Ciò cui tende la
religione non è la conoscenza razionale della realtà originaria (Weltgrund), è la salvezza dell’uomo mediante una comunione di vita con Dio (m. scheler)
Nessuna
religione possa morire prima di aver potuto dire l’ultima e più profonda sua
parola (r. otto)
***
Iniziamo
la seconda parte della nostra riflessione sui rapporti che intercorrono tra
Teologia e Storia citando un teologo olandese:
«Una
delle caratteristiche principali della nostra epoca è la sua opposizione al
razionalismo dei secoli passati […] si va affermando un nuovo orientamento, la
cui idea forza si esprime nella formula: “Verso il concreto!” […]. Al pensiero
puramente concettuale, si oppone oggi l’“esperienza vissuta […]. Per molti
pensatori moderni, il solo “significato oggettivo” che si possa attribuire alla
realtà è che essa acquista un senso in rapporto all’uomo» [i].
L’Iperuranio platonico viene abbandonato
anche dalla teologia che, nel Novecento, si vede investita di quesiti
sconvolgenti; dal Terzo Mondo sale il grido di quelli che uno studioso definì i
“dannati della terra”, i quali non possono accettare il Dio – ragnatela della Scolastica; quel Dio, cioè, prigioniero delle
sottili, inestricabili tessiture noetiche
che Lo confinavano in un ambito metafisico troppo lontano dalla sensibilità
degli uomini con “nome e cognome”! I teologi, come i filosofi, vadano “verso il
concreto”, assumendosi l’onore e l’onere di compromettere il Vangelo con le
“realtà terrestri”. Al Concilio Vaticano II, fu lunga la disputa che condusse,
il 18 novembre del 1965, ad approvare il Decreto Sull’apostolato dei laici; il capitolo 2, n. 7 contiene un segmento
di riflessione che si salda agli interessi che mi impegnano in questo saggio:
«questo
è il disegno di Dio: che gli uomini con animo concorde instaurino e sempre più
perfezionino l’ordine delle realtà temporali. Tutte le realtà che costituiscono
l’ordine temporale […] non soltanto rappresentano i mezzi con i quali l’uomo
può raggiungere il suo fine ultimo, ma hanno un valore proprio […]. È compito
di tutta la Chiesa attendere a che gli uomini siano resi capaci di informare
rettamente tutto l’ordine temporale e di indirizzarlo a Dio per mezzo di
Cristo».
Le
realtà temporali sono il campo di
lavoro dell’uomo che prende in seria considerazione il disegno di Dio. L’uomo, per mezzo di esse, realizza lo scopo ultimo
per il quale è stato creato ma, precisa il Concilio, di là di questo, le realtà terrestri hanno intrinseca
dignità! La Chiesa, poi, è chiamata all’attesa:
gli uomini solo ‘gradatamente’ diventano capaci di dare forma giusta, ordinata al
temporale per consegnarlo a Dio con
la mediazione di Cristo. L’attesa richiede che la teologia conforti
gli uomini che, con fatica, realizzano il “disegno di Dio”, irrobustendo le “ragioni”
della Speranza che li ispira.
Uno
studioso di Teologia Pastorale (giovanile), parte da un concetto – base: quanto
deve dare conto della speranza cristiana non può aver paura di vestire di
‘razionalità’ il proprio operare; la razionalità
– precisa il nostro autore – è essenzialmente
comunicativa. La prova va rintracciata nella radice linguistica del
termine: vi è implicato il logos! Il
ragionamento si fa discorso e solo in questo modo può esistere. Ragionare
intorno alla fede, poi, rispetta in pieno il programma del pensiero moderno per
come l’ha tratteggiato (sopra) Schillebeeckx: si “va al concreto!”. La fede
cristiana poggia sempre i piedi sulla terra:
«la
rivelazione o ciò che Dio ci comunica […] la risposta delle comunità cristiane
guidate dal magistero apostolico… non si trovano mai allo “stato puro”,
esistono sempre all’interno di una interpretazione limitata» [ii].
Ogni
comunità interpreta il “deposito della fede” secondo caratteristiche proprie,
ma senza snaturarne l’essenziale; la comunicazione di Dio non arriva allo stato puro.
Da
qui la necessità di accostare due “momenti teologici”: se alla “Teologia
Sistematica” spetta – continua Moral – il compito di riflettere sulla fede
inaugurando nuove categorie e schemi concettuali, alla “Pastorale”,
alla “teologia della prassi”, corre «l’obbligo permanente di verificarli nell’esperienza quotidiana
delle persone e delle comunità» (cit. p. 65).
Il
pensiero forgia ‘categorie’,
allestisce ‘sistemi’ per ‘rendere ragione’ della nostra speranza; è la prassi, la teologia che vive nelle comunità e si nutre dei
contributi esperienziali di esse a sottoporre a severa verifica l’armamentario concettuale della “fede pensata”. Nelle storie, non solo nella Storia, detto altrimenti, va messa
duramente a prova la bontà, l’onestà ed il valore della teologia elaborata a
tavolino. Il sapere rende meno naturale il mondo e sempre più culturale: «il mondo – precisa Moral – è adesso
definito più come storia che come natura» (p. 162). Se c’è “mondo” lo si deve agli
intrecci narrativi (politici, filosofici, religiosi…) prodotti dalla cultura,
dall’uomo. Il mondo, così definito, spinge la teologia a dotarsi di una ragione
che ci mostri «che è la storia il luogo fondamentale dove Dio incrocia gli
uomini […]. Questa storicità del rapporto Dio – uomo non ci permette di vivere
unicamente di rendita […]; perdere la
temporalità ridurrebbe la fede cristiana a mero spiritualismo» (cit. p. 191).
La teologia, spingesse verso una concezione della fede a – storica, disincarnata condannerebbe il Cristianesimo ad una
irreversibile e letale degenerazione.
Stabilito
che fede e ragione non sono
contrapposte (la razionalità è discorsiva tanto quanto la narrazione teologica), va detto, aggiunge
Moral, che conoscenza della fede è
più che mero atto cognitivo; è, in
più, una conoscenza di vita! Sottolineare con forza la base antropologica, il lato umano della
fede «altro non è che insistere nel bisogno di incarnazione che caratterizza
l’esperienza cristiana» (p. 198).
L’Incarnazione è centrale:
l’umanità di Dio giustifica l’attenzione
costante ed appassionata che il teologo riserva all’humana conditio. Una volta per tutte, nel Verbo fatto
carne, Dio ci sceglie ed elegge le “realtà terrestri”, la Storia a proprio
gradito domicilio. Il teologo deve muovere “ora” e da “qui” per comprendere la
“scelta di Dio”; si tratta, per Moral, di attivare nel ‘presente’ una logica ermeneutica per chiedersi «come
si muove oggi la salvezza che ci
viene da Dio in Gesù» (p. 199). La salvezza
si muove oggi perché la fede è dinamica perenne che, qui ed ora, ci
riguarda e chiede la nostra ‘comprensione’ attraverso uno sforzo ermeneutico,
interpretativo.
Una
ermeneutica della fede avviene con parole umane, ma questo
non è un limite per il quale disperare; in fondo, conclude il nostro autore,
non solo «parliamo di Dio con parole di uomo, ma al di sopra di tutto è il
concetto di essere umano che delimita anche l’immagine e le categorie con cui
presentiamo l’essere divino» (p. 221). Le parole
d’uomo raccontano ed interpretano la Storia alla luce di Dio: Egli offre
una salvezza che si muove in un oggi
eterno attraverso l’Incarnazione, Cristo che è – dice l’evangelista
Giovanni - l’Ermeneuta del Padre e la
Sua manifestazione storica.
Simone
Weil intitolò un suo libro Attesa di Dio.
Un drammaturgo scrive nel Novecento Aspettando
Godot (allusione a God, Dio). I due riferimenti dicono molto:
l’uomo contemporaneo attende, aspetta!La domanda, però, è: spera? C’è
differenza tra “attendere” e “sperare”:
«L’attesa
si rivolge […] a qualcosa, ma a qualcosa
che si attende, appunto. Il contenuto della speranza è invece sempre
inatteso» [iii].
L’uomo
attende il Dio che “crede” di conoscere; quello che si adatterà perfettamente
alle sue attese spesso schiacciate su orizzonti troppo ristretti. Si tratta,
invece, di sperare che Dio si manifesti in maniera imprevedibile, poiché la
Storia vive del “nuovo” e non di piccoli, insignificanti movimenti in avanti.
L’imprevedibilità di Dio è la sola
forza che possa davvero – come dice la Scrittura – fare nuove tutte le cose. Dobbiamo
passare dall’attesa di un dio pensato a nostro uso e consumo, alla speranza che
Dio si mostri di là di ogni nostra aspettativa: solo così la Storia avrà
futuro. Dio che rivolge una parola non attesa, ma nuova, nutritiva incita l’uomo ad essere co – creatore nella
Storia; un dio del tutto simile alle nostre categorie teologico – filosofiche
appaga attese noetiche, non feconda la prassi. Dio che “lascia essere l’uomo”
lo ispira, non lo agisce: ecco in quale Dio sperare. La teologia del Novecento
ci ha avvisato: viviamo in città secolari
e «sperimentiamo l’universo come la città dell’uomo […] un campo di
esplorazione e di sforzo umano […]. Il mondo è diventato compito dell’uomo e
responsabilità dell’uomo» [iv].
È
stato Dio stesso – come insegna il racconto della creazione – ad affidare
compiti di un certo rilievo alla creatura. Sopra citavo dal Decreto Sull’apostolato dei laici: questo è il disegno di Dio: che gli uomini
con animo concorde instaurino e sempre più perfezionino l’ordine delle realtà
temporali (storiche). Quando il teologo e ministro della Chiesa battista
Cox parla di “città secolari”, dunque, non mette in evidenza il disconoscimento
di Dio da parte dell’uomo nel tempo del disincanto, bensì segnala, anche se
questa non era la sua intenzione originaria, che, ora, si realizza il “disegno
di Dio”. La cosa assume toni cupi perché l’uomo realizza un disegno non suo
pretendendo di utilizzare strumenti che il Progettista avrebbe quanto meno
sconsigliato. Gli abitanti delle ‘città secolari’ devono riattivare la memoria cristiana e ricordare da Chi
hanno ricevuto la possibilità di operare con una certa libertà nel campo delle
cose terrestri. Solo facendo memoria del Creatore ci si sente, senza superbia e
senza avvilimento, creature informate dalla storicità. Cox riprende un programma
caro ad alcuni studiosi tedeschi: sich
realisierende Eschatologie; parlare, cioè, di una Escatologia in via di compimento grazie all’azione congiunta di Dio
ed Uomo. Si evitano, in tal modo, le secche della superbia antropologica e si
costruiscono città secolari, ma non chiuse al Trascendente, solo quando si
comprende che la Promessa Escatologica inizia a compiersi nel tempo se ci
riconosciamo signori nella natura e
non della natura. La formula aurea è questa:
«Il
mondo è il teatro della presenza di Dio accanto all’uomo» [v].
Le
filosofie e le teologie che, per il passato, proposero un dio contro l’uomo,
hanno chiuso le strade della conversione a molte intelligenze. Cox, in una
delle conferenze che tenne nell’agosto del 1963 a studenti battisti a Green
Lake, appoggiò le critiche impietosamente
corrosive che Nietzsche mosse, non al Cristianesimo, ma ad ‘un certo’ cristianesimo:
«Nietzsche
vide giustamente che un Dio vampiro che non permette all’uomo di essere
creatore, deve essere ucciso, e disinvoltamente commise egli stesso il
deicidio» [vi].
La
Storia vuol fare a meno non di Dio, ma del Dio
– vampiro.
L’uomo
non ama un dio che inaridisce le capacità creative. Il rifiuto del Dio – vampiro è ancora più veemente nel
nostro tempo, poiché la modernità ci ha rafforzato nell’idea che abbiamo di noi
stessi: dobbiamo nascere sempre di nuovo, moltiplicare le occasioni di vita
ricorrendo ai nostri mezzi; siamo perennemente impegnati ad essere il nostro
stesso esperimento [vii].
L’autonomia
delle “realtà terrestri”, l’uomo attivo nella Storia sono cose buone; se dell’agire, però, si oscurano il fine e la fonte, si getta, rischiando il nostro annientamento e la “fine
della Storia”, quella che un filosofo rumeno chiama la chiave della tranquillità. Ci si abbrutisce nel fare quando ci si dimentica totalmente
dell’essere:
«non
sappiamo più abbandonarci nell’essere. Siamo tutti dei violenti […], arrabbiati
che» - hanno – «smarrito la chiave della tranquillità […]. Ma se l’uomo si
esaurisce nella sua realtà temporale, non è che una maschera teatrale e niente
di più» [viii].
Stare
nella Storia va bene, ma perdere la tranquillità della contemplazione, il
contatto con l’essere ci rende arrabbiati e sfigura i nostri volti, come dice
Cioran, facendone morte, vuote maschere. Il materialismo
storico pretendeva di sapere in anticipo quale strada l’umanità doveva
prendere; la presenza di Dio non era più necessaria, poiché l’immanenza aveva in se stessa le leggi
dello sviluppo storico che avrebbe condotto, necessariamente, al Bene! Un filosofo ateo non mancò di appuntare
roventi strali critici su questa beata illusione:
«Il
materialismo storico, il determinismo assoluto […] sono le conseguenze
maggiormente legittime di una filosofia senza Dio […]. Solo il cristianesimo è
forte al riguardo. Perché, alla divinizzazione della storia, obietterà sempre
con la creazione della storia» [ix].
Camus
era pronto a riconoscerlo: il Cristianesimo non potrà mai sostenere la divinizzazione della storia.
Yves
Congar diceva che si commettono due
peccati: 1) sostituirsi a Dio;
2) farsi sostituire da Dio. Concludeva:
è
il secondo peccato ad essere meno denunciato dalla Chiesa. L’uomo non deve
‘fare Dio’, ma nemmeno pretendere che sia Dio a fare quanto è di nostra
competenza.
Il
nostro dovere consiste nel fare spazio al Trascendente; ci tocca amministrare
la terra in maniera autonoma e responsabile [essendo, cioè, pur nella nostra
autonomia, capaci (abili) di rispondere (responso) al
Signore].
Tutto
deve, grazie al nostro operare, aprirsi all’accoglienza dell’Altro [x].
Disporre
del mondo a nostro piacimento, farne luogo di saccheggi e trasformare la Storia
nell’inventario di simili razzie, è il primo peccato (sostituirsi a Dio); pretendere che sia il Trascendente a preparare
il luogo ed a venirci, quando è compito nostro arredare il mondo, la Storia
perché Lo accolgano, costituisce il secondo peccato (farsi sostituire da Dio). Una teologia che cancellasse il suo
Oggetto esalterebbe il soggetto e scadrebbe in una infruttuosa apologia
dell’umano, troppo umano; una teologia che concedesse tutto lo spazio
all’Oggetto cancellando il soggetto sfocerebbe in una proposta che
schiaccerebbe l’uomo e renderebbe odioso quel Dio – vampiro che Cox diceva (sopra) essere stato giustamente
ucciso da Nietzsche. Un vescovo anglicano ha scritto:
«Il
Tu eterno lo si incontra soltanto in, con
e sotto il Tu finito» [xi].
Mostrare
Dio nel mondo è compito nostro; non bisogna sempre attendere che sia Lui a dare
segni, né possiamo contentarci di mostrare un feticcio teoretico e
contrabbandarlo, sul mercato affollato dai cercatori di Senso a buon prezzo, per il Dio ebraico – cristiano! Si pretende
che Dio sia operativo nella Storia, ma poi se ne parla in maniera disonesta; il
vescovo anglicano Robinson, invece, invitava ad essere honest to God (onesti con Dio!):
«spesso,
quando assisto a qualche dibattito tra un cristiano ed un laico […] le mie
simpatie vanno piuttosto al laico […] perché istintivamente condivido
l’incapacità del laico di capire ed accettare lo schema mentale e lo stampo
religioso entro i quali la fede gli viene presentata» (Dio non è così, cit. p. 28).
Viene
presentato, spesso anche da chi è ben avvertito delle cose teologiche, un Dio
completamente difforme da quello che la Scrittura e la Tradizione ci hanno
affidato. I Vangeli mostrano l’opzione preferenziale accordata dal divino per
la salute fisica, per la fame e per la sete, per il dolore e le sofferenze
morali delle creature. Incontrare Dio in Cristo cambia non solo la Storia, ma anche
il modo di comprendere in che rapporto stiano il Creatore, la creatura ed il
creato. Per Robinson, l’incontro con Cristo (Dio dal volto
umano), avviene e «si manifesta nei termini di una preoccupazione del tutto
“secolare” e mondana, per i cibi, le provviste d’acqua, la casa, gli ospedali e
le prigioni; proprio come Geremia aveva definito la conoscenza di Dio come un
fare giustizia al povero e al bisognoso» (cit. p. 85). È vero che il tempo è
non necessariamente orientato al Bene; tuttavia, non ci sono automatismi
intramondani che portino alla salvezza! Il nostro contributo, tuttavia, pur non
sufficiente, è importante e si concretizza nella forte attenzione dedicata alle
microstorie, alle cose fondamentali da garantire ai deboli. La Storia va avanti
e trascina con sé ‘bene’ e ‘male’? Si può dire che
«la
struttura irreversibile del tempo segnala sia l’irreversibilità del male sia
quella del bene, ma con una differenza profonda: che il male può riguardare
solo le azioni (non esiste un uomo malvagio, esiste l’uomo che compie azioni
malvagie) mentre il bene autentico riguarda le creature (non si può volere bene
ad un oggetto o ad un’azione, si può volere bene a chi compie quell’azione)» [xii].
Il
male è fatto di azioni commesse da un uomo che, però, non è il male; strutturalmente, ontologicamente, non è ‘Male’! Il bene
soltanto, però, è adeguato, confacente alla persona: si può voler bene,
infatti, non ad oggetti, ad azioni, ma solo a soggetti! Dio, per questo, quando
guarda alla Storia ed al nostro modo di condurla sa che l’uomo compie azioni
malvagie, ma non è il male. La Speranza viene dal fatto che il bene, l’amore (che ci fondano, ci salvano) hanno come destinatari soltanto le creature umane.
Se
passasse questo concetto, la Storia la comprenderemmo diversamente e sentiremmo
il biasimo di Dio per le azioni ma, allo stesso tempo, il bene
che Egli vuole agli agenti.
La
vita postmoderna è vagare più che pellegrinaggio: mobilità nevrotica ed
insensata. Un sociologo si chiede: si può ‘pianificare’ la nostra vita come se
fossimo in pellegrinaggio verso una meta, visto che i luoghi santi patiscono
ininterrotta consacrazione e sconsacrazione? Il tutto, poi, in un tempo molto
più ridotto di quello occorrente al pellegrinaggio [xiii].
Come
consacrarsi ad un credo radicale, impegnativo, richiedente un’adesione totale e
costante, qual è il Cristianesimo? In un altro saggio, il sociologo afferma
che, ormai, per un mondo svuotato di
valori e che pur anela a durare, si può proporre solo la strategia del “carpe diem” [xiv].
L’umanità
geme sotto il giogo della de – futurizzazione: si può sostenere una
visione escatologica della Storia se i progetti umani si appiattiscono sul
‘puntiforme’ e scolorano in obiettivi tristemente contingenti? Uno psicologo
fotografa lo scenario attuale:
«Si
è capovolto l’orizzonte: l’instabilità, una volta, era l’oggi; adesso è il
futuro. Ritengo che le religioni tradizionali debbano confrontarsi con questo
dato culturale con estremo realismo […]: - parlando a vuoto, senza toccare le
corde giuste degli uomini – non aiutano più a costruire il futuro, che –
immagino – sia proprio la loro vocazione primaria» [xv].
L’instabilità
del futuro deve essere una preoccupazione delle religioni tradizionali! Laddove
non parlassero alla sensibilità ferita degli uomini postmoderni, si
sottrarrebbero al compito di contribuire a costruire quel futuro che pure hanno
a cuore. La Storia, però, mette il Cristianesimo di fronte ad un fenomeno
nuovo. Quale? Se un tempo si poteva parlare di agnosticismo, oggi è preferibile usare il termine agnosma (neologismo coniato da un
teologo olandese): denota un modo di vivere nel «quale Dio cade in oblio […],
semplicemente non ci ricordiamo più di Dio… […]. Dio non è più necessario» [xvi].
La
Storia contemporanea, dunque, fa i conti con una umanità che non può
pianificare percorsi verso il sacro perché i luoghi sono indefinibili, sempre
cangianti e confusamente sincretistici; con una umanità che, in un mondo povero
anche dal punto di vista assiologico,
non può fare altro che applicare, in accezione pesantemente negativa, l’oraziano
carpe diem! Le religioni tradizionali, poi, devono aiutare l’uomo a
superare un tarlo che rode il cuore della Storia contemporanea: la de – futurizzazione.
L’agnosma, la dimenticanza di Dio,
genera un dramma! Escludendo Dio dai propri orizzonti, l’uomo che si riconosce
meramente ‘storico’, si carica sulle deboli spalle l’intero peso di un compito
immane: dare “senso” al mondo. Rispondere di tutto, però, non esige che si
risponda ad una ‘istanza’ davanti alla quale essere responsabile di TUTTO? Che
nome dare a questa super – istanza?
«Se
[…] l’uomo è responsabile di tutto ciò che fa, vi deve essere […] anche
un’ultima istanza dinanzi alla quale egli è responsabile di tutto, cioè della
totalità della sua vita. Ed è proprio questa ultima istanza ciò che noi
chiamiamo “Dio”» [xvii].
È
Lui l’Istanza che, oltre ad essere
sovra storica, è anche profondamente inserita nel tempo. La teologia ha il
dovere di mostrare che non si ha un concetto adeguato di Rivelazione se non la si comprende a partire dal fatto che, in
essa, “viene a noi” una Istanza per
agganciarci ad un Telos escatologico. Rivelazione significa non
accogliere una posizione teorica, né impossessarsi di un insegnamento
esoterico, bensì aprirsi a ciò che si manifesta storicamente di essa [xviii].
La
lezione della Scrittura, poi, è questa: Dio Lo si conosce mediante l’esperienza storica della Sua presenza. Va, in più,
riconosciuta una duplice valenza alla Parola:
noetica ed operativa (il tutto a beneficio della salvezza).
Parola
che “ineffabilmente” fa ciò che dice, crea ed, allo stesso tempo, interpreta
la Storia [xix];
Parola
che forma uno sguardo profetico per
leggere nell’oggi i segni del futuro escatologico. La fede è storicamente sana solo quando il
credere mira all’Oltre non evitando
di fare i conti, senza risparmiarsi, con gli aspetti meno rassicuranti della realtà:
«credere
significa superare i confini […], impegnarsi in un esodo. Ma farlo in modo da
non sopprimere o saltare l’angosciosa realtà […] la sofferenza rimane anche per
la fede un grido senza una risposta bell’e pronta» [xx].
Lo
sguardo profetico legge il qui ed ora in vista dell’esodo verso il Trascendente ma, prima, deve accanitamente fare i conti con l’angosciosa realtà perché la fede non viene esentata dal subire lo
“scandalo del dolore” che si esprime in un grido
che “spezza” una “teologia” ordinata more
geometrico. L’invito ai cristiani è: siate
fedeli alla terra. Ammettiamolo:
l’espressione evoca lo spettro – Nietzsche; ebbene, la formula, in questo caso,
la dobbiamo alla penna di un teologo:
«Non
spetta a me disprezzare la terra sulla quale ho la possibilità di vivere: Le
devo fedeltà e gratitudine. Non posso […] vivere trasognato in questa vita,
pensando al cielo […]. Non devo chiudere il mio cuore alla partecipazione ai
compiti, ai dolori e alle gioie della terra» [xxi].
Il
“principio di autorità” (divino o immanente) non vale più, a partire
dall’Illuminismo, per governare la Storia. Pannenberg è l’autore che, nel
panorama teologico del Novecento, invita a pensare al lascito illuministico
come, dice uno studioso, ad un punto di
non ritorno:
«ha
lanciato una sfida […] che è compito di una teologia moderna post –
illuministica di raccogliere» [xxii].
Pannenberg,
inoltre, parla di un “doppio sguardo”: ci dobbiamo aprire all’esperienza, ma
anche a quanto supera il mondo (über die Welt hinaus); viviamo in uno
stato di Selbsttranszendenz (auto – trascendenza), proiettati verso
Dio. Aprirsi al mondo, per il nostro
autore, equivale ad aprirsi a Dio (Darum bedeutet Welthoffenheit im Kern
Gottoffenheit) [xxiii].
Una
doppia apertura che semina nella Storia concrete speranze. Dio, per Pannenberg,
è Macht der Zukunft (potenza del futuro) e, perciò, è
eterno!
«Se
Dio deve essere pensato come il futuro anche del passato più lontano, allora
egli esisteva prima del nostro e di ogni presente, anche se manifesterà in modo
definitivo la propria divinità soltanto nel futuro del suo regno. Egli era quel
futuro che con potenza si manifestava già in ogni presente. La futurità di Dio
implica […] la sua eternità» [xxiv].
Un
teologo , nel cuore del Novecento, sostiene che alla teologia scolastica risultano estranee categorie quali storia e soggettività. Il mondo a tale pensiero familiare è quello dell’immobilità, tipico del pensiero greco.
La teologia scolastica, in un mondo tanto lontano da quello ebraico –
cristiano, vuole inserire il messaggio biblico; si ha, spiega il nostro autore,
un pensiero che «mette realtà nelle essenze più che nei soggetti», ed ignora
«il mondo drammatico delle persone» [xxv].
La
funzione del teologo, scrive Daniélou, è quella degli angeli che salivano e
scendevano sulla scala di Giacobbe: stare tra l’eternità ed il tempo. L’Antico
Testamento, dunque, già pensa la storicità dell’uomo legata alla relazione con
la Trascendenza:
«Non
v’è dubbio che la storicità dell’uomo fu pienamente intesa per la prima volta
nel Cristianesimo, dopo che l’Antico Testamento aveva aperto la strada» [xxvi].
Il
Dio ebraico - cristiano nulla ha che vedere – come ricordava Daniélou – con
l’immobilità, né è refrattario a farsi carico del “mondo drammatico delle
persone”. Il Dio ebraico – cristiano è simile alla nostra fede tesa nella
crescita: esodale! Non è solo in cammino, ma è cammino:
«soltanto
perché l’essere di Dio cammina, avviene l’incontro tra Dio e l’uomo» [xxvii].
Camminano
entrambi sui “sentieri della Storia”. Il Trascendente viene da sé e va incontro
a sé, ma – aggiunge altrove Jüngel – non vuole ritrovarsi senza di noi. Alla divinità
di Dio, per questo, appartiene anche l’umanità!
Ecco il messaggio di Jüngel:
«Questo
è ciò che la teologia deve finalmente imparare» [xxviii].
La
società moderna trova una chiave di
interpretazione nel campo religioso. La modernità è copiosamente
irrorata da provocazioni cristiane e, a sua volta, il messaggio cristiano è
stato molto frequentato, in chiave polemica, dalle istanze moderne. La
modernità – dice Pierre Gisel – ha posto
al centro la critica della religione. Le ideologie novecentesche, le
istanze di liberazione di stampo marxista, non sarebbero comprensibili se non
possedessimo sufficienti conoscenze sul messianismo ebraico – cristiano:
«il
XX secolo è stato un secolo di impegni, di passioni […] sovradeterminato
dall’elemento messianico, sia pure di matrice immanente» [xxix].
Il
nostro autore non usa toni sfumati: destino
del cristianesimo e destino
occidentale simul stant et simul
cadunt, insieme sussistono ed insieme cadono!
Gisel,
conclude:
«il
fatto cristiano ha fatto storia […] non […] indipendentemente da altri dati:
[…] è mutevole, ibrido, culturalmente sincretico» (cit. p. 56). Di là di tutto
questo girare e rigirare nell’impasto dell’umano, troppo umano, il primo dovere
è “amare Dio” e lo si fa solo a partire dal luogo, dal tempo, nei quali ci
troviamo. Amare Dio, ha detto Rahner,
è l’opposto che ridurlo ad “oggetto del mondo”; in tal caso, faremmo di Lui un piccolo mezzo di un piccolo uomo! Chi ama – incalza il teologo – accetta
l’incomprensibile (nome che diamo al
Trascendente). Dio, però, conclude il nostro autore, è l’incomprensibile soccorrevole. Si può “amare Dio” anche se
“incomprensibile”, finanche nel nostro tempo intriso di scientismo e soggetto,
per lo più, alla tecnocrazia, poiché Lo si sperimenta soprattutto come
“soccorrevole”! Si riconosce il Suo Essere
dall’agire; l’ontologico si storicizza
nel dialogico. Dio ed uomo fanno
storia conducendo, appunto, un dialogo.
Un
teologo ortodosso richiama la figura ed il pensiero di Gioachino da Fiore.
Propose la “dottrina delle Tre età del mondo” in corrispondenza alla tre
persone della Trinità: l’Antico Testamento è l’età del Padre; il Nuovo, quella
del Figlio e, la terza, quella dello Spirito che rivelerà, senza residui, i
misteri della fede garantendo, inoltre, il superamento di Cristo e della sua
Chiesa. La pace, poi, regnerà per sempre! Questo processo, per Gioachino, una
sorta di “determinismo storico”, lo guida Dio. Qui già rintracciamo, scrive il
nostro autore, «l’idea di un progresso fatale» che porta, passando in maniera
rivoluzionaria tra diverse ere, ad una era definitiva. È lo schema delle soteriologie
orizzontali. Il marxismo, infatti, pure ammantandosi di pretese scientifiche,
si dà come una secolarizzazione della speranza giudaico – cristiana ed
annuncia, con toni mistici, un’era di fraternità, di libertà. Il concetto di
Redenzione, poi, viene innestato su quello della ‘lotta di classe’; per cui,
«l’umiliazione (la “kenosis”) del Cristo diventa l’immagine […]
dell’alienazione del proletariato. La sua risurrezione è una prefigurazione
della rivoluzione liberatrice, ma mentre la prima è un mito, la seconda è una
realtà» [xxx].
Il
concetto di liberazione ebraico, biblico – consentitemi questo inciso – è già
di per sé molto più, se così si può dire, emancipato rispetto a quello contenuto
in altre religioni. La relazione che Dio ha con Israele va di là del legame
ferreo del divino con una terra, una etnia. Dio interviene portando novità, per
libera scelta e non perché politicamente legato ad un popolo in particolare:
«Il
Dio che libera gli ebrei non è, a differenza degli déi egiziani, legato a un
pezzo di terra, a un popolo, a un potere politico; è […] dotato di un’autonomia
assoluta rispetto al gruppo umano che lo riconosce» [xxxi].
Chiuso
l’inciso, torniamo a Clément.
Eravamo
rimasti a questo punto:
sfruttando
l’impianto gioachimita, il sistema marxista secolarizza idee giudaico –
cristiane. Il “riduzionismo”, il “determinismo storico” che ne conseguono fanno
sì che il Regno indichi non più, come nelle originarie intenzioni di Gioachino,
la realizzazione dell’era dello Spirito
di Cristo, bensì, quella dello Spirito del mondo; si finisce, così, con
lo «giustificare il potere illimitato dell’uomo sull’uomo, la dittatura omicida
di chi pretende di conoscere le leggi ineluttabili del destino» (cit. p. 23).
Il
“problema della modernità”, insomma, per il teologo ortodosso, può riassumersi
in una formula:
la
cristianità ha pensato Dio, per lo più, al fine di schierarsi contro l’uomo; la modernità,
all’opposto, ha messo al centro l’uomo per colpire Dio!
Un
errore non perdonato alla cristianità ed i cristiani, anche se non solo per
questo sono, ormai, minoranza.
Clément,
perciò, suggerisce: pur numericamente svantaggiati, il compito è quello di
insediarsi in una spiritualità ultrastorica allo scopo di rendere testimonianza
ad «una spiritualità profetica e creatrice capace di illuminare la storia» (p.
56). Lo sguardo sulla Storia non profetico, non è cristiano. La spiritualità profetica e creatrice deve
spingere ad inabissarsi nella Trinità per poi collocarla nella Storia e nelle
più profonde scaturigini dell’essere umano.
A
tal proposito, il nostro autore, cita uno dei pionieri del movimento non
violento, Dominique Barbé:
La avventura teologica è
autentica se introduce l’uomo nelle profondità dell’abisso trinitario e, contemporaneamente
lo porta nel cuore delle masse umane.
Il
teologo mostri come la Trinità porta comunione, dialogo, unione, senza
soffocare individualità, nel cuore del mondo, nella Storia. Solo svolgendo bene
tale compito si può dire che l’avventura
teologica è autentica.
I
teologi sono facilitati in questo compito perché la Parola entra nel mondo, nel
nostro orizzonte storico per istituire un canale privilegiato di comunicazione
teandrica: «Dio parla […] all’uomo – aggiunge Clément – attraverso il mondo.
Dio e l’uomo si parlano attraverso il mondo» (p. 158). Nell’Incarnazione si
gioca il senso del nostro essere creature storiche, ma non disperatamente
gettate (Geworfenheit, direbbe Heidegger)
nel mondo, nel tempo! I volti divino ed umano si intrecciano in Cristo; ognuno vi
vede se stesso e l’altro e ci si riconosce nel Creatore. I volti vengono
accolti in Dio.
La
conseguenza di questa appassionante e sconvolgente, positivamente scandalosa
storia dell’incorporazione del volto umano in quello divino è che, scrive il
teologo ortodosso, nella «“baracca” più desolata o più eccitante del
nichilismo, restano e resteranno sempre dei volti. Lo Spirito continua
incessantemente a soffiare sulla cenere del quotidiano per attizzare il “roveto
ardente”» (p. 222). Il fuoco di Dio acceso nella Storia, come quello del roveto
che brucia ma non si consuma, resta inestinguibile. È nel mondo e nella Storia
che Dio – sottolinea Clément – si crocifigge su tutto il male che contengono;
eppure, a non farci disperare, sono degli spiragli
di risurrezione (splendida questa espressione del nostro autore) che donano
bagliori di parusia. Senza sosta irrompe una temporalità spirituale; la sola, aggiungo, che rende sensata e più
umana la Storia!
Tale
irruzione annienta il “determinismo storico” lacerando il velo dell’“oggettivazione”. In Apocalisse 3, 20, si legge: Ecco, sto alla porta e busso! Clément
cita per farci gustare l’insistenza di Dio che bussa alla porta del tempo,
della nostra condizione storica, ma lascia a noi decidere se aprire o no. La Porta
alla Quale Dio ha bussato – è mia convinzione – è Cristo! Nel Verbo
Incarnato, allora, «si apre uno spazio di risurrezione, di Pentecoste, lo
spazio di una libertà capace di amare e di creare. E noi possiamo partecipare
alle energie del Cristo risorto e quindi lottare instancabilmente contro tutte
le forme di morte che devastano la storia e disintegrano la società» (p. 58).
La
Porta dalla quale Dio entra è Cristo. Egli ha la delicatezza di “visitarci
ontologicamente”; passando, cioè, attraverso quanto meglio ci caratterizza: l’umanità (intesa come unione corpo/ anima).
È come se, raggiungendoci in quanto ci è più confacente, volesse non
spaventarci. Dio non irrompe nella Storia come un pugno d’acciaio, improvviso,
sulla nostra fragile natura a mostrare la prepotenza di un anonimo Totalmente Altro.
Cristo è Via:
seguendoLo
arriveremo alla meta e gioiremo nel percorso. Chi porta almeno dei salutari
bagliori saccheggiati dall’abisso di luce nel quale ci si è immersi
contemplando ed imitando il Figlio di Dio, con amore, diventa teologo non a
tavolino; sì, come disse Barbé (citato da Clément), la teologia diventa una avventura autentica da vivere nel mondo, da lasciare alla Storia camminando
alla luce di Dio!
[ii]
josé luis moral, Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi
cristiana con i giovani, III, Leumann (TO) 2010, p. 53.
[iii]
Cfr., s. labate, Antropologia della disponibilità. Dal
sistema della distruzione all’armonia della speranza, in aa. vv., Per una antropologia della
creaturalità, Trapani 2009, pp. 87 – 112, qui, p. 108.
[iv]
h. cox, La città secolare, Firenze 1968, pp. 1 – 2.
[v]
h. cox, Il cristiano come ribelle, Brescia 1967, p. 41. Sarebbe un
fraintendimento assai pericoloso pensare che la Teologia Escatologica sia nemica di una Teologia delle Realtà Terrestri; anzi, ha fatto bene un autore
contemporaneo a precisare che la prima non patrocina una attesa passiva «per la quale il mondo ed il suo tempo appaiono come
una specie di sala d’aspetto prefabbricata nella quale si debba passare
noiosamente e oziosamente da una sedia all’altra, aspettando che si apra la
porta del parlatorio di Dio» (j. b. metz,
Sulla teologia del mondo, Brescia
1969, p. 90).
[vi]
Ibidem., p. 41.
[vii]
Una filosofa spagnola sostiene che l’uomo «è una strana creatura a cui non
basta nascere una sola volta» (m.
zambrano, L’agonia dell’Europa,
Venezia 1999, p. 71). Altrove: «la verità della condizione umana è che l’uomo è
una creatura in continua gestazione» (id.,
Persona e democrazia, Milano 2000, p. 131). Siamo profondamente compromessi
con la Storia ed i possibili sviluppi di essa! I filosofi, li rimproverava un
celebre collega, commettono un errore: «hanno il comune difetto di partire
dall’uomo attuale […] l’“Uomo” si configura […] come una aeterna veritas […]. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo
non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato […]. Non vogliono capire
che l’uomo è divenuto […]. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede “istinti” e
suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi
fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è
basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di
un uomo eterno […]. Ma tutto è
divenuto […] il filosofare storico è
da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia» (f nietzsche,
Umano, troppo umano, vol. I, Milano 1979, p. 16).
[viii]
Cfr., e. m. cioran, La tentazione di esistere, Milano 1988,
pp. 9 – 10. Perso ogni contatto con l’essere,
si sviluppa, più per disperazione, per coprire un vuoto che per convinzione,
quella che un sociologo chiama la strategia
del carpe diem: «La strategia del carpe
diem è una risposta a un mondo svuotato di valori che pretende di essere
duraturo» (z. bauman, Intervista sull’identità, Roma – Bari 2003, p. 62).
[ix]
a. camus, Carnets, II, Parigi 1964, p. 155. Dal fallimento delle utopie
ispirate da un caricaturale messianismo, cosa discende? «La società moderna è
definita dalla mancanza di una garanzia trascendentale ultima […]. Ci sono tre
vie principali per affrontare questa negatività: quella utopica, quella
democratica e quella postdemocratica. La prima (Totalitarismo, fondamentalismo)
cerca di rioccupare il terreno della jouissance
assoluta costruendo una società utopica e armonica che elimini negatività. La
seconda, quella democratica […] istituzionalizza la mancanza stessa creando lo
spazio per gli antagonismi politici. La terza, la postdemocrazia consumista,
cerca di neutralizzare la negatività trasformando la politica in
amministrazione apolitica: gli individui perseguono le loro fantasie consumiste
nello spazio regolato dell’amministrazione sociale degli esperti» (slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale,
Milano 2009, p. 405).
[x]
«Non solo l’uomo, ma la creazione stessa, in tutta la sua estensione
universale, si rende progressivamente disponibile a essere impiegata da Dio
come luogo e strumento di rivelazione» (r.
fisichella, La rivelazione: evento
e credibilità [Saggio di teologia
fondamentale], Bologna 1985, p. 330).
[xi]
Cfr., j. a. t. robinson, Dio non è così, Firenze 1965, p. 77.
[xii]
Cfr., s. labate, Antropologia della disponibilità, cit.,
p. 105. Tengo a chiarire che uso
principalente due termini: Tempo e Storia. Non sono la stessa cosa, ma
vanno messi in giusta relazione. Colgo l’occasione per chiarire, aiutato da uno
studioso italiano, che «è certamente vero che il tempo non coincide con la
storia; ma la coscienza del tempo, sì. Il tempo si fa storia quando sul continuum temporale interviene il discontinuum umano […] la continuità
indistinta del primo viene frazionata e scandita in ritmi umani» (a. buttitta, Semiotica e antropologia, Palermo 1979, p. 128).
[xiii]
Cfr., z. bauman, Il disagio della postmodernità, Milano
2002.
[xiv]
id., Intervista sull’identità, Roma – Bari 2003, p. 62.
[xv]
Cfr., p. crepet, L’insostenibile pesantezza del dolore. Religioni, felicità e futuro, in aa. vv.,
L’oppio dei popoli. Quando la religione narcotizza le coscienze,
Casale Monferrato (AL) 2009, pp. 67 – 97, qui, p. 85.
[xvi]
a. houtepen, Dio, una domanda aperta,
Brescia 2001, p. 13.
[xvii]
Cfr., h. otto, Dio, Brescia 1975, p. 68.
[xviii]
m. seckler, Il concetto di rivelazione, in id.,
Corso di Teologia Fondamentale,
Brescia 1990, II, p. 70.
[xix]
Cfr., h. de lubac, La rivelazione divina e il senso dell’uomo,
Milano 1985, pp. 30 – 31. Un teologo luterano che perse la vita per mano dei
nazisti, in virtù della sua esperienza di “pensatore della fede” profondamente
compromesso con gli eventi storici, scriveva: «si impara a credere solo nel
pieno essere-di-questo-mondo della vita»; bisogna imparare – prosegue – ad
«essere-di-questo-mondo, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi
[…] – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora […] si
prendono […]sul serio […] le sofferenze di Dio nel mondo […] e così si diventa
uomini […] cristiani» (d. bonhoeffer,
Ultime lettere dalla Resistenza, Torino 2001, p. 192; lettera del 21 luglio 1945 a
Eberhard Bethge).
[xx]
j. moltmann, Teologia della speranza, Brescia 1970, p. 13. Si tratta di
comprendere che c’è una responsabilità
cristiana nei confronti del mondo: «Ma come deve essere intesa […]? […]. In
quale direzione deve orientarsi l’uomo? La nostra risposta […]: il rapporto
dell’uomo nei confronti del mondo è l’imitazione del descensus di Dio nel mondo in Gesù Cristo» (j. b. metz, Sulla
teologia del mondo, Brescia 1969, p. 39).
[xxi]
Cfr., d. bonhoeffer, Fedeltà al mondo, Brescia 1978, p. 15.
[xxii]
r. gibellini, Teologia e ragione. Itinerario e opera di Wolfhart Pannenberg,
Brescia 1980, p. 280.
[xxiii]
w. pannenberg, Che cos’è l’uomo? L’antropologia
contemporanea alla luce della teologia, Brescia 1974, p. 19 e p. 59.
Pensare la fede stando attenti alla storia significa comprendere che il mondo oggi è divenuto mondano e la fede
viene pesantemente posta sotto un severo regime critico da questa mondanità universale (j. b. metz, Sulla teologia del mondo, cit. p. 11). Tutto, poi, prosegue Metz,
fonda sul fatto che «Dio ha accettato nel
Figlio suo Gesù Cristo il mondo, con un atto definito ed escatologico» (p.
18).
[xxiv]
w. pannenberg, Il Dio della speranza, in Questioni fondamentali di teologia
sistematica. Raccolta di scritti,
Brescia 1975, p. 439. Dio eterno, assoluto, ma accessibile unicamente in
modalità storica: «l’Assoluto che norma radicalmente la nostra fede, noi non lo
possediamo in modo assoluto, ma sempre e soltanto nella sua dimensione storica»
(e. schillebeeckx – p. schoonenberg, Fede e interpretazione, Brescia 1975, p. 39).
[xxv] j.
daniélou, Les
orientations présentes de la pensée religieuse, «Etudes» 249 (1946), pp. 5
– 21, qui, p. 14.
[xxvi]
Cfr., r. bultmann, Storia ed escatologia, Brescia 1989, p.
198. In questa storicità dell’uomo che si prefigura nell’Antico Testamento e si
dà pienamente nel Vangelo, va ripensato il senso
che ha per noi dire Dio; è questione
che mette in gioco, per salvarlo e per perderlo, se ignorata, il mondo:
«Prepararsi per un recupero della parola “Dio” a partire dalla parola di Dio,
ha generalmente senso e necessità, perché è in gioco il mondo» (g. ebeling, Dio e parola, Brescia 1969, p. 99).
[xxvii]
e. jüngel, L’essere di Dio è nel divenire. Due studi sulla teologia di Karl Barth,
Casale Monferrato (AL) 1986, p. 80.
[xxviii]
e. jüngel., Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del
Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Brescia 1982, p. 52. Le
parole di questo autore fanno, da sole, rumore quanto un intero trattato teologico
– filosofico intorno a Dio. I temi essenziali sono sempre quelli: si tratta
solo, onestamente, di ricamarci sopra. Un critico letterario è stato esplicito:
«Non abbiamo nulla di nuovo da dire su ‘dio’, anche se nel dire ci può essere
una nuova sottigliezza. Le nostre teologie […] sono varianti combinatorie su
temi perenni» (g. steiner, I libri che non ho scritto, Milano 2008,
p. 217).
[xxix]
Cfr., p. gisel, La teologia: identità ecclesiale e
pertinenza pubblica, Bologna 2009, p. 37.
[xxx]
Cfr., o. clément, I visionari. Saggio sul superamento del
nichilismo, Milano 1987, pp. 14 – 21. In realtà, per rintracciare la
matrice delle pasque laiche della modernità, possiamo risalire molto più
indietro dell’epoca di Gioachino da Fiore. Uno storico israeliano, scrive: a
differenza delle divinità di molti popoli antichi, il Dio ebraico trova non
nella natura il luogo nel quale
rivelarsi, ma elegge la storia; non
l’ordine cosmologico, bensì, quello antropologico: «la storia è la grande
scoperta della Bibbia: non nel senso della tragedia greca, per la quale gli
uomini sono gli esecutori della volontà degli déi, per cui la storia non è la loro storia, ma la storia degli déi» (y. h. yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e
memoria ebraica, Parma 1983, p. 20). Lo storico riporta un esempio biblico:
«Di Manasseh di Giuda, un re potente che dominò per cinquantacinque anni a
Gerusalemme, ci viene detto solo che “fece ciò che era male al cospetto del
Signore” (2Re 21, 2) […]. Quel che va ricordato è innanzitutto ogni intervento
di Dio nella storia, e le risposte date dall’uomo, positive o negative che
siano a quegli interventi» (Ibidem).
La sintesi è questa: «l’incontro cruciale fra l’uomo e Dio si trasferiva […]
dal piano della natura e del cosmo a quello della storia, concepita ora in
termini di intervento diretto e di risposta umana» (Ibidem).
[xxxi]
Cfr., a. rizzi, Gesù e la salvezza. Tra fede, religioni e
laicità, Roma 2001, p. 135. Il Dio che libera Israele diviene il simbolo
delle cosiddette pasque laiche o soteriologie orizzontali. Il marxismo, in
fondo, afferma uno studioso, merita la nostra riconoscenza. Che stiamo dicendo?
«Lo “spirito” del marxismo ci ha lasciato in eredità un intensissimo desiderio
messianico, e per questa ragione merita rispetto. In un certo senso […] siamo tutti
marxisti». Il nostro autore, poi, cita Derrida: Che lo vogliamo, lo sappiamo o no, tutti gli uomini e le donne della
terra sono oggi, in una certa misura, eredi di Marx e del marxismo […]. Una
promessa messianica, anche se non si è adempiuta, […] almeno nella forma nella
quale era stata enunciata […] avrà impresso un segno inaugurale e unico nella
storia. E che lo vogliamo o no, qualunque coscienza ne abbiamo non possiamo non
esserne gli eredi (mark lilla,
Il genio avventato, Milano 2010, pp.
194 – 195; corsivo nostro).
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