Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

CINQUE PERCORSI VERSO IL SENSO DELLA VITA

Per l’essere parlante, la vita è una vita che ha senso: la vita costituisce anzi l’apogeo del senso. Così se egli perde il senso della vita, la vita si perde senza difficoltà: a senso infranto, pericolo di vita
(julia kristeva)

Ogni apparire è imperfetto: esso nasconde l’essere… L’imperfezione appare come un trampolino che ci proietta dall’insignificanza verso il senso
(algirdas julien greimas)

Vedi, è assolutamente necessario che diamo un senso alla nostra vita. Non quello che gli altri vedono e ammirano, ma il tour de force che consiste nell’imprimervi il sigillo dell’infinito
(emmanuel mounier alla moglie, 12 gennaio 1928)


Quand’ero un bambino che disegnava gli uomini nei suoi quaderni avevo un momento solenne. Era quando mettevo ai miei uomini gli occhi […]. Sentivo che davo loro la vita e sentivo la vita che loro donavo
(Paul Valéry, Cahiers)

Valéry, come tanti altri bambini, si divertiva a disegnare uomini; la sua sensibilità, però, gli faceva rintracciare – nell’innocente occupazione – un momento solenne: dotando di occhi quelle anonime figure gli pareva di conferire loro la vita. Una creatura che, in un passatempo, sente la vertiginosa gioia di un creatore. È una sorta di micrologia del senso: conferire qualcosa di sé all’altro; sì, fosse pure in un gioco da bambino! Allarghiamo, ricorrendo ad un aneddoto, il concetto: si muove alla “ricerca del senso” soltanto se ci si orienta verso altri per camminare assieme.
Come nel caso di Valéry, anche qui un adulto rievoca un gioco a lui caro nell’età della fanciullezza; ebbene, pure in quei perimetri apparentemente dominati dal disinteresse, dall’evasione, iniziano a maturare le responsabilità. Mai come nel nostro tempo, però, si tende a conferire valore ai legami liquidi, al disimpegno. Nel saggio Verità segrete esposte in evidenza, Elemire Zolla riporta la domanda che un padre rivolge al figlio: perché frequenta ambienti e persone che «non insegnano niente»? Il giovane, senza esitare, risponde: «Perché nessuno ti chiede di significare qualcosa». La sindrome di Peter Pan, purtroppo, è assai diffusa e ciò non incoraggia a cercare il senso.
Nello studio “Il divenire della personalità”, Carl Gustav Jung sostiene che l’uomo che non si impegna ad accrescere la personalità lascia che il senso della propria vita gli sfugga; aggiunge che è una fortuna il fatto che la natura abbia reso inesistente alla maggioranza dell’umanità la domanda riguardo al senso: «E quando nessuno domanda, non occorre che qualcuno risponda». Disimpegno nel “cercare” e “disinteresse” di trovare: ecco cosa nullifica le provocazioni del “senso”. In questo opuscolo, invece, domanderemo e ci sforzeremo di trovarne almeno qualche traccia. Iniziamo, allora, con l’esperienza di un intellettuale greco.
Il Professor Alexandros Papaderos – per spiegare cosa fosse la “ricerca del senso della vita” – ricorse ad un’azione simbolica. Estrasse il portafogli, ne tirò fuori uno specchio rotondo, grande quanto una moneta e disse:

 Ero bambino durante la guerra. Un giorno, sulla strada, vidi uno specchio andato in frantumi. Ne conservai il frammento più grande. Eccolo. Cominciai a giocarci e mi lasciai incantare dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli più bui dove il sole non brillava mai […]. Conservai il piccolo specchio e, diventato uomo finii per capire che non era soltanto un gioco di bimbo, ma la metafora di quello che avrei potuto fare nella vita. Anch’io sono un frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza. Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno. Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto. In questo per me sta il significato della vita.

Lo specchio della realtà non ci sta davanti integro, ma noi stessi ne costituiamo un frammento. Il senso (che è più del significato) della vita, allora, vive nell’impegnare il frammento che siamo in un lavoro di riflessione; non intesa come “ripiegamento in se stessi”: indica, qui, lo sforzo di riverberare sugli altri quanto della luce del senso riusciamo a catturare.
I percorsi che propongo derivano dalla mia esposizione alla luce intellettuale di alcuni autori che mi hanno insegnato qualcosa di importante: riverbero su di voi raggi di senso.
I cinque itinerari toccano aspetti della vita che, purtroppo, spesso sono scarsamente frequentati. Si tratta di educare i cuori a sentire la naturale bontà della vita attraverso una semina di idee, parole, esperienze intrise di pathos; sono infatti convinto che – per riprendere le parole di una scrittrice lettone invalida sin da bambina – la «bontà irradiata nel mondo ridesta semi dormienti in giardini sconosciuti» (Zenta Maurina Raudive).
Solo pochi tra quanti cammineranno sulle strade che traccio ho la gioia di conoscere, ma a chi per me è come un “giardino sconosciuto” auguro ugualmente di veder risvegliati i suoi “semi dormienti” di bene perché – all’insegna della ‘bontà’ e della maturità etica – possa godere di un raggio di luce dello specchio della realtà che io, frammento di essa, invio rileggendo alcuni testimoni della vera e piena umanità dell’uomo.


Percorso I. Affettività.
Cechov e la “memoria affettiva”

O anima mia, in te stessa e iscritto il senso fondamentale, come un’incisione indistruttibile
(Gregorio di Narek)

Per non mancare di cogliere il ‘senso della vita’ è opportuno, a mio avviso, coltivare una memoria che non sia meramente ragionieristica, ma piuttosto capace di tener deste le emozioni che ci hanno indirizzato verso la piena umanizzazione. Scomodiamo un racconto di Anton Cechov: Il violino di Rotschild. Il protagonista, Jakov, è un povero costruttore di bare. Una occupazione che evoca il suo mortifero modus vivendi: unica sua preoccupazione, infatti, è procurarsi denaro! Si garantiva guadagni extra suonando il violino. Aveva già perduto la moglie quando, un giorno, si reca presso il fiume che lo aveva visto in compagnia di lei e della figlia (morta in tenera età); ebbene, cosa riempie la sua mente?
In quel fiume, pensa, «sarebbe stato possibile organizzarci delle pescaie e vendere il pesce ai mercanti, agli impiegati, al ristorante della stazione, e poi depositare il denaro in banca; sarebbe stato possibile andarci in barca da villa a villa e suonare il violino, e gente d’ogni ceto avrebbe per questo dato del denaro; […] che capitale ne sarebbe risultato».
Il sociologo Georg Simmel sosteneva che il denaro ha la responsabilità di aver accentuato – nell’epoca moderna – gli aspetti quantitativi della realtà; ha creato, cioè, la mentalità calcolante elevandola a parametro assoluto sul quale misurare ogni aspetto del nostro vivere: «Mi sembra – scrive il nostro autore – che questa essenza dell’età moderna, fatta di misure, di pesi, di conti esatti […] abbia uno stretto collegamento causale con l’economia monetaria. Il denaro induce di per sé la necessità di continue operazioni matematiche nella vita quotidiana […]. Data l’essenza calcolatrice del denaro, nel rapporto degli elementi della vita si è affermata una precisione» che qui documentiamo continuando a raccontare le vicende del personaggio di Cechov.
Il capitale del cuore, le riserve di affettività sono del tutto assenti: nulla dei tempi felici vissuti con la famiglia torna alla memoria passeggiando lungo il fiume! Eppure, la moglie Marfa, poco prima di lasciare questa vita, gli aveva riscaldato la gelida e cronica amnesia affettiva:
«Ti ricordi, Jakov […], che cinquant’anni fa Dio ci mandò una bambinetta coi capellucci biondi? Noi allora stavamo seduti sul fiume e cantavamo delle canzoni… sotto il salice. E, sorridendo amaramente, aggiunse: ‘Morì la piccolina’. Jakov sforzò la memoria, ma non poté in nessun modo ricordare […] la bambina […]. ‘L’hai vista in sogno’, disse».
È già drammatico che la moglie abbia dovuto sollecitare il ricordo della figlioletta nel cuore desertificato del padre, ma è ancora più terrificante che questi debba sforzare la memoria e, lo stesso, non riuscire a ricordare. La memoria affettiva, dunque, non nasce, non si forma se non è concimata con l’amore, con un forte sentimento di gratuità; se il senso sta tutto nell’avere, quanto tocca l’essere viene minacciato di insignificanza e può addirittura svanire come un sogno.
Il primo passo per evitare le secche di una vita depauperata di ‘affettività’ consiste nel chiarire cos’è la ‘memoria’. Lo psicologo Aldo Carotenuto, offre un contributo prezioso: «la memoria […] non è un semplice serbatoio di informazioni, ma di informazioni ‘significative’. Un’emozione […] rende qualsiasi ricordo estremamente più duraturo e importante». Jakov non conserva il ricordo della figlioletta scomparsa anni addietro perché non ha irrigato di emozioni il contenuto della sua memoria e l’ha resa proprio meno di un “serbatoio di informazioni”.
La filosofa ungherese Agnes Heller, autrice del saggio Teoria dei sentimenti, interpretando questo racconto, sottolineava che le emozioni sono come giardini: vanno innaffiate! Quando si parla di “affettività” ci si imbatte nella questione del senso della vita perché essa non è un ornamento che potrebbe pure non esserci; non un ‘accidente’ che non muta la ‘sostanza’; piuttosto – come dice Carotenuto – va compreso che «la trama di cui è fatta l’esistenza è affettiva». Torniamo al racconto.
Quando la povera Marfa era prossima a morire, il marito la guarda con fastidio e pensa che sia ‘utile’ cominciare a costruirle la bara. Finito che ebbe il lavoro, ecco quale fu il suo atteggiamento: «si mise gli occhiali e scrisse nel suo taccuino: ‘Bara per Marfa Ivanovna – rubli 2, 40». Si noti il gesto lento, freddo: si mise gli occhiali; eppoi, sotto quale voce, nel taccuino (un rudimentale libro contabile), rubricò l’appunto? “Perdite”! La scomparsa della compagna, madre della figlia che nemmeno ricordava di aver avuto, viene liquidata in un appunto che tradisce una acribia ragionieristica che molto offende la dignità umana.
Come tutti quelli che non hanno, nei rapporti interpersonali, la capacità di accendere una relazione ricca di affettività, Jakov sapeva essere, su di un piano generale, portatore di istanze giuste e buone. Al medico che non aveva preso in considerazione le sofferenze della moglie, oppone: «A un ricco gli avrebbero applicato delle coppette, ma per un povero fanno economia di una sanguisuga. Mostri!». La sua interiorità, però, come sappiamo non era meno mostruosa. Voleva punire, criticare negli altri la non umanità che pure rodeva il suo cuore fino a disidratare completamente anche la memoria affettiva.
Ha detto Simone Weil: «Per avere il diritto di punire i colpevoli bisognerebbe anzitutto purificarci dal loro delitto, presente nell’animo nostro sotto impensati travestimenti».
L’indifferenza che il medico mostra verso Marfa perché, secondo il marito, povera, tarla l’interiorità dello stesso Jakov quando conteggia come perdita la bara costruita per lei. Dopo averla seppellita, però, tutto torna alla memoria. Lo stesso costruttore di bare, poi, si ammalò; si metteva spesso sull’uscio di casa a suonare il violino e, dice Cechov, veniva fuori «una musica lamentevole e commovente». Il male lo minaccia, ma pure inizia a redimerlo dalla propria secchezza emotiva. In Africa si dice che dalla ferita esce sangue, ma entra saggezza.
Stare sull’uscio di casa è la metafora di un’apertura al mondo; ora suonava per esprimere il suo dolore, non per danaro: ecco che la sua musica acquista una forza emozionale inusitata. Vide giungere da lontano un uomo che aveva sempre odiato, l’ebreo Rotschild che era, in quanto suonatore di violino, suo rivale.
«Vieni, vieni gli disse affettuosamente […] e gli fece cenno di accostarsi». Nella sofferenza si accorge che una ‘comune fragilità ontologica’ minaccia ed allo stesso tempo unisce tutti noi. Non pare più arduo raggiungere l’altro e farsi raggiungere perché gli alberi frondosi dell’egoismo cominciano a cadere nella selva oscura che fu il cuore di Jakov. Per restare nella metafora silvestre, diciamo che egli impara ciò che insegna un proverbio africano: il cammino nella foresta non è lungo se si ama chi si va a trovare.
Jakov esce dalla casa del suo egocentrismo, si esprime in musica ispirato da un sentimento di gratuità e, così, riesce a vedere nell’altro non più il nemico. Sta recuperando la memoria affettiva, ma anche un linguaggio emotivamente ricco: invita l’odiato ebreo, infatti, ad avvicinarsi e lo fa, precisa Cechov, affettuosamente. Prima di morire, in crescendo, Jakov dispose che il suo violino andasse proprio a Rotschild! Quando questi esegue la melodia che l’ex nemico proponeva nel mentre si riconciliavano, ne viene fuori un suono così straziante e commovente che «chi ascolta si mette a piangere». Gli abitanti del luogo chiedevano che la melodia venisse suonata almeno altre dieci volte!
La memoria affettiva, mantenuta intatta, rafforza il nostro spessore umano! Si tratta di scoprire che, come dice Gregorio di Narek, è una incisione indistruttibile il senso inscritto nell’anima; ma, per “scoprire”, occorre mettersi a scavare nella propria interiorità. Jakov lo ha fatto e si è salvato solo perché è andato sui sentieri dell’amore assieme all’antico nemico. Non ha più fretta di raggiungere il benessere economico ora che essere bene stare con gli altri. Egli sottoscriverebbe, senza esitazioni, quanto uomini saggi usano ripetere in Kenya: se vuoi arrivare prima, devi correre da solo, ma se vuoi arrivare lontano cammina con gli altri.


Percorso II. Etica
La distanza non annulla la responsabilità

Se non riusciamo a crearci un nuovo modello di vita, le prospettive della nostra civiltà si presentano […] sconsolanti.
(L. Mumford)

Eça de Queirós propone, nel racconto Il mandarino, la figura di un impiegato, Teodoro, che solo dedicandosi alla lettura trovava conforto alla sua buia esistenza. Una sera, leggendo il testo di un filosofo, urta una spigolosa questione: «stavo per cadere in una piacevole sonnolenza, quando questo strano periodo mi si distaccò dal tono neutro e spento della pagina spiccando come una medaglia d’oro nuova di zecca che brilli su un tappeto scuro». Nel momento in cui una piacevole sonnolenza pare stia per catturarci e consegnarci ad un totale abbandono, distacco dalla realtà, irrompe una provocazione etica. Ci si vede costretti a misurarsi con questioni di senso anche laddove l’esistenza pare scorra sui morti e gelidi binari della normalità. Cosa scuote Teodoro? Ecco il brano:
«All’estremo confine della Cina esiste un mandarino più ricco di tutti i re di cui narrano le favole o le storie. Di lui non si sa nulla, né il nome, né l’aspetto […]. Per ereditare le sue immense fortune basta che suoni quel campanello sul libro, lì al tuo fianco. In quei lontani confini della Mongolia, egli esalerà soltanto un respiro; sarà allora, un cadavere e tu vedrai più oro ai tuoi piedi di quanto ne abbia mai sognato la cupidigia di un avaro. Tu che mi leggi e sei un uomo mortale, suonerai il campanello?».
Si noti: sei un uomo mortale. Una precisazione pleonastica? No, dice una cosa importante: anche tu, come quel vecchio in Mongolia, sei destinato a morire; una sola fragilità ontologica vi affratella. Si può – per danaro – dimenticare che la distanza geografica non cancella l’umanità comune tra te ed il ricchissimo mandarino? Teodoro vorrebbe leggere oltre ma il diavolo lo invita a suonare il campanello: a chi giova la vita di un vecchio straricco e che, tra non molto, dovrà lasciare quanto possiede? Nel racconto di Cechov, il protagonista non ha un volto umano fin quando mette tutto sotto l’ala – che proietta ombre sinistre – dell’interesse economico. Jakov è distante dalla moglie e dalla figlioletta morta in tenera età perché ha disertato completamente la “memoria affettiva”, ma qui è la distanza geografica a valere come buon argomento a favore di chi toglierà la vita all’anziano cinese. Nel primo caso, disumanizzante è la distanza interiore fra le persone; nel secondo caso, invece, è la distanza misurata in chilometri a risultare non meno letale. Il diavolo, per convincere Teodoro, fa questo capzioso ragionamento:
«Una povera sartina di Londra desidera veder fiorire, nel suo abbaino, un vaso pieno di terra nera: un solo fiore consolerebbe quella poveretta; ma, sfortunatamente, nella disposizione degli esseri, in quel momento, la materia che lì doveva essere una rosa è […] un uomo di Stato. Arriva allora un delinquente […] e sgozza l’uomo di Stato; la corrente impetuosa gli porta via le budella. Lo seppelliscono con un corteo di carrozze; la materia comincia a disgregarsi, si mescola alla straordinaria evoluzione degli atomi e il superfluo uomo di governo va a rallegrare, sotto forma di viola del pensiero, la soffitta della bionda sartina. L’assassino è un filantropo».
L’argomento è fallace per più di un motivo. In primo luogo, la sartina sarebbe davvero contenta di veder spuntare una viola se sapesse che deriva da un assassinio? In secondo luogo, il delinquente non ammazza allo scopo di procurare un fiore a qualcuno. La sua filantropia – semmai si potesse parlare così – sarebbe il prodotto non intenzionale di un crimine. Teodoro, invece, sa bene che la sua ricchezza deriverebbe dall’aver – con un suono di campanello – ucciso un uomo senza nemmeno poterlo guardare in faccia. Egli, alla fine, suona il campanello! Molte pagine dopo – quando certi sillogismi sinistri ed ingannevoli – hanno perduto forza, ammette: «Lo avevo eliminato, da lontano, con un campanello. Era assurdo, fantastico, beffardo. Ma questo non sminuiva la tragica brutalità del fatto: avevo ucciso un vecchio!».
La distanza lo aveva permesso. Se il senso della vita possiamo cercarlo solo assieme ad altri, la vera ricchezza sono loro e non ciò che possiedono. Nell’era della globalizzazione basta davvero suonare un campanello a New York per causare un disastro dall’altra parte del pianeta. Crescono i mezzi della tecnologia, ma deperiscono i fini; si esportano merci, ma non si accetta che circolino uomini. Il principio guida per impedire che ‘globalizzazione’ e ‘progresso’ producano più guasti che benefici, è così formulabile: occorre non cieca opposizione al progresso, ma opposizione al progresso cieco. L’altro non è mai tanto lontano da poter giustificare una frase come questa: “non mi interessa!”.
Se permetteremo alle ‘distanze geografiche’ di annullare la consapevolezza di essere affratellati ad altri da comuni fragilità, non solo ne uscirà assai malconcio il nostro lavoro di umanizzazione, ma accadrà pure che la ricerca del senso sarà resa impossibile perché ognuno avrà ucciso l’altro attaccandosi al campanello del proprio egoismo che rende invisibile, sul volto d’altri, l’identità di fratello.
Mumford ha ragione: è necessario un nuovo modello di vita; modello – aggiungo – nel quale l’altro ci libera dalle prigioni egologiche.





Percorso III. Parola
Il linguaggio estraniante. Una lettera di Walter Benjamin

“Quando io uso una parola”, disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante,“questa significa esattamente quello che decido io, ne più ne meno”. “Bisogna vedere”, disse Alice, “se lei può dare tanti significati alle parole”. “Bisogna vedere”, disse Humpty Dumpty, “chi è che comanda… è tutto qua”
(L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie) 

Un diaframma impenetrabile tra noi ed il “senso” è costituito dal linguaggio estraniante. Si tratta di quelle famiglie di parole tipiche del burocratese, delle espressioni tecnico – formali che si rivolgono a persone ridotte a codici, sigle… Un semiologo russo, Juri Michailovic Lotman, scrive: «Il contatto con un altro ‘io’ è la condizione necessaria allo sviluppo creativo della ‘mia’ coscienza». Laddove non c’è vero contatto con l’altro, la coscienza si irrigidisce nel formalismo espressivo. Lo si può ben comprendere da una lettera di un filosofo ebreo del Novecento, Walter Benjamin – la cui vita conobbe il triste epilogo del suicidio. Egli sperava in un aiuto per riuscire a passare dalla Francia alla Spagna perché braccato dai nazisti. Dopo una marcia massacrante, giunse al confine, ma ebbe una amara sorpresa: le leggi erano mutate ed ora, per entrare in terra spagnola, occorreva il visto del governo francese! Poteva fare marcia indietro, ma sarebbe finito tra le braccia della Gestapo. In una lettera da Port – Bou, il 25 settembre 1940, scrisse: «non mi resta che farla finita». Assunse una dose elevata di morfina e si tolse la vita. Poco dopo il provvedimento venne revocato e i profughi entrarono – salvi – in Spagna! Possiamo dirlo: venne ucciso dalla ‘burocrazia’. Molto tempo prima, ironia della sorte, aveva già sofferto per il linguaggio estraniante di essa. È il momento, finalmente, di riportare la lettera alla quale, poco sopra, facevo riferimento:


Berlino, 11 agosto 1931.
All’intendenza di Finanza

Egregio Signore, con riferimento alla Sua missiva del 30 luglio 1931, mi consenta di comunicarLe quanto segue: da quando è stata inventata la scrittura, le preghiere hanno perso molto della loro forza; in compenso è aumentata quella degli ordini […]. Le preghiere scritte sono più facili da rifiutare e gli ordini scritti più facili da impartire […]. Per il Suo ufficio, questa considerazione di G. Ch. Lichtenberg dovrebbe rivestire particolare interesse poiché a darla alle stampe postuma fu […] un Direttore dell’Ufficio Imposte: il figlio dell’autore.

La lettera origina dalle mai superate difficoltà economiche che lo perseguitarono. Il denaro è ancora una volta la barriera insuperabile per incontrare l’altro. Poco conta che la frase che avrebbe dovuto intenerire il burocrate fosse del papà di un uomo che fu Direttore dell’Ufficio Imposte. Il linguaggio dei numeri, del dovere fiscale è, come spesso quello filosofico – scientifico, estraniante. Le sofferenze non vi trovano accoglienza.
Giuseppe Pontiggia aveva ragione a scrivere che il linguaggio usato «è la spia infallibile di ciò che accade nella mente degli uomini».
Chi è abituato al linguaggio estraniante non vede nell’altro che il cittadino, il contribuente. Cercare il senso della vita, invece, impone di accendere, tra le ombre di un tale linguaggio, lumicini che gettino scaglie di luce nelle pieghe dell’anima altrui.
Come il professore greco del quale ho parlato nell’introduzione, dovremmo catturare la luce per riverberarla sugli altri! Benjamin si sentì straniero nel mondo a causa della freddezza burocratica e, addirittura, ne morì.
Il campanello mortale suonato da Teodoro nel racconto del percorso precedente, stavolta è sulla scrivania di un funzionario statale che, mettendo a distanza l’altro, ha causato identico danno.
Si può andare verso il senso se non c’è un mondo comune, se non c’è una casa – linguaggio da abitare assieme agli altri? Asserragliarsi nel lessico dell’indifferenza – che sia la fredda contabilità di Jakov che rubrica il prezzo della bara costruita per la moglie sotto la voce ‘perdite’, o l’argomento del diavolo che convince Teodoro ad uccidere il vecchio cinese, oppure l’ordine forte e gelido impartito da un Ministero – significa rinunciare ad una vita autentica.
Se lasciamo il potere del linguaggio in mano agli  Humpty Dumpty, come Alice nel capolavoro di Carrol, ci toccherà assistere impotenti a violenze terribili sulle parole il che, inevitabilmente, si ritorce contro le persone alle quali sono destinate.

Percorso IV. Ospitalità
Filèmone e Bauci. Modelli per pensare l’altro

Divenire uomo è un’arte
(Novalis)

Nel Libro VIII della Metamorfosi, il poeta latino Ovidio, presenta due figure di anziani: Bauci ed il marito Filèmone. Sono modelli, in forma narrativa, da apprendere se vogliamo davvero imparare che il senso si cerca in modo intelligente solo quando si passa attraverso un retto modo di pensare l’altro per potersi, poi, ben relazionare con lui. Giove e Mercurio: due divinità il poeta mostra di passaggio in Frigia ed in cerca, per ristorarsi, di “quieta dimora”; purtroppo, «mille spranghe sbarrarono le porte».
I due immortali passavano per il mondo avendo assunto sembianze umane. Non riconoscere la divinità non è grave; gravissimo è non riconoscerla nel bisogno, nell’indigenza degli altri. Solo una piccola, povera capanna, «tutta coperta di paglia e di canne palustri», si aprì ai viandanti: era l’abitazione, appunto, degli anziani coniugi Filémone e Bauci. Nel Burundi c’è un detto: non è che manchi spazio alla casa, è che sono i cuori ad essere stretti.
Ovidio mostra la prontezza con la quale i due si dispongono ad accogliere:
«Come toccarono i numi la piccola soglia e col capo chino varcarono l’usciolo, li invita Filémone a porsi su un sedile». Bauci, dal canto suo, si preoccupò di riscaldare l’ambiente (non lo avevano fatto, prima, per loro stessi): «attizzò la ciniglia nel fuoco riscaldando la brace […] e col debole fiato soffiando produsse la fiamma».
Basta un debole fiato, un piccolo sforzo, per scaldare gli altri. Sul fuoco viene cotto un «piccolo pezzo di carne», ma l’attesa del pranzo fu riempita in maniera piacevole: «ingannano con delle chiacchiere l’ora e l’attesa». Prima del cibo, donano la parola: non cerimoniale, formale, bensì venata di affettività. Si noti quanta distanza c’è tra il dire del burocrate al quale appellava Benjamin ed il linguaggio caldo, sanguigno dei due anziani. Hanno cura particolare anche del riposo dei due misteriosi viandanti: le lenzuola loro offerte, precisa Ovidio, erano quelle che «solamente spiegare solevan nei giorni di festa». Ecco il punto: il senso della vita erompe dal fare in modo che l’incontro con l’altro sia una festa! Il poeta aggiunge una nota e mostra come la convivialità sia la sola cosa che allieti la vita dei due anziani: «v’è quel che più giova, il buon viso dei due vecchietti».
Meno ricchi di Jakov, di Teodoro (che almeno poteva comprare libri per alleggerire il peso delle sue ansie), meno ricchi dell’Ufficio delle Imposte che amareggiava Benjamin, sono pur lieti di offrire il loro poco ai due ospiti e nemmeno sanno che si tratta di divinità!
Il senso della vita sta nel salvare, condividendolo, il poco che si ha. La ricchezza viene dall’intelligenza del cuore. Heidegger scrisse a René Char: Was aber arm ist, selig Wahrt es sein Geringes (Ma ciò che è povero, salva serenamente quel poco che ha). Alla fine, la misera casupola verrà trasformata in un tempio. Quando i viandanti svelano la loro identità, chiedono ai coniugi cosa piacerebbe loro ottenere.
La richiesta è straordinaria: «vi preghiamo, poiché per trent’anni vivemmo concordi, che noi insieme moriamo né ch’io mai veda la tomba della consorte né che seppellire me debba mai Bauci!». Vennero, perciò, trasformati in due alberi, due «tronchi vicini». Ovidio conclude: «Vidi da vero i pendenti su i rami serti votivi e ponendovi anch’io freschissimi fiori dissi: - Dei buoni si curano i numi e chi onora è onorato». Il senso consiste, dunque, nell’ essere specchi che riflettono schegge luminose di bene nelle vite precarie perché l’onorabilità si merita onorando l’altro.
La lontananza, nell’episodio del vecchio mandarino cinese, giustifica un crimine; Jakov, nel racconto di Cechov, ha la moglie mancata da poco ed una figlia morta da anni fasciate in un gelido sudario imbevuto d’oblio terrificante; Benjamin muore per un disguido burocratico ed aveva sofferto qualche anno prima del linguaggio estraniante di un funzionario statale. Nell’umile stamberga di Filémone e Bauci, all’opposto, si rinviene l’onore dell’uomo: onorare l’altro pensandolo nel modo giusto per  accoglierlo nel modo giusto.
I due personaggi di Ovidio scoprono la gioia della convivenza e la trasformano, aprendosi all’altro, in convivialità. Oggi, purtroppo, la vita appare insensata perché si inizia col distruggere la vicinanza appassionata. Un filosofo del Novecento, Adorno, scrisse delle meditazioni sulla vita offesa – come recita il sottotitolo della raccolta Minima moralia; in una pagina evocò Filémone e Bauci e li paragonò alle coppie moderne:
«È difficile trovare una donna sposata da qualche tempo, che non sconfessi il marito divulgando le sue piccole debolezze. La falsa vicinanza stimola alla cattiveria».
Come non ci si può mettere alla ricerca del senso – che consiste nell’onorare gli altri – perché si vive falsamente la distanza, così ci si condanna ad una vita offesa dall’insensatezza quando si costruisce una falsa vicinanza.
L’esergo di questo percorso – affidato a Novalis – va accettato e completato:
divenire un uomo è un’arte: quella di incontrare l’altro.


Percorso V. La vita e la teoretica.
Quando il filosofo è padre.

Il risveglio della filosofia fu inizialmente un ‘entrare in ragione’. Ma quando la ragione si è ubriacata, il risveglio è un entrare nella realtà
(María Zambrano)

Abbiamo visto cosa accade quando l’uomo si avviluppa nelle spire di un linguaggio estraniante; ci siamo resi conto a cosa porti il cercare il senso nel danaro e come una falsa distanza possa tacitare la coscienza morale. Il discorso che il diavolo fa a Teodoro nel racconto di Eça de Queirós è, in buona sostanza, un suadente sillogismo per giustificare il male: che importa ad un giovane povero che, suonando un campanello, nella lontana Cina muoia un vecchio di cui erediterà le sostanze?
Che importa ad un burocrate se un uomo affoga in difficoltà economiche? Che importa ai potenti che una legge cambiata e ricambiata in poco tempo costi la vita a Benjamin? Non lo sapranno mai!
Capita, tuttavia, che anche insigni filosofi, quando la realtà morde con dispiaceri i loro cuori, abbandonino orgoglio intellettuale e preoccupazioni teoretiche per abitare in quanto davvero ha senso nella vita. Il reale oppone resistenze che non è bene dissolvere con sofismi.
Si rischia di finire come Jakov che diserta le pascaliane ragioni del cuore; oppure si diventa simili al burocrate che ragiona secondo il pascaliano spirito di geometria ignorando lezioni come quelle di Filémone e Bauci che vivono, all’opposto, ossequiando lo spirito di finezza. Un filosofo rumeno del Novecento ha detto: «Fornito soltanto di una coscienza teoretica, l’uomo si ammala nel vedere […] quanta resistenza vi è nel reale» (C. Noica).
Se ci si ammalasse sarebbe già qualcosa; spesso, purtroppo, non si prende sul serio l’opposizione della realtà alle elucubrazioni teoretiche.
In realtà, nemmeno il più acuto dei filosofi vive ininterrottamente distante dal reale e mummificato nella coscienza teoretica. George Perec ci invita ad interrogare «quello che ci sembra talmente evidente da averne dimenticata l’origine». Interroghiamo l’inumano che abita nel cuore del ‘nostro tempo’ proprio perché ammantato di una ovvietà che rischia di renderlo invisibile!
Nei luoghi concreti della vita risiede il senso che, solo a posteriori, possiamo indagare con la riflessione. Se Heidegger avesse scritto un’opera filosofica sulla ‘paternità’ in quale modo avrebbe lavorato? Domanda strana? Vedrete tra poco che non è così! Mi sia concessa, però, una premessa.

In un convegno tenuto nel 1954, il filosofo inglese Michael Dummett, pose una domanda: ‘è possibile che un effetto preceda la sua causa?’ A noi non interessa sviscerare tale quesito, ma solo ricordare un esempio che il nostro autore offrì per argomentare la sua tesi: un padre, venuto a conoscenza del naufragio della nave sulla quale viaggiava il figlio, prega Dio affinché il ragazzo non sia annegato.
Ora – dice il filosofo – ciò sembra assurdo:
«O tuo figlio è annegato, o non lo è. Se è annegato, allora di certo la tua domanda non sarà (non può essere) esaudita. Se non è annegato, allora la tua preghiera è superflua. Quindi in ogni caso la preghiera è vana: non può incidere in alcun modo sulla questione se sia annegato o no».

È un ragionamento che, dal punto di vista logico, non fa una piega. Chiediamoci, però: se ci fosse stato il figlio di Dummett su quella nave, avrebbe pensato allo stesso modo? Un papà – filosofo risponde per noi. Enrico Castelli, in un libro del 1969, Il tempo invertebrato, narra la sua seconda visita in Germania: doveva incontrare a Todtnauberg, nella Selva Nera, Martin Heidegger. Castelli comunicava all’illustre accademico l’offerta di aiuto del collega francese Jacques Maritain, allora ambasciatore a Roma presso la Santa Sede. Aiuto per cosa?
Due figli di Heidegger erano prigionieri di guerra dei russi e non se ne sapeva più niente.
La moglie del tedesco, con freddezza, rispose: “Inutile, grazie!”.
Forse, ipotizza Castelli, «il rifiuto aveva origine dalla presunta dignità di non accettare offerte da un invasore», dato che Maritain era francese! L’illustre marito come reagì? «taceva. Solo quando ci ha accompagnati alla teleferica che unisce l’alto piano della Selva Nera con Günterstal, mi ha detto quasi sottovoce: ‘Io desidererei l’intervento’, e su un tronco d’albero segato e umido ha scritto i dati necessari per le pratiche, e il suo ringraziamento. Era visibilmente commosso».
Si è accusato questo pensatore (non ci tocca, in questa sede, stabilire torti e ragioni) di essere un sostenitore del nazismo; era – come la moglie – un fiero tedesco di sicuro; ma, il suo spiccato senso di paternità, lo porta ad un benefico cedimento.
Dummett ha torto:
non è mai assurdo, inutile (solo perché tale appare da un punto di vista logico) pregare per la salvezza di un figlio. In molti hanno criticato duramente il linguaggio di Heidegger: fumoso, complesso, oscuro fino a farti stizzire; ebbene, qui le parole sono chiare e poche. Si può ragionare a certe altezze, parlare in modo aulico quando non si sa dove sono due figli partiti per la guerra?
Perché il filosofo scrive su di un tronco d’albero?
Spiega Castelli:
«All’amico che mi accompagnava ha parlato del commento al Sofista di Platone. ‘Ora la carta mi manca è molto difficile procurarsela’».
Solo dopo aver chiesto l’aiuto per i suoi figli parla di filosofia; la teoretica merita qualche accenno dopo che la vita ha ottenuto il centro della scena.
La carta mancava in quel tempo di guerra; per scrivere un commento ad un’opera filosofica è necessaria, ma per fornire i dati con i quali rintracciare due figli, basta un pezzo di tronco d’albero segato ed umido.
Le parole affettive, che erompono da quanto ci preoccupa perché veramente minaccia il senso della nostra vita, possono accontentarsi di supporti poveri, improvvisati. Le grandi occasioni del pensiero, della poesia conoscono spesso origini umili. Il poeta Brodskij, scrisse: «Si possono trascorrere 25 anni in campi di lavoro, o sopravvivere a un bombardamento di Hiroshima senza per questo dover scrivere una riga. Al contrario, una notte con una ragazza può far nascere liriche immortali».
Papà Heidegger sa – contrariamente al collega Dummett – che morti o vivi, è importante pregare (in questo caso non Dio, ma Maritain) per i propri figli. «Cominciava a cadere una pioggia sottile», conclude Castelli. Pare che evochi purificazione a beneficio di quel, talvolta, logos estraniante che è il logos filosofico: umidi gli occhi di papà – Heidegger; umido il pezzo di tronco; umida, bagnata la scena sulla quale la parola affettiva, il cuore e non l’intelletto sanno cosa costituisca il senso della vita. Il filosofo, tuttavia, accenna al suo lavoro; sì, ma – ripeto – dopo aver alleggerito il cuore aprendosi all’offerta di aiuto portata da Castelli.
Possiamo dire che, presso la teleferica della Selva Nera, è stato stipulato l’accordo tra pensiero teoretico e pensiero affettivo. La ragione finisce sempre – per riprendere le parole della Zambrano – nei momenti nei quali irrompe il patico, per superare la propria ubriacatura risvegliandosi alla realtà.

Siamo partiti dall’indagare l’affettività per mostrare come, senza una memoria del cuore, la vita diventi insensato ossequio alle cifre, alla contabilità esasperando le distanze che ci separano dall’altro anche se è, come la moglie e la figlioletta di Jakov, qualcuno che ci è stato assai vicino. La dimenticanza affettiva è una distanza, a volte, insuperabile e la vita non ha senso perché non si realizza come autentico convivere. Siamo passati, poi, a scoprire cosa accade quando sono le distanze geografiche a giustificare crimini e nefandezze. Davvero un altro è tanto lontano da lasciarlo morire con indifferenza? Si può trovare un senso alla propria vita se si tiene in sì scarsa considerazione quella altrui?
Teodoro, che uccide suonando il magico campanello il vecchio e lontanissimo cinese, non saprà darsi pace e si getterà nelle ortiche del rimorso per il resto dei suoi giorni.
Ci siamo accorti, poi, che disonorare le parole eleggendo un linguaggio estraniante fa sfuggire la concretezza umana dell’altro. Ha senso una vita nella quale gli altri sono soltanto codici fiscali?
Ci siamo fermati – dolce ristoro – alla capanna di vecchi coniugi. Filémone e Bauci mostrano come la realizzazione piena della vita, anche dopo la morte, dipenda dal saper coniugare una sana convivenza con una encomiabile convivialità. Pensare a se stessi nel modo giusto – insegnano – è possibile solo se pensiamo l’altro in maniera autentica. Infine, abbiamo incontrato due filosofi. Dummett, da un punto di vista squisitamente teoretico, mostra l’assurdità di pregare per un figlio che non si sa se è annegato o no nel naufragio patito dalla nave sulla quale viaggiava.
Ragionamento ineccepibile fino a quando è utile a sostenere la validità di una tesi filosofica; quando in pericolo erano i figli di Heidegger, filosofo come Dummett, le cose sono andate diversamente: ci si sottomette anche a chi ha invaso la nostra terra e si può scrivere su di un misero pezzo di tronco umido, segato una supplica a favore dei ragazzi dispersi in guerra.
L’augurio è che non si smarrisca – virtualmente – quel pezzo di tronco e, con il professor Papaderos che aveva conservato lo specchietto come metafora di quello che avrebbe dovuto fare nella vita (vedi l’introduzione) – ci si ricordi che il senso della vita è scritto, racchiuso nei materiali poveri, nelle pieghe della realtà quotidiana.Guido Ceronetti, ne I pensieri del tè, scrive:
«Le foglie stanno volando via dal mondo e sopra c’erano dei messaggi e degli enigmi che non abbiamo decifrato […]. Non abbiamo letto che dei libri».
Noi, Heidegger, Dummett, abbiamo letto libri e pensiamo, spesso, che basti… questi cinque percorsi testimoniano il contrario.
Sul pezzo di tronco ricevuto da Heidegger, sulle foglie che stanno andando via dal mondo vi sono messaggi ed enigmi che abbiamo privato della nostra interpretazione convinti di rintracciare il senso in contenitori più appariscenti.
Da oggi in poi, non sia più così. Si lavori affettuosamente col “poco che siamo” e col “poco che abbiamo” per onorare gli altri.
Ripetiamo le parole di Papaderos affinché diventino il manifesto programmatico del nostro vivere sensato e ricco di significato:
Anch’io sono un frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza. Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno. Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto. In questo per me sta il significato della vita.

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