Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Teologia e Storia (Due)


Ciò cui tende la religione non è la conoscenza razionale della realtà originaria (Weltgrund), è la salvezza dell’uomo mediante una comunione di vita con Dio (m. scheler)

Nessuna religione possa morire prima di aver potuto dire l’ultima e più profonda sua parola (r. otto)
***
Iniziamo la seconda parte della nostra riflessione sui rapporti che intercorrono tra Teologia e Storia citando un teologo olandese:

«Una delle caratteristiche principali della nostra epoca è la sua opposizione al razionalismo dei secoli passati […] si va affermando un nuovo orientamento, la cui idea forza si esprime nella formula: “Verso il concreto!” […]. Al pensiero puramente concettuale, si oppone oggi l’“esperienza vissuta […]. Per molti pensatori moderni, il solo “significato oggettivo” che si possa attribuire alla realtà è che essa acquista un senso in rapporto all’uomo» [i].

L’Iperuranio platonico viene abbandonato anche dalla teologia che, nel Novecento, si vede investita di quesiti sconvolgenti; dal Terzo Mondo sale il grido di quelli che uno studioso definì i “dannati della terra”, i quali non possono accettare il Dio – ragnatela della Scolastica; quel Dio, cioè, prigioniero delle sottili, inestricabili tessiture noetiche che Lo confinavano in un ambito metafisico troppo lontano dalla sensibilità degli uomini con “nome e cognome”! I teologi, come i filosofi, vadano “verso il concreto”, assumendosi l’onore e l’onere di compromettere il Vangelo con le “realtà terrestri”. Al Concilio Vaticano II, fu lunga la disputa che condusse, il 18 novembre del 1965, ad approvare il Decreto Sull’apostolato dei laici; il capitolo 2, n. 7 contiene un segmento di riflessione che si salda agli interessi che mi impegnano in questo saggio:
«questo è il disegno di Dio: che gli uomini con animo concorde instaurino e sempre più perfezionino l’ordine delle realtà temporali. Tutte le realtà che costituiscono l’ordine temporale […] non soltanto rappresentano i mezzi con i quali l’uomo può raggiungere il suo fine ultimo, ma hanno un valore proprio […]. È compito di tutta la Chiesa attendere a che gli uomini siano resi capaci di informare rettamente tutto l’ordine temporale e di indirizzarlo a Dio per mezzo di Cristo».

Le realtà temporali sono il campo di lavoro dell’uomo che prende in seria considerazione il disegno di Dio. L’uomo, per mezzo di esse, realizza lo scopo ultimo per il quale è stato creato ma, precisa il Concilio, di là di questo, le realtà terrestri hanno intrinseca dignità! La Chiesa, poi, è chiamata all’attesa: gli uomini solo ‘gradatamente’ diventano capaci di dare forma giusta, ordinata al temporale per consegnarlo a Dio con la mediazione di Cristo. L’attesa richiede che la teologia conforti gli uomini che, con fatica, realizzano il “disegno di Dio”, irrobustendo le “ragioni” della Speranza che li ispira.

Uno studioso di Teologia Pastorale (giovanile), parte da un concetto – base: quanto deve dare conto della speranza cristiana non può aver paura di vestire di ‘razionalità’ il proprio operare; la razionalità – precisa il nostro autore – è essenzialmente comunicativa. La prova va rintracciata nella radice linguistica del termine: vi è implicato il logos! Il ragionamento si fa discorso e solo in questo modo può esistere. Ragionare intorno alla fede, poi, rispetta in pieno il programma del pensiero moderno per come l’ha tratteggiato (sopra) Schillebeeckx: si “va al concreto!”. La fede cristiana poggia sempre i piedi sulla terra:

«la rivelazione o ciò che Dio ci comunica […] la risposta delle comunità cristiane guidate dal magistero apostolico… non si trovano mai allo “stato puro”, esistono sempre all’interno di una interpretazione limitata» [ii].
Ogni comunità interpreta il “deposito della fede” secondo caratteristiche proprie, ma senza snaturarne l’essenziale; la comunicazione di Dio non arriva allo stato puro.
Da qui la necessità di accostare due “momenti teologici”: se alla “Teologia Sistematica” spetta – continua Moral – il compito di riflettere sulla fede inaugurando nuove categorie e schemi concettuali, alla “Pastorale”, alla “teologia della prassi”, corre «l’obbligo permanente di verificarli nell’esperienza quotidiana delle persone e delle comunità» (cit. p. 65). 
Il pensiero forgia ‘categorie’, allestisce ‘sistemi’ per ‘rendere ragione’ della nostra speranza; è la prassi, la teologia che vive nelle comunità e si nutre dei contributi esperienziali di esse a sottoporre a severa verifica l’armamentario concettuale della “fede pensata”. Nelle storie, non solo nella Storia, detto altrimenti, va messa duramente a prova la bontà, l’onestà ed il valore della teologia elaborata a tavolino. Il sapere rende meno naturale il mondo e sempre più culturale: «il mondo – precisa Moral – è adesso definito più come storia che come natura» (p. 162). Se c’è “mondo” lo si deve agli intrecci narrativi (politici, filosofici, religiosi…) prodotti dalla cultura, dall’uomo. Il mondo, così definito, spinge la teologia a dotarsi di una ragione che ci mostri «che è la storia il luogo fondamentale dove Dio incrocia gli uomini […]. Questa storicità del rapporto Dio – uomo non ci permette di vivere unicamente di rendita […]; perdere la temporalità ridurrebbe la fede cristiana a mero spiritualismo» (cit. p. 191). La teologia, spingesse verso una concezione della fede a – storica, disincarnata condannerebbe il Cristianesimo ad una irreversibile e letale degenerazione.
Stabilito che fede e ragione  non sono contrapposte (la razionalità è discorsiva tanto quanto la narrazione teologica), va detto, aggiunge Moral, che conoscenza della fede è più che mero atto cognitivo; è, in più, una conoscenza di vita! Sottolineare con forza la base antropologica, il lato umano della fede «altro non è che insistere nel bisogno di incarnazione che caratterizza l’esperienza cristiana» (p. 198).
L’Incarnazione è centrale:
l’umanità di Dio giustifica l’attenzione costante ed appassionata che il teologo riserva all’humana conditio. Una volta per tutte, nel Verbo fatto carne, Dio ci sceglie ed elegge le “realtà terrestri”, la Storia a proprio gradito domicilio. Il teologo deve muovere “ora” e da “qui” per comprendere la “scelta di Dio”; si tratta, per Moral, di attivare nel ‘presente’ una logica ermeneutica per chiedersi «come si muove oggi la salvezza che ci viene da Dio in Gesù» (p. 199). La salvezza si muove oggi perché la fede è dinamica perenne che, qui ed ora, ci riguarda e chiede la nostra ‘comprensione’ attraverso uno sforzo ermeneutico, interpretativo.
Una ermeneutica della fede avviene con parole umane, ma questo non è un limite per il quale disperare; in fondo, conclude il nostro autore, non solo «parliamo di Dio con parole di uomo, ma al di sopra di tutto è il concetto di essere umano che delimita anche l’immagine e le categorie con cui presentiamo l’essere divino» (p. 221). Le parole d’uomo raccontano ed interpretano la Storia alla luce di Dio: Egli offre una salvezza che si muove in un oggi eterno attraverso l’Incarnazione, Cristo che è – dice l’evangelista Giovanni - l’Ermeneuta del Padre e la Sua manifestazione storica.

Simone Weil intitolò un suo libro Attesa di Dio. Un drammaturgo scrive nel Novecento Aspettando Godot (allusione a God, Dio). I due riferimenti dicono molto: l’uomo contemporaneo attende, aspetta!La domanda, però, è: spera? C’è differenza tra “attendere” e “sperare”:

«L’attesa si rivolge […] a qualcosa, ma a qualcosa che si attende, appunto. Il contenuto della speranza è invece sempre inatteso» [iii].

L’uomo attende il Dio che “crede” di conoscere; quello che si adatterà perfettamente alle sue attese spesso schiacciate su orizzonti troppo ristretti. Si tratta, invece, di sperare che Dio si manifesti in maniera imprevedibile, poiché la Storia vive del “nuovo” e non di piccoli, insignificanti movimenti in avanti. L’imprevedibilità di Dio è la sola forza che possa davvero – come dice la Scrittura – fare nuove tutte le cose. Dobbiamo passare dall’attesa di un dio pensato a nostro uso e consumo, alla speranza che Dio si mostri di là di ogni nostra aspettativa: solo così la Storia avrà futuro. Dio che rivolge una parola non attesa, ma nuova, nutritiva incita  l’uomo ad essere co – creatore nella Storia; un dio del tutto simile alle nostre categorie teologico – filosofiche appaga attese noetiche, non feconda la prassi. Dio che “lascia essere l’uomo” lo ispira, non lo agisce: ecco in quale Dio sperare. La teologia del Novecento ci ha avvisato: viviamo in città secolari e «sperimentiamo l’universo come la città dell’uomo […] un campo di esplorazione e di sforzo umano […]. Il mondo è diventato compito dell’uomo e responsabilità dell’uomo» [iv].
È stato Dio stesso – come insegna il racconto della creazione – ad affidare compiti di un certo rilievo alla creatura. Sopra citavo dal Decreto Sull’apostolato dei laici: questo è il disegno di Dio: che gli uomini con animo concorde instaurino e sempre più perfezionino l’ordine delle realtà temporali (storiche). Quando il teologo e ministro della Chiesa battista Cox parla di “città secolari”, dunque, non mette in evidenza il disconoscimento di Dio da parte dell’uomo nel tempo del disincanto, bensì segnala, anche se questa non era la sua intenzione originaria, che, ora, si realizza il “disegno di Dio”. La cosa assume toni cupi perché l’uomo realizza un disegno non suo pretendendo di utilizzare strumenti che il Progettista avrebbe quanto meno sconsigliato. Gli abitanti delle ‘città secolari’ devono riattivare la memoria cristiana e ricordare da Chi hanno ricevuto la possibilità di operare con una certa libertà nel campo delle cose terrestri. Solo facendo memoria del Creatore ci si sente, senza superbia e senza avvilimento, creature informate dalla storicità. Cox riprende un programma caro ad alcuni studiosi tedeschi: sich realisierende Eschatologie; parlare, cioè, di una Escatologia in via di compimento grazie all’azione congiunta di Dio ed Uomo. Si evitano, in tal modo, le secche della superbia antropologica e si costruiscono città secolari, ma non chiuse al Trascendente, solo quando si comprende che la Promessa Escatologica inizia a compiersi nel tempo se ci riconosciamo signori nella natura e non della natura. La formula aurea è questa:

«Il mondo è il teatro della presenza di Dio accanto all’uomo» [v].

Le filosofie e le teologie che, per il passato, proposero un dio contro l’uomo, hanno chiuso le strade della conversione a molte intelligenze. Cox, in una delle conferenze che tenne nell’agosto del 1963 a studenti battisti a Green Lake, appoggiò le critiche     impietosamente corrosive che Nietzsche mosse, non al Cristianesimo, ma ad ‘un certo’ cristianesimo:

«Nietzsche vide giustamente che un Dio vampiro che non permette all’uomo di essere creatore, deve essere ucciso, e disinvoltamente commise egli stesso il deicidio» [vi].

La Storia vuol fare a meno non di Dio, ma del Dio – vampiro.

L’uomo non ama un dio che inaridisce le capacità creative. Il rifiuto del Dio – vampiro è ancora più veemente nel nostro tempo, poiché la modernità ci ha rafforzato nell’idea che abbiamo di noi stessi: dobbiamo nascere sempre di nuovo, moltiplicare le occasioni di vita ricorrendo ai nostri mezzi; siamo perennemente impegnati ad essere il nostro stesso esperimento [vii]. 
L’autonomia delle “realtà terrestri”, l’uomo attivo nella Storia sono cose buone; se dell’agire, però, si oscurano il fine e la fonte, si getta, rischiando il nostro annientamento e la “fine della Storia”, quella che un filosofo rumeno chiama la chiave della tranquillità. Ci si abbrutisce nel fare quando ci si dimentica totalmente dell’essere:

«non sappiamo più abbandonarci nell’essere. Siamo tutti dei violenti […], arrabbiati che» - hanno – «smarrito la chiave della tranquillità […]. Ma se l’uomo si esaurisce nella sua realtà temporale, non è che una maschera teatrale e niente di più» [viii].

Stare nella Storia va bene, ma perdere la tranquillità della contemplazione, il contatto con l’essere ci rende arrabbiati e sfigura i nostri volti, come dice Cioran, facendone morte, vuote maschere. Il materialismo storico pretendeva di sapere in anticipo quale strada l’umanità doveva prendere; la presenza di Dio non era più necessaria, poiché l’immanenza aveva in se stessa le leggi dello sviluppo storico che avrebbe condotto, necessariamente, al Bene! Un filosofo ateo non mancò di appuntare roventi strali critici su questa beata illusione:

«Il materialismo storico, il determinismo assoluto […] sono le conseguenze maggiormente legittime di una filosofia senza Dio […]. Solo il cristianesimo è forte al riguardo. Perché, alla divinizzazione della storia, obietterà sempre con la creazione della storia» [ix].

Camus era pronto a riconoscerlo: il Cristianesimo non potrà mai sostenere la divinizzazione della storia.


Yves Congar diceva che si commettono due peccati: 1) sostituirsi a Dio; 2) farsi sostituire da Dio. Concludeva:
è il secondo peccato ad essere meno denunciato dalla Chiesa. L’uomo non deve ‘fare Dio’, ma nemmeno pretendere che sia Dio a fare quanto è di nostra competenza.
Il nostro dovere consiste nel fare spazio al Trascendente; ci tocca amministrare la terra in maniera autonoma e responsabile [essendo, cioè, pur nella nostra autonomia, capaci (abili) di rispondere (responso) al Signore].
Tutto deve, grazie al nostro operare, aprirsi all’accoglienza dell’Altro [x]. 
Disporre del mondo a nostro piacimento, farne luogo di saccheggi e trasformare la Storia nell’inventario di simili razzie, è il primo peccato (sostituirsi a Dio); pretendere che sia il Trascendente a preparare il luogo ed a venirci, quando è compito nostro arredare il mondo, la Storia perché Lo accolgano, costituisce il secondo peccato (farsi sostituire da Dio). Una teologia che cancellasse il suo Oggetto esalterebbe il soggetto e scadrebbe in una infruttuosa apologia dell’umano, troppo umano; una teologia che concedesse tutto lo spazio all’Oggetto cancellando il soggetto sfocerebbe in una proposta che schiaccerebbe l’uomo e renderebbe odioso quel Dio – vampiro che Cox diceva (sopra) essere stato giustamente ucciso da Nietzsche. Un vescovo anglicano ha scritto:

«Il Tu eterno lo si incontra soltanto in, con e sotto il Tu finito» [xi].

Mostrare Dio nel mondo è compito nostro; non bisogna sempre attendere che sia Lui a dare segni, né possiamo contentarci di mostrare un feticcio teoretico e contrabbandarlo, sul mercato affollato dai cercatori di Senso a buon prezzo, per il Dio ebraico – cristiano! Si pretende che Dio sia operativo nella Storia, ma poi se ne parla in maniera disonesta; il vescovo anglicano Robinson, invece, invitava ad essere honest to God (onesti con Dio!):

«spesso, quando assisto a qualche dibattito tra un cristiano ed un laico […] le mie simpatie vanno piuttosto al laico […] perché istintivamente condivido l’incapacità del laico di capire ed accettare lo schema mentale e lo stampo religioso entro i quali la fede gli viene presentata» (Dio non è così, cit. p. 28).

Viene presentato, spesso anche da chi è ben avvertito delle cose teologiche, un Dio completamente difforme da quello che la Scrittura e la Tradizione ci hanno affidato. I Vangeli mostrano l’opzione preferenziale accordata dal divino per la salute fisica, per la fame e per la sete, per il dolore e le sofferenze morali delle creature. Incontrare Dio in Cristo cambia non solo la Storia, ma anche il modo di comprendere in che rapporto stiano il Creatore, la creatura ed il creato. Per  Robinson, l’incontro con Cristo (Dio dal volto umano), avviene e «si manifesta nei termini di una preoccupazione del tutto “secolare” e mondana, per i cibi, le provviste d’acqua, la casa, gli ospedali e le prigioni; proprio come Geremia aveva definito la conoscenza di Dio come un fare giustizia al povero e al bisognoso» (cit. p. 85). È vero che il tempo è non necessariamente orientato al Bene; tuttavia, non ci sono automatismi intramondani che portino alla salvezza! Il nostro contributo, tuttavia, pur non sufficiente, è importante e si concretizza nella forte attenzione dedicata alle microstorie, alle cose fondamentali da garantire ai deboli. La Storia va avanti e trascina con sé ‘bene’ e ‘male’? Si può dire che

«la struttura irreversibile del tempo segnala sia l’irreversibilità del male sia quella del bene, ma con una differenza profonda: che il male può riguardare solo le azioni (non esiste un uomo malvagio, esiste l’uomo che compie azioni malvagie) mentre il bene autentico riguarda le creature (non si può volere bene ad un oggetto o ad un’azione, si può volere bene a chi compie quell’azione)» [xii].

Il male è fatto di azioni commesse da un uomo che, però, non è il male; strutturalmente, ontologicamente, non è ‘Male’! Il bene soltanto, però, è adeguato, confacente alla persona: si può voler bene, infatti, non ad oggetti, ad azioni, ma solo a soggetti! Dio, per questo, quando guarda alla Storia ed al nostro modo di condurla sa che l’uomo compie azioni malvagie, ma non è il male. La Speranza viene dal fatto che il bene, l’amore (che ci fondano, ci salvano) hanno come destinatari soltanto le creature umane.
Se passasse questo concetto, la Storia la comprenderemmo diversamente e sentiremmo il biasimo di Dio per le azioni ma, allo stesso tempo, il bene che Egli vuole agli agenti.

La vita postmoderna è vagare più che pellegrinaggio: mobilità nevrotica ed insensata. Un sociologo si chiede: si può ‘pianificare’ la nostra vita come se fossimo in pellegrinaggio verso una meta, visto che i luoghi santi patiscono ininterrotta consacrazione e sconsacrazione? Il tutto, poi, in un tempo molto più ridotto di quello occorrente al pellegrinaggio [xiii].
Come consacrarsi ad un credo radicale, impegnativo, richiedente un’adesione totale e costante, qual è il Cristianesimo? In un altro saggio, il sociologo afferma che, ormai, per un mondo svuotato di valori e che pur anela a durare, si può proporre solo la strategia del “carpe diem” [xiv].
L’umanità geme sotto il giogo della defuturizzazione: si può sostenere una visione escatologica della Storia se i progetti umani si appiattiscono sul ‘puntiforme’ e scolorano in obiettivi tristemente contingenti? Uno psicologo fotografa lo scenario attuale:

«Si è capovolto l’orizzonte: l’instabilità, una volta, era l’oggi; adesso è il futuro. Ritengo che le religioni tradizionali debbano confrontarsi con questo dato culturale con estremo realismo […]: - parlando a vuoto, senza toccare le corde giuste degli uomini – non aiutano più a costruire il futuro, che – immagino – sia proprio la loro vocazione primaria» [xv].

L’instabilità del futuro deve essere una preoccupazione delle religioni tradizionali! Laddove non parlassero alla sensibilità ferita degli uomini postmoderni, si sottrarrebbero al compito di contribuire a costruire quel futuro che pure hanno a cuore. La Storia, però, mette il Cristianesimo di fronte ad un fenomeno nuovo. Quale? Se un tempo si poteva parlare di agnosticismo, oggi è preferibile usare il termine agnosma (neologismo coniato da un teologo olandese): denota un modo di vivere nel «quale Dio cade in oblio […], semplicemente non ci ricordiamo più di Dio… […]. Dio non è più necessario» [xvi].
La Storia contemporanea, dunque, fa i conti con una umanità che non può pianificare percorsi verso il sacro perché i luoghi sono indefinibili, sempre cangianti e confusamente sincretistici; con una umanità che, in un mondo povero anche dal punto di vista assiologico, non può fare altro che applicare, in accezione pesantemente negativa, l’oraziano carpe diem! Le religioni tradizionali, poi, devono aiutare l’uomo a superare un tarlo che rode il cuore della Storia contemporanea: la de – futurizzazione.

L’agnosma, la dimenticanza di Dio, genera un dramma! Escludendo Dio dai propri orizzonti, l’uomo che si riconosce meramente ‘storico’, si carica sulle deboli spalle l’intero peso di un compito immane: dare “senso” al mondo. Rispondere di tutto, però, non esige che si risponda ad una ‘istanza’ davanti alla quale essere responsabile di TUTTO? Che nome dare a questa super – istanza?

«Se […] l’uomo è responsabile di tutto ciò che fa, vi deve essere […] anche un’ultima istanza dinanzi alla quale egli è responsabile di tutto, cioè della totalità della sua vita. Ed è proprio questa ultima istanza ciò che noi chiamiamo “Dio”» [xvii].

È Lui l’Istanza che, oltre ad essere sovra storica, è anche profondamente inserita nel tempo. La teologia ha il dovere di mostrare che non si ha un concetto adeguato di Rivelazione se non la si comprende a partire dal fatto che, in essa, “viene a noi” una Istanza per agganciarci ad un Telos escatologico. Rivelazione significa non accogliere una posizione teorica, né impossessarsi di un insegnamento esoterico, bensì aprirsi a ciò che si manifesta storicamente di essa [xviii].
La lezione della Scrittura, poi, è questa: Dio Lo si conosce mediante l’esperienza storica della Sua presenza. Va, in più, riconosciuta una duplice valenza alla Parola: noetica ed operativa (il tutto a beneficio della salvezza).
Parola che “ineffabilmente” fa ciò che dice, crea ed, allo stesso tempo, interpreta la Storia [xix];
Parola che forma uno sguardo profetico per leggere nell’oggi i segni del futuro escatologico. La fede è storicamente sana solo quando il credere mira all’Oltre non evitando di fare i conti, senza risparmiarsi, con gli aspetti meno rassicuranti della realtà:

«credere significa superare i confini […], impegnarsi in un esodo. Ma farlo in modo da non sopprimere o saltare l’angosciosa realtà […] la sofferenza rimane anche per la fede un grido senza una risposta bell’e pronta»  [xx].

Lo sguardo profetico legge il qui ed ora in vista dell’esodo verso il Trascendente ma, prima, deve accanitamente fare i conti con l’angosciosa realtà perché la fede non viene esentata dal subire lo “scandalo del dolore” che si esprime in un grido che “spezza” una “teologia” ordinata more geometrico. L’invito ai cristiani è: siate fedeli alla terra. Ammettiamolo: l’espressione evoca lo spettro – Nietzsche; ebbene, la formula, in questo caso, la dobbiamo alla penna di un teologo:

«Non spetta a me disprezzare la terra sulla quale ho la possibilità di vivere: Le devo fedeltà e gratitudine. Non posso […] vivere trasognato in questa vita, pensando al cielo […]. Non devo chiudere il mio cuore alla partecipazione ai compiti, ai dolori e alle gioie della terra» [xxi].

Il “principio di autorità” (divino o immanente) non vale più, a partire dall’Illuminismo, per governare la Storia. Pannenberg è l’autore che, nel panorama teologico del Novecento, invita a pensare al lascito illuministico come, dice uno studioso, ad un punto di non ritorno:

«ha lanciato una sfida […] che è compito di una teologia moderna post – illuministica di raccogliere» [xxii].
Pannenberg, inoltre, parla di un “doppio sguardo”: ci dobbiamo aprire all’esperienza, ma anche a quanto supera il mondo (über die Welt hinaus); viviamo in uno stato di Selbsttranszendenz (auto – trascendenza), proiettati verso Dio. Aprirsi al mondo, per il nostro autore, equivale ad aprirsi a Dio (Darum bedeutet Welthoffenheit im Kern Gottoffenheit) [xxiii].
Una doppia apertura che semina nella Storia concrete speranze. Dio, per Pannenberg, è Macht der Zukunft (potenza del futuro) e, perciò, è eterno!

«Se Dio deve essere pensato come il futuro anche del passato più lontano, allora egli esisteva prima del nostro e di ogni presente, anche se manifesterà in modo definitivo la propria divinità soltanto nel futuro del suo regno. Egli era quel futuro che con potenza si manifestava già in ogni presente. La futurità di Dio implica […] la sua eternità» [xxiv].

Un teologo , nel cuore del Novecento, sostiene che alla teologia scolastica risultano estranee categorie quali storia e soggettività. Il mondo a tale pensiero familiare è quello dell’immobilità, tipico del pensiero greco. La teologia scolastica, in un mondo tanto lontano da quello ebraico – cristiano, vuole inserire il messaggio biblico; si ha, spiega il nostro autore, un pensiero che «mette realtà nelle essenze più che nei soggetti», ed ignora «il mondo drammatico delle persone» [xxv].
La funzione del teologo, scrive Daniélou, è quella degli angeli che salivano e scendevano sulla scala di Giacobbe: stare tra l’eternità ed il tempo. L’Antico Testamento, dunque, già pensa la storicità dell’uomo legata alla relazione con la Trascendenza:

«Non v’è dubbio che la storicità dell’uomo fu pienamente intesa per la prima volta nel Cristianesimo, dopo che l’Antico Testamento aveva aperto la strada» [xxvi].

Il Dio ebraico - cristiano nulla ha che vedere – come ricordava Daniélou – con l’immobilità, né è refrattario a farsi carico del “mondo drammatico delle persone”. Il Dio ebraico – cristiano è simile alla nostra fede tesa nella crescita: esodale! Non è solo in cammino, ma è cammino:

«soltanto perché l’essere di Dio cammina, avviene l’incontro tra Dio e l’uomo» [xxvii].

Camminano entrambi sui “sentieri della Storia”. Il Trascendente viene da sé e va incontro a sé, ma – aggiunge altrove Jüngel – non vuole ritrovarsi senza di noi. Alla divinità di Dio, per questo, appartiene anche l’umanità! Ecco il messaggio di Jüngel:

«Questo è ciò che la teologia deve finalmente imparare» [xxviii].


La società moderna trova una chiave di interpretazione nel campo religioso. La modernità è copiosamente irrorata da provocazioni cristiane e, a sua volta, il messaggio cristiano è stato molto frequentato, in chiave polemica, dalle istanze moderne. La modernità – dice Pierre Gisel – ha posto al centro la critica della religione. Le ideologie novecentesche, le istanze di liberazione di stampo marxista, non sarebbero comprensibili se non possedessimo sufficienti conoscenze sul messianismo ebraico – cristiano:

«il XX secolo è stato un secolo di impegni, di passioni […] sovradeterminato dall’elemento messianico, sia pure di matrice immanente» [xxix].

Il nostro autore non usa toni sfumati: destino del cristianesimo e destino occidentale simul stant et simul cadunt, insieme sussistono ed insieme cadono!

Gisel, conclude:
«il fatto cristiano ha fatto storia […] non […] indipendentemente da altri dati: […] è mutevole, ibrido, culturalmente sincretico» (cit. p. 56). Di là di tutto questo girare e rigirare nell’impasto dell’umano, troppo umano, il primo dovere è “amare Dio” e lo si fa solo a partire dal luogo, dal tempo, nei quali ci troviamo. Amare Dio, ha detto Rahner, è l’opposto che ridurlo ad “oggetto del mondo”; in tal caso, faremmo di Lui un piccolo mezzo di un piccolo uomo! Chi ama – incalza il teologo – accetta l’incomprensibile (nome che diamo al Trascendente). Dio, però, conclude il nostro autore, è l’incomprensibile soccorrevole. Si può “amare Dio” anche se “incomprensibile”, finanche nel nostro tempo intriso di scientismo e soggetto, per lo più, alla tecnocrazia, poiché Lo si sperimenta soprattutto come “soccorrevole”! Si riconosce il Suo Essere dall’agire; l’ontologico si storicizza nel dialogico. Dio ed uomo fanno storia conducendo, appunto, un dialogo.

Un teologo ortodosso richiama la figura ed il pensiero di Gioachino da Fiore. Propose la “dottrina delle Tre età del mondo” in corrispondenza alla tre persone della Trinità: l’Antico Testamento è l’età del Padre; il Nuovo, quella del Figlio e, la terza, quella dello Spirito che rivelerà, senza residui, i misteri della fede garantendo, inoltre, il superamento di Cristo e della sua Chiesa. La pace, poi, regnerà per sempre! Questo processo, per Gioachino, una sorta di “determinismo storico”, lo guida Dio. Qui già rintracciamo, scrive il nostro autore, «l’idea di un progresso fatale» che porta, passando in maniera rivoluzionaria tra diverse ere, ad una era definitiva. È lo schema delle soteriologie orizzontali. Il marxismo, infatti, pure ammantandosi di pretese scientifiche, si dà come una secolarizzazione della speranza giudaico – cristiana ed annuncia, con toni mistici, un’era di fraternità, di libertà. Il concetto di Redenzione, poi, viene innestato su quello della ‘lotta di classe’; per cui, «l’umiliazione (la “kenosis”) del Cristo diventa l’immagine […] dell’alienazione del proletariato. La sua risurrezione è una prefigurazione della rivoluzione liberatrice, ma mentre la prima è un mito, la seconda è una realtà» [xxx].
Il concetto di liberazione ebraico, biblico – consentitemi questo inciso – è già di per sé molto più, se così si può dire, emancipato rispetto a quello contenuto in altre religioni. La relazione che Dio ha con Israele va di là del legame ferreo del divino con una terra, una etnia. Dio interviene portando novità, per libera scelta e non perché politicamente legato ad un popolo in particolare:

«Il Dio che libera gli ebrei non è, a differenza degli déi egiziani, legato a un pezzo di terra, a un popolo, a un potere politico; è […] dotato di un’autonomia assoluta rispetto al gruppo umano che lo riconosce» [xxxi].

Chiuso l’inciso, torniamo a Clément.
Eravamo rimasti a questo punto:
sfruttando l’impianto gioachimita, il sistema marxista secolarizza idee giudaico – cristiane. Il “riduzionismo”, il “determinismo storico” che ne conseguono fanno sì che il Regno indichi non più, come nelle originarie intenzioni di Gioachino, la realizzazione dell’era dello Spirito di Cristo, bensì, quella dello Spirito del mondo; si finisce, così, con lo «giustificare il potere illimitato dell’uomo sull’uomo, la dittatura omicida di chi pretende di conoscere le leggi ineluttabili del destino» (cit. p. 23).
Il “problema della modernità”, insomma, per il teologo ortodosso, può riassumersi in una formula:
la cristianità ha pensato Dio, per lo più, al fine di schierarsi contro l’uomo; la modernità, all’opposto, ha messo al centro l’uomo per colpire Dio!
Un errore non perdonato alla cristianità ed i cristiani, anche se non solo per questo sono, ormai, minoranza.
Clément, perciò, suggerisce: pur numericamente svantaggiati, il compito è quello di insediarsi in una spiritualità ultrastorica allo scopo di rendere testimonianza ad «una spiritualità profetica e creatrice capace di illuminare la storia» (p. 56). Lo sguardo sulla Storia non profetico, non è cristiano. La spiritualità profetica e creatrice deve spingere ad inabissarsi nella Trinità per poi collocarla nella Storia e nelle più profonde scaturigini dell’essere umano.
A tal proposito, il nostro autore, cita uno dei pionieri del movimento non violento, Dominique Barbé:

La avventura teologica è autentica se introduce l’uomo nelle profondità dell’abisso trinitario e, contemporaneamente lo porta nel cuore delle masse umane.

Il teologo mostri come la Trinità porta comunione, dialogo, unione, senza soffocare individualità, nel cuore del mondo, nella Storia. Solo svolgendo bene tale compito si può dire che l’avventura teologica è autentica.
I teologi sono facilitati in questo compito perché la Parola entra nel mondo, nel nostro orizzonte storico per istituire un canale privilegiato di comunicazione teandrica: «Dio parla […] all’uomo – aggiunge Clément – attraverso il mondo. Dio e l’uomo si parlano attraverso il mondo» (p. 158). Nell’Incarnazione si gioca il senso del nostro essere creature storiche, ma non disperatamente gettate (Geworfenheit, direbbe Heidegger) nel mondo, nel tempo! I volti divino ed umano si intrecciano in Cristo; ognuno vi vede se stesso e l’altro e ci si riconosce nel Creatore. I volti vengono accolti in Dio.
La conseguenza di questa appassionante e sconvolgente, positivamente scandalosa storia dell’incorporazione del volto umano in quello divino è che, scrive il teologo ortodosso, nella «“baracca” più desolata o più eccitante del nichilismo, restano e resteranno sempre dei volti. Lo Spirito continua incessantemente a soffiare sulla cenere del quotidiano per attizzare il “roveto ardente”» (p. 222). Il fuoco di Dio acceso nella Storia, come quello del roveto che brucia ma non si consuma, resta inestinguibile. È nel mondo e nella Storia che Dio – sottolinea Clément – si crocifigge su tutto il male che contengono; eppure, a non farci disperare, sono degli spiragli di risurrezione (splendida questa espressione del nostro autore) che donano bagliori di parusia. Senza sosta irrompe una temporalità spirituale; la sola, aggiungo, che rende sensata e più umana la Storia!
Tale irruzione annienta il “determinismo storico” lacerando il velo dell’“oggettivazione”. In Apocalisse 3, 20, si legge: Ecco, sto alla porta e busso! Clément cita per farci gustare l’insistenza di Dio che bussa alla porta del tempo, della nostra condizione storica, ma lascia a noi decidere se aprire o no. La Porta  alla Quale Dio ha bussato – è mia convinzione – è Cristo! Nel Verbo Incarnato, allora, «si apre uno spazio di risurrezione, di Pentecoste, lo spazio di una libertà capace di amare e di creare. E noi possiamo partecipare alle energie del Cristo risorto e quindi lottare instancabilmente contro tutte le forme di morte che devastano la storia e disintegrano la società» (p. 58).
La Porta dalla quale Dio entra è Cristo. Egli  ha la delicatezza di “visitarci ontologicamente”; passando, cioè, attraverso quanto meglio ci caratterizza: l’umanità (intesa come unione corpo/ anima). È come se, raggiungendoci in quanto ci è più confacente, volesse non spaventarci. Dio non irrompe nella Storia come un pugno d’acciaio, improvviso, sulla nostra fragile natura a mostrare la prepotenza di un anonimo Totalmente Altro.
Cristo è Via:
seguendoLo arriveremo alla meta e gioiremo nel percorso. Chi porta almeno dei salutari bagliori saccheggiati dall’abisso di luce nel quale ci si è immersi contemplando ed imitando il Figlio di Dio, con amore, diventa teologo non a tavolino; sì, come disse Barbé (citato da Clément), la teologia diventa una avventura autentica da vivere nel mondo, da lasciare alla Storia camminando alla luce di Dio!


Note

[i] Cfr., e. schillebeeckx, Rivelazione e teologia, Roma 1966, pp. 227 – 279 passim
[ii] josé luis moral, Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, III, Leumann (TO) 2010, p. 53.
[iii] Cfr., s. labate, Antropologia della disponibilità. Dal sistema della distruzione all’armonia della speranza, in aa. vv., Per una antropologia della creaturalità, Trapani 2009, pp. 87 – 112, qui, p. 108.
[iv] h. cox, La città secolare, Firenze 1968, pp. 1 – 2.
[v] h. cox, Il cristiano come ribelle, Brescia 1967, p. 41. Sarebbe un fraintendimento assai pericoloso pensare che la Teologia Escatologica sia nemica di una Teologia delle Realtà Terrestri; anzi, ha fatto bene un autore contemporaneo a precisare che la prima non patrocina una attesa passiva «per la quale il mondo ed il suo tempo appaiono come una specie di sala d’aspetto prefabbricata nella quale si debba passare noiosamente e oziosamente da una sedia all’altra, aspettando che si apra la porta del parlatorio di Dio» (j. b. metz, Sulla teologia del mondo, Brescia 1969, p. 90). 
[vi] Ibidem., p. 41.
[vii] Una filosofa spagnola sostiene che l’uomo «è una strana creatura a cui non basta nascere una sola volta» (m. zambrano, L’agonia dell’Europa, Venezia 1999, p. 71). Altrove: «la verità della condizione umana è che l’uomo è una creatura in continua gestazione» (id., Persona e democrazia, Milano 2000, p. 131). Siamo profondamente compromessi con la Storia ed i possibili sviluppi di essa! I filosofi, li rimproverava un celebre collega, commettono un errore: «hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale […] l’“Uomo” si configura […] come una aeterna veritas […]. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato […]. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto […]. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede “istinti” e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno […]. Ma tutto è divenuto […] il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia» (f nietzsche, Umano, troppo umano, vol. I, Milano 1979, p. 16).
[viii] Cfr., e. m. cioran, La tentazione di esistere, Milano 1988, pp. 9 – 10. Perso ogni contatto con l’essere, si sviluppa, più per disperazione, per coprire un vuoto che per convinzione, quella che un sociologo chiama la strategia del carpe diem: «La strategia del carpe diem è una risposta a un mondo svuotato di valori che pretende di essere duraturo» (z. bauman, Intervista sull’identità, Roma – Bari 2003, p. 62).
[ix] a. camus, Carnets, II, Parigi 1964, p. 155. Dal fallimento delle utopie ispirate da un caricaturale messianismo, cosa discende? «La società moderna è definita dalla mancanza di una garanzia trascendentale ultima […]. Ci sono tre vie principali per affrontare questa negatività: quella utopica, quella democratica e quella postdemocratica. La prima (Totalitarismo, fondamentalismo) cerca di rioccupare il terreno della jouissance assoluta costruendo una società utopica e armonica che elimini negatività. La seconda, quella democratica […] istituzionalizza la mancanza stessa creando lo spazio per gli antagonismi politici. La terza, la postdemocrazia consumista, cerca di neutralizzare la negatività trasformando la politica in amministrazione apolitica: gli individui perseguono le loro fantasie consumiste nello spazio regolato dell’amministrazione sociale degli esperti» (slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Milano 2009, p. 405).
[x] «Non solo l’uomo, ma la creazione stessa, in tutta la sua estensione universale, si rende progressivamente disponibile a essere impiegata da Dio come luogo e strumento di rivelazione» (r. fisichella, La rivelazione: evento e credibilità [Saggio di teologia fondamentale], Bologna 1985, p. 330).
[xi] Cfr., j. a. t. robinson, Dio non è così, Firenze 1965, p. 77.
[xii] Cfr., s. labate, Antropologia della disponibilità, cit., p. 105.  Tengo a chiarire che uso principalente due termini: Tempo e Storia. Non sono la stessa cosa, ma vanno messi in giusta relazione. Colgo l’occasione per chiarire, aiutato da uno studioso italiano, che «è certamente vero che il tempo non coincide con la storia; ma la coscienza del tempo, sì. Il tempo si fa storia quando sul continuum temporale interviene il discontinuum umano […] la continuità indistinta del primo viene frazionata e scandita in ritmi umani» (a. buttitta, Semiotica e antropologia, Palermo 1979, p. 128).
[xiii] Cfr., z. bauman, Il disagio della postmodernità, Milano 2002.
[xiv] id., Intervista sull’identità, Roma – Bari 2003, p. 62.
[xv] Cfr., p. crepet, L’insostenibile pesantezza del dolore. Religioni, felicità e futuro, in aa. vv., L’oppio dei popoli. Quando la religione narcotizza le coscienze, Casale Monferrato (AL) 2009, pp. 67 – 97, qui, p. 85.
[xvi] a. houtepen, Dio, una domanda aperta, Brescia 2001, p. 13.
[xvii] Cfr., h. otto, Dio, Brescia 1975, p. 68.
[xviii] m. seckler, Il concetto di rivelazione, in id., Corso di Teologia Fondamentale, Brescia 1990, II, p. 70. 
[xix] Cfr., h. de lubac, La rivelazione divina e il senso dell’uomo, Milano 1985, pp. 30 – 31. Un teologo luterano che perse la vita per mano dei nazisti, in virtù della sua esperienza di “pensatore della fede” profondamente compromesso con gli eventi storici, scriveva: «si impara a credere solo nel pieno essere-di-questo-mondo della vita»; bisogna imparare – prosegue – ad «essere-di-questo-mondo, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi […] – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora […] si prendono […]sul serio […] le sofferenze di Dio nel mondo […] e così si diventa uomini […] cristiani» (d. bonhoeffer, Ultime lettere dalla Resistenza, Torino 2001, p. 192; lettera del 21 luglio 1945 a Eberhard Bethge).  

[xx] j. moltmann, Teologia della speranza, Brescia 1970, p. 13. Si tratta di comprendere che c’è una responsabilità cristiana nei confronti del mondo: «Ma come deve essere intesa […]? […]. In quale direzione deve orientarsi l’uomo? La nostra risposta […]: il rapporto dell’uomo nei confronti del mondo è l’imitazione del descensus di Dio nel mondo in Gesù Cristo» (j. b. metz, Sulla teologia del mondo, Brescia 1969, p. 39).
[xxi] Cfr., d. bonhoeffer, Fedeltà al mondo, Brescia 1978, p. 15.
[xxii] r. gibellini, Teologia e ragione. Itinerario e opera di Wolfhart Pannenberg, Brescia 1980, p. 280.
[xxiii] w. pannenberg, Che cos’è l’uomo? L’antropologia contemporanea alla luce della teologia, Brescia 1974, p. 19 e p. 59. Pensare la fede stando attenti alla storia significa comprendere che il mondo oggi è divenuto mondano e la fede viene pesantemente posta sotto un severo regime critico da questa mondanità universale (j. b. metz, Sulla teologia del mondo, cit. p. 11). Tutto, poi, prosegue Metz, fonda sul fatto che «Dio ha accettato nel Figlio suo Gesù Cristo il mondo, con un atto definito ed escatologico» (p. 18).
[xxiv] w. pannenberg, Il Dio della speranza, in Questioni fondamentali di teologia sistematica. Raccolta di scritti, Brescia 1975, p. 439. Dio eterno, assoluto, ma accessibile unicamente in modalità storica: «l’Assoluto che norma radicalmente la nostra fede, noi non lo possediamo in modo assoluto, ma sempre e soltanto nella sua dimensione storica» (e. schillebeeckx p. schoonenberg, Fede e interpretazione, Brescia 1975, p. 39).
[xxv] j. daniélou, Les orientations présentes de la pensée religieuse, «Etudes» 249 (1946), pp. 5 – 21, qui, p. 14.
[xxvi] Cfr., r. bultmann, Storia ed escatologia, Brescia 1989, p. 198. In questa storicità dell’uomo che si prefigura nell’Antico Testamento e si dà pienamente nel Vangelo, va ripensato il senso che ha per noi dire Dio; è questione che mette in gioco, per salvarlo e per perderlo, se ignorata, il mondo: «Prepararsi per un recupero della parola “Dio” a partire dalla parola di Dio, ha generalmente senso e necessità, perché è in gioco il mondo» (g. ebeling, Dio e parola, Brescia 1969, p. 99).
[xxvii] e. jüngel, L’essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di Karl Barth, Casale Monferrato (AL) 1986, p. 80.
[xxviii] e. jüngel., Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Brescia 1982, p. 52. Le parole di questo autore fanno, da sole, rumore quanto un intero trattato teologico – filosofico intorno a Dio. I temi essenziali sono sempre quelli: si tratta solo, onestamente, di ricamarci sopra. Un critico letterario è stato esplicito: «Non abbiamo nulla di nuovo da dire su ‘dio’, anche se nel dire ci può essere una nuova sottigliezza. Le nostre teologie […] sono varianti combinatorie su temi perenni» (g. steiner, I libri che non ho scritto, Milano 2008, p. 217). 
[xxix] Cfr., p. gisel, La teologia: identità ecclesiale e pertinenza pubblica, Bologna 2009, p. 37.
[xxx] Cfr., o. clément, I visionari. Saggio sul superamento del nichilismo, Milano 1987, pp. 14 – 21. In realtà, per rintracciare la matrice delle pasque laiche della modernità, possiamo risalire molto più indietro dell’epoca di Gioachino da Fiore. Uno storico israeliano, scrive: a differenza delle divinità di molti popoli antichi, il Dio ebraico trova non nella natura il luogo nel quale rivelarsi, ma elegge la storia; non l’ordine cosmologico, bensì, quello antropologico: «la storia è la grande scoperta della Bibbia: non nel senso della tragedia greca, per la quale gli uomini sono gli esecutori della volontà degli déi, per cui la storia non è la loro storia, ma la storia degli déi» (y. h. yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Parma 1983, p. 20). Lo storico riporta un esempio biblico: «Di Manasseh di Giuda, un re potente che dominò per cinquantacinque anni a Gerusalemme, ci viene detto solo che “fece ciò che era male al cospetto del Signore” (2Re 21, 2) […]. Quel che va ricordato è innanzitutto ogni intervento di Dio nella storia, e le risposte date dall’uomo, positive o negative che siano a quegli interventi» (Ibidem). La sintesi è questa: «l’incontro cruciale fra l’uomo e Dio si trasferiva […] dal piano della natura e del cosmo a quello della storia, concepita ora in termini di intervento diretto e di risposta umana» (Ibidem).
[xxxi] Cfr., a. rizzi, Gesù e la salvezza. Tra fede, religioni e laicità, Roma 2001, p. 135. Il Dio che libera Israele diviene il simbolo delle cosiddette pasque laiche o soteriologie orizzontali. Il marxismo, in fondo, afferma uno studioso, merita la nostra riconoscenza. Che stiamo dicendo? «Lo “spirito” del marxismo ci ha lasciato in eredità un intensissimo desiderio messianico, e per questa ragione merita rispetto. In un certo senso […] siamo tutti marxisti». Il nostro autore, poi, cita Derrida: Che lo vogliamo, lo sappiamo o no, tutti gli uomini e le donne della terra sono oggi, in una certa misura, eredi di Marx e del marxismo […]. Una promessa messianica, anche se non si è adempiuta, […] almeno nella forma nella quale era stata enunciata […] avrà impresso un segno inaugurale e unico nella storia. E che lo vogliamo o no, qualunque coscienza ne abbiamo non possiamo non esserne gli eredi (mark lilla, Il genio avventato, Milano 2010, pp. 194 – 195; corsivo nostro).

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