In
una pagina di Marx viene illustrato un paragone tra gli economisti ed i teologi;
i primi non ammettono che “due tipi di situazioni”: risultano artificiali le istituzioni feudali, mentre quelle borghesi appaiono naturali;
i secondi, individuano soltanto “due tipi di religioni”: quella che non viene
da loro è frutto dell’invenzione umana, mentre quella che elaborano è una emanazione di Dio .
Le
distinzioni che il nostro autore stigmatizza, ormai, sono diventate anacronistiche.
Tutto viene stabilito in maniera procedurale: è il “dibattito pubblico” l’area
nella quale stabilire quali “verità” debbano prevalere. Il dialogo aperto a
tutti, la messa in campo di tutte le opzioni impongono la resa ad una etica
dell’agire comunicativo .
Le questioni teologiche risentono di questo clima culturale, sociale. La
Chiesa, però, deve essere, per riprendere una espressione di Italo Calvino,
capace di distinguere cosa nel dibattito pubblico non è inferno e farlo durare.
Giovanni Paolo II, nella Redemptor
hominis, al n. 14, scrisse che «la Chiesa deve […] essere consapevole […]
di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché la vita umana
divenga sempre più umana». Si tratta, dunque, di avversare unicamente quanto
minaccia il processo continuo della nostra umanizzazione piena! Impegno che
apre un dialogo, non irenico, con questioni che la contemporaneità rubrica,
nell’agenda del dibattito pubblico, sotto la voce “urgente”. La Chiesa, benché
immetta nella contingenza del nostro tempo “verità eterne”, deve annunciarle
con parole comprensibili anche a chi adotta gli strani e talvolta straniti
“lessici della contemporaneità” .
Il
punto fermo è questo: dialogare per far comprendere che la fede non induce a
condurre battaglie formali assisi sull’asse dell’accademismo, ma suscita un
“agire cristiano” in un mondo alla ricerca del Senso. Un teologo invita a meditare la lezione: «la fede […] è
esigenza di azione […] esigenza di efficacia temporale» .
Esigenza di azione, efficacia temporale: in riferimento all’azione della fede cristiana
ciò significa dialogare ed agire efficacemente per trovare il Senso. La domanda che occorre farsi è
questa: di che cosa vive l’uomo? «Ogni
uomo praticamente vive del suo progetto di senso» .
Praticamente: nella prassi, cioè, si deve realizzare un
progetto; non uno qualunque, bensì, sensato. Perché non portare ad ognuno la
Parola per vedere se non si possa
trovare nella “proposta cristiana” il “fondamento dell’esistenza”? Proposta
che, sebbene di origine Trascendente,
deve calarsi nelle diversità culturali, nei molteplici linguaggi dei saperi e
delle varie nazionalità. Un “progetto di senso”, non può non essere anche “culturale”. Una domanda
preliminare si impone: quando una
cultura è vera? Un Pontefice che ha segnato un’epoca nella comunicazione
della fede, ha detto: «La vera cultura è umanizzazione, mentre la non cultura e
le false culture sono disumanizzanti» .
Le preoccupazioni teologiche, immettere la Parola
nelle parole del “pubblico dibattito”
sulle “sorti dell’umanità”, passano attraverso la sola questione decisiva:
battersi per una cultura che umanizzi e non disumanizzi l’uomo!
Le
parole che i credenti prelevano dai
“lessici egemoni” del nostro tempo, costituiscono solo una iniziale
condivisione della semiosfera dei non
credenti; poi, però, mostrino decisamente di saperle arricchire dei nutrimenti
vitali della Parola. L’Evangelo mostri che si può raccontare
(costruire?) una realtà diversa nella quale non predominino le elefantiasi egologiche originate e
giustificate con il miraggio della crescita economica e tecnologica. Leggere e
raccontare l’oggi tenendo, come diceva Barth, in una mano il giornale e nell’altra la Bibbia, significa mostrare che il
cristiano pone, come segno di rottura, la carità,
sola categoria fondante i rapporti umani. Amare
Dio ed amare l’uomo, capolavoro
dell’agape cristiana, possono diventare i punti fermi a partire dai quali rinegoziare
i modi di stare al mondo, di fare Storia:
«La carità che ama il prossimo non è diversa
da quella che ama Dio. Non c’è una seconda carità» .
Annunciare la Verità nella carità: mantenere, cioè, il “rigore
della Dottrina” in piena armonia con la necessità di mostrare un “volto amico”
all’uomo postmoderno. Questa è la via
della Chiesa: saper stare, senza squilibri nocivi per se stessa e gli altri,
tra il “rigore” e l’“immaginazione” che trova nuovi modi di trasmissione del
deposito della fede .
La
teologia deve esprimersi con il rigore imposto dalle verità di fede, ma pure
ricorrendo all’immaginazione riguardo alle modalità di linguaggio da eleggere
per evangelizzare. Il compito è arduo solo a prima vista… Abbiamo nella Bibbia
una pluralità di linguaggi per narrare la Rivelazione: poesia, proverbi,
parabole, cronache… Se oggi si deve innanzitutto fare riferimento alla parte
emozionale, patica, dell’uomo, la proposta teologica dispone di un arsenale semantico
rassicurante. Il simbolo, l’espressione mitica possono fare molto nel deserto
postmoderno allestito con decostruzioni e linciaggi continui alla religione ed
alla metafisica. Uno studioso delle religioni indica una strada percorribile:
«oggi
si sta comprendendo una cosa di cui il XIX secolo non poteva avere nemmeno un
presentimento ovvero che il simbolo, il mito […] appartengono alla sostanza
della vita spirituale che è possibile mascherarli, mutilarli, ma che non li si
estirperà mai» . Quante
ideologie, teorie politiche sono alterazioni o mutilazioni mitiche, caricature,
dell’originario messaggio cristiano? Ebbene, anche le metamorfosi cruente e
spaventose del lascito cristiano – seppure in una declinazione mondana – non
accendono una lieve eppur pungente nostalgia
dell’Altro? Se ne conclude: «Se le Immagini non fossero al tempo stesso
un’apertura verso il trascendente, in qualsivoglia cultura, per quanto grande e
ammirevole la si ritenga, si finirebbe per soffocare» (Immagini e simboli, p.
154).
Le
religioni, il Cristianesimo in particolare, immettano nelle culture il
necessario contributo di Immagini, Simboli, affinché non si atrofizzino
nell’immanenza e sentano, velatamente, il richiamo del Trascendente. Il compito diventa tanto più urgente quanto più
cresce la consapevolezza che un “paradigma comunicativo” tecnico,
specializzato, sta diventando pericolosamente dominante! Troppo in fretta
mutano cose e linguaggi: «ogni vent’anni, ma a volte anche prima, cambia il
modo di funzionare degli oggetti di uso quotidiano […]. La cosa è cominciata in
grande stile con la rivoluzione elettronica […]. È una rivoluzione che muta
quel che è stato vero per millenni: che i vecchi erano più esperti» .
La rivoluzione
elettronica muta radicalmente, in
grande stile, cose e linguaggi: i giovani, utenti privilegiati delle nuove
tecnologie, paiono più esperti dei vecchi. In realtà, azzerare quanto abbiamo
alle spalle non è l’equivalente del progresso. Un deposito di saggezza, di sapienza
religiosa possono patire una totale sostituzione da parte degli oggetti e dei
modi di pensare, di parlare inaugurati dalla rivoluzione elettronica? I Simboli, le Immagini del mondo che fu hanno perso ogni funzione e valore? Non
lo crediamo! Riscoprire il gusto della parola intrisa di sapienza biblica,
misurare la portata e l’efficacia delle parole sulla Parola non è operazione da
consegnare alle oziose romanticherie di una mentalità ridotta a reperto
museale. Ai giovani in particolare, invio una considerazione di un teologo e
filosofo del Novecento:
«La
parola è un seme che cerca la terra, dice il Signore nella parabola del
seminatore […] ha in sé […] il potere di incominciare a creare vita. Non possiamo
riceverla come la mente assimila un concetto, ma come la terra accoglie il
seme» .
Il
“cristiano” è terra ed allo stesso
tempo seminatore! La semina avviene
in vista della nascita, della crescita… della vita. In realtà, anche le cose
della fede entrano in noi concettualmente. A differenza delle nozioni utili per
operare con le nuove tecnologie, però, il sapere teologico incide sulla “vita
spirituale”, giova alla umanizzazione
intesa quale rinnovamento ontologico
e non meramente fenomenologico. Studiare
la mente, i suoi modi di apprendimento, le modificazioni indotte nel pensiero
dalle nuove tecnologie non è inutile per la teologia; tuttavia, la finalità nel
coltivare tali interessi è di più ampio respiro.
Ogni
conoscenza si dà sempre entro l’esigenza insopprimibile di prendere in
considerazione, per dirla con Mounier, il volume
totale della persona: «Per studiare la mente non si potrà mai trascurare
l’intera verità sull’uomo, nella sua compatta unità di essere fisico e
spirituale» .
La
teologia cristiana non discute per frantumi dell’uomo. Lo sguardo della fede è
più ampio perché non svalorizza il visibile, né assolutizza l’invisibile.
Spostiamoci sul terreno filosofico con uno studioso di Logica e Metafisica. Egli
individua, riferendosi ai modi di vedere il mondo, una miopia ed una xenofobia
ontologiche.
La
prima consiste nel «pensare che esistano soltanto certe cose per il semplice
fatto che non ne abbiamo viste altre, o perché l’esistenza di altre cose non ci
ha mai sfiorato l’anticamera del cervello»; riguardo alla seconda, scrive:
«si
fa fatica a riconoscere diritto di cittadinanza a quelle entità che fanno a
pugni con lo status quo ontologico su
cui si reggono la nostra filosofia e la ricerca scientifica più consolidata» .
Piegando
le osservazioni di Varzi agli interessi teologici, tiriamo alcune conclusioni.
Che il nostro sguardo (noetico e fenomenico) sia limitato non significa
che, automaticamente, la realtà finisca laddove riusciamo a comprenderla, a
percepirla… Ci sono – diceva un drammaturgo inglese – più cose in cielo di quanto ne sappia
la nostra filosofia! Il non aver pensato a qualcosa, poi, non ne certifica
l’inesistenza. Provate a spostare tutto sul piano misterico dell’esistenza di
Dio. Si ha una “paura mista ad odio” (xenofobia)
verso quanto non è immediatamente amministrabile, sequestrabile sotto le
insegne del sapere scientifico e filosofico. La Rivelazione, tuttavia, a
prescindere dal fatto che sia credibile, dimostrabile, è assolutamente conveniente. Non sto dicendo che va pensata
in termini utilitaristici: si tratta di aver chiaro che «conveniente è
un’ipotesi che si incontra col desiderio dell’uomo, adatta al cuore e alla
natura dell’uomo» .
Don
Giussani faceva pure riferimento, altrove, alla coscienza esistenziale di ciò che Cristo, la fede e la Chiesa sono: essa è costituita, spiegava, non da ragionamento o studio… tale “coscienza esistenziale” è «frutto di un incontro» .
Un
incontro che muta radicalmente il
concetto di “speranza”: da politico, ideologico, si fa teologico; infatti, il
cristiano, dice Giussani, «è, per natura, in polemica con le speranze
“mondane”» (Moralità, cit. p. 13).
Un
incontro tra due soggetti è quanto di più umanizzante si possa dare e, in più,
ciò che rende davvero “personale” il ‘dire’:
«La
parola […] sorge in modo estremamente personale. Il parlare con Dio è […]
genialità personale» (p. 25).
Il
“desiderio umano”, rettamente inteso, è importante, fondante per l’antropologia
teologica. L’ipotesi Dio (semmai
volessimo considerare ipotetica la rivelazione di un Redentore) si incontra, a
livello ontologico, con la domanda di Senso
che l’uomo rivolge ad un Tu; cuore e natura umana si realizzano, strutturano
compiutamente quando ammettono come conveniente ascoltare la proposta del Tu. Dio
è Logos, Parola che incontra il “desiderio del linguaggio umano” che è
quello di trovare una attendibile “grammatica del Senso” e noi siamo vuoti,
disperatamente desertificato il cuore, se il desiderio di dire parole sensate non è visitato da Colui che è il Senso! Dio arriva nel mondo e si rende annunciabile. Il Logos non ha problemi a calarsi (kenosis linguistica) nei balbettii nervosi che siamo capaci di articolare.
La
teologia è sulla strada giusta quando entra nei “dibattiti pubblici” riconoscendo
che mostrare Dio è possibile, ma dimostrarlo, no! .
In realtà, abbiamo necessità di armonizzare teologia negativa (procede dicendo chi,
cosa Dio non è) e teologia affermativa;
si tratta di tenere assieme queste due
strade: «Senza la teologia negativa si cade nell’idolatria, senza quella
affermativa si corre il pericolo dell’afasia» .
Si
deve affermare qualcosa intorno a Dio con la consapevolezza di essere in
possesso di parole da rimettere in discussione, ma anche con la certezza che è
fondamentale non scadere nel mutismo.
Dio viene definito Totalmente Altro,
ma non è un sinonimo di Totalmente Indifferente. Il Suo essere Altro è la migliore garanzia che può
esserci relazione: la somiglianza è
necessaria per comprendersi e la diversità
lo è per avere qualcosa da dirsi. Il dire intorno al “Totalmente Altro” accade in
un rapporto tra soggetti che si somigliano,
ma non sono uguali. Conclude
Pezzini: «Quando si dice che Dio è il totalmente
altro non si dice tutto, perché il concetto stesso di alterità non può
essere concepito in maniera assoluta […] sciolta da ogni comparazione. Una cosa
è altra rispetto a qualcosa d’altro […]. E […] non si può parlare di alterità
se non si ha la percezione della somiglianza. Per questo alterità non dice
necessariamente separazione, né tanto meno ostilità […]. Quando parliamo di
alterità di Dio lo facciamo partendo da quello che siamo noi» (L’Altro, cit. p. 13)
Le
parole dicono nulla di Dio, ma a Lui possiamo dire tutto .
Nell’ambito del razionale la teologia trova numerosi ostacoli, ma quando narra
di un rapporto vivo, dinamico con l’Altro,
si apre, senza pudore o timore a tonalità mistiche, poetiche degne di
attenzione. Si parla – dicono alcuni entusiastici cantori della rinascita del
religioso – tanto di religione, di divinità; già, si parla, ma si dice
qualcosa di interessante? «Dire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può
parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece
tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto» .
Le
parole vane, parlate e non parlanti
– si riscattano convertendosi in silenzio
adorante, capace di ascoltare, che è altra cosa dal mutismo! «Il linguaggio non è che un mezzo per attirarci verso il
suo contrario, che è il silenzio e che è Dio» .
Alla base del linguaggio malato, vi è il pervertimento delle “parole
fondamentali” che assicuravano, in qualche modo, la possibilità di comunicare
in verticale ed in orizzontale. Chi parla pare che solo
possa ingannare; cercare parole parlanti diventa
effettivamente impresa da abbandonare sul nascere:
«Molte
divisioni attuali sono divisioni di parole. Molte unioni sono unioni di parole.
In nessun secolo la parola è stata così pervertita, come ora lo è, dal suo
scopo attuale che è quello di far comunicare gli uomini. Parlare e ingannare […]
sono ora quasi sinonimi. A tal punto che, volendo io parlare con voi […]
sinceramente, fraternamente […], se mi metto a cercare le parole, resto
veramente perplesso, tanto esse sono false, equivoche, usate e compromesse» .
La
parola scade a chiacchiera (Heidegger); si ottiene quella che un autore francese
definì la parole vaine:
«La
chiacchiera è la vergogna del linguaggio. Chiacchierare non è parlare […].
Quando si chiacchiera non si dice niente di vero, persino quando non si dice
niente di falso». La chiacchiera, in conclusione, è «puro divertissement che va
di qua e di là […] parlando allo stesso modo di tutto […] tutti chiacchierano,
ma tutti condannano la chiacchiera» .
La
cosa sconvolgente è questa: si è nella
falsità anche laddove non si mente
perché il chiacchierare non è parlare.
Dio è la Parola che interroghiamo e che ci interroga ;
sì, perché si tratta di parlanti autentici, due Soggetti. Solo tra un soggetto
ed un oggetto c’è relazione concettuale, apatica. L’uomo deve recuperare il
rispetto dovuto alla parola se vuole
relazionarsi positivamente con la Parola.
Gli uomini, purtroppo, diceva un filosofo, scadono, nella comunicazione, a
livelli talmente bassi che possono
parlare come una lampadina elettrica può diventare incandescente: in maniera
automatica, senza partecipazione emotiva, né intellettiva. Le tracce della Trascendenza, purtroppo,
sono ora più facilmente rintracciabili laddove la comunicazione diviene banale;
ad esempio, nella pubblicità. Scrive A.
Giordano: «La pubblicità usa immagini che rimandano a significati profondi per
l’uomo: il cielo che evoca trascendenza, paternità, infinito […]. Si crea così
un movimento idolatrico: si presenta un prodotto “divinizzato” come capace di
rispondere all’attesa che ha risposta solo altrove» .
Se siamo in un momento storico – culturale nel
quale la Trascendenza si può
rintracciare, corrotta, nella pubblicità è perché la comunicazione risente
della corruzione delle parole. La parola, dunque, è soltanto una passiva ancella di shock sensoriali .
Gli stessi discorsi teologici, spesso, paiono essere – quando abusano di certi
termini – un “gesticolare con le parole” verso il “mistero” che rimane, a
dispetto di tutto e tutti, inavvicinabile .
Il teologo che “pensa la fede” senza “griglie teoretico – linguistiche”
miticamente rivestite di infallibilità, comprende con dolore, nobilitato da
modestia intellettuale, la debolezza del suo ‘dire’; sperimenta, vivendo fino
in fondo la somiglianza e la dissomiglianza col Creatore, la verità come
qualcosa che in lui diventa vita (Kierkegaard).
Nelle “cose della fede” ogni vocabolo è
un nido dove s’annida l’uccello del dubbio .
Un
uccello al quale non rifiutare
“accoglienza”, “nutrimento” (seppur misuratamente) nel nido dei vocaboli più tetragoni a critiche informanti le nostre
teologie se vogliamo evitare il rischio che «Dio retroceda a puntello
ideologico di un pensiero onniveggente» .
Un sistema teologico che pretenda di tirare dalla propria parte “Dio” per poi
metterlo a servizio di un pensiero onniveggente, fa di Lui un puntello ideologico che rende
disastrosamente invulnerabili posizioni politico – culturali che andrebbero,
viste con l’occhio della fede, smantellate.
Evitare
il pericolo appena denunciato è possibile se, nel dire le ‘cose della fede’, il
teologo seleziona i nutrimenti giusti (dottrinari
ed espressivi). La Teologia della
Liberazione invita a parlare di Dio a
partire dalla sofferenza dell’innocente (ispirandosi al Libro di Giobbe).
Unire mistica e pratica è il primo passo; si deve passare attraverso contemplazione e prassi. Occorre «situarsi in un primo momento sul terreno della
mistica e della pratica, e soltanto in seguito si può avere un discorso su Dio
autentico e rispettoso. Fare teologia senza la mediazione della contemplazione
e della prassi significherebbe essere al di fuori delle esigenze del Dio della
Bibbia. Il mistero di Dio vive nella contemplazione e […] nella pratica del suo
disegno sulla storia umana; soltanto in seconda istanza tale vita potrà animare
[…] un linguaggio pertinente» .
Il “disegno di Dio” sulla “Storia” vive nella
nostra “contemplazione” e “pratica”. Una vita così impostata e condotta,
dunque, legittima il tentativo di animare
un linguaggio pertinente alle cose della fede. Le parole della fede vanno
condivise come un pasto nuziale. La Parola
deve mutarsi, da scritta e conservata, in relazionale – viva. Il
lettore presta la bocca a Dio che, così, raggiunge il popolo .
Si propone con facile entusiasmo una concezione della verità “procedurale”; si
delinea un’etica del discorso pubblico:
tutti intervengono a parità di condizioni per determinare cosa sia o non sia
vero! Tutte le ragioni a confronto è
slogan utopico? Laddove le istanze si fronteggiano alla pari si profila una
soluzione democratica?
L’invito
a celebrare un “pubblico dibattito”, in certe proposte di filosofia etica
contemporanea, pare rinvenire l’invito ad assistere ad una liturgia; lì la
parola è data a tutti, ma quale frutto di una individuale espressione di
pensiero. Nella liturgia cristiana, invece, viene messa in comune la Parola che, anche se vissuta, filtrata
attraverso tante sensibilità, tante forme di partecipazione, è pur sempre
veniente da Dio. Si ha in Lui, con Lui, il Fondamento
della comunicazione, più che un fenomeno
di comunicazione! Siamo convinti che il dibattito pubblico riguardo alle
cose del Cristianesimo sia la sola via di uscita contro le eventuali minacce di
una teologia che potrebbe vestire i panni del dittatore? In realtà, occorre
molta prudenza anche laddove la verità si voglia stabilirla mediante confronti
pubblici. Un autore “laico” ha calato lo spegnitoio sulle infuocate lodi rivolte
ad una “etica del discorso pubblico”: «non bisogna idealizzare il dibattito
pubblico come luogo dove lo “scambio di ragioni” porta automaticamente al
reciproco convincimento. Nella realtà sociale e politica al fondo di ogni
confronto […] permane l’inconciliabilità dei punti di vista […]. A partire da
un certo momento, nella sfera pubblica non c’è più ricerca di intesa ma
dispiegamento di strategie tese a ottenere il riconoscimento delle proprie
convinzioni […], rivendicazioni materiali e immateriali o identitarie […]. L’ethos comune non è sinonimo di
omologazione di valori bensì di convivenza di differenti punti di vista
valoriali» .
La
teologia, inseritasi nel “dibattito pubblico”, non avrebbe garantita la non ostilità
dei tanti detrattori del Cristianesimo. Il “dibattito pubblico” non va
idealizzato: più che agorà nella quale
discutere, può rivelarsi una arena
nella quale tentare di sopravvivere. La teologia potrebbe cadere in una
trappola: far prevalere, ricorrendo ad opportune strategie argomentative, il
proprio punto di vista. Il discorso teologico, a differenza di quello politico,
non può far leva sulla capacità di persuadere, né puntare a ricevere
riconoscimento superficiale dalla maggioranza. Le parole della teologia devono
essere fedeli alla Parola, non alle strategie comunicative esperte e
subdolamente convincenti, non alle tecniche di persuasione.
I
risultati delle procedure scientifiche, ad esempio, paiono, nel dibattito
pubblico, avere la meglio: la tecnologia funziona, la scienza trova conferma alle
sue teorie reiterando esperimenti… le cose della fede, invece, come ottengono
credibilità? I teologi dovrebbero rendere chiara la differenza tra ciò che
viene considerato vero perché “funziona” e quanto viene considerato “falso”
solo perché apparentemente privo di efficacia nel confermare la “nostra” idea
di Progresso! Un filosofo che si definisce “fisico laico” mette a confronto gli
oggetti fisici e gli déi di Omero: «come fisico laico credo
negli oggetti fisici e non negli déi di Omero […]. Ma quanto a fondamento
gnoseologico […] differiscono solo nel grado e non nel tipo […] entrano nella
nostra concezione solo come assunti culturali. Il mito degli oggetti fisici è
epistemologicamente superiore a tutti […], si è dimostrato più efficace degli
altri miti come espediente per erigere una struttura di cui far uso nel flusso
dell’esperienza» .
La
scienza, detto altrimenti, fornisce schemi concettuali per orientarci nella
vita. Il mito degli “oggetti fisici” prevale perché aiuta nell’esperienza.
Ridotta la scienza ad un postulato
culturale come le credenze ed i miti, decide la pratica chi debba prevalere.
È
il successo “pratico” di certi linguaggi, conoscenze a decidere
dell’avvilimento o, addirittura, dell’abbandono di altre forme di sapere,
credenze, fedi. La teologia, in particolare quella morale, per stare al passo
con il vincente mito degli oggetti
fisici, scientifico – tecnologici, abbandona preoccupazioni dogmatiche e
provocazioni escatologiche; al dibattito
pubblico si misura solo su temi dominanti trovati già aperti. Il risultato,
però, non è quello sperato: la Chiesa Cattolica parla dei temi all’ordine del
giorno, ma pare debba giustificarsi se vi immette il benché minimo accenno al
Trascendente.
Capita,
così, che, per stare nella comunità che dibatte, la Chiesa si sgravi, seppur
momentaneamente, della sua (il termine non lo condivido, ma è certo gradito ai
laicisti) “zavorra dogmatica”. Rusconi (non è teologo) denuncia l’impoverimento teologico del discorso
pubblico della Chiesa:
«Il
consenso che oggi la religione-di-chiesa chiede […] non prevede alcuna
specifica competenza teologica. Ciò che sta a cuore alla Chiesa è la
rivendicazione del monopolio dell’etica […]. Il suo obiettivo non è
l’edificazione teologica ma la determinazione di un’etica pubblica […].
L’approccio etico – religioso oggi dominante mantiene sfocati (o semplicemente
non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici […]. Oggi questi temi
teologici sono diventati incomunicabili a un pubblico religiosamente
deculturalizzato» .
Se
la Chiesa mira al consenso riguardo ai suoi modi di affrontare temi morali,
cosa importa se i destinatari dei Suoi messaggi sono privi di cultura
teologica? Ma si possono capire certe scelte della Chiesa senza un retroterra
di conoscenze dogmatiche? Sì, se tutto si svolge su di un piano meramente etico
e per nulla ‘profetico’, ‘escatologico’. I dogmi sono da tenere in vita se
tutto quello che preoccupa è il monopolio
dell’etica? I teologi devono far comprendere, invece, che alla base di ogni
pronunciamento della Chiesa c’è il dogma che non è una verità congelata e priva
d’anima, ma il frutto di una elaborata riflessione teologico – filosofica intrisa
anche di pathos! Si dice che la Chiesa ormai si pronuncia soltanto su
sessualità, biologia… Il bioteologismo –
come lo definisce Rusconi – sostituisce le sempiterne questioni di teologia?
Sarà sempre più necessaria una parola tecnicamente, scientificamente
penetrante, formalmente corretta, per consentire alla Chiesa di entrare nell’arena pubblica e combattere gli stranieri morali? La Parola è ancora
rintracciabile nelle parole della Chiesa se non ha più come obiettivo l’edificazione teologica? Ridurre il
Cristianesimo ad etica significa che le parole per narrarlo sono da attingere
necessariamente ad altri dizionari…
La
parola tecnica, prevalendo, rischia di rendere sfocati – non detti contenuti
che sono al cuore della fede cristiana. Le parole teologiche hanno l’obbligo di
mostrarsi innanzitutto fedeli alle caratteristiche della Parola. L’ebraismo
insegna un rispetto sacrale per il “dire umano”. Una vecchia teoria proposta
dai sapienti di Israele parla di Dio/scrittore:
Egli «scrisse la Bibbia e a mano a mano che scriveva si formò il mondo. Scrisse
Eva, ed Eva comparve in fiore sotto l’albero della conoscenza. Nessuno
scrittore finora è arrivato a questo punto. Ma gli ambiziosi ci provano» .
Dio parla e crea! Dice e le cose vengono alla luce! Noi non raggiungeremo mai
un tale risultato; eppure, per Lagercrantz, proviamo a far “cose divine” con “parole
umane”. Questo non deve farci tremare di sdegno: siamo ambiziosi riguardo alle possibilità del nostro linguaggio, in
quanto Dio ci ha mostrato, facendosi logos
incarnato, meraviglie. Sforzandoci di portare la parola a certi livelli,
non si toccano traguardi lusinghieri? Poesia, narrativa… sono alcuni dei
risultati ottenuti da uomini sì ambiziosi, ma che pure hanno creduto che Dio ha
instillato in noi il gusto del Logos,
l’amore per la Parola. Desideriamo comunicarci in maniera totale, ma il non
riuscirci conferma che infinito abisso è il dire umano. Le parole non sono illusioni se riferite a Dio, ma allusioni ed appelli; sì, “appelli”, perché a
Dio si parla, ma di Dio non si può
parlare .
Egli
si fa umano perché, in qualche modo, dicibile
(vanno armonizzate teologia negativa
ed affermativa). Parlare senza
catturare mostra quello che più va compreso: l’infinità di Dio che, per tracce,
visita i nostri discorsi. La parzialità con la quale parliamo di noi stessi,
poi, indica che nemmeno la realtà umana può chiudersi in una narrazione lineare
e dotata di uno scontato finale .
Nei pubblici dibattiti è in questione ancora l’antica domanda sull’uomo e,
laddove questa si fa urgente, non è facile tenere fuori le implicazioni
teologiche che pure la conducono a profondità interessanti. Per chiudere la
nostra riflessione, mi affido a citazioni offerteci da un teologo e da un
letterato: una sorta di “esercizio” sulle “ragioni” che rendono urgente
iscrivere le provocazioni teologiche nel “pubblico dibattito” riguardo la
possibilità di rintracciare la (una) V/verità.
Da: Jean Daniélou, Dio e noi.
«la Chiesa ha il potere di spiegare
questo o quell’aspetto della rivelazione che rimaneva oscuro. Per far ciò si
vale del lavoro dei teologi. Quindi la Scrittura e la tradizione sono le fonti
che ci aprono la via alla rivelazione. Ma su tale dato rivelato l’intelligenza
dell’uomo si esercita secondo il modo che le è proprio, cioè razionale e
discorsivo […]. Tale ricerca è l’oggetto della teologia […]».
La Chiesa chiarisce
gli aspetti meno comprensibili della rivelazione attraverso il lavoro dei
teologi. Si ha, qui, un atteggiamento “razionale” e “discorsivo”. Il logos teologico è naturalmente “discorsivo” poiché nel
termine stesso logos è contenuta la
provocazione ad argomentare. L’argomentazione, poi, conduce al dibattito,
non al monologo e, così, la teologia
assume i connotati di un sapere da dibattere pubblicamente. Qual è, però,
l’utilità di tanto lavoro?
«L’utilità della teologia è stata spesso
contestata nel corso della storia del cristianesimo e a tutt’oggi lo è ancora.
Perché, si dirà, non attenersi scrupolosamente alla rivelazione, come ci è
presentata dalla Bibbia e dalla tradizione? Non si rischia di sostituire
speculazioni umane alla parola di Dio, volendo ragionare su di essa? D’altra
parte, si aggiungerà, la forma con la quale la Bibbia e la tradizione ci
propongono la rivelazione come annuncio della salvezza e dei mezzi per
raggiungerla, non è forse la vera forma con la quale devono essere rappresentate
le verità della fede?Essa costituisce la teologia “kerigmatica” e questa
teologia è la sola valida. Inoltre, insistendo troppo nel ridurre a sistema le
verità rivelate, non si rischia di impoverirle e di ridurre la pienezza vivente
della parola di Dio a definizioni e deduzioni? Questo intellettualismo della
teologia non rischia di stornare gli uomini che cercano un Dio sensibile al
cuore e una esperienza religiosa? Non corre essa il pericolo di svuotare il
mistero stesso e di sostituirgli un sistema razionale? Queste critiche non sono
del tutto prive di valore e la storia della teologia ci dimostra che spesso
essa se le è meritate. È vero infatti che la teologia non potrebbe aggiungere
nulla all’insieme della tradizione e della Scrittura».
Il pericolo risiede
nell’“intellettualismo della teologia”; non bisogna cadere nell’errore di
ridurre a sistema la rivelazione che è, nel suo senso pieno, sempre di là delle
chiarificazioni razionali e la Parola travalica ampiamente le possibilità
della parola che, per quanto illuminata e
sapiente, non fa che ammiccare al senso pieno dei contenuti di fede. La
teologia non deve aggiungere nulla a tradizione e Scrittura ma soltanto, sorretta,
ispirata e guidata dalla Chiesa, tentare chiarimenti laddove ve ne fosse
necessità. I chiarimenti, ovvio, vanno a beneficio del sapere comunitario. I
risultati della ricerca, così, vanno esposti dialogando con gli uomini del
proprio tempo che chiedono, da sempre, di avvicinarsi di più al Senso.
«la pienezza della rivelazione, come è
contenuta nella Scrittura e nella tradizione, supera qualsiasi teologia […]. È
vero anche che la teologia è insufficiente laddove non sfocia […] nell’incontro
vivente con il Dio vivente. Infine è vero che i teologi hanno spesso peccato di
razionalismo […]. È facile che si verifichino abusi in teologia; quindi è
essenziale inquadrarla bene […]. Parliamo anzitutto del suo valore. Abbiamo
detto che la rivelazione, nella forma in cui ci viene presentata dalla
Scrittura e dalla tradizione, riguarda essenzialmente dei fatti […]. Ma tali
fatti possono essere spesso mal interpretati, e la storia del cristianesimo sta
a dimostrarlo: basta pensare ai vaghi tentativi dei primi scrittori cristiani
quando parlano della Trinità, alle loro esitazioni sul modo corretto di
esprimere la relazione tra il Verbo e il Padre. Occorreranno quattro secoli per
giungere al concilio di Nicea, a una formulazione esatta del dogma trinitario.
Quindi, voler attenersi alla pura e semplice lettera della Bibbia, voler
abolire le precisazioni della teologia, significherebbe forse ricadere nella
confusione e nei brancolamenti […]. La Bibbia e la tradizione costituiscono il
dato regolatore cui il teologo deve sempre riferirsi […]. Questo non significa
però che la teologia non sia necessaria; essa infatti è il lavorio
dell’intelligenza che, confrontando gli uni agli altri i dati rivelati,
sottolineando il loro legame, e precisandone la consequenzialità, impedisce
alla rivelazione di rimanere allo stato oscuro e bruto e ne chiarisce i dati
permettendone così una migliore comprensione».
La teologia, spesso,
ha proposto interpretazioni imprecise. La rivelazione, come già dicevamo,
supera abbondantemente i nostri tentativi di chiarirla razionalmente ed in
maniera discorsiva. I primi teologi, i Concili hanno mostrato che il sapere
della fede non può che essere il frutto di una lenta riflessione e riscrittura
di certezze. Se, tuttavia, eliminassimo il lavoro teologico potremmo incappare
in un deleterio fondamentalismo biblico. La Bibbia sta in rapporto al teologo
come “dato regolatore”. C’è, dunque, necessità della teologia: essa è, infatti,
la fatica dell’intelligenza che compara dati rivelati, ne mostra l’intima connessione,
coerenza e conferisce ordine a quelli che rischierebbero di rimanere dati
sparsi e confusi. Se il sapere teologico acquisito non fosse rintracciabile in
una “comunità dialogante”, l’intelligenza avrebbe lavorato invano. Ogni
questione, infatti, verrebbe sempre affrontata per la prima volta. Il
chiarimento dei dati rivelati è razionale e discorsivo perché fonda su
categorie di pensiero e linguistiche ampiamente accettate e, laddove la fede è
contestata, ciò è possibile ancora una volta grazie ad un minimo di terreno
concettuale-linguistico generalmente condiviso.
«Il disprezzo della teologia porterà
soltanto a fare della cattiva teologia. Si dirà che qui il problema non è
quello teorico […], ma un problema di fatto. Non è vero forse che la rivelazione
è stata deformata dall’interpretazione dei teologi? Infatti essi hanno preso in
prestito le categorie filosofiche di Platone e di Aristotele […]. Ma […]
appropriandosi delle espressioni della filosofia per formulare le realtà della
rivelazione, la teologia le arricchisce di un contenuto nuovo […]. La
traduzione dall’ebraico in greco era necessaria dal momento che il Vangelo era
rivolto a tutti i popoli. Tale traduzione rischiava di portare con sé della
confusione; per questo era necessaria l’elaborazione di nuove categorie
teologiche».
Portare la Parola ai
suoi non originari destinatari obbligò ad innestare contenuti biblici sulle
categorie del pensiero greco. Una curvatura snaturante il deposito della fede?
Quando i testi sacri passarono dalle mani degli ebrei a quelle dei greci, la
traduzione poteva generare confusione; ecco, dunque, perché elaborare “nuove
categorie teologiche” fu una incombenza per certi versi criticabile, per altri,
necessaria. Oggi i testi sacri, la proposta cristiana, vanno portate agli
uomini postmoderni che abitano un mondo fisicamente, noeticamente,
linguisticamente ordinato in maniera del tutto nuova rispetto finanche ad un
recente passato: non è, quindi, necessario dibattere pubblicamente, i modi di comunicare la fede nell’epoca del disincanto?
«la teologia è nata soprattutto con lo
scopo di combattere l’eresia. I primi teologi, Ireneo e Tertulliano, hanno
composto le loro opere per confutare gli errori degli gnostici e per dimostrare
che questi interpretavano falsamente la Scrittura […]. Ma questo aspetto
negativo della teologia non è quello essenziale. L’oggetto dei grandi teologi è
di rilevare quel che è implicito nel dato rivelato […] lo scopo della teologia
sarà di mostrare ciò che tali avvenimenti manifestano di Dio […]. È chiaro che
in questo sforzo per comprendere il mistero di Dio la teologia è pur sempre
l’opera di un’intelligenza umana […]. Per questo essa non è un razionalismo,
perché non spiega il mistero di Dio in modo da renderlo totalmente
intelligibile. Riconosce il mistero come mistero, ma lo enunzia in formule
esatte […]. Infine la teologia pone in
rilievo l’ordine e i legami di quei dati che essa illumina, dopo averli presi
dalla Scrittura e dalla tradizione […] il teologo deve sempre riferirsi alla
parola di Dio (ma) nello stesso tempo la parola di Dio si illumina per mezzo
della teologia […]. Senza dubbio in questi ultimi secoli c’è stata una
dissociazione eccessiva tra un’esegesi troppo puramente scientifica e una
teologia troppo esclusivamente razionale. Un mutuo avvicinamento è necessario
per entrambe».
L’esigenza di
fissare dei dogmi non venne dettata dal desiderio di
ingabbiare la rivelazione in schemi teologici incardinati su categorie
filosofiche; furono le eresie a spingere
i Padri a dare una sistemazione ai dati essenziali della fede cristiana. È
questo l’“aspetto negativo” della cosa, ma non l’intero senso che ispira
l’ufficio teologico. Il motivo essenziale del fare teologia, piuttosto, va
rintracciato nella necessità di riferirsi, in primo luogo, alla Parola, ma con
la contemporanea consapevolezza che la Parola solo “si illumina per mezzo della
teologia”. Esegesi scientifica e teologia razionale si vengano incontro! Oggi non
si fanno più i conti con alcuni eretici, ma con una intera società scristianizzata;
ebbene, anche in questo caso, ci si deve inserirsi nei dibattiti pubblici non
in maniera meramente apologetica. La Parola resta intoccabile, ma deve
esprimersi per mezzo di una teologia che studia attentamente le modalità con le
quali si realizza una “etica della comunicazione”.
«il contenuto della teologia […] è lo
sforzo dell’ intelligenza per comprendere il dato rivelato. Tale sforzo è, sì,
opera della ragione, ma non di una ragione puramente naturale, bensì di una
ragione vivificata dalla grazia. La teologia è opera della fede […]. Se è
errato ridurre la teologia alla contemplazione di fede ed eliminarne l’aspetto
propriamente razionale, è ugualmente errato voler abolire tale elemento e
ridurla a una dialettica puramente razionale […]. Il padre von Balthasar ha
giustamente rilevato che, nei tempi patristici, speculazione teologica e via
contemplativa andavano di pari passo e che i dottori della Chiesa erano santi,
mentre accade spesso nei tempi moderni che i teologi non siano sempre dei santi
e che i santi non siano sempre dei teologi.
Una certa sterilità della teologia moderna deriva anzitutto dal fatto
che non è animata dalla spinta soprannaturale, dal dinamismo della fede verso
la visione trinitaria. La vera scienza di Dio è quella che porta ad amare
Dio. Non è possibile leggere
sant’Agostino senza essere trascinati dallo slancio che lo innalza verso la
Trinità. Non sempre si può dire lo stesso dei nostri manuali».
La “ragione” del
teologo non è soggetta ai dettami del “pensiero calcolante”; essa, piuttosto, è
abitata dalla luce
della Grazia! La teologia, pur dotata di un
supporto razionale, è soprattutto frutto della “fede”: né sola “dialettica
razionale”, né unicamente “contemplazione di fede”. I Padri sapevano essere
santi e dotti esegeti. I santi, oggi, non sempre sono teologi e questi ultimi
non sempre hanno l’obiettivo della santità. Le dicotomie, detto altrimenti,
vanno eliminate se si vuole conferire nuovo spessore all’attività teologica e
se si spera di mettere le parole della teologia a confronto con i lessici dei
saperi postmoderni in maniera efficace e significativa. In un tempo in cui i
saperi specializzati e destinati a produrre successi nel campo della pratica
prevalgono, la teologia deve mostrare il proprio volto ‘altro’: viene dalla
fede! La Parola non guida in realizzazioni tecniche, non incrementa l’avere, ma forma ed arricchisce l’essere. Il successo di una teologia sta nel non
scindere tendenza alla santità e coltivazione
accorta di una dialettica razionale; la prima apporta un “supplemento d’anima”
alle tematiche dibattute dai nostri contemporanei laicisti; la seconda ci
permette di farlo non ignorando i mezzi espressivi e cognitivi da loro
preferiti.
Da: C. S. Lewis, Il cristianesimo così com’è
«In un certo senso capisco bene perché
alcuni siano infastiditi dalla teologia […]. Penso che […] passare da
quell’esperienza (si rifà ad un racconto-testimonianza di un militare che dice
di aver sentito Dio nella solitudine del deserto) alle dottrine cristiane fosse
effettivamente passare da una cosa reale a una meno reale. Allo stesso modo chi
ha visto l’Atlantico dalla spiaggia, e poi va a guardare una mappa
dell’Atlantico, passa anche lui da una cosa reale a una meno reale […]. La
mappa è, certo, soltanto carta colorata; bisogna tuttavia ricordare (che) […]
essa si basa su ciò che centinaia, migliaia di persone hanno scoperto navigando
l’Atlantico reale; quindi ha dietro di sé una quantità di esperienze non meno
autentiche di quella che tu puoi avere dalla spiaggia. Soltanto che mentre la
tua è una visione singolare e fugace, la mappa coordina tutte quelle esperienze
diverse. Poi, se vuoi andare in qualche posto, la mappa è assolutamente
necessaria […]. La teologia è come la mappa […]. Le dottrine non sono Dio: sono
soltanto una specie di mappa. Ma questa mappa si basa sulle esperienze di
centinaia di persone che sono state realmente in contatto con Dio […]. In altre
parole, la teologia è una necessità pratica: specialmente oggi. In passato,
quando c’era meno istruzione e si discuteva meno, era forse possibile andare
avanti avendo su Dio pochissime idee elementari. Ma adesso no. Adesso tutti leggono […].
Quindi, se scegliete di ignorare la teologia, non è che non avrete idee su Dio:
ne avrete una quantità di sbagliate […] gran parte delle idee su Dio che oggi
si fanno passare per novità sono semplicemente idee che i veri teologi hanno
esaminato, e respinto, secoli addietro».
Osservare da vicino
l’Atlantico è certo più suggestivo che incontrarlo su di una mappa; questa,
però, è il derivato di innumerevoli osservazioni, esperienze. È chiaro che una
visione tutta e solo mia si rivela parziale. La mappa, le conquiste della
teologia nel corso della storia, sono necessarie per comprendere dove va la
fede! Le dottrine, però, sono guide verso Dio e solo una miopia o una superbia
teologica potrebbero farle coincidere col Trascendente stesso. Ignorare il
patrimonio teologico imporrebbe di iniziare tutto daccapo rifacendo, magari,
errori già superati. Avere idee su Dio ed ignorare la storia della teologia è
possibile ma, insisto, si rischia di ritenere nuove e giustificate posizioni
che i teologi del passato hanno ampiamente mostrato essere insostenibili. Si
può dibattere pubblicamente muovendo da posizioni personali, originali e non
mostrare che siamo titolari di questioni talmente radicate nell’animo umano da
essere sempre state centrali per i migliori ingegni del passato?
«Dicendo che la teologia è una scienza
sperimentale “in un certo senso”, intendo dire che essa è simile alle altre
scienze sperimentali per certi versi, ma non in tutto. Un geologo che studia le
rocce deve andare a cercarle: le rocce non vanno da lui, e se lui va da loro
non possono fuggire. L’iniziativa sta
tutta dalla parte del geologo: le rocce non possono né aiutarlo né
ostacolarlo. Ma facciamo il caso di uno
zoologo che voglia fotografare degli animali selvatici nel loro ambiente
naturale. Questo è un po’ diverso dallo studiare le rocce. Gli animali
selvatici non vanno incontro allo zoologo, ma possono fuggire via da lui. Comincia a esserci un barlume di iniziativa
da parte loro. Facciamo un passo avanti. Supponiamo di voler conoscere una
certa persona. Se essa è decisa a impedircelo, non ci riusciremo. Bisogna che
ci guadagniamo la sua fiducia […]. Per fare amicizia bisogna essere in
due. Quando si tratta di conoscere Dio,
l’iniziativa sta dalla Sua parte. Se
Egli non vuole mostrarsi, niente di ciò che possiamo fare ci consentirà di
trovarlo».
In che senso il
nostro lavoro è rubricabile sotto la voce “scienza sperimentale”? Studiare
geologia, zoologia e teologia non è la stessa cosa. Nel primo caso, siamo noi a
dover cercare le rocce e, trovate quelle che ci interessano, non ce le vedremo
sfuggire. L’iniziativa è nostra: le rocce non possono collaborare, né prendere
iniziative nel nostro studiarle. Lo zoologo, poi, spesso incappa in una amara
sorpresa: gli animali selvaggi possono decidere di fuggire e rendersi
inosservabili. A differenza delle rocce, qui, l’oggetto da conoscere comincia a
prendere iniziative. Conoscere una persona è simile: potrebbe rifiutare di
esserci amica. Dio, invece, prende l’iniziativa e si rivela. Da questo dono, da
un simile atto gratuito prende inizio il lavoro teologico. Inserire nel
dibattito pubblico l’idea che l’uomo è costituito anche da un “dono” aiuta ad
osservare la vita da una ottica antiutilitarista… e sappiamo quanto sia
necessaria questa voce di rottura!
«mentre nelle altre scienze gli
strumenti che usiamo sono esterni a noi (tipo i microscopi o i telescopi), lo
strumento con cui vediamo Dio è tutto il nostro essere. E se il nostro essere non è tenuto lindo e
lustro, la nostra visione di Dio sarà offuscata – come la vista attraverso un
telescopio sporco. Per questo nazioni orribili hanno religioni orribili: hanno guardato Dio attraverso una lente
sporca».
La scienza
teologica non ha strumenti riproducibili in laboratorio, ma si esercita facendo
appello a “tutto il nostro essere”; senza coltivare una valida psicoecologia, gli specchi del cuore e della mente sono sporchi e vedremo Dio
ricoperto di macchie. Le orribili concezioni della fede non dipendono da una
intrinseca negativa qualità del Dio professato, bensì dalla “lente sporca” del
nostro essere che si dedica alla teologia in maniera non idonea. I dibattiti
pubblici odierni in materia religiosa, in particolare riguardo al
Cristianesimo, presentano aspetti oscurati da parecchie lenti sporche; l’obbligo
inaggirabile di rendere pulite le proprie e quelle altrui rende necessaria una
buona teologia.
«il solo strumento veramente adeguato
per apprendere qualcosa su Dio è l’intera comunità cristiana, che insieme Lo
attende […] .Ecco perché tutti quei personaggi che di tanto in tanto se ne
vengono fuori col brevetto di una qualche loro religione semplificata da
sostituire alla tradizione cristiana sono soltanto dei perditempo. Come un uomo
che avendo per solo strumento un vecchio binocolo da campo voglia mettere in
riga gli astronomi veri […]. Se il cristianesimo fosse una nostra invenzione,
potremmo renderlo più facile […]. Chiunque è capace di essere semplice, se non
ha una realtà di cui tener conto».
Fare
teologia con un “vecchio binocolo da campo” e pretendere di guardare lontano ci
fa perdere tempo. Il telescopio non sarà mai sconfessabile da un oggetto
simile! La teologia
accademica deve conferire meno importanza
al proprio binocolo e fidarsi maggiormente del telescopio della “fede
comunitaria”. Non si inventa in ambito teologico, ma si lavora in armonia con
la comunità. Ed essa non è forse il luogo, il solo, nel quale il dibattito può
sorgere? La “teologia in dialogo” è il frutto dell’agire della comunità
credente che, maturato, ritorna su di essa e la fa avanzare nella maggiore
comprensione (anche se non sarà mai completa) della rivelazione. Che sia un
lavoro difficile e complicato non ci spaventa. Come dice Lewis, abbiamo una realtà della quale tener conto. Il Cristianesimo
sarà sempre realtà anche quando tutto intorno si inneggia ad universi virtuali.
Cristo è la Via all’uomo ed a Dio. Potremmo
trovare, nel paniere di questioni da dibattere nella società postmoderna,
qualcosa di più vicino ai nostri desideri, alla nostra natura? Se la risposta è
negativa, allora convenite circa la dimensione pubblica che, pur cautamente,
deve assumere il “dibattito teologico”.