazione: la somiglianza è necessaria per comprendersi e la diversità lo è per avere qualcosa da dirsi. Il dire intorno al “Totalmente Altro” accade in un rapporto tra soggetti che si somigliano, ma non sono uguali. Conclude Pezzini: «Quando si dice che Dio è il totalmente altro non si dice tutto, perché il concetto stesso di alterità non può essere concepito in maniera assoluta […] sciolta da ogni comparazione. Una cosa è altra rispetto a qualcosa d’altro […]. E […] non si può parlare di alterità se non si ha la percezione della somiglianza. Per questo alterità non dice necessariamente separazione, né tanto meno ostilità […]. Quando parliamo di alterità di Dio lo facciamo partendo da quello che siamo noi» (L’Altro, cit. p. 13)

Le parole dicono nulla di Dio, ma a Lui possiamo dire tutto [18]. Nell’ambito del razionale la teologia trova numerosi ostacoli, ma quando narra di un rapporto vivo, dinamico con l’Altro, si apre, senza pudore o timore a tonalità mistiche, poetiche degne di attenzione. Si parla – dicono alcuni entusiastici cantori della rinascita del religioso – tanto di religione, di divinità; già, si parla, ma si dice qualcosa di interessante? «Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto» [19].
Le parole vane, parlate e non parlanti [20] – si riscattano convertendosi in silenzio adorante, capace di ascoltare, che è altra cosa dal mutismo! «Il linguaggio non è che un mezzo per attirarci verso il suo contrario, che è il silenzio e che è Dio» [21]. Alla base del linguaggio malato, vi è il pervertimento delle “parole fondamentali” che assicuravano, in qualche modo, la possibilità di comunicare in verticale ed in orizzontale. Chi parla pare che solo possa ingannare; cercare parole parlanti diventa effettivamente impresa da abbandonare sul nascere:
«Molte divisioni attuali sono divisioni di parole. Molte unioni sono unioni di parole. In nessun secolo la parola è stata così pervertita, come ora lo è, dal suo scopo attuale che è quello di far comunicare gli uomini. Parlare e ingannare […] sono ora quasi sinonimi. A tal punto che, volendo io parlare con voi […] sinceramente, fraternamente […], se mi metto a cercare le parole, resto veramente perplesso, tanto esse sono false, equivoche, usate e compromesse» [22].
La parola scade a chiacchiera (Heidegger); si ottiene quella che un autore francese definì la parole vaine:
«La chiacchiera è la vergogna del linguaggio. Chiacchierare non è parlare […]. Quando si chiacchiera non si dice niente di vero, persino quando non si dice niente di falso». La chiacchiera, in conclusione, è «puro divertissement che va di qua e di là […] parlando allo stesso modo di tutto […] tutti chiacchierano, ma tutti condannano la chiacchiera» [23].
La cosa sconvolgente è questa: si è nella falsità anche laddove non si mente perché il chiacchierare non è parlare.

Dio è la Parola che interroghiamo e che ci interroga [24]; sì, perché si tratta di parlanti autentici, due Soggetti. Solo tra un soggetto ed un oggetto c’è relazione concettuale, apatica. L’uomo deve recuperare il rispetto dovuto alla parola se vuole relazionarsi positivamente con la Parola. Gli uomini, purtroppo, diceva un filosofo, scadono, nella comunicazione, a livelli talmente bassi che possono parlare come una lampadina elettrica può diventare incandescente: in maniera automatica, senza partecipazione emotiva, né intellettiva. Le tracce della Trascendenza, purtroppo, sono ora più facilmente rintracciabili laddove la comunicazione diviene banale; ad esempio, nella pubblicità. Scrive A. Giordano: «La pubblicità usa immagini che rimandano a significati profondi per l’uomo: il cielo che evoca trascendenza, paternità, infinito […]. Si crea così un movimento idolatrico: si presenta un prodotto “divinizzato” come capace di rispondere all’attesa che ha risposta solo altrove» [25].
 Se siamo in un momento storico – culturale nel quale la Trascendenza si può rintracciare, corrotta, nella pubblicità è perché la comunicazione risente della corruzione delle parole. La parola, dunque, è soltanto una passiva ancella di shock sensoriali [26]. Gli stessi discorsi teologici, spesso, paiono essere – quando abusano di certi termini – un “gesticolare con le parole” verso il “mistero” che rimane, a dispetto di tutto e tutti, inavvicinabile [27]. Il teologo che “pensa la fede” senza “griglie teoretico – linguistiche” miticamente rivestite di infallibilità, comprende con dolore, nobilitato da modestia intellettuale, la debolezza del suo ‘dire’; sperimenta, vivendo fino in fondo la somiglianza e la dissomiglianza col Creatore, la verità come qualcosa che in lui diventa vita (Kierkegaard). Nelle “cose della fede” ogni vocabolo è un nido dove s’annida l’uccello del dubbio [28].
Un uccello al quale non rifiutare “accoglienza”, “nutrimento” (seppur misuratamente) nel nido dei vocaboli più tetragoni a critiche informanti le nostre teologie se vogliamo evitare il rischio che «Dio retroceda a puntello ideologico di un pensiero onniveggente» [29]. Un sistema teologico che pretenda di tirare dalla propria parte “Dio” per poi metterlo a servizio di un pensiero onniveggente, fa di Lui un puntello ideologico che rende disastrosamente invulnerabili posizioni politico – culturali che andrebbero, viste con l’occhio della fede, smantellate.

Evitare il pericolo appena denunciato è possibile se, nel dire le ‘cose della fede’, il teologo seleziona i nutrimenti giusti (dottrinari ed espressivi). La Teologia della Liberazione invita a parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente (ispirandosi al Libro di Giobbe). Unire mistica e pratica è il primo passo; si deve passare attraverso contemplazione e prassi. Occorre «situarsi in un primo momento sul terreno della mistica e della pratica, e soltanto in seguito si può avere un discorso su Dio autentico e rispettoso. Fare teologia senza la mediazione della contemplazione e della prassi significherebbe essere al di fuori delle esigenze del Dio della Bibbia. Il mistero di Dio vive nella contemplazione e […] nella pratica del suo disegno sulla storia umana; soltanto in seconda istanza tale vita potrà animare […] un linguaggio pertinente» [30].
 Il “disegno di Dio” sulla “Storia” vive nella nostra “contemplazione” e “pratica”. Una vita così impostata e condotta, dunque, legittima il tentativo di animare un linguaggio pertinente alle cose della fede. Le parole della fede vanno condivise come un pasto nuziale. La Parola deve mutarsi, da scritta e conservata, in relazionaleviva. Il lettore presta la bocca a Dio che, così, raggiunge il popolo [31]. Si propone con facile entusiasmo una concezione della verità “procedurale”; si delinea un’etica del discorso pubblico: tutti intervengono a parità di condizioni per determinare cosa sia o non sia vero! Tutte le ragioni a confronto è slogan utopico? Laddove le istanze si fronteggiano alla pari si profila una soluzione democratica?
L’invito a celebrare un “pubblico dibattito”, in certe proposte di filosofia etica contemporanea, pare rinvenire l’invito ad assistere ad una liturgia; lì la parola è data a tutti, ma quale frutto di una individuale espressione di pensiero. Nella liturgia cristiana, invece, viene messa in comune la Parola che, anche se vissuta, filtrata attraverso tante sensibilità, tante forme di partecipazione, è pur sempre veniente da Dio. Si ha in Lui, con Lui, il Fondamento della comunicazione, più che un fenomeno di comunicazione! Siamo convinti che il dibattito pubblico riguardo alle cose del Cristianesimo sia la sola via di uscita contro le eventuali minacce di una teologia che potrebbe vestire i panni del dittatore? In realtà, occorre molta prudenza anche laddove la verità si voglia stabilirla mediante confronti pubblici. Un autore “laico” ha calato lo spegnitoio sulle infuocate lodi rivolte ad una “etica del discorso pubblico”: «non bisogna idealizzare il dibattito pubblico come luogo dove lo “scambio di ragioni” porta automaticamente al reciproco convincimento. Nella realtà sociale e politica al fondo di ogni confronto […] permane l’inconciliabilità dei punti di vista […]. A partire da un certo momento, nella sfera pubblica non c’è più ricerca di intesa ma dispiegamento di strategie tese a ottenere il riconoscimento delle proprie convinzioni […], rivendicazioni materiali e immateriali o identitarie […]. L’ethos comune non è sinonimo di omologazione di valori bensì di convivenza di differenti punti di vista valoriali» [32].

La teologia, inseritasi nel “dibattito pubblico”, non avrebbe garantita la non ostilità dei tanti detrattori del Cristianesimo. Il “dibattito pubblico” non va idealizzato: più che agorà nella quale discutere, può rivelarsi una arena nella quale tentare di sopravvivere. La teologia potrebbe cadere in una trappola: far prevalere, ricorrendo ad opportune strategie argomentative, il proprio punto di vista. Il discorso teologico, a differenza di quello politico, non può far leva sulla capacità di persuadere, né puntare a ricevere riconoscimento superficiale dalla maggioranza. Le parole della teologia devono essere fedeli alla Parola, non alle strategie comunicative esperte e subdolamente convincenti, non alle tecniche di persuasione.
I risultati delle procedure scientifiche, ad esempio, paiono, nel dibattito pubblico, avere la meglio: la tecnologia funziona, la scienza trova conferma alle sue teorie reiterando esperimenti… le cose della fede, invece, come ottengono credibilità? I teologi dovrebbero rendere chiara la differenza tra ciò che viene considerato vero perché “funziona” e quanto viene considerato “falso” solo perché apparentemente privo di efficacia nel confermare la “nostra” idea di Progresso! Un filosofo che si definisce “fisico laico” mette a confronto gli oggetti fisici e gli déi di Omero: «come fisico laico credo negli oggetti fisici e non negli déi di Omero […]. Ma quanto a fondamento gnoseologico […] differiscono solo nel grado e non nel tipo […] entrano nella nostra concezione solo come assunti culturali. Il mito degli oggetti fisici è epistemologicamente superiore a tutti […], si è dimostrato più efficace degli altri miti come espediente per erigere una struttura di cui far uso nel flusso dell’esperienza» [33].
La scienza, detto altrimenti, fornisce schemi concettuali per orientarci nella vita. Il mito degli “oggetti fisici” prevale perché aiuta nell’esperienza. Ridotta la scienza ad un postulato culturale come le credenze ed i miti, decide la pratica chi debba prevalere.

È il successo “pratico” di certi linguaggi, conoscenze a decidere dell’avvilimento o, addirittura, dell’abbandono di altre forme di sapere, credenze, fedi. La teologia, in particolare quella morale, per stare al passo con il vincente mito degli oggetti fisici, scientifico – tecnologici, abbandona preoccupazioni dogmatiche e provocazioni escatologiche;  al dibattito pubblico si misura solo su temi dominanti trovati già aperti. Il risultato, però, non è quello sperato: la Chiesa Cattolica parla dei temi all’ordine del giorno, ma pare debba giustificarsi se vi immette il benché minimo accenno al Trascendente.
Capita, così, che, per stare nella comunità che dibatte, la Chiesa si sgravi, seppur momentaneamente, della sua (il termine non lo condivido, ma è certo gradito ai laicisti) “zavorra dogmatica”. Rusconi (non è teologo) denuncia l’impoverimento teologico del discorso pubblico della Chiesa:
«Il consenso che oggi la religione-di-chiesa chiede […] non prevede alcuna specifica competenza teologica. Ciò che sta a cuore alla Chiesa è la rivendicazione del monopolio dell’etica […]. Il suo obiettivo non è l’edificazione teologica ma la determinazione di un’etica pubblica […]. L’approccio etico – religioso oggi dominante mantiene sfocati (o semplicemente non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici […]. Oggi questi temi teologici sono diventati incomunicabili a un pubblico religiosamente deculturalizzato» [34].
Se la Chiesa mira al consenso riguardo ai suoi modi di affrontare temi morali, cosa importa se i destinatari dei Suoi messaggi sono privi di cultura teologica? Ma si possono capire certe scelte della Chiesa senza un retroterra di conoscenze dogmatiche? Sì, se tutto si svolge su di un piano meramente etico e per nulla ‘profetico’, ‘escatologico’. I dogmi sono da tenere in vita se tutto quello che preoccupa è il monopolio dell’etica? I teologi devono far comprendere, invece, che alla base di ogni pronunciamento della Chiesa c’è il dogma che non è una verità congelata e priva d’anima, ma il frutto di una elaborata riflessione teologico – filosofica intrisa anche di pathos! Si dice che la Chiesa ormai si pronuncia soltanto su sessualità, biologia… Il bioteologismo – come lo definisce Rusconi – sostituisce le sempiterne questioni di teologia? Sarà sempre più necessaria una parola tecnicamente, scientificamente penetrante, formalmente corretta, per consentire alla Chiesa di entrare nell’arena pubblica e combattere gli stranieri morali? La Parola è ancora rintracciabile nelle parole della Chiesa se non ha più come obiettivo l’edificazione teologica? Ridurre il Cristianesimo ad etica significa che le parole per narrarlo sono da attingere necessariamente ad altri dizionari…

La parola tecnica, prevalendo, rischia di rendere sfocatinon detti contenuti che sono al cuore della fede cristiana. Le parole teologiche hanno l’obbligo di mostrarsi innanzitutto fedeli alle caratteristiche della Parola. L’ebraismo insegna un rispetto sacrale per il “dire umano”. Una vecchia teoria proposta dai sapienti di Israele parla di Dio/scrittore: Egli «scrisse la Bibbia e a mano a mano che scriveva si formò il mondo. Scrisse Eva, ed Eva comparve in fiore sotto l’albero della conoscenza. Nessuno scrittore finora è arrivato a questo punto. Ma gli ambiziosi ci provano» [35]. Dio parla e crea! Dice e le cose vengono alla luce! Noi non raggiungeremo mai un tale risultato; eppure, per Lagercrantz, proviamo a far “cose divine” con “parole umane”. Questo non deve farci tremare di sdegno: siamo ambiziosi riguardo alle possibilità del nostro linguaggio, in quanto Dio ci ha mostrato, facendosi logos incarnato, meraviglie. Sforzandoci di portare la parola a certi livelli, non si toccano traguardi lusinghieri? Poesia, narrativa… sono alcuni dei risultati ottenuti da uomini sì ambiziosi, ma che pure hanno creduto che Dio ha instillato in noi il gusto del Logos, l’amore per la Parola. Desideriamo comunicarci in maniera totale, ma il non riuscirci conferma che infinito abisso è il dire umano. Le parole non sono illusioni se riferite a Dio, ma allusioni ed appelli; sì, “appelli”, perché a Dio si parla, ma di Dio non si può parlare [36].
Egli si fa umano perché, in qualche modo, dicibile (vanno armonizzate teologia negativa ed affermativa). Parlare senza catturare mostra quello che più va compreso: l’infinità di Dio che, per tracce, visita i nostri discorsi. La parzialità con la quale parliamo di noi stessi, poi, indica che nemmeno la realtà umana può chiudersi in una narrazione lineare e dotata di uno scontato finale [37]. Nei pubblici dibattiti è in questione ancora l’antica domanda sull’uomo e, laddove questa si fa urgente, non è facile tenere fuori le implicazioni teologiche che pure la conducono a profondità interessanti. Per chiudere la nostra riflessione, mi affido a citazioni offerteci da un teologo e da un letterato: una sorta di “esercizio” sulle “ragioni” che rendono urgente iscrivere le provocazioni teologiche nel “pubblico dibattito” riguardo la possibilità di rintracciare la (una) V/verità.




Da: Jean Daniélou, Dio e noi.
«la Chiesa ha il potere di spiegare questo o quell’aspetto della rivelazione che rimaneva oscuro. Per far ciò si vale del lavoro dei teologi. Quindi la Scrittura e la tradizione sono le fonti che ci aprono la via alla rivelazione. Ma su tale dato rivelato l’intelligenza dell’uomo si esercita secondo il modo che le è proprio, cioè razionale e discorsivo […]. Tale ricerca è l’oggetto della teologia […]». 

La Chiesa chiarisce gli aspetti meno comprensibili della rivelazione attraverso il lavoro dei teologi. Si ha, qui, un atteggiamento “razionale” e “discorsivo”. Il logos teologico è naturalmente “discorsivo” poiché nel termine stesso logos è contenuta la provocazione ad argomentare. L’argomentazione, poi, conduce al dibattito, non al monologo e, così, la teologia assume i connotati di un sapere da dibattere pubblicamente. Qual è, però, l’utilità di tanto lavoro?

«L’utilità della teologia è stata spesso contestata nel corso della storia del cristianesimo e a tutt’oggi lo è ancora. Perché, si dirà, non attenersi scrupolosamente alla rivelazione, come ci è presentata dalla Bibbia e dalla tradizione? Non si rischia di sostituire speculazioni umane alla parola di Dio, volendo ragionare su di essa? D’altra parte, si aggiungerà, la forma con la quale la Bibbia e la tradizione ci propongono la rivelazione come annuncio della salvezza e dei mezzi per raggiungerla, non è forse la vera forma con la quale devono essere rappresentate le verità della fede?Essa costituisce la teologia “kerigmatica” e questa teologia è la sola valida. Inoltre, insistendo troppo nel ridurre a sistema le verità rivelate, non si rischia di impoverirle e di ridurre la pienezza vivente della parola di Dio a definizioni e deduzioni? Questo intellettualismo della teologia non rischia di stornare gli uomini che cercano un Dio sensibile al cuore e una esperienza religiosa? Non corre essa il pericolo di svuotare il mistero stesso e di sostituirgli un sistema razionale? Queste critiche non sono del tutto prive di valore e la storia della teologia ci dimostra che spesso essa se le è meritate. È vero infatti che la teologia non potrebbe aggiungere nulla all’insieme della tradizione e della Scrittura».

Il pericolo risiede nell’“intellettualismo della teologia”; non bisogna cadere nell’errore di ridurre a sistema la rivelazione che è, nel suo senso pieno, sempre di là delle chiarificazioni razionali e la Parola travalica ampiamente le possibilità della parola che, per quanto illuminata e sapiente, non fa che ammiccare al senso pieno dei contenuti di fede. La teologia non deve aggiungere nulla a tradizione e Scrittura ma soltanto, sorretta, ispirata e guidata dalla Chiesa, tentare chiarimenti laddove ve ne fosse necessità. I chiarimenti, ovvio, vanno a beneficio del sapere comunitario. I risultati della ricerca, così, vanno esposti dialogando con gli uomini del proprio tempo che chiedono, da sempre, di avvicinarsi di più al Senso.

«la pienezza della rivelazione, come è contenuta nella Scrittura e nella tradizione, supera qualsiasi teologia […]. È vero anche che la teologia è insufficiente laddove non sfocia […] nell’incontro vivente con il Dio vivente. Infine è vero che i teologi hanno spesso peccato di razionalismo […]. È facile che si verifichino abusi in teologia; quindi è essenziale inquadrarla bene […]. Parliamo anzitutto del suo valore. Abbiamo detto che la rivelazione, nella forma in cui ci viene presentata dalla Scrittura e dalla tradizione, riguarda essenzialmente dei fatti […]. Ma tali fatti possono essere spesso mal interpretati, e la storia del cristianesimo sta a dimostrarlo: basta pensare ai vaghi tentativi dei primi scrittori cristiani quando parlano della Trinità, alle loro esitazioni sul modo corretto di esprimere la relazione tra il Verbo e il Padre. Occorreranno quattro secoli per giungere al concilio di Nicea, a una formulazione esatta del dogma trinitario. Quindi, voler attenersi alla pura e semplice lettera della Bibbia, voler abolire le precisazioni della teologia, significherebbe forse ricadere nella confusione e nei brancolamenti […]. La Bibbia e la tradizione costituiscono il dato regolatore cui il teologo deve sempre riferirsi […]. Questo non significa però che la teologia non sia necessaria; essa infatti è il lavorio dell’intelligenza che, confrontando gli uni agli altri i dati rivelati, sottolineando il loro legame, e precisandone la consequenzialità, impedisce alla rivelazione di rimanere allo stato oscuro e bruto e ne chiarisce i dati permettendone così una migliore comprensione».

La teologia, spesso, ha proposto interpretazioni imprecise. La rivelazione, come già dicevamo, supera abbondantemente i nostri tentativi di chiarirla razionalmente ed in maniera discorsiva. I primi teologi, i Concili hanno mostrato che il sapere della fede non può che essere il frutto di una lenta riflessione e riscrittura di certezze. Se, tuttavia, eliminassimo il lavoro teologico potremmo incappare in un deleterio fondamentalismo biblico. La Bibbia sta in rapporto al teologo come “dato regolatore”. C’è, dunque, necessità della teologia: essa è, infatti, la fatica dell’intelligenza che compara dati rivelati, ne mostra l’intima connessione, coerenza e conferisce ordine a quelli che rischierebbero di rimanere dati sparsi e confusi. Se il sapere teologico acquisito non fosse rintracciabile in una “comunità dialogante”, l’intelligenza avrebbe lavorato invano. Ogni questione, infatti, verrebbe sempre affrontata per la prima volta. Il chiarimento dei dati rivelati è razionale e discorsivo perché fonda su categorie di pensiero e linguistiche ampiamente accettate e, laddove la fede è contestata, ciò è possibile ancora una volta grazie ad un minimo di terreno concettuale-linguistico  generalmente condiviso. 

«Il disprezzo della teologia porterà soltanto a fare della cattiva teologia. Si dirà che qui il problema non è quello teorico […], ma un problema di fatto. Non è vero forse che la rivelazione è stata deformata dall’interpretazione dei teologi? Infatti essi hanno preso in prestito le categorie filosofiche di Platone e di Aristotele […]. Ma […] appropriandosi delle espressioni della filosofia per formulare le realtà della rivelazione, la teologia le arricchisce di un contenuto nuovo […]. La traduzione dall’ebraico in greco era necessaria dal momento che il Vangelo era rivolto a tutti i popoli. Tale traduzione rischiava di portare con sé della confusione; per questo era necessaria l’elaborazione di nuove categorie teologiche».

Portare la Parola ai suoi non originari destinatari obbligò ad innestare contenuti biblici sulle categorie del pensiero greco. Una curvatura snaturante il deposito della fede? Quando i testi sacri passarono dalle mani degli ebrei a quelle dei greci, la traduzione poteva generare confusione; ecco, dunque, perché elaborare “nuove categorie teologiche” fu una incombenza per certi versi criticabile, per altri, necessaria. Oggi i testi sacri, la proposta cristiana, vanno portate agli uomini postmoderni che abitano un mondo fisicamente, noeticamente, linguisticamente ordinato in maniera del tutto nuova rispetto finanche ad un recente passato: non è, quindi, necessario dibattere pubblicamente, i modi di comunicare la fede nell’epoca del disincanto?

«la teologia è nata soprattutto con lo scopo di combattere l’eresia. I primi teologi, Ireneo e Tertulliano, hanno composto le loro opere per confutare gli errori degli gnostici e per dimostrare che questi interpretavano falsamente la Scrittura […]. Ma questo aspetto negativo della teologia non è quello essenziale. L’oggetto dei grandi teologi è di rilevare quel che è implicito nel dato rivelato […] lo scopo della teologia sarà di mostrare ciò che tali avvenimenti manifestano di Dio […]. È chiaro che in questo sforzo per comprendere il mistero di Dio la teologia è pur sempre l’opera di un’intelligenza umana […]. Per questo essa non è un razionalismo, perché non spiega il mistero di Dio in modo da renderlo totalmente intelligibile. Riconosce il mistero come mistero, ma lo enunzia in formule esatte […].  Infine la teologia pone in rilievo l’ordine e i legami di quei dati che essa illumina, dopo averli presi dalla Scrittura e dalla tradizione […] il teologo deve sempre riferirsi alla parola di Dio (ma) nello stesso tempo la parola di Dio si illumina per mezzo della teologia […]. Senza dubbio in questi ultimi secoli c’è stata una dissociazione eccessiva tra un’esegesi troppo puramente scientifica e una teologia troppo esclusivamente razionale. Un mutuo avvicinamento è necessario per entrambe».

L’esigenza di fissare dei dogmi non venne dettata dal desiderio di ingabbiare la rivelazione in schemi teologici incardinati su categorie filosofiche; furono le eresie a spingere i Padri a dare una sistemazione ai dati essenziali della fede cristiana. È questo l’“aspetto negativo” della cosa, ma non l’intero senso che ispira l’ufficio teologico. Il motivo essenziale del fare teologia, piuttosto, va rintracciato nella necessità di riferirsi, in primo luogo, alla Parola, ma con la contemporanea consapevolezza che la Parola solo “si illumina per mezzo della teologia”. Esegesi scientifica e teologia razionale si vengano incontro! Oggi non si fanno più i conti con alcuni eretici, ma con una intera società scristianizzata; ebbene, anche in questo caso, ci si deve inserirsi nei dibattiti pubblici non in maniera meramente apologetica. La Parola resta intoccabile, ma deve esprimersi per mezzo di una teologia che studia attentamente le modalità con le quali si realizza una “etica della comunicazione”.

«il contenuto della teologia […] è lo sforzo dell’ intelligenza per comprendere il dato rivelato. Tale sforzo è, sì, opera della ragione, ma non di una ragione puramente naturale, bensì di una ragione vivificata dalla grazia. La teologia è opera della fede […]. Se è errato ridurre la teologia alla contemplazione di fede ed eliminarne l’aspetto propriamente razionale, è ugualmente errato voler abolire tale elemento e ridurla a una dialettica puramente razionale […]. Il padre von Balthasar ha giustamente rilevato che, nei tempi patristici, speculazione teologica e via contemplativa andavano di pari passo e che i dottori della Chiesa erano santi, mentre accade spesso nei tempi moderni che i teologi non siano sempre dei santi e che i santi non siano sempre dei teologi.  Una certa sterilità della teologia moderna deriva anzitutto dal fatto che non è animata dalla spinta soprannaturale, dal dinamismo della fede verso la visione trinitaria. La vera scienza di Dio è quella che porta ad amare Dio.  Non è possibile leggere sant’Agostino senza essere trascinati dallo slancio che lo innalza verso la Trinità. Non sempre si può dire lo stesso dei nostri manuali».

La “ragione” del teologo non è soggetta ai dettami del “pensiero calcolante”; essa, piuttosto, è abitata dalla luce della Grazia! La teologia, pur dotata di un supporto razionale, è soprattutto frutto della “fede”: né sola “dialettica razionale”, né unicamente “contemplazione di fede”. I Padri sapevano essere santi e dotti esegeti. I santi, oggi, non sempre sono teologi e questi ultimi non sempre hanno l’obiettivo della santità. Le dicotomie, detto altrimenti, vanno eliminate se si vuole conferire nuovo spessore all’attività teologica e se si spera di mettere le parole della teologia a confronto con i lessici dei saperi postmoderni in maniera efficace e significativa. In un tempo in cui i saperi specializzati e destinati a produrre successi nel campo della pratica prevalgono, la teologia deve mostrare il proprio volto ‘altro’: viene dalla fede! La Parola non guida in realizzazioni tecniche, non incrementa l’avere, ma forma ed arricchisce l’essere. Il successo di una teologia sta nel non scindere tendenza alla santità e coltivazione accorta di una dialettica razionale; la prima apporta un “supplemento d’anima” alle tematiche dibattute dai nostri contemporanei laicisti; la seconda ci permette di farlo non ignorando i mezzi espressivi e cognitivi da loro preferiti.












Da: C. S. Lewis, Il cristianesimo così com’è

«In un certo senso capisco bene perché alcuni siano infastiditi dalla teologia […]. Penso che […] passare da quell’esperienza (si rifà ad un racconto-testimonianza di un militare che dice di aver sentito Dio nella solitudine del deserto) alle dottrine cristiane fosse effettivamente passare da una cosa reale a una meno reale. Allo stesso modo chi ha visto l’Atlantico dalla spiaggia, e poi va a guardare una mappa dell’Atlantico, passa anche lui da una cosa reale a una meno reale […]. La mappa è, certo, soltanto carta colorata; bisogna tuttavia ricordare (che) […] essa si basa su ciò che centinaia, migliaia di persone hanno scoperto navigando l’Atlantico reale; quindi ha dietro di sé una quantità di esperienze non meno autentiche di quella che tu puoi avere dalla spiaggia. Soltanto che mentre la tua è una visione singolare e fugace, la mappa coordina tutte quelle esperienze diverse. Poi, se vuoi andare in qualche posto, la mappa è assolutamente necessaria […]. La teologia è come la mappa […]. Le dottrine non sono Dio: sono soltanto una specie di mappa. Ma questa mappa si basa sulle esperienze di centinaia di persone che sono state realmente in contatto con Dio […]. In altre parole, la teologia è una necessità pratica: specialmente oggi. In passato, quando c’era meno istruzione e si discuteva meno, era forse possibile andare avanti avendo su Dio pochissime idee elementari.  Ma adesso no. Adesso tutti leggono […]. Quindi, se scegliete di ignorare la teologia, non è che non avrete idee su Dio: ne avrete una quantità di sbagliate […] gran parte delle idee su Dio che oggi si fanno passare per novità sono semplicemente idee che i veri teologi hanno esaminato, e respinto, secoli addietro».

Osservare da vicino l’Atlantico è certo più suggestivo che incontrarlo su di una mappa; questa, però, è il derivato di innumerevoli osservazioni, esperienze. È chiaro che una visione tutta e solo mia si rivela parziale. La mappa, le conquiste della teologia nel corso della storia, sono necessarie per comprendere dove va la fede! Le dottrine, però, sono guide verso Dio e solo una miopia o una superbia teologica potrebbero farle coincidere col Trascendente stesso. Ignorare il patrimonio teologico imporrebbe di iniziare tutto daccapo rifacendo, magari, errori già superati. Avere idee su Dio ed ignorare la storia della teologia è possibile ma, insisto, si rischia di ritenere nuove e giustificate posizioni che i teologi del passato hanno ampiamente mostrato essere insostenibili. Si può dibattere pubblicamente muovendo da posizioni personali, originali e non mostrare che siamo titolari di questioni talmente radicate nell’animo umano da essere sempre state centrali per i migliori ingegni del passato?

«Dicendo che la teologia è una scienza sperimentale “in un certo senso”, intendo dire che essa è simile alle altre scienze sperimentali per certi versi, ma non in tutto. Un geologo che studia le rocce deve andare a cercarle: le rocce non vanno da lui, e se lui va da loro non possono fuggire.  L’iniziativa sta tutta dalla parte del geologo: le rocce non possono né aiutarlo né ostacolarlo.  Ma facciamo il caso di uno zoologo che voglia fotografare degli animali selvatici nel loro ambiente naturale. Questo è un po’ diverso dallo studiare le rocce. Gli animali selvatici non vanno incontro allo zoologo, ma possono fuggire via da lui.  Comincia a esserci un barlume di iniziativa da parte loro. Facciamo un passo avanti. Supponiamo di voler conoscere una certa persona. Se essa è decisa a impedircelo, non ci riusciremo. Bisogna che ci guadagniamo la sua fiducia […]. Per fare amicizia bisogna essere in due.  Quando si tratta di conoscere Dio, l’iniziativa sta dalla Sua parte.  Se Egli non vuole mostrarsi, niente di ciò che possiamo fare ci consentirà di trovarlo».

In che senso il nostro lavoro è rubricabile sotto la voce “scienza sperimentale”? Studiare geologia, zoologia e teologia non è la stessa cosa. Nel primo caso, siamo noi a dover cercare le rocce e, trovate quelle che ci interessano, non ce le vedremo sfuggire. L’iniziativa è nostra: le rocce non possono collaborare, né prendere iniziative nel nostro studiarle. Lo zoologo, poi, spesso incappa in una amara sorpresa: gli animali selvaggi possono decidere di fuggire e rendersi inosservabili. A differenza delle rocce, qui, l’oggetto da conoscere comincia a prendere iniziative. Conoscere una persona è simile: potrebbe rifiutare di esserci amica. Dio, invece, prende l’iniziativa e si rivela. Da questo dono, da un simile atto gratuito prende inizio il lavoro teologico. Inserire nel dibattito pubblico l’idea che l’uomo è costituito anche da un “dono” aiuta ad osservare la vita da una ottica antiutilitarista… e sappiamo quanto sia necessaria questa voce di rottura!

«mentre nelle altre scienze gli strumenti che usiamo sono esterni a noi (tipo i microscopi o i telescopi), lo strumento con cui vediamo Dio è tutto il nostro essere.  E se il nostro essere non è tenuto lindo e lustro, la nostra visione di Dio sarà offuscata – come la vista attraverso un telescopio sporco. Per questo nazioni orribili hanno religioni orribili:  hanno guardato Dio attraverso una lente sporca».

La scienza teologica non ha strumenti riproducibili in laboratorio, ma si esercita facendo appello a “tutto il nostro essere”; senza coltivare una valida psicoecologia, gli specchi del cuore e della mente sono sporchi e vedremo Dio ricoperto di macchie. Le orribili concezioni della fede non dipendono da una intrinseca negativa qualità del Dio professato, bensì dalla “lente sporca” del nostro essere che si dedica alla teologia in maniera non idonea. I dibattiti pubblici odierni in materia religiosa, in particolare riguardo al Cristianesimo, presentano aspetti oscurati da parecchie lenti sporche; l’obbligo inaggirabile di rendere pulite le proprie e quelle altrui rende necessaria una buona teologia.

«il solo strumento veramente adeguato per apprendere qualcosa su Dio è l’intera comunità cristiana, che insieme Lo attende […] .Ecco perché tutti quei personaggi che di tanto in tanto se ne vengono fuori col brevetto di una qualche loro religione semplificata da sostituire alla tradizione cristiana sono soltanto dei perditempo. Come un uomo che avendo per solo strumento un vecchio binocolo da campo voglia mettere in riga gli astronomi veri […]. Se il cristianesimo fosse una nostra invenzione, potremmo renderlo più facile […]. Chiunque è capace di essere semplice, se non ha una realtà di cui tener conto». 

Fare teologia con un “vecchio binocolo da campo” e pretendere di guardare lontano ci fa perdere tempo. Il telescopio non sarà mai sconfessabile da un oggetto simile! La teologia accademica deve conferire meno importanza al proprio binocolo e fidarsi maggiormente del telescopio della “fede comunitaria”. Non si inventa in ambito teologico, ma si lavora in armonia con la comunità. Ed essa non è forse il luogo, il solo, nel quale il dibattito può sorgere? La “teologia in dialogo” è il frutto dell’agire della comunità credente che, maturato, ritorna su di essa e la fa avanzare nella maggiore comprensione (anche se non sarà mai completa) della rivelazione. Che sia un lavoro difficile e complicato non ci spaventa. Come dice Lewis, abbiamo una realtà della quale tener conto. Il Cristianesimo sarà sempre realtà anche quando tutto intorno si inneggia ad universi virtuali. Cristo è la Via all’uomo ed a Dio. Potremmo trovare, nel paniere di questioni da dibattere nella società postmoderna, qualcosa di più vicino ai nostri desideri, alla nostra natura? Se la risposta è negativa, allora convenite circa la dimensione pubblica che, pur cautamente, deve assumere il “dibattito teologico”.


[1] k. marx, Miseria della filosofia, Roma 1970, p. 157.
[2] La “ragione”, così, non è più considerata “sostanziale”; si parla, per lo più, di “razionalità discorsiva”. Cfr., j habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna 1986.
[3] Uno studioso di ermeneutica contemporanea, si chiede: «è possibile un discorso “sulla” contemporaneità?». Come descrivere questo spazio nel quale tentiamo di collocarci sensatamente: «Il senso più proprio dello “spazio” contemporaneo è l’impossibilità di descriverne una mappa […]. Il senso del luogo sembra piuttosto da affidare a diagrammi organizzati in funzione di percorsi, seguendo una cartografia che – in luogo della mappa – prevede alternativi e sempre mobili itinerari» (l. saviani, Introduzione [Una voce del contemporaneo] a Segnalibro. Voci da un dizionario della contemporaneità, l. saviani (a cura di), Napoli 1995, pp. 3 – 8, qui, p. 7).
[4] Cfr., j. daniélou, Il cristiano e il mondo moderno, Siena 2004, p. 25. Non bisogna, però, fare del cristianesimo una mera proposta culturale, pur di entrare nell’agone postmoderno; infatti, è la fede a rendere radicalmente problematica l’installazione del messaggio cristiano nel mondo: ‘aver fede’ significa dotarsi di uno sguardo altro, ma non estraneo, sulla Storia. «Se si guarda […] alla radice della vita cristiana, essa è sempre la fede» (h. schlier, Per la vita cristiana: fede, speranza, carità, Brescia 1975, p. 15).
[5] w. kasper, Introduzione alla fede, Brescia 1979, p. 37. Un “progetto di senso” che ha bisogno di tutte le parole, di tutte le forme di linguaggio (poetico, filosofico, psicologico, teologico…) per tentare di esprimerne almeno i segmenti più significativi; infatti, vi «sono nelle nostre anime più canti di quanti la nostra lingua non possa esprimere» (a. j. heschel, L’uomo non è solo, Milano 1970, p. 27).
[6] Cfr., giovanni paolo ii, Discorso agli uomini di cultura, Rio de Janeiro, 1 luglio 1980, 1. L’attuale Pontefice, dal canto Suo, riflette sulle sinistre curvature che assume una cultura interamente dedita al culto della crescita tecnologicamente intesa: «L’uomo dell’era tecnologica rischia […] di essere vittima degli stessi successi della sua intelligenza e dei risultati delle sue capacità operative, se va incontro ad un’atrofia spirituale, ad un vuoto del cuore» (benedetto xvi, Messaggio urbi et orbi, Natale 2005).
[7] Cfr., agostino, Sermo 265, VIII, 9; PL 38, 1223.
[8] È una regola generale armonizzare i ‘due momenti’; infatti, non è stato un teologo a dirlo: «il rigore da solo è la morte per paralisi, ma l’immaginazione da sola è la pazzia» (g. bateson, Mente e natura, Milano 1984, p. 287).
[9] Cfr., m. eliade, Immagini e simboli, Milano 1984, p. 15.
[10] e. galli della loggia, I giovani. Intervista con M. De Angelis, Roma 1999, pp. 50 – 51.
[11] Cfr., r. guardini, Il testamento di Gesù, Milano 1993, p. 78. Le cose tecnologiche, i saperi orientati esclusivamente al fare ammettono “spiegazioni”; le cose teologiche, la ‘cosa’ della fede, all’opposto, richiedono “annuncio” saldato a linguaggi che sappiano toccare le zone più profonde dell’uomo. La fede, infatti, ha a che fare, per lo più, con il mistero e chiede aiuto ad un dire fiducioso del potere dei simboli, delle immagini, del poetico: «Il mistero – ricorda un testimone del nostro tempo – si annuncia, non si spiega» (primo mazzolari, Della fede, Vicenza 1973, p. 33). 
[12] giovanni paolo ii, Discorso in occasione della V conferenza internazionale su «La mente umana», 17 novembre 1990, in Dolentium Hominum 16 (1991) 1, 10 sgg.
[13] Cfr., achille c. varzi, Il mondo messo a fuoco. Storie di allucinazioni e miopie filosofiche, Roma – Bari 2010, p. 34.
[14] l. giussani, Il senso religioso, Milano 1986, p. 190.
[15] id., Moralità: memoria e desiderio, Milano 1991, p. 14. Un incontro che muta la nostra vita e la Storia: «un cambiamento veramente nuovo non può venire se non dal di fuori dell’uomo. Da “Altro”, radicalmente diverso» (p. 16).
[16] «Se l’uomo è vuoto senza la Parola di Dio, Dio resta muto senza la parola dell’uomo: Parola nelle parole umane, la rivelazione viene generata, coltivata e promossa solo entro il cerchio di una sinergia cooperativa umano – divina» (g. mazza, Dio al limite. Prospettive per un cristianesimo di soglia, Cinisello Balsamo 2009, p. 82). L’umiltà del Logos che scende negli imperfetti logoi umani è un mistero affascinante: Dio – «che è linguaggio prima e radice di ogni fonema accetta di modularsi nel fraseggio nervoso dei segni umani» (p. 131). Ci vuole, perciò, una «teologia che sa dire senza definire, mostrare senza dimostrare» (p. 155). 
[17] Cfr., d. pezzini, L’Altro e gli altri. Verso una spiritualità dell’ incontro, Milano 2008, p. 13.
[18] «Che cosa possiamo dire su Dio? Nulla. Che cosa possiamo dire a Dio? Tutto» (m cvetaeva, Il poeta e il tempo, Milano 1984, p. 96. Gesù stesso non diede centralità né allo scrivere, né al dettare; le Sue parole, piuttosto, «facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie» (e. de luca, Penultime notizie circa Ieshu/Gesù, Padova 2009, p. 51).
[19] Cfr., m. heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano 1984, p. 198. L’essenza dell’uomo, per molta filosofia contemporanea, risiede nel linguaggio: «l’essenza dell’uomo è più visibile nella sua parola che nella sua figura. ‘Parla perché io ti veda!’ diceva Socrate» (m. picard, Il mondo del silenzio, Milano 1951, p. 131).
[20] La distinzione si deve a m. merleau – ponty, Fenomenologia della percezione, Milano 1965, p. 269.
[21] brice parain, Recherches sur la nature et les fonctions du langage, Parigi 1972, p. 234.
[22] i. silone, Pane e vino, Lugano 1937, pp. 194 – 195.
[23] Cfr., m. blanchot, La parole vaine, in id., L’amitié, Parigi 1971, p. 145.
[24] «La parola che interroghiamo ci interroga a sua volta» (e. jabés, Dal deserto al libro, Reggio Emilia 1983, p. 125).
[25] Citato in a. aratom. geuna, La vita è un’emozione. Mass media, nuovi media e sfide educative, Cantalupa (TO) 2009, p. 19.
[26] Cfr., g. steiner, Linguaggio e silenzio, Milano 1972, p. 371.
[27]«La teologia che insiste sull’uso di certe parole e frasi e ne bandisce altre, non spiega nulla […] gesticola […] con le parole, perché vuol dire una certa cosa e non sa esprimerla. La prassi dà alle parole il loro senso» (l. Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1980, p. 155). La zona di esprimibile che la teologia conquista, poi, si dà sempre e soltanto grazie ad uno sfondo inesprimibile, vera origine di ogni nostro dire: «l’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere), costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato» (ivi, p. 40).
[28] La bella espressione è in: e. jabes, Il libro delle interrogazioni, Reggio Emilia 1982, p. 77. 
[29] Cfr., g. bonaccorso, Celebrare con i linguaggi simbolici e rituali, in L’arte del celebrare, Roma 1999, pp. 41 – 57, qui, p. 41.
[30] Cfr., g. gutiérrez, Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente. Una riflessione sul libro di Giobbe, Brescia 1987, p. 17. Una teologia libresca non sarebbe cristiana. Mosé scese dal monte con “tavole di pietra”, ma gli uditori del Discorso della Montagna tornarono abitati dallo Spirito. Chi non ha “spiritualità” da immettere nel mondo è orfano di capacità contemplative ed incapace di incidere sulla realtà: lasciarsi “abitare dallo Spirito” ed agire per la Gloria di Dio nella Storia sono, per il cristiano, i compiti più importanti. Siamo noi la lettera vivente della Scrittura! Un Padre della Chiesa predicò che sarebbe stato meglio «non avessimo avuto bisogno delle Scritture e che […] la grazia dello Spirito occupasse nelle nostre anime il posto dei libri […]. Gli apostoli non discesero dal monte [dell’incontro con Gesù Risorto, cfr. Mt 28, 19] recando in mano tavole di pietra come Mosé, ma andarono ovunque portando nel cuore lo Spirito e […] divenendo per mezzo della grazia libri […] viventi» (giovanni crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo, 1, 1: PG 57, 15 [vol. 1, a cura di S. Zincone, Roma 2003]).
[31] «la Parola scritta esiste come […] oggetto di conservazione […]; ma la Parola proclamata in assemblea cultuale esiste come Parola relazionale […] viva, poiché proprio in quel momento esce dalla bocca di Dio, grazie […] al ministero del lettore, per giungere agli orecchi e al cuore del popolo radunato» (c. giraudo, «La liturgia della Parola come ripresentazione “quasi – sacramentale” dell’assemblea radunata all’eterno presente di Dio che ci parla», in Rivista liturgica 94 (2007) 4, 491 – 511).
[32] Cfr., g. e. rusconi, Le condizioni di un dialogo serio tra laici e cattolici, in La laicità vista dai laici, emilio d’orazio (a cura di), Milano 2009, p. 57.
[33] Cfr., w. v. o. quine, I due dogmi dell’empirismo, in a. pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, Torino 1969, p. 888.
[34] g. e. rusconi, Le condizioni di un dialogo serio tra laici e cattolici, cit. p. 47. Per quanto riguarda la teologia morale, poi, essa «è interamente assorbita dalla tematica della “vita” e della “natura” con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bioteologismo […] carica di risentimento verso le scienze biologiche e le teorie dell’evoluzione» (Ibidem). 
[35] In o. lagercrantz, L’arte di leggere e scrivere, Genova 1987, p. 3.
[36] Cfr., divo barsotti, Tre mistici e il loro messaggio, Vicenza 1980, p. 29.
[37] Un filosofo italiano sostenne che se potessimo realizzare un’autocomunicazione totale, sarebbe la prova certa che niente d’infinito è in noi. Se potenza feconda ha la parola, risiede nell’allusività. Ci comunichiamo, perciò, versandoci senza sosta nella parola che – scrive il nostro autore – traduce l’intraducibile pienezza della nostra interiorità silenziosa. Una traduzione necessariamente parziale, in quanto la parola può soltanto alludere alla pienezza del mistero che si è e che non si possiede! D’altra parte, «come possiamo pretendere di comunicarci interi, se noi stessi non ci comprendiamo mai interamente?» (m. f. sciacca, Come si vince a Waterloo, Milano 1961, p. 62).