Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

ANTROPOLOGIA DEL RISCHIO

Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. Il problema è che il mondo non continui a cambiare senza di noi. E alla fine non si cambi in un mondo senza di noi (G. Anders)

In questo saggio discuto ancora i motivi che mi hanno spinto a proporre quella che ho chiamato “antropologia del rischio”: esistere, come recita il titolo di un mio precedente lavoro, è precarietà. L’uomo è sempre più preso dal ‘fare’ e vuole cambiare (specialmente in un tempo in cui la tecnologia, l’informatica conoscono sviluppi impensabili solo alcuni anni fa) il mondo e, scendendo fino alle più nascoste strutture della vita, finanche se stesso. Il mondo, però, non deve cambiare senza di noi, né rischiare di finire con l’essere un “mondo senza di noi”. La minaccia che l’uomo porta a se stesso è davvero temibile: rischia di annullarsi completamente!

I

Il pensatore citato in esergo, per questo, non ha esitato a parlare di ontologia della rapina: tutto ciò che non è da prendere è non meritevole di classificazione. Essente e prendibile, in questa ottica, divengono termini equivalenti! Mondo è, dunque, «il nome di un potenziale territorio di occupazione» [1]. Per Anders, così, ci troviamo a vivere in una epoca che non è l’anticamera del futuro, bensì, una scadenza: «il nostro essere non è più altro che un esserci – ancora - appena» [2]. A “rischio”, dunque, c’è il ‘mondo’ (potenziale territorio di occupazione) e la “consistenza ontologica dell’uomo” (un esserci – ancora – appena). L’antropologia filosofica, in questo senso, si configura (come ho mostrato altrove) come antropologia del rischio. Nel pensiero moderno, grazie alla penna infuocata e distruttiva di Nietzsche, torna una categoria del pensiero greco. Il filosofo col martello dedica una lunga riflessione – che vale la pena rubricare per intero – per denunciare che hybris (l’uomo che eccede, rifiutandole, tutte le sane limitazioni) «è oggi tutta la nostra posizione rispetto alla natura […] con l’aiuto delle macchine […]; hybris è la nostra posizione di fronte a Dio […]; l’hybris è la nostra posizione di fronte a noi» [3]. L’uomo eccede rischiosamente la “misura” su tre fronti: quello della natura, quello della Trascendenza ed infine, nei confronti di se stesso. Facciamo, continua il pensatore – dinamite, esperimenti su noi stessi come non oseremmo riguardo a nessun animale e, con curiosità e soddisfazione, devastiamo l’anima tagliando nella viva carne. La domanda di Nietzsche, ora, è d’obbligo: ci importa ancora la “salute” dell’anima? L’uomo moderno (ancor più quello postmoderno), alla fine, si sottomette al rischio del non senso perché – ispirato da una antropologia della rapina – eccede i limiti in orizzontale ed in verticale.

II

L’uomo, ormai, conosce solo la parola addio nei confronti di quanto lo costituiva: «prende congedo da ogni desiderio di certezza, adusato com’è a sapersi tenere sulle corde leggere e su leggere possibilità a danzare […] sugli abissi» [4]. Leggerezza dell’essere che, poi, si è rivelata assai pesante da sostenere: danzare sugli abissi, ormai, appare spavalderia non più sostenibile e ci si acconcia ad agire su scenari minimi ed animati da aspettative appiattite sul puntiforme. L’allegro nichilismo è stato duramente attaccato dalle derive cruente nelle quali è scaduto gran parte del progetto moderno. Stendendo un bilancio degli orrori che hanno lacerato i deliziosi ricami delle pretese dell’uomo adulto dell’Illuminismo, uno storico olandese, non nascondendo la propria preoccupazione, ha lasciato un interrogativo col quale, mai come oggi, occorre fare sul serio i conti. Ecco come formulare quello che il nostro autore definiva «l’inevitabile e deprimente quesito: dopo la fine di tanti orrori questo mondo ferito e umiliato sarà tosto capace di avere una nuova fioritura di pura e nobile civiltà?» [5]. Inutile nascondercelo: la risposta è stata gettata interamente sulle nostre spalle perché l’uomo non si considera più un Uditore della parola (Rahner), di una “parola divina” che lo interpella. L’uomo risponde unicamente a se stesso [6]. Si può essere, però, allo stesso tempo, l’interrogante ed il rispondente? L’appello, perché si sia “capaci” (abile) di “rispondere” (di dare, cioè, un responso), deve venire da ‘altrove’; si potrebbe rischiare di rispondere a se stessi anche mettendo a tacere i lati inaccettabili della nostra risposta. In un dialogo, confronto vero, di fronte ad un A/altro, invece, ciò non è possibile! Mettere in discussione i nostri progetti di vita aprendosi al “paradigma critico” di un “progetto altro” (anche teologicamente parlando) può evitarci qualche rischio dettato dalla nostra presunzione egologica. Gli orrori lasciatici dietro non sono stati sistemati, per dirla con una espressione di Wittgenstein, su di un binario morto: se agiamo ispirati da una antropologia ingenuamente trionfalistica riguardo alle possibilità del soggetto, lasciamo la porta aperta del futuro al possibile ritorno della barbarie. Una pensatrice ebrea che si è interrogata a lungo ed in profondità sugli orrori del Novecento lascia una ammonizione che rende la domanda di Huizinga (questo mondo ferito e umiliato sarà tosto capace di avere una nuova fioritura di pura e nobile civiltà?) carica di ulteriore drammaticità: «C’è da temere che i campi di concentramento e le camere a gas […] rimangano non solo di monito, ma anche di esempio. Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sottoforma di tentazioni destinate a ripresentarsi» [7].

III

Il rischio di un ritorno della barbarie c’è! In fondo, i drammi della globalizzazione vengono resi meno evidenti dagli abbagli che il lato spettacolare della stessa esibisce. Circolano le merci in tutta libertà, ma gli uomini, quelli affamati dell’altra parte del mondo, non vengono minimamente tollerati. La ricchezza straripante di una parte del globo viene pagata, spesso in silenzio, da quelli che potremmo chiamare i dannati della terra (Fanon). L’uomo del benessere non si può occupare degli altri avviluppati nelle sofferenze poiché è stato rapito interamente dai miraggi del benessere: è irrimediabilmente alienato! L’aspetto più rischioso di questa triste faccenda, poi, è che – come dice uno studioso francese – la soluzione è davvero impensabile: «Ogni soluzione ideale di superamento dell’alienazione è troncata di netto. L’alienazione non può essere superata […]. È la struttura stessa della società commerciale» [8]. La società dei consumi produce una alienazione che consuma anzitutto consapevolezza: nessuno si preoccupa di essere qualcuno, poiché la configurazione antropologica di consumatore appare più che sufficiente ad appagare la sete di senso dell’uomo. Dice Baudrillard: «il ludico del consumo si è progressivamente sostituito al tragico dell’identità» [9]. La preoccupazione riguardo alla propria identità (che ha innegabili connotati tragici) si dissolve nell’allegro consumo di merci, nel gioco del consumo. Il luccichio superficiale delle merci basta per abitare il mondo che, in questo modo, perde ogni connotazione di mistero, e non rimanda più a quanto sta oltre l’immediatamente visibile. È una perdita che pesa non poco sul piano antropologico poiché l’uomo si decurta di una dimensione che lo condurrebbe (come avveniva in passato) a vivere su tonalità più alte [10]. Quello che Cassirer chiamava il tessuto simbolico (ordito da mito, arte e religione) non viene bruciato, disfatto dal ludico del consumo (Baudrillard). Si vaga tra le merci per appagare un’ansia che, tuttavia, permane; si sceglie sempre la bevanda sbagliata quando non si conosce la vera natura della propria sete. L’uomo si cerca in superficie perché non vuole rischiare di conoscersi in profondità ma, di tale conoscenza, sente una lacerante nostalgia. Resta un dato di fatto, dunque, che «per tutta l’età moderna l’individuo va alla ricerca di se stesso, verso un punto di stabilità non ambiguo, di cui egli ha sempre più pressantemente bisogno, man mano che l’orizzonte teorico e pratico si amplia in modo inaudito e che la vita si complica» [11].

IV

Cercare un punto di stabilità non ambiguo! È questa, però, la meta che il postmoderno indica come irraggiungibile o, nei casi più estremi, come non esistente. Si è sempre cercato, soprattutto con l’aiuto della razionalità (per lo più di tipo strumentale) di dar vita a punti di stabilità costruendo sulla terraferma delle certezze epistemiche; tuttavia, l’ondivaga esistenza che siamo costretti a condurre cancella ogni orma progettuale sulla sabbia scrivendo su di essa in maniera indelebile la sentenza eraclitea, tutto scorre: «L’uomo – riassume un filosofo tedesco – conduce la sua vita ed erige le sue istituzioni sulla terraferma. Ma il movimento della propria esistenza cerca di comprenderlo, nella sua totalità, specialmente con la metafora del temerario navigare» [12]. La solida ragione, come ammise anche Kant e dopo di lui Foucault, è circondata dall’oceano tempestoso di quanto la eccede; siamo, tuttavia, illusoriamente su di una zattera affidabile, ma realmente in aperto mare e, si guastasse la fragile imbarcazione, è nel mentre navighiamo che occorre ripararla. Ecco il rischio! Il destino si gioca in mare aperto ed abbiamo solo una fragile zattera per arginare il pericolo. Si tratta di distinguere – guidati da Simmel – un destino tragico da un destino triste o rovinoso che viene generato da ‘cause esterne’. Il “destino tragico” si dà, spiega il sociologo, «quando le forze distruttrici che sono rivolte contro un essere scaturiscono dagli strati più profondi di questo stesso essere, quando nella sua distruzione si compie un destino che risiedeva in lui stesso» [13]. La distruzione dell’uomo è un rischio che origina nell’uomo stesso: è la risultante, cioè, di un destino tragico e non certo triste o rovinoso che, invece, nasce da minacce esterne all’uomo. Qui nasce il problema. Con Baudrillard, sopra, dicevamo che il ludico del consumo ha soppiantato la tragicità che innervava la ricerca della propria identità. Il trionfo del ludico del consumo, dunque, oscura pericolosamente la consapevolezza che siamo minacciati da un “destino tragico” e non “triste”, poiché le forze distruttrici rivolte contro di noi scaturiscono dagli strati più profondi del nostro stesso “io”.

V

Una voce filosofica della modernità ha magnificato l’io, mascherandone le tare ontologiche, elevandolo ad Unico proprietario di tutto ed ancor più di se stesso: «Come Dio, io sono la negazione di tutto il resto perché io sono per me tutto – sono l’unico… La mia Causa […] è […] unica come me stesso che sono unico. Niente vi è oltre me o sopra» [14]. Il libro di Stirner uscì a Lipsia: appena mille copie! L’opera la dedica alla seconda moglie che, tuttavia, lo abbandonerà. Il filosofo morì quando aveva appena compiuto cinquanta anni, in circostanze misterioso, ed invaso dai debiti. La patente di anarchico gli venne rilasciata da Engels: ben trecento pagine delle opere di Marx ed, appunto, Engels, vennero dedicate alla critica del libro. L’io di Stirner consce, come il suo patrocinatore, un esito infelice. L’opera, d’altro canto, si apre e si chiude allo stesso modo: Ich hab’ mein Sach ‘auf Nichts gestellt (Ho fondato la mia causa sul nulla)! Un commento su questa categoria antropologica, l’Unico, è lucidamente fornito da un pensatore tedesco assai importante per comprendere la modernità: «l’io di Stirner, divenuto libero e vuoto, non sa per contro far altro se non ritornare al suo nulla, per consumare il mondo così qual è, nei limiti in cui questo è da lui utilizzabile» [15]. Un io prepotentemente egologico e che si fonda volontariamente sul nulla (‘auf Nichts gestellt) inaugura quella che, in apertura di questa riflessione, Anders definì ontologia della rapina: il mondo va consumato come lo troviamo e fin quando è utilizzabile. Altro non importa! L’Unico si arrischia nell’insignificanza, perché, fondato su nulla, non può che tornare ad esso. Il soggetto stirneriano preferisce non ascoltare l’invito dell’antropologia cristiana che, per bocca di un pensatore cattolico francese del Novecento, ad ognuno di noi, ricorda: «tu non potrai mai sentirti a lungo soddisfatto di un mondo svuotato di mistero. L’uomo è fatto così» [16].

VI

L’uomo è così: non sa vivere, non può, senza ‘mistero’! Siamo aperti all’appello dell’Altro e, se vogliamo evitare i rischi ai quali si abbandona il soggetto di Stirner, ci tocca ricordare che «noi non viviamo né in orizzonti chiusi, né in un orizzonte unico» [17]. Stirner, in realtà, non aveva alcun interesse ai richiami dell’Oltre, né gli interessava mettere in agenda una discussione intorno alla verità e non accettava l’idea che qualcosa fosse oltre lui: «neppure l’essenza dell’uomo è superiore a me» [18]. La verità, poi, scriveva, è morta; al più, la considerava un alimento per la mente paragonandola alle patate, «alimento per il mio stomaco che digerisce» [19]. Confessava apertamente che non aveva interesse a stabilire se quanto pensava o faceva fosse o non fosse cristiano: gli bastava – aggiungeva – ottenere ciò che voleva. La condizione irrinunciabile era una sola: trovare il proprio autogodimento. Si abbandonava a rischiose ubriacature egologiche e rovesciava totalmente l’antropologia cristiana: «Alla sentenza cristiana: noi siamo tutti peccatori, io oppongo questa: siamo tutti perfetti» [20].
Sì, Stirner sconta il suo ateismo. Gli uomini che si ‘fissano’ su qualcosa di superiore, a suo dire, erano completamente matti, matti da manicomio. Quelli che definiva il Mammone terrestre ed il Dio celeste venivano egualmente ritenuti usurpatori: esigono, infatti, che si rinneghi se stessi. La sacralità delle cose, diceva pure, non sta in esse, ma dipende dalla mia sentenza. Si ha il diritto di essere ciò che si ha il potere di essere! Credere alla verità significa, per Stirner, non credere a se stessi. Il Trascendente era la minaccia da rimuovere perché, un essere superiore al soggetto rende più debole il sentimento della propria unicità. Dio muore davvero laddove non se ne parla (come diceva Gilson), ma anche laddove l’Unico non può e non vuole assolutamente rinunciare alla “propria unicità”. Su questi presupposti antropologici non è azzardato pensare all’uomo come creatura decisamente a rischio; anzi, va detto senza mezzi termini: «L’idea che l’umanità possa “annientare” se stessa non solo è diventata possibile, non solo può essere presa in considerazione, ma è di scottante attualità» [21].

Rischia l’uomo che volge le spalle alla verità tanto quanto rischia l’uomo che si mette alla ricerca di essa: «la vita è rischio – scrive espressamente un filosofo italiano – proprio perché è infinita conquista della verità» [22]. La differenza è che, nel secondo, caso, l’esistenza è inabitata da una fruttuosa e costruttiva teleologia. Paci, in un altro testo, precisa: «quello che per noi conta non è di esistere, ma di esistere per un fine, per […] una verità» [23]. Stirner rinuncia a comprendere il mondo: gli interessa, piuttosto, utilizzarlo, sfruttarlo; gli altri nono sono che occasioni per raggiungere il proprio godimento. Lo sforzo di conferire “senso” al mondo è assente. Paci, all’opposto, affida una missione rischiosa, ma ricca di belle possibilità, al soggetto: «io, il soggetto, sono colui dal quale il mondo attende il suo senso» [24]. Avventurarsi verso la verità, il significato, il senso è quanto fa di me un soggetto arrischiato sì, ma anche animato da un telos. L’assillo della propria unicità qui è assente e la claustrofobia del soggetto scongiurata; infatti, questo assillo e questa clausura testarda sono molto più rischiose per l’io che non l’esistere per un fine, per una verità. Credo che, accanto alla consapevolezza delle derive toccate dall’impianto antropologico stirneriano, vadano meditate le parole del fenomenologo italiano che possiamo classificare, in un certo modo, come “istruzioni per l’uso” riguardo alla ‘vita’: «Non la vita […] semplicemente subita […], ma il significato della vita. Ogni giorno questo significato si perde e deve essere conquistato. Non si perde soltanto per mancanza di attenzione e di riflessione. Si perde nei compiti minori che crediamo decisivi, nella lotta stupida, nel compromesso, nella “mala fede”» [25].

VII

Credere che i compiti minori siano decisivi è un atteggiamento che mette a rischio il mantenimento di una “vita significativa”; il significato è una conquista da fare ‘ogni giorno’. Preoccupa non poco un dato di fatto: una antropologia che tenga nel giusto conto l’intersoggettività, l’alterità pare assai lontana dalle possibilità che la postmodernità mette in agenda; se, però, il mondo non è “condiviso” e “condivisibile”, non è mondo e la vita si svolge, frammentata e confusa, su scenari ambigui. Se non siamo certi, chiusi come siamo in una visione esasperatamente individualista dell’uomo, che – malgrado accettabili variazioni – altri condividano con noi lo stesso mondo, risulta guasta la nostra relazione con il “mondo sociale”. Uno studioso del problema convalida la mia posizione: «La nostra relazione con il mondo sociale si basa sul presupposto che nonostante tutte le variazioni individuali gli stessi oggetti siano esperiti dai nostri simili sostanzialmente nello stesso modo in cui li sperimentiamo noi […]. Se questa fiducia nella sostanziale identità dell’esperienza intersoggettiva del mondo si infrange è distrutta la stessa possibilità di stabilire una comunicazione con i nostri simili» [26]. Osservare assieme agli altri le cose, trovare intorno ad esse una intesa è mettersi alquanto al riparo dal rischio di non riuscire a realizzare una sana, significativa relazione con il mondo sociale. Le cose sono più di quello che sembrano: rappresentano il nostro accordo su di esse e tale accordo è la sola cosa che garantisca l’esistenza di un mondo [27]. Il soggetto che fa dell’autoreferenzialità la sua fede assoluta, però, rimane, appunto, absolutus, sciolto dal legame con altri e vive non nel mondo, ma in un suo mondo! Fu uno scrittore francese che, nel cuore del Novecento, annotò parole intrise di amarezza per sottolineare questa conditio del soggetto: «Solo. Sempre più solo […]. Tutto mi è estraneo […]. Perché vertici di angoscia e abissi di abbandono non diventano sicuri messaggi? […]. Se ci fosse un Dio visiterebbe, credo, la mia solitudine, mi parlerebbe familiarmente nel mezzo della notte» [28].

L’uomo solo vive il rischio di essere davvero – come poetava Hölderlin – un segno che non ammette interpretazione! Il soggetto partorito da un filosofia egologica è sempre più solo ed avverte le cose, gli altri come realtà estranee; i vertici di angoscia e gli abissi di abbandono sono i luoghi del rischio di un soggetto absolutus: perché non diventano sicuri messaggi? Parole rassicuranti, illuminanti non erompono da quei vertici e quegli abissi minacciosi poiché Dio non c’è! Se ci fosse un Dio – ipotizzava Valéry; la nostra solitudine non viene visitata dalla Presenza e nemmeno dalle presenze. Privi della luce del senso (costruibile solo assieme agli altri e per mezzo di un mondo condiviso), siamo nel mezzo della notte e la voce di Dio non la visita. Il filosofo ateo – marxista Ernst Bloch diceva che la speranza ha in sé la precarietà della delusione. Una speranza interamente arrischiata, consumata in orizzontale è precaria, esposta in maniera davvero preoccupante alla delusione. L’uomo pretende di “fare l’uomo” a propria immagine e somiglianza: da modellato si pretende Modello! È il solo modo grazie al quale certi uomini possono avere potere sui propri simili: far credere loro che si può essere uomini soltanto grazie ad una scelta, ad una iniziativa e ad un’opera umana, troppo umana [29]. Il rischio dell’insignificanza della vita dipende proprio da quanto denunciato da Valéry: non c’è un Dio che visita la nostra solitudine e ci parli familiarmente nel mezzo della notte dell’insensatezza. Il filosofo Franco Volpi, in un recente saggio, si è posto una domanda alla quale ha dato, a suo modo, una risposta (lo dico subito: la condivido pienamente!): «Che cosa succede quando Dio muore? Quando Dio muore, l’uomo si animalizza […] non dispone più dei termini di riferimento […] entro i quali un tempo poteva comprendere e formare la propria identità. La vita umana è capace di auto modificarsi e dare forma a se stessa in base alla ragione di cui è dotata. Ma […] ridotta al suo semplice stato animale […] la ragione è posta al servizio delle semplici pulsioni – diventa […] puramente strumentale» [30].

VIII

La vita umana non può non correre il rischio dell’insignificanza, dell’animalizzazione, se non ha che una “ragione strumentale” alla quale chiedere elementi per formare un soggetto. Nella letteratura russa un critico ha ravvisato la nascita dello strannyi celovek, dell’uomo estraneo – straniero alla società nella quale vive e della quale rifiuta i valori. Si affiancò a questa configurazione antropologica, quella dell’uomo superfluo (si riferisce ad un racconto di Turgenev, Diario di un uomo superfluo). Un uomo non romantico, avventuroso come quello estraneo, ma apatico, rinunciatario. Attende una società migliore, ma nulla opera per farla venire alla luce! Si pensi al personaggio di Goncarov: il pigro e sedentario Oblomov (da qui discende quella condizione umana patologica nota come oblomovismo). Alla fine, con Dostoevskji, arriva l’uomo del sottosuolo - «prototipo e concentrato di una lunga serie di personaggi dostoevskiani […] che filosofando rimugina: “Io sono unico, e gli altri sono tutti”. L’estraneo, il superfluo e l’uomo del sottosuolo hanno in comune una radicale negazione che li isola dagli altri, qualcosa che i tempi stanno maturando e […] si rivela con Bazarov, il protagonista di Padri e figli di Turgenev (1862). Si rivela quando viene pronunciata una parola inventata appositamente per lui da Turgenev […]: nichilista» [31]. Estraneo – superfluo – sottosuolo – nichilista… Meraviglia che Anders (come dicevamo aprendo questa riflessione) non possa immaginare che una ontologia della rapina come fondamento costitutivo del rapporto uomo – mondo? Vuoto dentro, l’uomo si affolla delle cose che scippa al mondo! Il nichilista è come Stirner: fonda su nulla la propria causa! Va avanti unicamente per garantirsi il godimento. Avanza nel tempo senza meta, né direzione poiché ha chiuso i rapporti con la verità e si stordisce nel ludico del consumo (Baudrillard) per non avvertire il richiamo della propria interiorità devastata [32].

L’uomo è un vagabondo senza il bagaglio delle certezze che, un tempo, potevano orientarne il cammino. C’è un’ansia, una insofferenza verso ogni luogo perché la méta pare essere la stessa erranza. Il nomadismo è una categoria alquanto frequentata dal lessico filosofico postmoderno. L’uomo rizomatico (Deleuze – Guattari) che, come il rizoma, si espande indifferentemente in tutte le direzioni va soltanto via di qua, ma nulla sa riguardo alla meta. Un brano tratto da un racconto di uno scrittore praghese del Novecento ci aiuta a comprendere. Un servitore chiede al padrone: «“Dove vai, signore?”. “Non lo so” risposi. “Pur che sia via di qua […], sempre via di qua, soltanto così posso raggiungere la meta”. “Dunque sai qual è la tua meta” osservò. “Si”, risposti. “Te l’ho detto. Via-di-qua; ecco la mia meta» [33]. L’uomo che ha come meta unicamente il via-di-qua, in fondo, è un uomo in fuga! Malgrado le minacce alla consistenza ontologica del soggetto, nonostante i rischi insiti in una antropologia come quella proposta nella letteratura russa, in tanta filosofia occidentale non più zavorrata da certezze granitiche sia epistemiche che teologiche, occorre sapere questo: l’uomo non può smettere né di “vivere”, né di “pensare”, né di “credere”. Essere consapevoli dei rischi non giustificherebbe in alcun modo l’abdicare dal compito di umanizzarsi sempre più! Un pensatore (studioso di antropologia culturale) francese, legato allo Strutturalismo (vi accenneremo tra poco), corrente di pensiero avversa all’uomo per come è stato pensato nella filosofia occidentale fino ad ora, ebbe a dire che il compito dell’uomo consiste nel «vivere, pensare e credere, soprattutto aver coraggio, senza che lo abbandoni mai la certezza contraria che egli non era presente sulla terra un tempo e che non lo sarà sempre e che, con la sua scomparsa […], le sue fatiche, le sue pene, le sue gioie, la sue speranze e le sue opere, diverranno come se non fossero mai esistite» [34].

IX

Davvero una bella sfida rimanere saldi nel vivere – pensare – credere sapendo di essere destinati a scomparire e, con noi, tutto quanto abbiamo operato! Non che la parola dello Strutturalismo sia infallibile; non che Lévi – Strauss debba avere ragione per forza; tuttavia, interroghiamoci: siamo abbastanza forti da fare quelle tre cose fondamentali convivendo con la certezza contraria del nostro futuro annientamento? Ebbene, malgrado proclami come questi e tante situazioni storiche che pare le convalidino, si continua a vivere, a pensare, a credere. Aveva ragione, dunque, un pensatore ateo e non meno disperato di Lévi – Strauss a scrivere che «in mezzo ai flagelli ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare» ? [35]. Una antropologia del rischio non deve nutrirsi unicamente della certezza contraria al vivere, al pensare ed allo sperare e, cioè, di quella certezza che dice di un “futuro senza l’uomo” che, d’altronde, non fu presente sulla terra “un tempo”; il progetto – uomo non va buttato alle ortiche: va rivisto nella consapevolezza che diventare uomini, cercare il significato della vita è, come sopra dicevamo con Enzo Paci, una conquista da compiere ogni giorno! Il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder – uno dei padri dell’antropologia filosofica – ha lasciato un insegnamento prezioso da incastonare in questo mio segmento riflessivo: non siamo ancora propriamente uomini, ma lo diventiamo quotidianamente. Qui sta il rischio, qui risiede la bellezza della nostra esistenza.         

SECONDA PARTE

Freud, criticando il marxismo, sosteneva che esso non ha tracciato la vita per uscire dal male: abolita la proprietà privata, infatti, al desiderio umano di aggressione toglie appena uno dei suoi strumenti e non il più forte. L’Eros eterno contro la minaccia di distruzione (altra immortale) ingaggia, come riportavo nella prima parte, una lotta dagli esiti imprevedibili. L’imprevedibilità, d’altro canto, nel Novecento si situa nel cuore stesso della concezione filosofica della storia. Foucault, infatti, si oppose al ‘mito del progresso’; la storia, piuttosto, è discontinua ed aperta a tutte le soluzioni. L’insensatezza sul piano storico si riscontra anche nel soggetto che non è più padrone in casa sua grazie alle nuove teorie psicoanalitiche che prendono corpo in un tempo già in crisi. Jacques Lacan, ad esempio, sostiene che a parlare, in quanto soffre, è l’inconscio (che il nostro autore definisce il capitolo censurato) e non il soggetto. Ad esso, per Lacan, sfugge la verità della propria storia. È nota la formula: io penso dove non sono, sono dove non penso! In queste aporie, perplessità, il soggetto è fortemente a rischio riguardo alla propria “identità”. Negli ultimi anni della sua vita, lo psicoanalista francese venne avviluppato nelle spire di un cupo pessimismo. Dichiarava: non v’è alcuna specie di speranza. Almeno io, io non ne ho. Era questo il motivo che gli faceva ammettere che la religione vince sulla psicoanalisi: il senso – diceva – è sempre religioso! Una tavola per il soggetto naufragante nel “non – senso”. La religione, per Lacan, esiste per guarire gli uomini. Con lo Strutturalismo, poi, sono le strutture (lingua, inconscio, rapporti di produzione…) a formare l’io. Esso è “agito” dalle strutture! Marx, ad esempio, disse che i rapporti di produzione, reali, determinano gli ideologici rapporti tra le coscienze. Gli individui, così, sono soltanto gli effetti delle strutture (Althusser). L’uomo è possibile – incalzava Foucault in una intervista a Paolo Caruso – grazie ad un insieme di strutture che può pensare e descrivere senza però potersene ritenere la coscienza sovrana. Ne Le parole e le cose, l’autore, scrisse: Oggi, possiamo pensare soltanto nel vuoto lasciato dalla scomparsa dell’uomo. L’uomo rischia di scomparire dalle scene dei saperi. Lévi – Strauss rincarava la dose sostenendo che, come non ci fu all’inizio del mondo, altrettanto l’uomo non ci sarà quando esso finirà. Il male sta nel fatto che lo Strutturalismo ha mutato un principio euristico in un articolo metafisico: ha convertito una metodologia in ontologia mettendo a rischio – almeno dal punto di vista epistemico – il “soggetto”. Lévi – Strauss, poi, accusava l’Esistenzialismo di essersi occupato del Singolo: lo studio del mondo umano, invece, nell’ottica strutturalista, non si interessa al ‘vissuto’, alle ‘coscienze’, bensì alle strutture inconsce ed invarianti sottese alle varie culture.
L’inconscio lacaniano, poi, ça parle (“esso parla”): non parla il ‘soggetto’, insistiamo, ma il linguaggio (dell’inconscio) parla in lui. Per Lacan si dà un soggetto barrato S attraversato da una dimensione non riconducibile all’io. Nel Poststrutturalismo (o Neostrutturalismo), infine, acquistano centralità la volontà di potenza (Nietzsche) e le pulsioni istintuali (Freud). Quanto tende ad arginare i due elementi va rimosso per attaccare, ecco il fine di tutto ciò, la razionalità di stampo cartesiano. Nel pensiero di Gilles Deleuze pure v’è il primato dell’inconscio; la differenza, invece, sta nel fatto che questo autore non è interessato a rintracciare strutture, ma predilige le variazioni, le anomalie. Come Nietzsche, poi, descrive il mondo umano come ‘mondo senza soggetto’, costituito, piuttosto, da molteplici centri di forza operanti su diversificati mille piani. Il soggetto, come si comprende, è scomparso!

I

Nei primissimi mesi del 1973, alla “Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti” di Napoli, il filosofo Pietro Piovani presenta un testo al quale, confessò, era molto legato. Anni di maturazione e ben quattro di studio e scrittura lo precedevano. Il testo si apre con una dichiarazione piena di ottimismo: se il soggetto può interessarsi all’oggettivo ciò viene reso possibile dalla fiducia nel sicuro possesso del soggettivo:
«L’immersione totale nell’oggettività presuppone […] questa confidente garanzia soggettivistica. Posso abbandonarmi perché mi so recuperabile o almeno domino le maniere del recupero possibile» [36]. Il soggetto si mette in discussione, si arrischia a mettersi a distanza da se stesso e ad interrogarsi e ad interrogare, perché ha fiducia di potersi ritrovare: «l’avventuriero di tutte le avventure soggettive, può correre perfino quella di un provvisorio apparente disinteresse per la propria soggettività» (cit. p. 11). L’essere certi di tenersi nelle proprie mani origina tenendo conto della stessa storia della filosofia, una sorta di epica dell’io: «l’uomo contemporaneo dispone di esperienze intellettuali che lo rendono edotto come non mai delle strutture della propria soggettività» (Ibid.). Per Piovani, esplorare il mondo viene consentito proprio da questa robusta erudizione riguardo a se stessi: «l’esplorazione della coscienza è stata l’antifatto della esplorazione dei continenti» (p. 12). In tanto fiammeggiare di iperboli riguardo alla saldezza del soggetto, pero, pure cala, per il nostro autore, lo spegnitoio di una consapevolezza dell’essere arrischiato del soggetto stesso. In un altro testo, infatti, egli vede l’esistenza come resistenza. L’uomo si sa esposto al rischio, ha paura e «si sente de – forme tra formati meglio compiuti. Si salva dei – formando […] la paure che lo terrorizza» [37].

II

L’uomo non riesce proprio a concepire l’appropriazione di sé in termini pacifici e rintraccia ovunque le minacce del caos. La vita è costantemente offesa (Adorno), minacciata intra ed extra moenia. Un filosofo ha chiesto: «Se l’uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo di ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente […]; se il fondo senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?» [38]. Ad autorizzare l’allestimento di una antropologia del rischio è esattamente la diffusa convinzione del pensiero contemporaneo che l’uomo non ha una ‘coscienza eterna’, che al ‘fondo delle cose’ vi è una anonima e minacciosa potenza: il fondo senza fondo, l’abisso è il non – suolo sul quale sta sbilanciato e tremolante un soggetto debole, destrutturato, arrischiato. Esso, così, pretende di combattere la volontà di potenza che lo illude e minaccia allo stesso tempo, accrescendo la propria potenza. Un esempio di quanto sostengo si rintraccia in un romanzo novecentesco nel quale, il protagonista, Achab, vuole trasformarsi in una sorta di superuomo nicciano e dà queste indicazioni ad un carpentiere: «Prendi nota […], sto per darti le misure di un uomo completo secondo un modello desiderabile. Astuto […]; poi, petto modellato come la galleria del Tamigi; poi, gambe con radici per starsene fermo; poi […], niente cuore; fronte di bronzo e un quarto di […] buon cervello; e… vediamo, ordinerò occhi perché veda all’esterno? No, ma metterò un osteriggio in cima alla testa per illuminare l’interno» [39]. La struttura del soggetto che vuole mettersi al riparo dal suo essere ontologicamente a rischio è pregna di intuizioni egoistiche, narcisistiche: l’astuzia e la fermezza, innanzitutto; poi, sguardo freddo come il bronzo e, mentre il cuore viene escluso, necessario è un buon cervello. Gli occhi, infine, non servono per guardare il mondo, ma dentro se stessi. Allestendo questi meccanismo di protezione, tuttavia, paradossalmente il soggetto si espone al rischio più grande: perdere ogni connotato che possa far parlare di umanizzazione dell’io.

III

La crisi dell’io e la crisi del mondo coesistono. Qualche secolo fa, già qualcuno parlava di minacce riguardo ad un mondo senza autorità consacrata. Esso, si diceva, pare stia tra due fuochi, due impossibilità: non si riesce a pensare ad un “passato” e non si è capaci di intravvedere un “avvenire”. Le promesse di certa filosofia moderna (leggi Hegel) non valgono più: non si va necessariamente, grazie ad una dialettica intrastorica dello Spirito, verso il Bene compitamente realizzato: «E non crediate – continua l’autore al quale mi sto riferendo – […] che se oggi stiamo male, da questo rinascerà il bene […]: i fatti sono del tutto logici soltanto per Dio, la cui giustizia ha davanti a sé l’Eternità per agire» [40]. La visione completa della storia non è attingibile da un sistema filosofico, sofisticato e compiuto quanto si vuole, ma appartiene a Dio. L’uomo non ha uno sguardo eterno, né staccato dal contingente… nessun soggetto parla da “nessun luogo” (Nagel). Viviamo nel rischio del transito: confusione riguardo al passato, incertezza riguardo al futuro. I legami, storici ed interpersonali, così, divengono labili, liquidi. Catturato in queste coordinate storico – spirituali, un giovanissimo testimone del nostro tempo, si uccise il 17 ottobre del 1910: aveva appena consegnato la sua tesi di laurea. Carlo Michelstaedter, mi riferisco a lui, alla sorella Paula, il 9 dicembre 1906, scriveva: «Un po’ è individuale, un po’ è la malattia dell’epoca […], perché ci troviamo appunto in un’epoca di transizione della società quando tutti i legami sembrano sciogliersi […], le vie dell’esistenza non sono più nettamente tracciate […] verso un punto culminante, ma tutte si confondono, e scompaiono, e sta all’iniziativa individuale crearsi fra il chaos universale la via luminosa» [41].

IV

Il soggetto, messo a rischio da un tempo incerto, desemantizzato, come può tracciare vie luminose nel cuore del caos? Deve vivere nel rischio stoicamente e conscio di doversi affidare ad una etica del rischio innervata della consapevolezza della propria finitudine; il soggetto, ormai, detto altrimenti, può solo «comprendersi a partire dalla propria finitudine» [42]. Ad intorbidare il lavoro su se stesso che compie il soggetto a rischio, poi, è una stranezza evidenziata magistralmente da un filosofo tedesco: posso avere – argomenta – la certezza di me ed, allo stesso tempo, la più profonda ignoranza riguardo a ‘cosa’, ‘chi’ sono. Per conoscersi, continua, il soggetto deve convertirsi in oggetto di sé: operazione che, avverte il nostro autore, non si realizza mai del tutto perché, quella che chiama la nostra direzione conoscitiva naturale, guarda all’esterno. Cosa fare? Il soggetto, «dato che non può abbandonare se stesso, dovrà in un certo senso dimenticare che ciò che deve essere colto è lui stesso. Dovrà, insomma, proprio nella dimenticanza di sé, concentrarsi, su se stesso» [43]. Il soggetto deve dimenticarsi di sé, farsi oggetto di sé, per concentrarsi su se stesso. Una procedura intricata. Alla base deve esserci, come dicevamo all’inizio di questa riflessione, la fiducia che il soggetto si allontana da sé perché può riprendersi. Nel nostro tempo la convinzione di Piovani e l’operazione ipotizzata da Hartmann vengono guardate con doloroso e profondo scetticismo. Siamo frammentati ed immersi in un mondo che possiamo cogliere solo per frammenti. Lo stato d’animo più diffuso oggi è stato denunciato da un logico austriaco mentre era sul fronte di guerra. Mentre veniva accompagnato in ospedale da un caporale, nei sui “Diari”, Wittgenstein, annotò: «Vedo dettagli senza sapere come si possano riconnettere in un tutto…» [44].

V

La questione è questa: vita e soggetto accomunati da una stessa crisi di senso! Già un filosofo pragmatista americano rilevava che l’uomo sta in un mondo aleatorio e, per questo, esistere rappresenta «per dirlo crudamente, un azzardo» (e chi ‘azzarda’, rischia); il luogo dell’uomo, infatti, per il pensatore americano è la «scena del rischio» [45]. La stessa banalizzazione incontro alla quale va il soggetto attualmente, incline com’è ad ossequiare la logica del desiderio fine a se stesso e la logica del consumatore, è un rischio: il non senso non è mai rassicurante [46]. Si fugge nelle seduzioni del virtuale, nella frenesia dei consumi, nei deliri del desiderio perché incapaci di fare i conti con la spigolosità del reale [47]. Il pensiero ha gelato le cose, per padroneggiarle, con l’arma della razionalità. La razionalizzazione, il disincanto del mondo ha prodotto – scriveva un poeta inglese – la perdita degli hall charms (di tutti gli incantesimi).
È bastato the mere touch of cold philosophy (appena un tocco di una ‘filosofia fredda’). L’arcobaleno era awful ‘venerato’ ed ora, studiato scientificamente, è finito in un dull catalogue of common things (noioso catalogo di cose). Il mistero è stato dissacrato, vinto dalla razionalità by rule and line (con regole e squadre) [48]. L’uomo è consegnato a quella che un letterato tedesco ha definito logischer Mechanisierung (meccanizzazione logica) [49]. Chi è ben avvertito delle tematiche filosofiche novecentesche sa che la “categorie di ragione”, dallo sconvolgimento teoretico nicciano in avanti, sempre più vengono considerata soltanto come «mezzi per accomodare il mondo a fini utilitari» [50].  La ragione, però, non può, con le sue architetture concettuali intricate e, spesso, ammettiamolo, intriganti, circondare l’inquietante che minaccia di rompere le dighe razionali per sommergere il soggetto. La ragione, infatti, dice uno dei suoi patrocinatori più agguerriti nella modernità – «ha il particolare destino di venir assediata da questioni che essa non può respingere, poiché le sono assegnati dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana» [51]. Né “respingere” misteri né “scioglierne”: ci sono cose, dunque, che vengono dalla ragione eppure la superano! Non si danno risposte in termini razionali, ma si tratta di questioni nelle quali ne va della vita! Amore, entusiasmo, Dio: sono queste – sosteneva Nietzsche – le seduzioni che spingono a vivere. La verità non è l’esattezza: la prima è ciò che è soltanto se diventa vita in noi; la seconda, invece, può abitarci e lasciarci – nelle profondità del nostro essere – come eravamo prima di acquisirla. Minaccia, invece, la curvatura estetico – retorica che la verità viene ad assumere nel postmoderno: è questo, infatti, il tempo, il clima culturale che conduce ad «aprirsi a un concezione non metafisica della verità, che la interpreti […] a partire dall’esperienza dell’arte e dal modello della retorica […]. Si può dire probabilmente che l’esperienza postmoderna […] della verità è un’esperienza estetica e retorica […]. Forse anche questo […] è un modo, sia pur ‘debole’, di fare esperienza della verità, non come oggetto di cui ci si appropria […], ma come orizzonte e sfondo entro il quale, discretamente, ci si muove» [52].

VI

Forse – scrive Vattimo – anche il modo debole di esperire la verità ne è esperienza; della verità, infatti, non ci si appropria perché non è un oggetto manipolabile a nostro piacimento. La verità è, piuttosto, l’orizzonte entro il quale ci muoviamo con discrezione, non con decisione. La filosofia, dunque, vagheggia un orizzonte, debolmente percepito, nel quale andare in punta di piedi e pensa di poter sostenere che, in qualche modo, si sta facendo esperienza delle verità. La debolezza della filosofia viene estesa (non si sa a che titolo il filosofo operi in tal modo) alla verità; non è questa ad essersi indebolita, ma la nostra capacità di cercarla arrischiandoci, correndo il solo rischio bello e degno di ogni nostro sforzo. Il pensiero filosofico, però, pur giustamente disincagliandosi dalle antiche presunzioni, non può gettarsi fiducioso nelle braccia del minimalismo teoretico: «La filosofia non può rifugiarsi in ambizioni ridotte. Essa mira alla verità eterna e non – locale, anche se sappiamo che non è ciò che riusciremo a ottenere» [53]. La citazione di Nagel va divisa in due segmenti: A) la filosofia non può ridurre le proprie ambizioni. Un pensiero che partisse dall’apologia della propria inadeguatezza darebbe l’impressione di ricorrere ad un trucco risibile: far passare la consapevolezza dell’essere ‘debole’ come la forza della capacità d’autocritica. Pensare, pare lo dicesse Ernst Bloch, significa oltrepassare! B) la filosofia deve mirare alla verità eterna e non – locale. Si deve stabilire sempre una meta prima di iniziare a viaggiare; essere vagabondi è altro dall’essere viaggiatori. Andare a zonzo è roba da sfaccendati, ma il lavoro filosofico non deve girare a vuoto. La meta è alta, nobile e ciò conferisce nobiltà anche ai percorsi. Infine, però, la consapevolezza dei propri limiti può esistere anche all’interno di uno slancio nobile e deciso verso la verità eterna. Scrive, infatti, Nagel: mirare alla verità eterna anche se sappiamo che non la raggiungeremo. Avvicinarvisi sempre più, tuttavia, resta una conquista non da poco. Il pensiero, chiaro, non è onnipotente, vincitore assoluto, ma sa che la vita – come diceva Platone – senza svolgere certe ricerche non merita che la si viva. È stato detto, a ragione, che «una profonda idea illusoria venne al mondo per la prima volta nella persona di Socrate, ossia quell’incredibile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere» [54]. Eliminare certe esagerazioni che, in un passato filosofico parevano posizioni teoretiche meritevoli di totale adesione, è un bene: spegnere del tutto nel pensiero la voglia di muovere verso la verità eterna e non – locale significa esporre l’uomo al rischio di perdere interesse per l’attività zetetica. La verità ridotta ad estetica e retorica rappresentò un guadagno agli occhi di Nietzsche: «La verità è brutta: abbiamo l’arte per non perire a causa della verità» [55]. Va precisato: l’arte – almeno quella alla quale faceva riferimento il pensatore tedesco – è ben altra cosa rispetto all’estetica nella quale si vuole diluire la potente carica semantica del termine verità. L’arte aiuta a vivere della verità ammantandola di Bellezza! L’acredine nicciana nei confronti della ragione, poi, non è che la registrazione della ormai dimentica sbornia egologica che ci eravamo presi suggendo succhi di soggettività autoreferenziale dal bocciolo della filosofia cartesiana. Fu a partire da Cartesio – dice un pensatore contemporaneo – che originò quella irragionevole Età della Ragione; da allora in poi, filosofi ed uomini comuni, non useranno la ragione, ma ne abuseranno [56]: «il compito di gran lunga più difficile e di primaria importanza per la ragione stessa è quello di comprendere razionalmente le proprie limitazioni» [57].

VII

La vita è sempre più ampia della logica: ci si può allenare nella palestra del pensiero fin quando si può e si vuole ma, alla fine, è nel confronto sul terreno del quotidiano che bisogna provare l’utilità dell’esercizio logico. Un filosofo basco, scrive: «la logica è l’arte della scherma che sviluppa i muscoli del pensiero […], ma che a malapena serve sul campo di battaglia» [58]. L’esistenza è rischio che nessuna cautela logica può significativamente limitare. Volere la libertà della ragione si accompagna, inevitabilmente, con la scelta dell’incognita. Scelta che fa di noi un uomo che «non può […] sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante» consapevole che «una meta finale […] non esiste». Un uomo simile, dunque, «non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare» e, per questo, a lui non resta altro che trovare «la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà» [59]. Mutamento e transitorietà sono vocaboli immancabili in una “antropologia del rischio”; il logos non è più potenza che raccoglie indizi di senso e li ricompone, ma nocchiero, che non si sa se definire coraggioso o incosciente, che tenta di resistere tra flutti che non ha causato e non può sconfiggere. Ci si deve dotare, piuttosto, per dirla con un filosofo italiano, di un logos della scissione [60]. Anni fa, ancora un pensatore italiano, parlò di dislocazione sia riguardo allo psico – esistenziale, sia in riferimento al filosofico – generale. Dislocarsi significa «abbandonare i paradisi artificiali (indipendentemente dai loro meriti storici) del Cogito cartesiano, del trascendentale kantiano, dell’Egologia fichtiana, e tornare nel mondo» [61]. Quali sono i “meriti storici” dei “paradisi artificiali” di natura teoretica? L’aver occultato, dietro i ben costrutti paraventi del cogito, del soggetto trascendentale, dell’Io dell’idealismo, l’aspetto più inquietante ed assolutamente arrischiante della realtà, del mondo. Da questi paradisi non più rassicuranti – perche siamo smaliziati – occorre distanziarsi, dis – locarsi. La metafora della terraferma non è più proponibile per parlare di ragione come indiscutibile forza da opporre all’immancabile irruzione del patico. È stata una necessità maturata nell’immaginario occidentale quella di ritenere che la ragione fosse una terraferma intoccabile, per nulla inquietata dall’urto di quanto di “radicalmente altro” la circonda: «Nell’immaginario occidentale la ragione è appartenuta per molto tempo alla terraferma. Isola o continente, respinge l’acqua con una testardaggine pesante […]. La disragione è stata acquatica […], fino a non molto tempo fa […]. La follia è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione» [62]. L’esterno liquido, l’acquatico non è più respingibile dalla ragione con testardaggine pensate. Quanto rappresenta un serio rischio per l’esistenza umana sommerge gli argini logico – razionali. L’uomo logico, con la “testa ben fatta”, proprietario di una ragione che poteva permettersi di tenere fuori di se stabilmente la disragione lascia il posto all’homo patiens (più credibile).  È una configurazione antropologica che tiene realisticamente conto di quanto diminuisce ed allo stesso tempo di quanto accresce il valore dell’uomo che è «quell’essere che ha scoperto la camera a gas, ma è anche colui che ci è entrato a testa alta e col Padrenostro sulle labbra, oppure con lo Sh’ma Israel» [63]. Un uomo che sa essere contemporaneamente “angelo” e “bestia” non è scisso? Lo si può raccontare per mezzo di un logos totalmente diurno, compatto? Se l’uomo è patiens, un cogito ferito, allora si tratta, continua in un’altra opera Frankl, psicoterapeuta che patì personalmente la persecuzione nazifascista, di combattere due ‘idoli’: «quello dell’attività e quello della razionalità […]. Si è dato ad intendere […] che con l’aiuto dell’actio e della ratio, la sofferenza, il male e la morte sarebbero stati eliminati dal mondo […]. Si è trascurata la passio e si è dimenticato che l’esistenza umana è un patire, una passione» [64]. La storia più recente, però, ha riportato al centro della scena la dimensione che Frankl lamentava perduta o, almeno, artificiosamente occultata.

Intermezzo teologico

Alla “morte di Dio” – aveva ragione chi profeticamente lo annunciava – si accompagna la “morte dell’uomo”. Dio, fonte di vita, se viene espulso dagli scenari mondani, non può che lasciare il posto al secondo termine del problema: la “morte”. Scrive un intellettuale francese del Novecento: «Dio è morto. Ciò significa che la sovranità passa alla morte» [65]. In primo luogo, la spinta religiosa non ha più il compito di conferire significato alla totalità degli esistenti, ma si piega a momento intimo ed assolutamente personale (esigenza psicologica). Il primo a discutere la questione entro questo registro è stato Schleiermacher [66]. Nel pensiero teologico del Novecento è venuto sempre più in chiaro che il deposito della fede non è un monolito che fornisce risposte preconfezionate a qualsiasi perplessità; il “dato”, piuttosto, va, con nostra coscienziosa e non lieve fatica, interpretato: «Il dato non è mai totalmente dato, ma va interpretato» [67]. Mai come oggi la fede esige lo sforzo della ormai indebolita (Vattimo, Rovatti…) ragione, della vituperata filosofia; riguardo al teologico essa – aggiungeva Mancini – «ha il compito di renderci esigenti» [68]. In realtà, tra le pretese – oggi assai contestate – della ragione filosofica e la pretesa di valere assolutamente per quanto concerne il deposito della fede, rimane lo spazio vitale della “preghiera”: una parola senza pretese, che si affida consapevole della povertà dell’essere e del suo bisogno di riscatto. Mancini definisce la preghiera «lo spartiacque tra il massimo filosofico del parlare di Dio, il portento della ragione, e il minimo teologico del parlare con Dio, che solo il dono dall’alto può assicurare e legittimare» [69].  Parafrasando Wittgenstein: ciò di cui non è dato parlare, va pregato! Mancini mise in discussione quello che chiamava il cristianesimo della presenza: nasce, a suo dire, dal risentimento dovuto alla paura di doversi articolare tra una serie di minacce al proprio credo. Cosa accade? O «ci si ritira in spazi propri ben gestiti»; oppure, si rifiuta di entrare in comunione con altri [70]. Questa forma di ‘vita cristiana’ che definirei ‘rattrappita’, conduce i cristiani «invece di navigare al largo, negli spazi comuni», a ritagliarsi «dei piccoli golfi» [71]. Detto altrimenti: il massimo rischio che corre oggi il cristiano (e, con lui, il cristianesimo stesso) è proprio la possibilità di scegliere di non arrischiarsi! Il cristianesimo, piuttosto, come propone Italo Mancini, deve dotarsi di una teologia esodale che valga «come uscita dal Dio zeusico e faraonico tanto vicino al trono dei potenti che fonda, per incontrare il Dio di Gesù, quello che […] ha la sua manifestazione nello splendore tenebroso della croce» [72]. La teologia non deve lavorare nella direzione della rassicurazione, non deve aiutare a rifugiarsi in “piccoli golfi”: deve faticare lungo un percorso esodale che, portando fuori dal Dio zeusico/faraonico, conduca al Dio di Gesù che meglio incontra l’uomo nello splendore tenebroso della croce. Un Dio onnipotente nell’amore e non unicamente nella potenza, scende tra noi. L’uomo pensa di essere diventato adulto e Dio, che ama il paradosso, si fa prima infante (il piccolo che nasce a Betlemme), poi, umile fino alla morte di croce! Italo Mancini – riflettendo anche su alcune pagine di Dietrich Bonhoeffer -, scriveva: «Può sembrare strano in questa teologia, il fatto di postulare per l’uomo forte e adulto un Dio crocifisso e impotente. Già, ma è lui che si è rivelato così […]. Se il Dio onnipotente atterrisce oppure crea l’ubriacatura del dominio, il Dio impotente attrae in un destino di partecipazione» [73]. Il Dio impotente invita alla partecipazione: al rischio, detto altrimenti, della relazione! Una provocazione simile è fondamentale per non arrischiare di ammantare di insignificanza le relazioni umane: mancando il modello della relazione Trascendente, si ha un impoverimento della dimensione interpersonale immanente. Difficile vedere fratelli e sorelle in altri/e quando non si ha un Padre comune. Il filosofo Gilles Lipovetsky disse che siamo nell’epoca dell’après devoir, del “dopo dovere”: non si danno più obblighi assoluti. L’uomo tende a voler essere, riguardo ai propri interessi (anche religiosi), sempre più “per se stesso” evitando, fatta eccezione per interesse economico o per esibizionismo, di affinare la propria “dimensione pubblica” [74]. Cosa ne è, infine, della fede in chi non si arrischia a fare seriamente i conti con il “Dio impotente”, con il “paradosso di un Dio crocifisso”, che rifiuta una “teologia esodale”? la risposta l’ha data un pensatore italiano che professa un cristianesimo da non credente: «Nel tempo della morte di Dio l’incarnazione si risolve/dissolve in simbolo, il cristianesimo in immenso materiale metaforico, la fede in estetica» [75]. Contenuti palesemente insufficienti, dunque, a garantirci dal rischio di scivolare in una insicurezza esistenziale dovuta ad una dimensione mancante: quella autentica della fede.

VIII

L’esistenza umana – per Heidegger – è impegnata in un “progetto” gettato: siamo stati gettati nel mondo! Decide l’Essere, non l’uomo: «Nel progettare, chi getta non è l’uomo, ma l’Essere stesso, il quale destina l’uomo nell’esistenza dell’esserci come sua essenza» [76]. Siamo quelli che domandano e l’oggetto della domanda. Oggi, però, dopo tanto aver detto e scritto sull’uomo, ne sappiamo davvero qualcosa?
Teniamo almeno aperta la “domanda” aiutati dal fatto che il nostro tempo, a partire dagli inizi del Novecento, ha conferito ampio spessore all’interpretazione, all’interrogazione facendo delle preoccupazioni e degli strumenti dell’ermeneutica un paradigma di valutazione della stessa esistenza. Il Novecento, in tutti gli ambiti del sapere, pullula di domande, inaugura aporie feconde [77]. È necessario attraversare lo spazio – per quanto infuocato possa essere – dell’interrogazione, in quanto le cose non possono non apparirci, in qualche misura, sensate; formarsi delle aspettative riguardo a quanto è minacciato di contingenza è la necessità di arricchirsi di fiducia. Chiedersi delle cose significa cercare ragioni per poterci fidare della consistenza dell’esistere evitando, così, di pensare che la nostra esistenza sia meramente “gettata” in der Welt (Heidegger): «È impossibile – scrive, infatti, un sociologo – vivere senza formarsi delle aspettative circa gli eventi contingenti ed è necessario trascurare […] la possibilità di una delusione […] perché non si sa cos’altro fare: l’alternativa è vivere in uno stato di perenne incertezza» [78]. Visto che non possiamo vivere senza formarci aspettative riguardo alla contingenza, dobbiamo correre il rischio: trascuriamo l’eventualità che tale sforzo vada incontro ad una “delusione”! Gettarci verso la formazione delle aspettative senza timore eccessivo per i rischi che un tale slancio potrebbe patire. Meglio arrischiarci in quanto potrebbe deludere che appagarci di inflazionate ed immeritatamente diffuse opinioni everebody’s guess (esprimibili da chiunque). Sottrarsi allo sforzo di formare aspettative non offre solo l’occasione di non patire delusioni; impone anche il rischio di scadere nell’insignificanza totale della nostra vita. L’uomo che vive solo per tenersi a riparo dalle delusioni, manca l’appuntamento con il senso dell’esistenza che si può solo, passo dopo passo, costruire (come un mosaico) come Homo viator. Mancato l’appuntamento col senso, nel Novecento, una scrittrice italiana ha ritratto l’uomo come un apolide sbalestrato dal caso, parcheggiato in una sala d’aspetto di confine in attesa di un treno che lo porti in nessun luogo. Cammina nel tempo come un pendolare ubriaco, girovagare interrompibile soltanto da un urto enorme e con la cessazione del traffico [79]. L’uomo è strutturalmente viator; è – direi con le parole di un pensatore basco – un faciendum, non un factum (Ortega y Gasset). Un uomo che si “fa” ininterrottamente e convocando per l’opera tutte le facoltà. In generale, nella storia del pensiero occidentale si è trascurato il “momento affettivo” che, invece, in molta filosofia contemporanea (pur dovendo con ciò registrare pericolose esagerazioni di segno opposto) viene evidenziato con decisione: «l’affettività è […] una specie di precomprensione; ancora più originaria della comprensione stessa» [80].
In ogni caso, l’emergenza del “soggetto” agli albori del “pensiero moderno” e le successive amplificazioni alle quali lo si è destinato, poi, hanno conosciuto una parabola discendente: l’io sovrano non era altro che un millantatore capace di hybris:
 «la hybris umana – scrive uno psicologo svizzero – elegge l’Io nella sua più ridicola meschinità a signore dell’universo […]. Il singolo Io umano è troppo minuscolo […] troppo impotente per potersi incorporare senza rimanenze tutte queste proiezioni dopo averle ritirate dal mondo. ‘Io’ e ‘cervello’ ne vanno in frantumi» [81].



IX

Lo studioso francese Alain Finkielkraut definisce l’individuo postmoderno un conglomerato disinvolto di bisogni passeggeri ed aleatori. Una svista letale ne minaccia la consistenza: «ha dimenticato che la libertà è cosa diversa dal potere di cambiare canale» [82]. A regolare la ‘civiltà spirituale’ rimane il principio di piacere e gli uomini, incalza il francese, non devono più preoccuparci in quanto soggetti da condurre all’autonomia, bensì interessa unicamente divertirli spendendo poco. Un tempo, le scelte erano esclusive; oggi, invece, trionfa l’eclettismo; c’è una sovranità totale dell’attore sociale postmoderno nel mischiare stili e infatuazioni varie, ispirazioni, l’una le altre contraddicendo, fanno di lui un soggetto leggero, mobile e non irrigidito in un credo o fissato in una appartenenza.
Finkielkraut vede una flessibilità assoluta dominare l’io che, per questo, passa agevolmente «da un ristorante cinese ad un club antillese, dal cuscùs al cassulet, dal jogging alla religione, o dalla letteratura al deltaplano». Impera un nuovo edonismo che mira non a costituire una ‘società autentica’, ma solo ‘polimorfa’ allo scopo di mettere «tutte le sue forme di vita a disposizione»  di ognuno di noi (pp. 103 – 104).
 In gioco non è il diritto alla differenza (opzione interessante), bensì quelle che il nostro autore definisce ibridismo generalizzato che tutto mescola, confonde indifferentemente lasciando apprezzare delle culture soltanto «la parte di esse che si può […] assaporare e gettare dopo averne fatto uso» (p. 104).
È un nichilismo rabbioso che conduce a mettere sullo stesso piano, come se fossero dotati di identico valore, un slogan pubblicitario ed una poesia di Apollinaire. A pensarci bene, dice il nostro autore, il pensiero postmoderno ha lo stesso obiettivo del Secolo dei Lumi: rendere adulto, indipendente l’uomo! C’è, però, una differenza e l’intellettuale francese la individua proprio nel deprezzamento della cultura che «non viene più considerata come lo strumento della emancipazione» ed il pensiero non è più un valore supremo. Il passo verso l’autentica crescita del soggetto viene a coincidere con la capacità di «trasformare in opzioni tutte le obbligazioni dell’età autoritaria» (pp. 107 – 108). Lo studioso francese dichiara espressamente che sarebbe una pia frode, un errore di valutazione affermare che le qualità oggi in disgrazia siano state, ieri, sul trono. L’unico elemento che colloca un gradino più in su il mondo di ieri è questo:
«gli uomini di cultura condannavano […] la tirannia del pensiero calcolatore, mentre la sua estensione postmoderna non suscita […] protesta alcuna» e, così, «l’intellettuale contemporaneo si inchina davanti alla volontà di potenza dell’industria dello spettacolo, della moda o della pubblicità» (pp. 111 – 112).  Il soggetto postmoderno prova invincibile allergia ai progetti totalitari eppure, paradossalmente, nemmeno si rende disponibile ad ostacolarli. Finkielkraut ne è profondamente convinto: la cultura è stata conquistata e sottomessa dalla barbarie, poiché l’industria dello svago – originata dall’età della tecnica – «riduce le opere dello spirito allo stato di cianfrusaglia» (p. 123). Soggetto, mondo, perdono sempre più consistenza trascinati dalla corrente, che tutto accoglie e tutto lascia indietro, dell’ entertainement! Tutto solo “intrattiene”. Questa è – come recita il titolo del saggio di Finkielkraut – la sconfitta del pensiero.

X

Un sociologo contemporaneo individua quello che definisce il marchio di fabbrica della società moderna: i suoi membri vengono rappresentati come individui [83]. L’identità, così, non è più cosa data, ma diviene un compito affidato unicamente ad ogni attore sociale. Viene in essere – scrive il nostro autore – una realizzazione do sé configurabile soltanto come «compulsiva e obbligatoria autodeterminazione» (p. 23).
Abbiamo sì una illimitata riserva di possibilità, ma a minacciarci è «l’irrilevanza della facoltà di scegliere» (p. 27). Tutto è possibile e tutta va bene! Ne deriva un corollario ad alto rischio: a fronte di «una libertà di sperimentazione senza precedenti»  si erge minaccioso l’onere «anch’esso senza precedenti – di sopportarne le conseguenze» (pp. 30 – 31).
Essere se stessi diventa una fatica insostenibile e può generare depressione. Siamo stati messi «nella condizione di dover giudicare da soli» e di autofondarci [84].
Un tempo erano contrapposti permesso e vietato; oggi, invece, ci lacera l’opzione possibile/impossibile. L’individuo ideale è quello che si arrischia nell’iniziativa. Il risultato, per Ehrenberg, non può che essere questo: l’uomo è «intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente se stesso» (p. 13).
La “depressione”, dunque, viene a configurarsi come, scrive lo studioso del profondo, istruttiva: riguardo all’«esperienza attuale delle persone», infatti, incarna «la tensione tra l’anelito a essere semplicemente se stessi e la difficoltà di esserlo» (p. 185). Tutto congiura affinché il soggetto si arrischi nella disistima verso se stesso; vengono messe in moto, addirittura, quelle che un pensatore cattolico del Novecento ha definito tecniche di avvilimento: consistono – spiega – nell’«insieme dei procedimenti usati intenzionalmente al fine di attaccare e distruggere nell’individuo […] il rispetto che egli può avere per se stesso» [85].

La speranza che rimane, credo, sia questa: a volte l’uomo può agire – specialmente davanti alla possibilità di distruzione – non conformemente a quanto impone la sua conservazione, bensì, conformandosi a ciò che richiede il suo significato (Ernst Jünger). L’uomo, dice ancora il pensatore tedesco, conosce una canzone ambigua: essa, infatti, allo stesso tempo tuona con orgoglio, ma pure supplica a bassa voce.
Siamo in tempi nei quali chiedere il Senso impone di elidere dalle nostre canzoni ogni ambiguità: l’orgoglio, ci ha rivelato a nostro danno la storia, non vale più di una supplica; “tuonare” cantando, inneggiando ad  una nostra potenza solo millantata è certo più rischioso che, a “bassa voce”, supplicare che la vita continui ad essere sempre più umana e l’uomo sempre più vivo!  



[1] Cfr., g. anders, L’uomo è antiquato, II), Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1982, p. 101.
[2] Ibid., p. 14.
[3] f. nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, VI/2, Adelphi, Milano 1972, p. 316.
[4] id., La gaia scienza, Opere V/II, Adelphi, Milano 1964, p. 213.
[5] Cfr., j. huizinga, Lo scempio del mondo, Rizzoli, Milano 1967, p. 629.  L’anelito alla vita deve combattere pericolosamente con una posizione necrofila che si agita sul fondo. Già Sigmund Freud ebbe a scrivere: «E ora c’è da aspettarsi che […] l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario [Thanatos, “istinto di morte”] altrettanto immortale, ma chi può prevedere se avrà successo è quale sarà l’esito» (Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1971, p. 280). L’esito della lotta tra Eros e Thanatos è incerto e, per questo, l’uomo è tragicamente a rischio!
[6] È il trionfo della “libertà” rispondere unicamente a se stessi? Credo che andrebbe ripresa la lezione del pensiero cattolico del Novecento e lasciarsi guidare, in questo caso, da uno dei suoi massimi esponenti la cui posizione è lontana anni luce dalla pericolosa superbia antropologica: «La mia libertà non scaturisce semplicemente, ma è […] rispondente ad un appello […]. L’uomo libero è un uomo che il mondo interroga, e che risponde: è l’uomo responsabile» (e. mounier, Il personalismo, AVE, Roma 1987, pp. 94 – 97). 
[7] Cfr., h. arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità, Milano 1967, p. 629.
[8] j. baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 1976, p. 284.
[9] ibid., p. 287.
[10] La convinzione di un filosofo tedesco ci conforta: davvero si può fare a meno del “mistero”? L’angoscia, direi, l’irrequietezza che comunque agita l’intimo dell’uomo consumatore non è l’allusiva denuncia di una nostalgia per una dimensione “sopita” piuttosto che “perduta”? «L’uomo non può più sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato […]. Non vive più in un universo soltanto fisico, ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione […] sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico […]. Ogni progresso nel campo del pensiero rafforza e affina questa rete» (e. cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura, Armando, Roma 1986, p. 80).
[11] Cfr., g. simmel, La legge individuale e altri saggi, Pratiche, Parma 1995, p. 48. Conoscersi autenticamente è uno sforzo da compiere convocando tutte le nostre forze poiché, aggirare questo ostacolo, rimane più rischioso che prenderlo in carica. La massima – guida è stata annotata da un pensatore e scrittore francese: «Bisogna entrare in se stessi armati fino ai denti» (p. valéry, Monsieur Teste, SE, Milano 1988, p. 30). 
[12] h. blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 1985, p. 27.
[13] g. simmel, Saggi di cultura filosofica, Neri Pozza, Vicenza 1998, p. 208.
[14] Cfr., m. stirner, L’Unico e la sua proprietà, Patron, Bologna 1982, p. 3.
[15] k. löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1949, p. 177.
[16] Cfr., g. marcel, La dignità umana ha le sue matrici esistenziali, Elle Di Ci, Torino – Leumann 1983, p. 71.
[17] Cfr., p. ricoeur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989, p. 94.
[18] m. stirner, L’Unico e la sua proprietà, cit. p. 353.
[19] ibidem.
[20] ibid., p. 48. Per Stirner Dio è davvero morto! Non ne parla! L’Unico è dio a se stesso. Il suo è vero ateismo, poiché, come ricorda un pensatore cattolico, c’è un segno inequivocabile per individuarlo: «Da quale segno si saprà che Dio è veramente morto? Lo sarà quando si sarà finito di parlarne» (è. gilson, L’ateismo difficile, Vita e Pensiero, Milano 1983, p. 22).
[21] Cfr., j. pieper, Speranza e storia, Morcelliana, Brescia 1969, p. 10.
[22] e. paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Bompiani, Milano 1988, p. 36.
[23] id., Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 87.
[24] id., Diario fenomenologico, Bompiani, Milano 1973, p. 42.
[25] id., Diario fenomenologico, cit. p. 90.
[26] Cfr., a. schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, Armando, Roma 1995, p. 36.
[27] È interessante, a questo punto, l’osservazione di un pensatore che si esprimeva prevalentemente con aforismi: «Quando le cose ci sembrano essere solo quel che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor meno» (n. gómez dávila, In margine ad un testo implicito, Adelphi, Milano 1996, p. 16). 
[28] Cfr., p. valéry, Cahiers, in Oeuvres complete, VIII, Pléiade, Paris 1973, pp. 466. 707.
[29] Un esponente dell’Idealismo era stato, in questo, un profeta: il potere sull’uomo si esercita quando gli si fa credere che non può essere se non come l’ha voluto chi lo ha fatto; se, dunque, gli si inculca l’idea di essere un prodotto unicamente umano, sarà facile imporgli il progetto che i suoi presunti “creatori” desiderano attuare nella storia. Scriveva il filosofo idealista: «Se vuoi avere un qualche potere su di lui [l’uomo], allora gli deve fare qualcosa di più che qualche discorso: devi fare lui stesso, farlo in modo tale che egli non possa volere diversamente da come tu vuoi che egli voglia» (j. g. fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Laterza, Roma – Bari 2003, pp. 21 – 22). 
[30] In a. gnolif volpi, I filosofi e la vita, Bompiani, Milano 2010, p. 208. In un mondo dominato, amministrato da una gelida ragione strumentale non vale forse la pena di tentare di inserire le provocazioni evangeliche? Non che il Vangelo sia un vademecum politico/ideologico infallibile, ma certo propone un modus vivendi poggiato su di una antropologia carica di nutrimenti pienamente umanizzanti. Scrisse nella Lettera enciclica Centesimus annus Giovanni Paolo II: «non c’è vera soluzione della “questione sociale” fuori del Vangelo» (n. 5). La ragione strumentale assume una posizione egemone tra le possibilità di rendere significativo il mondo perché crediamo alla ragione (è bene) fino al punto di concederle di deridere e di insegnarci a deridere il mistero (ed è male): «noi dobbiamo certo credere alla ragione, ma essa non dovrebbe impedirci di riconoscere un mistero, quando ci si fa incontro» (c. g. jung, Esperienza e mistero, Bollati Boringhieri, Torino 1982, p. 105). 
[31] Cfr., r. la capria, Lo stile dell’anatra, Rizzoli (BUR), Milano 2010, pp. 47 – 48.
[32] In un tempo affollato dalle voci di mercanti che promettono rimedi tecnologici alla nostra ansia di fondo, la chiamata (di provenienza Verticale od orizzontale che sia) del Senso a concentrarsi su di sé rischia di non raggiungere il nostro orecchio interiore! La chiamata alla “ricerca del Senso” deve avvenire entro modalità particolari. Mi sentirei di appuntare, per questa occasione, le parole di un pensatore tedesco: «La chiamata dovrà farsi sentire silenziosamente, inequivocabilmente, senza appiglio per la curiosità» (m. heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, p. 329). 
[33] Cfr., f. kafka, La partenza, in id., Racconti, Mondadori, Milano 1983, p. 454.
[34] Cfr., c. lévi – strauss, L’uomo nudo, Il Saggiatore, Milano 1974, p. 658.
[35] La frase colma di speranza, vale la pena ribadirlo, è venuta fuori, sorprendentemente, dalla penna di un pensatore assai scettico riguardo alle possibilità dell’uomo: a. camus, La peste, in id., Opere, Bompiani, Milano 1992, p. 615.
[36] Cfr., p. piovani, Principi di una filosofia morale, Morano, Napoli 1989, p. 10.
[37] Id., Oggettivazione etica ed essenzialismo, Morano, Napoli 1981, p. 79.
[38] Cfr., s. kierkegaard, Timore e tremore, Mondadori, Milano 1990, p. 27.
[39] h. melville, Moby Dick, Adelphi, Milano 1966, p. 575.
[40] f. rené de chateaubriand, Mémoires d’outre – tombe, IV Voll. Flammarion, Paris 1950, t. IV, Quarta parte, libro XII, 6, p. 585.
[41] Cfr., c. michelstaedter, Epistolario, Adelphi, Milano 1983, p. 158.
[42] Cfr., s. natoli, I nuovi pagani, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 8.
[43] n. hartmann, Il problema dell’essere spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1971, p. 134.
[44] Cfr., l. wittgenstein, Diari segreti, Laterza, Roma – Bari 1987, 29. 9. 1914.
[45] j. dewey, Esperienza e natura, Paravia, Torino 1948, p. 21. Se l’uomo è rischio ingiustificato, perché lottare in favore dell’esistenza? Chi vuole che l’umanità continui ad esistere, scrisse un pensatore – suicida, «vuole perpetuare un problema e una colpa» (o. weininger, Sesso e carattere, Bocca, Milano 1943, p. 329). Un collega e connazionale di Dewey, espressamente dichiarava: «L’esistenza è rischio» (w. james, La varie forme dell’ esperienza religiosa, Bocca, Torino 1954, p. 392).
[46] «L’uomo del capitalismo […] è […] il plebeo furbo, l’uomo medio qualunque, abitante delle grandi città» (g. deleuzef. guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p. 91).
[47] «L’uomo non sopporta troppa realtà» (t. s. eliot, Quattro quartetti, Garzanti, Milano 1986, I, pp. 44 – 45).
[48] Cfr., j. keats, Lamia, vv. 229 – 231; v. 235, in Poesie, Utet, Torino 1964, p. 132.
[49] Cfr., r. musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, p. 59.
[50] f. nietzsche, Frammenti postumi 1888 – 1889, in Opere, vol. VIII, t. 3, Adelphi, Milano 1974, sez. 14 [153], p. 125. La ragione, l’intelletto, laddove la filosofia moderna li ha elevati al rango di “questioni primarie”, vengono pure presentati come perpetuamente minacciati da forze oscure: «abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte, ma l’abbiamo anche misurato […]. Ma questa terra è un’isola […] è la terra della verità circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza» (i. kant, Critica della ragion pura, cit. da r. bodei, Scomposizioni, Einaudi, Torino 1987, p. 61).
[51] Cfr., i. kant, “Prefazione” a Critica della ragion pura, Utet, Torino 1967, p. 7. 
[52] g. vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, pp. 20 s.
[53] È la parzialmente confortante opinione di t. nagel, Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 12.
[54] Cfr., f. nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, pp. 100 – 101.
[55] f. nietzsche, Frammenti postumi 1888 – 1889, cit. sez. 16 [403], p. 289.
[56] Cfr., a. von hayek, Nuovi studi di filosofia e politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma 1986.
[57] a. von hayek, L’abuso della ragione, Vallecchi, Firenze 1968, p. 11. Il guasto che ne deriva sul piano antropologico (che è centrale in questa riflessione anche laddove si dà come sottofondo appena udibile) è che l’uomo abusa della propria ragione per sentirsi centro dell’universo, latore unico del senso di tutte le cose. Finiamo con il credere che l’essere animali razionali ci dia il diritto di regolare il ritmo dell’universo sul battito del nostro cuore (l’immagine la devo ad un poeta francese): «Il battito del nostro cuore, porta l’ora che indichiamo e che siamo […]. L’uomo soltanto non segna altra ora che la propria […]. L’aspetto dei cieli e della terra, il sole che tramonta tra le foglie queste stesse foglie, la luna sui crisantemi, sono conseguenza ed effetto del battito del suo cuore […]. Nuova astrologia! Non sono più gli astri a fissare il nostro destino […]; sono loro ad obbedire alla palpitazione» (dei nostri cuori) (p. claudel, Arte poetica, Libreria editrice milanese, Milano 1913, pp. 24 – 26).
[58] Cfr., m. de unamuno, Nicodemo il fariseo e altri saggi, Marietti, Genova 2001, p. 85.
[59] f. nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1992, vol. I, p. 304.
[60] Cfr., m. cacciari, Geo – filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 12. L’uomo è lacerato: è orfano sia di “ricordi” che lo rimandino ad una patria perduta, sia della “speranza” che gli faccia volgere lo sguardo verso una Terra Promessa. Sperimentiamo, continua l’intellettuale francese dal quale attingo, un divorzio dalla vita: è l’assurdo, un «esilio senza rimedio» (a. camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1998, pp. 9 – 10). L’esilio diviene la sola possibile condizione di vita e l’uomo “rischia di pietrificarsi nel puntiforme” proprio perché situato tra “mancanza di passato” ed “assenza di speranza verso il futuro”. Ha scritto una antropologa ungherese: «Il capitano Futuro s’imbarca verso il futuro, ma non approda mai» (a. heller, Teoria della storia, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 296). Il logos della scissione, allora, deve tentare, se non di frenare tutto questo, almeno di raccontarlo. 
[61] s. moravia, L’enigma dell’esistenza. Soggetto, morale, passioni nell’età del disincanto, Feltrinelli, Milano 1996, p. XIII.
[62] Cfr., m. foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste 1961 – 1970, vol. I, a cura di Judith Revel, Feltrinelli, Milano 1996, p. 74.  
[63] v. e. frankl, Psicologia e psichiatria del campo di concentramento [1961], in id., Logoterapia. Medicina dell’anima, Gribaudi, Milano 2001, p. 203.
[64] v. e. frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia 1998, pp. 85 – 86.
[65] Cfr., m. blanchot, L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1969, p. 334.
[66] La religione – scriveva – «non brama di determinare e spiegare l’universo nella sua natura […]. La sua essenza non è né pensare, né agire, ma intuizione e sentimento» (f. schleiermacher, Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che disprezzano la religione, Queriniana, Brescia 1989, p. 73). 
[67] Cfr., i. mancini, Teologia dei doppi pensieri, in l. sartori (ed.), Essere teologi oggi. Dieci storie, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 82.
[68] id., Teologia dei doppi pensieri, cit. p. 83.
[69] Ibid. p. 86.
[70] i. mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1989, p. 8.
[71] Ibid. p. 9.
[72] Ibid. p. 41.
[73] Cfr., i. mancini, Scritti cristiani. Per una teologia del paradosso, Marietti, Genova 1991, p. 91.
[74] Cfr., r. sennet, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Bompiani, Milano 1982. Si dimentica, così, una lezione fondamentale per ridurre il rischio di insignificanza della propria esistenza consegnata ad una egologia invincibile: «Tutto ciò che vive – scrisse un poeta – visionario – non vive solo, né per se stesso» (w. blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, SE, Milano 1997, p. 69).
[75] s. natoli, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1999, p. 38. È necessario tornare a credere che il negativo dell’esistenza, intendiamo a livello ontologico, sta a cuore a Dio. Privi di questa speranza, siamo ancora più soggetti al rischio di vivere la finitezza come tradimento cosmico, come una congiura da parte di non sappiamo “chi” ai nostri danni. La verità da riattivare nell’ambito del sentire cristiano è stata ben lumeggiata da un poeta francese: «Gesù, per nascere si è scelto/ Maria, la piena di grazia;/ ma per risuscitare si è scelto/ Maria (di Magdala), la piena di colpa» (p. emmanuel, Sophia, Seuil 1973, p.. 154. 
[76] Cfr., m. heidegger, Lettera sull’“umanismo”, in id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 290.
[77] Mi limito, qui, semplicemente a segnalare quanto dichiarò a Georges Altman lo scrittore francese Louis – Ferdinand Céline: «l’essenziale, in letteratura, è porre un interrogativo» (Céline e l’attualità letteraria. 1932 – 1957. Testi riuniti da Jean Pierre Dauphin e Henri Godard, Se, Milano 2001, p. 28). 
[78] Cfr., n. luhmann, Familiarità, confidare e fiducia: problemi e alternative, in d. gambetta (a cura di), Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino 1989, p. 127.
[79] e. morante, Aracoeli, Einaudi, Torino 1989, p. 7.
[80] Cfr., g. vattimo, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Bari 1989, p. 34.
[81] c. g. jung, Psicologia e religione, in Opere, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 93. Il fatto è che non si riesce più a pensare che possa darsi una verità indipendentemente dalle nostre capacità di generarla. Un filosofo, in una lettera, confessò: «Avevo bisogno di un a verità che non fosse mia creatura, ma di cui fossi io creatura» (f h. jacobi, La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, Laterza, Bari 1969, p. 15).
[82] Cfr., a. finkielkraut, La sconfitta del pensiero, Lucarini Editore, Roma 1989, p. 114.
[83] z. bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma – Bari 2002, p. 22.
[84] Cfr., a. ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999, p. 8.
[85] g. marcel, L’uomo contro l’umano, Volpe, Roma 1963, p. 40. 

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