Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Teologia e Storia (Uno)


Per me la testimonianza dell’evangelo è lo sguardo di benevolenza sugli sforzi e sui fallimenti delle società umane, lo stesso sguardo che ha avuto Cristo sulla peccatrice. Sì, per me essere testimone dell’evangelo significa avere questa attitudine di compassione e di indulgenza per la fragilità umana.
(P. Ricoeur)

Credo avesse ragione lo scrittore Giorgio Saviane ad affermare che “Dio è rischio, conquista”. L’uomo, nel corso della Storia, ha pagato non poco il cercarLo [1].  Le vie che si possono scegliere (nulla a che vedere con quelle teologico/filosofiche di San Tommaso) per arrischiarsi in simili itinerari sono numerose ed in questa larga offerta il “pensare teologico” si apparenta a quello schiettamente ‘filosofico’ [2]. I. Kant ha, dal canto suo, scritto: «alla filosofia si cerca di accostarsi per diverse vie». La teologia, però, buona ma esigente compagna di viaggio, ha le più pesanti responsabilità in questa arrischiata impresa. Essa si intreccia profondamente alla Storia perché pensa la fede “degli uomini con nome e cognome”, delle comunità con le loro peculiarità culturali [3]. Il derivato dei modi di vivere la religione, in generale, la fede cristiana, in particolare, ha scritto storie che, gloriose o degne di biasimo, pesano sul presente e, certo, possono influire non poco sul futuro. Un errore, dunque, sarebbe quello di confondere la Speranza cristiana con un generico affidamento ad un futuro migliore, disconoscendo che l’escatologia comincia dalla convinzione che la soteriologia fonda sul quotidiano! D’altro canto, come ricordava Husserl ad un livello meramente filosofico, l’uomo è un essere che progetta il suo futuro. Un progetto minacciato dall’incertezza che si espande a tutti i livelli di vita [4]. Uno dei “mattoni fondamentali” di tale ‘progetto’ è, non solo per il cristiano, la Speranza [5]. Solo quando il futuro escatologico mi avrà mostrato la Verità potrò farne a meno; mentre camminiamo nel tempo, sperare è aiuto e compagnia essenziale. S. Agostino, a sostegno di questa posizione, scriveva: «La speranza non ci sarà più quando vedremo ciò che speriamo. La speranza è necessaria durante il cammino e ci aiuta nel viaggio» (Sermone 158, 8, 8). Il mondo contemporaneo, in questo anticristiano, pensa, all’opposto, che la speranza non ha alcun senso nel presente proprio perché non prelude ad alcuna pienezza del Senso in un futuro ‘escatologico’ [6]. Si può registrare, semmai, appena qualche grottesca e debole allusione ad esso nel sentire contemporaneo. Nell’Ulisse di Joyce, la stranita Molly, afferma: «Che scocciatura questa vita! Spero ci sia riservato qualcosa di meglio nell’altro mondo».
Minimalismo che solo “obtorto collo” si può lontanamente accostare ad una sbiaditissima forma di escatologia. Ripensare in termini appropriati certe questioni è, ormai, impegno irrinunciabile: mai come oggi, fosse pure in forme deviate e devianti, le questioni riguardo al sacro, la religioso affollano le agende degli intellettuali e della gente comune. In questo momento storico, quali sono le responsabilità dei teologi? In che atmosfera, semiosfera la teologia cristiana deve attualizzare la Parola di Dio? Troppa spiritualità degna sola di un “supermarket delle religioni” entra a costituire i nostri deviati ed impoveriti “desiderata” di ispirazione religiosa. Il Dio ebraico – cristiano ha un Volto: è Qualcuno, non qualcosa! Il musicista Schönberg, nel suo Mosé ed Aronne, fa dire al primo: - nessuna immagine può darti un’immagine dell’irraffigurabile… Il secondo, replica: - puoi forse amare ciò che non ti è concesso di raffigurare? I teologi devono ricordare che Dio mai ha concesso il diritto di raffigurarceLo; tuttavia, in Cristo, ci ha rivelato il modo che Egli stesso predilige per farsi incontrare [7]. Lo scandalo è che Dio ha scelto proprio l’uomo che, invece, barcollava nel buio forgiando idoli ed immagini destinate a sbiadire subito. La libertà rabbiosa dalla Trascendenza ha portato non tanto alla valorizzazione della storicità ma, nella maggior parte dei casi, alla idolatria dell’immanenza [8]. La teologia, se non comprende e prende sul serio la sete di Senso, di fede, di Dio dell’uomo contemporaneo, lascia che – per riprendere l’espressione di un Profeta – ci si abbeveri a “cisterne screpolate”. Se le adesioni al religioso sono, per molti versi, patologiche, i teologi non possono aggirare il dovere di apportare chiarezza. Nel deserto del Senso giganteggiano troppi miraggi religiosi: il divino appare una illusione ottica quale unica risorsa all’arsura. Come disse Evelyn Waugh, “quando i pozzi sono asciutti la gente prova ad attingere al miraggio”. Si tratta di versare nei pozzi asciutti del “non senso” quell’acqua che, come Gesù rivela alla Samaritana, ci farà abbandonare la brocca vuota della disperazione. Andare e venire ininterrottamente dai pozzi per attingere miraggi sta mettendo in pericolo il prosieguo stesso della Storia. La speranza cristiana può guarire il pessimismo letale del pensiero attuale, senza tralasciare, però, di mostrare al credente la necessità di non rinunciare al pensiero [9].
Siamo chiamati ad indagare il rapporto tra “teologia” e “storia”; in prima battuta, direi che la e trae in inganno! In realtà, la natura stessa del sapere teologico fa problema: può essere “universale” una teologia che non si declina nei diversi linguaggi, nelle diverse culture? Sopra parlavo delle numerose “vie” per iniziare a fare i conti con la “questione di Dio”; vie, perché ci si mette in cerca solo sulle strade del mondo, tra gli uomini con nome e cognome e non arroccandosi su accademici convincimenti. Fare teologia significa essere sempre pronti a cambiare, laddove fosse a maggior Gloria di Dio e per il bene dell’uomo, direzione. Parlando della religione, Sri Aurobindo, disse: è una via che conduce a Dio. Una via non è una casa. Il credente è un itinerante che non teme le soste presso gli altri perché la sua fede “si fa” camminando e non si custodisce nel baule dei ricordi nella soffitta di una casa protetta da ogni folata di vento. La questione primaria così va posta: l’universalità e la declinazione particolare sono elementi diametralmente opposti? Ci si chiede:

«Come può una teologia essere universale e al tempo stesso tener conto del pluralismo insopprimibile delle lingue e delle culture […] della legittima autonomia dei singoli ambiti? Come può essere pluralistica senza divenire relativistica? Come possiamo conciliare la pluralità legittima con la necessaria unità della teologia?» [10].

La teologia non vive fuori del mondo e non potrebbe, in alcun caso, evitare che sulla propria pelle vengano a ricamarsi questioni accese da saperi nati in campi di ricerca eteronomi, o da istanze che, fino ad ora non aveva preso in considerazione; infatti, le «principali svolte a livello di paradigma culturale hanno generalmente provocato corrispondenti svolte sul piano del paradigma teologico» [11]. Nel Novecento, l’intero edificio dell’umano sapere ha conosciuto riscritture ispirate, se non imposte, dal noto fenomeno della complessità, del multiforme che aggrediscono a tutti i livelli il “mondo della vita”! Tale mutamento di paradigmi culturali non poteva lasciare inviolato il patrimonio teologico! Il “pluralismo” è un fatto: ci sono diversi modi di ‘vedere il mondo’, di ‘raccontarlo’ e non è detto che debbano essere “sistemi in lotta”; si tratta di comprendere che la Verità non si dà se non in verità legittime nei vari contesti linguistico/culturali. È utile richiamare le posizioni di un teologo francese del Novecento che, a Le Saulchoir, riprese la Tradizione, i Padri della Chiesa, san Tommaso per rileggerli attraverso le provocazioni e le istanze del mondo moderno!

Marie – Dominique Chenu (1895 – 1990) fece a tal punto i conti con il suo tempo che non disdegnò, a prezzo di rischi notevoli, di offrire la propria solidarietà ai preti operai. La storia, per lui, è il luogo della Parola di Dio. Nel mondo non si hanno che tracce della Trascendenza. Se non le amiamo, però, non ci parlano dell’Oltre!
Diceva Novalis che cerchiamo ovunque l’incondizionato (Ubedingte) e troviamo sempre e solo cose (Dinge); cose che, però, nella loro mondanità lasciano tralucere, all’occhio interiore dell’uomo di fede, l’Incondizionato. Chenu ha lasciato ai teologi una lezione che si può agevolmente ricamare sulla pelle dei nostri tempi vivibili all’insegna della complessità e del disincanto esasperato:

«Il teologo non ha e non può avere alcuna speranza d’incontrare il proprio dato fuori dalla storia […], da quell’auditus fidei che si diffonde nel tempo, da Abramo […] fino a Cristo e nella Chiesa di Cristo in modo permanente lungo i secoli» [12].
Si parla della pedagogia di Dio: la Rivelazione, cioè, avviene per gradi e tiene conto della progressiva maturità dell’uomo. I Padri dicevano che non poteva darsi in una sola volta la Rivelazione, altrimenti ci avrebbe schiacciato.  Essa va esposta tenendo presente la capacità ricettiva dei credenti. Il teologo lavora su una storia. La fede è stata pensata in modi diversi e, perciò, «la storia della teologia nutre la teologia» [13].  Rinunciare a simili ricerche e ritenere la “questione di Dio” indifferente per il futuro del mondo, intristisce e minaccia il presente; infatti, «ci siamo trovati più nudi di fronte ad un’oscurità […] su cui non sappiamo più proiettare l’illusione di un volto divino, rassicurante […] cui affidare il senso che a noi sfugge» [14]. L’intelligenza in teologia conosce, per Chenu, un “uso scientifico” del quale bisogna rendere ragione pur riconoscendo che la “scienza teologica” non esiste sganciata dal mistero della Parola di Dio. Il 17 marzo 1985, nel convento di Saint Jacques, concesse una intervista a padre Aldo Tarquini [15]. Nel corso del colloquio, Chenu tornò sul nostro tema e sintetizzò: «ho introdotto il metodo storico nella teologia». Fu una presa di posizione non facile e, se si attirò il biasimo di Roma, fu perché lì «avevano de – temporalizzato la teologia».

Un altro teologo francese, partiva da un presupposto cristologico; infatti, scriveva, i contemporanei di Gesù «ebbero accesso alla sua invisibile divinità tramite il contatto con la sua umanità sensibile» [16].
La concretezza del Verbo impone di tenere in gran considerazione anche la dimensione storica dell’uomo, senza farla scadere in “idolatria dell’immanenza”! Un guasto, tuttavia, si produce nella mentalità cristiana:
«se i cristiani contemporanei hanno giustamente denunciato le illusioni del mito del progresso, sono spesso caduti in un pessimismo che li induce a guardare con diffidenza le prospettive del futuro […]. Il salutare realismo […] non deve impedire ai cristiani di condividere le legittime aspirazioni al miglioramento della condizione umana» (cit. p. 70). Il nostro autore ci invita, pertanto, ad essere gli artigiani della città nuova perché chi costruisce bene ‘nel tempo’ edifica, contemporaneamente, per l’‘escatologico’; sì, «le speranze umane hanno un legame con la speranza teologale» - che è - «l’attesa dei beni eterni, ma […] la lotta nella città terrena per dare il pane a chi non ne ha e per vestire gli ignudi, è una condizione per diventare cittadini della città celeste» (p. 74). Combattere lo scetticismo del mondo riguardo alla proposta cristiana non è urgente quanto lo sforzo di irrobustire la fede dei cristiani: «Non è il mondo che dubita dei cristiani. Troppo spesso sono i cristiani a dubitare […] dell’efficacia sociale della loro fede» (p. 76). 

Ci siamo già chiesti: come può la teologia essere pluralistica senza conoscere l’amara deriva del relativismo? Ebbene, la scuola di Le Saulchoir, con Chenu, risponde: «La teologia […] è emanazione dell’esperienza di vita, per questo c’è un pluralismo in teologia». I Vangeli, in fondo, contengono già una teologia che documenta dei modi di vivere con Cristo. È dall’esperienza di comunità di credenti che riceviamo la Parola! La teologia è viva se si lascia interrogare dalle comunità nei modi che esse hanno sviluppato. La vita spirituale accoglie il pensiero concettuale e questo evita di irrigidirsi lasciandosi avvolgere dalle calde braccia della quotidiana fede vissuta: «La vita spirituale […] ha bisogno anche di essere pensata concettualmente… E la teologia è questo strumento perché uno possa […] anche […] vedere i rapporti che esistono tra i vari aspetti del messaggio cristiano. Credo che lo studio sia un’esigenza della vita spirituale stessa. D’altra parte, la teologia, se diventa veramente matura, scopre che le sue formule concettuali sono tutte inadeguate e perciò ci vuole un elemento […] intuitivo […]. Questo si ha solo nell’esperienza vissuta dalla fede» [17].

È opportuno parlare di teologie piuttosto che di Teologia? Il popolo cristiano non è il passivo punto di accumulazione della fede pensata dai teologi, ma ne è anche fonte ed ispirazione.  La teologia, dichiarava Chenu a padre Tarquini, «non è prima di tutto a servizio dei vescovi, ma del popolo di Dio; […] la vera teologia […] è incarnata nella vita del popolo». Siamo tutti noi la Chiesa ed i destinatari del Suo insegnamento. Quello che intendo dire è illustrabile con un aneddoto. Un giornalista chiese a Madre Teresa di Calcutta: - Che cosa dovrebbe cambiare nella Chiesa? Sorridendo, rispose: - Io e lei! Ognuno di noi, con le proprie potenzialità e finanche con i propri limiti, è chiamato a lavorare per il bene della Chiesa. Popolo è realtà eterogenea e, dunque, quanti concorrono a costituirlo, non vivono e pensano la fede allo stesso modo. L’intervista più volte richiamata a Chenu si chiudeva citando un episodio tratto dalla vita di san Francesco. Il Poverello di Assisi ricevette, la gerarchia ecclesiastica sospettava del Suo modo di vivere il Vangelo, la visita di un cardinale. Il visitatore lo interrogò a lungo e, tra le altre cose, gli chiese: - Dov’è il vostro chiostro?  Conducendolo fuori a vedere la città, Francesco rispose: - Il mondo è la nostra clausura e l’oceano il nostro chiostro! Il miglior modo di rendere presente, fittamente intrecciata alle trame della Storia la Parola, è predicarla nel dialogo quotidiano con altri. San Francesco ci è guida preziosa anche in questo caso. Si racconta che, un giorno, uscendo dal convento, incontrò frate Ginepro e lo invitò a predicare. L’umile frate fece presente che la poca istruzione rendeva l’invito troppo impegnativo. Francesco, però, insistette ed il compagno andò con lui in città. La girarono tutta pregando in silenzio per quelli che lavoravano; sorridevano ai bambini e con particolare attenzione a quelli più poveri; colloquiavano con gli anziani ed accarezzavano i malati. Una donna portava un recipiente colmo d’acqua ed i frati l’aiutarono con letizia. Francesco propose a Ginepro di tornare in convento; questi, perplesso, domandò: - E la nostra predica? Ed il Santo, sorridendo, rispose piano: - L’abbiamo fatta… l’abbiamo fatta. La clausura, il chiostro, per l’uomo di fede è il “mondo”. Confrontandoci con esso dobbiamo mostrare che non si può fare a meno di Cristo! Un acerrimo nemico della fede cristiana, Ernest Renan, sottolineò: strappare il nome di Gesù dal mondo sarebbe come scuoterlo dalle fondamenta. Charles Péguy disse che l’Incarnazione deve stare in diretta connessione con la grazia temporalizzata e storicizzata:

«Come Gesù è stato veramente e letteralmente fatto uomo, nello stesso modo […] lealmente e senza inganno la grazia è stata fatta temporale e storica» [18].

Dio si è innestato in maniera irreversibile nella Storia. Giunge troppo tardi l’invito spavaldo del poeta Prévert: ‘Padre Nostro che sei nei cieli, restaci! L’errore che si commetteva nella Chiesa Cattolica prima del Concilio Vaticano II era quello di de – temporalizzare la teologia. Denigrare il mondo non significa recarsi più vicino a Dio; coprire il rifiuto di confrontarsi con la realtà con un presunto, insano, amore per Dio è atteggiamento letale:

«Non basta abbassare il mondo per salire alla categoria di Dio […]. Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo credono di essere di Dio» [19].

Cristo non è venuto per condannare, ma per salvare il mondo; come potrebbe, allora, un cristiano essere tranquillo nel testimoniare il proprio amore per Dio attraverso il disprezzo per il mondo?

«venne Gesù […] aveva da fare tre anni […]. Ma egli non perse affatto i suoi tre anni, egli non li impiegò a gemere ed a interpellare il malore e la disgrazia dei tempi. Vi era comunque la disgrazia […] del suo tempo […]. Egli tagliò corto […]. Egli non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo» [20].

L’opera di Cristo è sempre in fieri! Rifiutare questo dono di Dio alla Storia non accresce la nostra libertà; piuttosto, accentua la nostra disperazione, la solitudine esistenziale e metafisica. Un antico adagio, attribuito a Publilio Siro, recita: donum accipere libertatem est perdere (accettare un dono significa perdere la libertà). Riguardo al Cristo, dono del Padre all’uomo, la massima perde ogni giustificazione ad esistere: in Cristo Dio libera l’uomo dal peccato e dalla disperazione. Per una testimonianza autentica, attingiamo ancora al fervido humus intellettuale francese del Novecento. A causa della morte di Raymond Radiguet, Jean Cocteau si trovò avviluppato tra le spire di un dolore invincibile e si affidò all’“oppio”! Era ossessionato dalla “morte”. Un giorno, però, a casa di Maritain, conobbe un missionario. Cocteau dirà che quell’incontro gli aveva procurato lo stesso choc subito osservando le opere di Picasso ed ascoltando certa musica… A Maritain, scrisse che, Nostro Signore, è ridicolo deificarlo: «ama essere vissuto […]. Bisogna tradurlo in tutte le lingue vive» [21]. Dio parla se Cristo viene vissuto traducendolo in tutte le lingue vive! Il Cristianesimo non è un dolcificante che attenua i bocconi amari della Storia. Cocteau l’aveva capito: «C’è forse un programma più eccitante, più scabroso, che seguire alla lettera il Cristianesimo?» (cit. p. 60). La Chiesa deve fare tesoro di queste anime che giungono alla fede attraverso tormenti di non lieve entità. Nel Post Scriptum del libretto dal quale attingo, l’intellettuale francese racconta di un sacrestano di Villefranche: quell’uomo lo caccia dalla chiesa puntualmente alle sei «perché si chiude. Scuote le chiavi […], mi fa una scena perché non esco abbastanza in fretta». Riteneva, perciò, il nostro autore, essere soltanto una bella farsa l’idea che la Chiesa attira il mondo (pp. 64 – 65). La Chiesa deve stare molto attenta, a partire dai ‘sacrestani’, a non dare l’idea di essere incapace di calarsi nella storia, nel mondo… La sua appassionata partecipazione alla vita degli uomini non deve mai apparire come una “bella farsa”. Opponendosi alla Chiesa, che ricorreva all’anatema per escludere l’altro, Simone Weil, diceva: Io resto dalla parte di tutte le cose che non possono entrare nella Chiesa. Solo se essa è fedele a Cristo ed agli uomini possiamo ripetere oggi le parole di   sant’Agostino: non crederei al Vangelo se non vi fossi spinto dall’autorità della Chiesa Cattolica (Contra ep. Manichei 5, 6). La Chiesa mostri di avere la Verità indissolubilmente legata alla Carità. Un filosofo gesuita ama la formula di Ricoeur: “Spero di essere nella verità”. Commenta: «La verità è sempre più ricca della nostra comprensione di essa» [22]. Riguardo al “modo di comunicare”, poi, Henrici, aggiunge: «la qualità della comunicazione della Chiesa dipende da quella della comunicazione nella Chiesa […]. Purtroppo resiste ancora a volte una certa vecchia mentalità ecclesiastica, per cui vale più il segreto che la trasparenza» (cit. p. 215). La Chiesa tenga nel giusto conto la fede vissuta, la vita spirituale, l’apporto della mistica per evitare che perfino un sacrestano possa darne una immagine deleteria [23]. Si può pensare che l’uomo postmoderno abbia definitivamente lasciato alle spalle l’uomo cristiano? La risposta è negativa. Alexandre Kojève, dice che l’Uomo che si “converte” culturalmente resta pur sempre ciò che è unicamente grazie al ricordo. Una specie animale, al contrario, si “converte” per mutazione in altra specie e, dunque, «non ha più nulla a che vedere con quella donde è uscita»; invece, l’Uomo

«ricordandosi del dato che è stato e che ha negato – rimane ‘specificamente determinato’ (bestimmt) dai caratteri concreti di tale dato, pur essendo libero nei suoi confronti dacché lo ha negato» [24].

Si è liberi dal ‘dato’ negato, ma si diventa ciò che si è proprio in virtù di quanto neghiamo. Rimaniamo, allora, specificamente determinati dai caratteri concreti del dato (nel nostro caso, dal cristianesimo) pur avendo avuto la libertà di negarlo. Siamo anche ciò che abbandoniamo. Kojève cita Hegel: l’uomo “non è rimasto una cosa immediata”, ma si ‘fa’, ‘agisce’ negandosi come ‘dato’. È, infine, una «realtà umana dialettica solo in quanto è storico: ed è tale solo ricordandosi del suo passato sorpassato». L’uomo è storico non solo perché è una realtà dialettica, ma anche perché può richiamare il passato; sì, anche il nostro passato cristiano! Siamo determinati dai dati dai quali siamo liberi perché li abbiamo negati [25].

Richiamare il passato, la tradizione, non significa vivere con la sindrome del torcicollo. La tradizione cristiana chiede, poiché il cristianesimo stesso è storico, di entrare a far parte attivamente del tempo presente. Si riferiva alla letteratura, ma T. S. Eliot ha lasciato parole impiegabili anche nei riguardi della tradizione cattolica:

«La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico […]; avere senso storico significa essere consapevole […] che il passato […] è anche presente» [26].

Ad ogni buon conto, respiriamo sempre nell’atmosfera della storicità; per tappe, in progressione continua si dà la verità (anche quella religiosa) all’uomo che non potrà mai pensare di possedere l’essere interamente in un determinato momento storico. Ricordo una frase di Karl Jaspers: noi non viviamo immediatamente dell’essere, perciò la verità non è un nostro possesso definitivo; noi viviamo nell’essere temporale; perciò la verità è la nostra via. Di fronte al mistero di Dio è necessario un atteggiamento più umile. Il poeta greco Nikos Katzantzakis raccontava di aver visitato un monastero turco di dervisci danzanti; riportò parte di un dialogo svoltosi tra un cristiano ed un derviscio: “Che nome date a Dio, Reverendo?” – domandò l’abate. “Non ha alcun nome”, rispose il derviscio. “Dio – aggiunse – non si può costringere in un nome. Il nome è una prigione e Dio è libero”. “Ma”, ribatté il Reverendo, “se volete chiamarlo, se è necessario, come lo chiamate?”. “Oh!” – rispose il derviscio – “lo chiamerò oh!”. Tremando, l’abate a voce sommessa, disse: ha ragione. In realtà, non ha ragione! Dio, per noi, ha un Nome, un Volto, ma ha – avendo assunto la nostra umanità, storicizzatosi – tutti i volti, tutti i nomi. Aveva ragione a dire Cocteau che Dio ama essere vissuto e tradotto in tutte le lingue vive. Né prigioniero in un nome, né completamente anonimo perché dissolto in un oh! La “verità”, per noi, ad ogni buon conto, non può che essere una via un progressivo storicizzarsi… È un sentire assai intimo al pensiero moderno:

«la vita esiste solo […] nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che il senso e il significato sorgono soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico» [27].

Qui sta lo splendore e la miseria dello storicismo: il senso non va imposto, ma atteso ed inteso come possibilità che si dona a noi. Tale assunto dice che non possiamo avanzare la pretesa di essere i depositari del Senso; tuttavia, se ci riteniamo passivi di fronte ad esso, patrociniamo un’antropologia riduttiva; in più, mentre per il cristianesimo il “singolo” non ha un valore inferiore rispetto ai “molti”, per una visione strictu sensu storicista, il destino dell’uomo storico (un’astrazione!), conta più di quello che interessa l’uomo con nome e cognome. Le rivoluzioni allestite con spirito utopico guardano alle grandi realizzazioni in favore dell’umanità e sono disposte a mettere in conto, con troppa leggerezza, le sofferenze e persino la morte dei singoli. Uno studioso scrive che il “massimo difetto” di Marx, fu di avere una speranza senza amore:

«L’idea che la rivoluzione dovesse produrre in un colpo solo tutto ciò che, invece, dobbiamo realizzare noi stessi, con senso di fedeltà, giorno per giorno […] non una volta per tutte. L’ethos della riforma può suonare più povero del pathos della rivoluzione, ma promette frutti più sicuri. Il sogno efficace della vita migliore è di casa […] dove l’errore è ritenuto possibile […]. Ma lì dove ci si ritiene in possesso del giusto e del vero e si è del tutto certi della salvezza mondana […] lì sperare è ancora pericoloso» [28].

La proposta cristiana, che la teologia illustra, ha una speranza piena d’amore, d’immortalità per “ogni uomo” e non per un “modello d’uomo”. L’umanità, per la mentalità cristiana, viene presa sul serio nel singolo. Dio si è incarnato in Gesù… in quell’uomo, non genericamente nell’Uomo! Gesù stava in rapporto dialettico con i modi di vivere la religione del Suo tempo; pertanto, vale anche per Lui:

«Il condizionamento storico incide sull’espressione della rivelazione» [29].

Il cristianesimo si è dato la forma che conosciamo confrontandosi con culture animate da altre categorie mentali ed ispirate da credenze anche  ad esso diametralmente opposte. Scrive un autore tedesco:

«Considerando l’evoluzione dogmatico – teologica dei primi secoli si parla, non a torto, di un’ellenizzazione del pensiero cristiano […]. Effettivamente, se il cristianesimo si fosse venuto a trovare storicamente in un diverso orizzonte di pensiero, di civiltà e di linguaggio, sicuramente nella fisionomia della sua tradizione e della sua teologia si sarebbero impressi tratti diversi da questi» [30].

Nel nostro tempo, essendo il cristianesimo ancora una volta in un diverso orizzonte di pensiero, di civiltà e di linguaggio, si tratta di comprendere quale fisionomia la sua tradizione e la sua teologia possono assumere. Dobbiamo fare, piaccia o no, qualche concessione alle istanze contemporanee se vogliamo che il messaggio cristiano continui ad ispirarci: «se non si cede abbastanza alla modernità», ed alla post-modernità, «si rischia […] di continuare a difendere la fede, ma in spazi in cui l’uomo a poco a poco ha cessato di abitare» [31]. Nel Novecento, merito di Maritain è quello di aver messo in luce le cose che non vanno – dal punto di vista storico – nel “mondo cristiano”; poi, però, precisa che tiene ad «escludere ogni malinteso»: con le parole “il mondo cristiano”, continua, «designo una categoria sociologica, inclusa nell’ordine e nella storia delle civiltà temporali e che è qualcosa di questo mondo, ma che non è il Cristianesimo, né la Chiesa. Le deficienze del mondo cristiano non possono offuscare né il Cristianesimo, né la Chiesa» [32]. Vero è che non spetta al Cristianesimo, alla Chiesa (che stanno oltre i guasti del sempre cangiante ‘mondo cristiano’) portare la felicità (infatti, si tratta di portare verità), ma non va escluso del tutto, a detta del filosofo, che possano contribuire, non poco, a «ravvivare le energie di giustizia e d’amore nelle profondità dell’esistenza temporale» (cit. p. 42). Sia per “ravvivare energie di giustizia e d’amore” nell’ambito delle “realtà terrestri”, sia per portare (principalmente) “verità”, resta fermo, per Maritain, che «un Cristianesimo decorativo […] non è più sufficiente. La fede deve essere […] reale, viva, pratica. Credere in Dio deve significare vivere in maniera tale che la vita non potrebbe essere vissuta se Dio non esistesse. La speranza terrestre nel Vangelo potrà così finalmente divenire la forza vivificatrice della storia temporale» [33].

La speranza terrestre nel Vangelo non porta guasti; sperare, invece, è pericoloso laddove qualcuno si ritiene possessore del “giusto” e del “vero”. Nella speranza cristiana, invece, il nostro fare è sempre ispirato dall’attesa di una Promessa che non delude e non è manipolabile dalle nostre capacità progettuali:

«Il futuro di Dio, quale lo confessa la fede cristiana, non è un futuro dal basso (futurum), ma un a – venire (Zu – kunft) nel senso originario della parola […] sfugge al potere dell’uomo di pianificare e […] a noi in – deducibilmente avviene (adventus[34].
Da questo discende la consapevolezza, per Kasper, che la sola «speranza nel futuro escatologico di Dio rende possibile dei progetti intrastorici per il futuro». Comprendere la storia aiuta a chiarirsi dove e quando lasciar agire Dio? No, in queste cose un margine di rischio rimane sempre. Kasper non può non rilevare che «la chiesa, la sua predicazione e la teologia devono spesso imboccare il sentiero dell’esperimento e del rischio storico» [35]; la storia, tuttavia, non è, come pensano alcuni, un cammino soggetto alle leggi della razionalità. Il nostro autore, infatti, avvisa:

«non si deve […] confondere la storia con lo sviluppo organico. La storia non si sviluppa, ma sempre di nuovo è posta in gioco nella decisione» [36].

Sempre di nuovo! Il cristiano è “creatura esodale”, frequentatore della “via”: è l’uomo dell’aperto che si abbandona con fiducia all’attesa di un Evento e, laddove potrebbe causare danni per superbia antropologica, lascia essere le cose [37]. Le grandi utopie, come quella marxista, per esempio, sono piene di riferimenti, simboli, concetti, vocaboli biblici! La liberazione di Israele dall’Egitto assurge a modello di ogni altra liberazione.:

«L’Esodo è una storia, una grande storia, che è diventata parte della coscienza culturale dell’Occidente – tanto che una serie di eventi politici sono stati collocati e capiti all’interno della sua cornice narrativa. Questa storia ha reso possibile il racconto di altre storie» [38].

La Bibbia è una matrice. Leggendo la storia degli ebrei si comprende sempre più che il Dio Provvidenza non poteva non essere il Creatore. Il Dio creatore e che ci accompagna nella Storia è l’Altro di fronte al Quale posso essere davvero Io perché un Tu mi riconosce. Essere consapevoli che Dio è il Creatore non è lo stesso che saperlo a livello meramente nozionale [39]. La Bibbia rende consapevoli del fatto che il Creatore è l’Altro che ci chiama ad una relazione reale per fare assieme la Storia. L’Esodo è narrazione che genera altre storie; per noi cristiani, l’esodo diventa percorso di liberazione che riscuote successo unicamente se passiamo sulla Via/Cristo:

«La ‘via’ nel senso cristiano è la persona stessa di Gesù Cristo» [40].

Il Cristianesimo non ha interesse a stabilire concettualmente una verità (sarebbe, al più, una certezza!). Conclude Guardini:

«Il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita […] è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazaret […] da una personalità storica» [41].

Stiamo trattando questioni da richiamare continuamente perché dobbiamo partire da una constatazione amara:

«Nel nostro tempo bisogna prendere atto della fine di un’evidenza del Dio cristiano» [42].

Lo si può notare soprattutto nel fatto che l’uomo stenta a credere non solo di essere capace di dare un ‘senso’ al mondo, ma nutre pure sfiducia verso la possibile di ricevere in dono il ‘Senso’. L’uomo, ormai, semplicemente più non “crede”:

«Credere vuol dire anche simboleggiare un mondo e dargli senso […] iscrivervi delle finalità, anche se questa finalità viene da altrove» [43] .

Né le “finalità” venienti ad extra, né quelle costruite paiono credibili. In un mondo orfano di uomini capaci di credere nel futuro, la teologia deve fornire un modo ‘altro’ di abitare. Una alternativa che non de – forma il mondo, ma lo rispetta per dei – formarlo deve essere la proposta teologica. Conclude Gisel:

«la teologia non fa appello a un altro mondo; essa illumina diversamente il mondo e l’umano che in esso si dispiega o l’umano di cui il mondo è intessuto» [44].
La teologia illumina diversamente il mondo e l’umano e, per farlo, non disdegna di attingere alle “realtà terrestri”. Dobbiamo purificare lo sguardo per intercettare “tracce divine” nel mondo; fissare non più l’idolo, bensì, l’icona:

«L’idolo tenta di avvicinarci al divino e di adattarcelo […] l’idolo perde la distanza che identifica e autentica il divino come tale – come ciò che non ci appartiene, ma ci viene incontro. All’idolo, per contrapposizione, risponde l’icona. Di che offre il volto l’icona? “Icona del Dio invisibile” (Col 1, 15), dice del Cristo san Paolo» [45].

L’idolo fa pensare che il divino sia vicino, prossimo, fino a divenire manipolabile; l’icona, invece, Volto del Cristo, rende visibile il Dio invisibile! Cristo è l’icona che Dio ha ricamato sulla pelle della storia perché l’uomo Lo vedesse! Nel mondo dei volti che portano i segni, gioiosi o dolorosi, del fare la Storia la Parola di Dio trova il luogo privilegiato. I teologi del Terzo Mondo, vedono Cristo nella storia dei “poveri cristi” che vivono la povertà evangelica come un dramma quotidiano:

«Se la parola di Dio si esprime incarnandosi nella storia […] – la teologia – non s’elabora più partendo anzitutto da testi […] normativi dal punto di vista giuridico […], ma […] dalla fede attualmente vissuta nella comunità» [46].

Ci sono popoli che appellano al Vangelo aspettando nutrimenti essenziali per rafforzare l’attesa della Speranza. Di fronte alla crescente domanda di giustizia dei poveri, dei perseguitati, dei naufraghi della Storia, dei “dannati della terra” (Fanon), la teologia ha da dire molto; anzi, proprio laddove pare sia il caso di levare le tende, deve rintracciare il terreno giusto per accamparsi. La teologia va in esodo con tutti quelli che, come Israele, fuggono la schiavitù (di qualunque natura sia) e preferiscono farsi guidare dal Signore. La teologia deve compromettersi con la Storia perché nessuno ha le mani più sporche di chi non se le è sporcate per tirare il fratello fuori dal fango. I rapporti tra Teologia e Storia meritano studio attento, ma prima mettiamo al sicuro una convinzione:

«Il passaggio epocale che la storia ci pone dinanzi obbliga a porsi domande che fino a ieri non avrebbero trovato molto spazio anche all’interno della riflessione teologica […]; alla teologia non è permesso rimanere alla finestra e osservare distrattamente quanto avviene nella piazza sottostante […]. È compito della teologia […] esprimere il suo contributo perché all’umanità che cerca di raccapezzarsi in questo momento di sbandamento sia permesso di ritrovare la strada che la conduce verso un futuro carico di senso» [47].







CONCLUSIONE


  1. La teologia deve con – vivere nelle storie e non solo vivere a contatto con la Storia

La teologia, per non perdere i contatti con la Storia deve divenire sempre più consapevole del fatto che, essenziale alla sopravvivenza dell’umanità, è lo scambio di memorie, la convivenza di storie e narrazioni. Scambiarsi le proprie storie è la sola possibilità perché i popoli continuino a fare la Storia perché in essa si gioca la “questione di Dio”. La teologia deve abbandonare l’atteggiamento di chi – per riprendere Fisichella  rimane alla finestra e osserva distrattamente quanto avviene nella piazza sottostante! Viviamo nell’epoca della globalizzazione: le ‘ragioni’ degli altri impongono di rivedere le nostre ‘figure della ragione’ che, fino a qualche tempo fa, vantavano pretese universali; oggi, invece, vale l’interculturalità. Globalizzare le memorie, significa esportare le proprie storie, intrecciarle nel raccontarsi reciproco. La globalizzazione venne correttamente intesa dal cristianesimo originario:
«Paolo è il primo a comprendere e meditare» quella che si potrebbe definire «“globalizzazione” della croce, quando la proietta al di là delle differenza umane: “Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo, né libero” (Gal 3, 28); dalla globalizzazione della croce procede una sorta di negativismo nei confronti delle attuali disparità dell’ordine economico – sociale e politico» [48].
Un antropologo italiano ci ricorda che, ad Istanbul, c’è un edificio che ammette due denominazioni: ‘Santa Sofia’ e ‘Aya Sofya’. Venne eretto da Giustiniano nel 537 e dedicato alla “Divina Sapienza”. Ne presero possesso, nel 1453, gli Ottomani che, sebbene di fede musulmana, lo lasciarono non solo intatto, ma corsero ai ripari per impedire che si riducesse in macerie. L’aspetto odierno è quello di un “museo” nel quale coesistono “mosaici cristiani” e “passi del Corano”! L’antropologo si chiede perché non ci riesca di pensare alla cultura richiamandosi al glorioso edificio di Istanbul; cultura, cioè, intesa come

«un sovrapporsi e un intrecciarsi di storie, idee, gusti, identità, sogni, scienza. È più facile pensare a […] frontiere che ci piace credere come naturali […], difficili da cancellare. “Le frontiere?” ha affermato il viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal. “Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini» [49].

La teologia deve proporsi come il ‘Santa Sofia’ di Istanbul: nella sua storia si intreccino storie, idee, identità, sogni, scienza. Si dovrebbe fare, infine, teologia come se si esercitasse il mestiere del saltimbanco. L’intellettuale ed uomo di teatro Moni Ovadia, afferma: «Io cerco sempre di proteggere e ribadire il mio statuto di saltimbanco, anche “legittimato” da un Midrash che racconta come due grandissimi maestri dell’ebraismo guardando una piazza di mercato riflettessero insieme in questi termini. Il primo disse: “Secondo te di questi uomini chi andrà in Paradiso?”. L’altro […] rispose: “Secondo me i due saltimbanchi”. “Perché?”. “Perché fanno ridere la gente”. Allora ecco la mia ricetta: meno effrazione ed intrusione nello statuto del Divino, un po’ più di quel ridere intelligente e vertiginoso che ci mette di fronte alla nostra infinita fragilità e aleatorietà, un po’ di silenzio in cui questo ridere alto può risuonare nella sua massima profondità» [50].

  1. Il credente deve fare frutto nella Storia

Se ci limitiamo a nutrirci dei riferimenti della fede cristiana, raggomitolati in una fedeltà che assomiglia per lo più a pigrizia, non avremo un rapporto autentico con la Storia. Ognuno di noi faccia crescere frutti nel campo della Storia; frutti che abbiano l’inequivocabile sapore di Dio! Mi spiego con una storiella. Un uomo che voleva diventare saggio, salì su di una montagna che, si raccontava, ogni due anni registrava la manifestazione di Dio. Per un anno l’uomo si nutrì di quanto la terra donava; finito il cibo, però, se ne andò protestando per la mancata teofania. L’aspirante saggio era deluso per aver atteso invano. Apparve, però, un angelo e disse: - A Dio piacerebbe moltissimo parlare con te. Per tutto l’anno ti ha nutrito. Sperava che tu provvedessi alle tue necessità nell’anno seguente. Ma, in tutto questo tempo che cosa hai piantato?
Se un uomo non è capace di far crescere frutti là dove vive, non è pronto a parlare con Dio [51].
Egli, infatti, volendoci responsabili (capaci – abili – di rispondere), ci interpella sul nostro fare in favore degli altri, del mondo, della Storia: In tutto il tempo che ti ho concesso, cosa hai piantato? Nel cuore del nostro tempo, dobbiamo “piantare” nuovamente una “domanda fondamentale” e che riprende il quesito che si pose, nel 1920, un teologo protestante: se oggi in genere ci siano uomini capaci di pensare realmente Dio. Rispondeva: «Ancora non possiamo pensare a Dio» [52]. Sebbene si viva zwischen den Zeiten fra i tempi – lo spazio che si è aperto, liberato per “la domanda su Dio”, a detta del teologo, ci blocca; sì, perché, chi sta ‘fra i tempi’ patisce il fatto che «il tempo sta in silenzio» (cit. p. 507). Mi viene da pensare che, forse, questo silenzio oppressivo riguarda gli “intellettuali di Dio” e non certo quelli che Moni Ovadia chiama i “saltimbanchi”: quelli, cioè, che rendono gaia la gente mostrando con leggerezza la vitalità del credere che li anima.
Fare teologia con il volto cupo e l’animo spento significa piantare cardi sul già disastrato terreno della contemporaneità. Questo significa, onestamente, tradire il proprio mandato di teologo; la teologia, infatti, è «responsabilità della fede di fronte all’altro» (Altro) [53]. Apriamo, piantiamo spazi nei quali “la domanda su Dio, il pensare a Dio” siano possibili ed avremo davvero fatto, del nostro ufficio teologico, un dono prezioso all’uomo ed assai gradito al Signore. La situazione, oggi, è pesante e credo che possiamo sottoscrivere le parole del Consigliere dell’ex Presidente degli Stati Uniti Clinton:
 «Dov’è lo spazio per la preghiera, per i riti religiosi comuni, per i beni spirituali e culturali in un mondo in cui l’economia globale gira grazie alla commercializzazione di beni materiali? […]. Se l’unica scelta che abbiamo è quella tra i mullah e i centri commerciali, tra l’egemonia dell’assolutismo religioso e quella del determinismo del mercato, né la libertà, né lo spirito umano possono prosperare» [54].
Respirare sana ed autentica spiritualità è davvero difficile e la Storia non può proseguire se certe dimensioni dell’uomo inaridiscono. Piantare semi di autentica fede cristiana può – come auspica Barber – aprire, donare possibilità ricche di vere opportunità soteriologiche: piantare il seme della preghiera evita di rimanere appiattiti sulle logiche del mercato e sprona a fare la Storia con la motivata Speranza che sul timone le mani le ha messe Dio. Chi prega, chi pratica la propria fede rinunciando, laddove è necessario, alla seduzione delle merci e della religiosità a buon mercato, ringrazia Dio e serve l’uomo. Lo sappiamo: mai potremo fare qualcosa per Dio che Egli non abbia già concesso a noi, abbondantemente e con largo anticipo; tuttavia, la Storia assume altre pieghe se l’uomo sa mostrarsi ancora “grato” a Chi l’ha rinnovato ontologicamente. Sentirsi redenti aiuta a relazionarsi al meglio con gli altri e con gli accadimenti storici. Saper ringraziare per il dono della Salvezza è il segreto di chi vuole continuare a leggere teologicamente la Storia. Si legge in un romanzo col quale, dal punto di vista letterario, si inaugura la modernità:

«Il più delle volte coloro che ricevono sono inferiori a coloro che danno; così Dio è superiore a tutti, perché è il sommo datore, e i doni dell’uomo non possono contraccambiare con parità quelli di Dio per l’infinita distanza da Lui; ma in certo modo la gratitudine supplisce a questa insufficienza e pochezza» [55]


[1] Il male è che, per lo più, Lo si è cercato poggiando su presupposti razionali che tengono out gli affluenti emotivi, affettivi: «per duemila anni (il Cristianesimo) ha cercato di spiegare in Occidente il messaggio cristiano sostanzialmente con i mezzi dell’intelletto […] così la storia dei dogmi è diventata una storia violenta all’interno e verso l’esterno […] perché non è mai possibile spiegare pienamente le immagini della fede con i mezzi razionali» (e. drewermann, Parole per una terra da scoprire. Testi scelti e introdotti da K. Walter, Brescia 1993, pp. 235 – 236).
[2] Invece, una netta separazione tra fides et ratio veniva sponsorizzata da un filosofo ebreo: «Affermiamo per certo che né la teologia è tenuta a servire la ragione, né la ragione la teologia, ma […] ciascuna è padrona nel proprio campo […]: la ragione nel campo della verità e della sapienza, la teologia in quello della pietà e dell’obbedienza» (b. spinoza, Trattato teologico – politico, Torino 1984, p. 364).
[3] Un teologo contemporaneo scrive che la sua vita, il suo pensiero sono stati guidati dal riferimento a “due Altri”: l’Altro religioso e l’Altro sofferente: «ho compreso con sempre maggior forza ed apprensione di dover parlare con gli Altri sofferenti e religiosi come cristiano e teologo. Se […] non sono in grado di continuare il mio lavoro teologico nel dialogo e nell’incontro vivificante con ambedue questi Altri, allora la mia fede non è autentica e la mia teologia è uno svago» (p. knitter, Una terra molte religioni. Dialogo interreligioso e responsabilità globale, Assisi 1988, pp. 18 – 19).
[4] Le forze che l’emancipazione della società civile lascia erompere da sé «stanno spaccando l’Europa in “due nazioni” […]. L’unità della civiltà occidentale è minacciata dal duello fra lo spirito della Tradizione e lo spirito della Modernità: un duello mortale […] in tutti i campi» - e ciò comporta che - «mentre la cogenza dei vecchi principi si va affievolendo, i nuovi principi non sono ancora pienamente vigenti» (l. pellicani, Saggio sull’origine del capitalismo. Alle origini della modernità, Milano 1988, p. 349). 
[5] Speranza che, nella modernità, ha subito danneggiamenti enormi. Rileva uno psicologo: (Dopo la Seconda Guerra Mondiale il «mondo cristiano è […] veramente messo a confronto col principio del Male […] la sua prima violenta eruzione si ebbe in Germania, e rivelò fino a qual punto il cristianesimo del secolo XX fosse stato svuotato di contenuto» (c. g. jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Milano 1965, p. 366). Non possiamo dimenticare la follia, paradossalmente espressa con toni religiosi, dal grande persecutore degli ebrei: «È perché credo di agire secondo lo spirito dell’Onnipotente, nostro creatore, che: Nel difendermi dall’ebreo combatto per difendere l’opera del Signore» (a hitler, Mein Kampf (1924) – La mia vita. La mia battaglia, Milano 1941, I, p. 70). Tirare Dio dalla propria parte per commettere un genocidio: anche questo è stato il “secolo breve”!
[6] La prova del Cristianesimo, però, si gioca tutta qui: far rilucere nel tempo un anticipo della realizzazione completa del progetto di Dio. «Il principio della verifica della fede cristiana […] consiste nel fatto che i cristiani […] mostrano nella loro vita pratica di possedere una speranza capace di trasformare il mondo già sin da ora» (e. schillebeeckx, Dio, il futuro dell’uomo, Roma 1970, p. 199).
[7] La filosofia ha la sua importanza nelle cose della fede, ma “incontrare Cristo” è qualcosa che avviene ad una profondità maggiore: «Dio s’incontra a un livello troppo profondo perché la filosofia, intesa come indagine dimostrativa e metafisica oggettiva, possa parlarne» (l. pareyson, Filosofia ed esperienza religiosa, «Annuario filosofico», 1, 1985, p. 46).
[8] «Questa rottura con Dio, cominciata come una […] rottura fiera […] con tutto ciò che sottomette l’uomo all’eteronomia e all’alienazione, finisce in una sottomissione […] all’onnipotente flusso della storia […] l’anima umana si getta […] in balia al cieco dio della storia» (j. maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia 1983, pp. 21 – 22).
[9] «L’escatologia cristiana deve tentare di introdurre la speranza nel pensiero secolare, e il pensiero nella speranza del credente» (j. moltmann, Teologia della speranza, Brescia 1970, p. 26). La fede, poi, diventa storica quando diviene il ‘pensato’ dell’uomo che vive in una particolare situazione temporale, culturale: «la fede non è altro che il risultato del pensiero, e solo sul pensato si forma la tranquilla coscienza di possedere il vero. Ogni fede è nata da un ragionamento, e sia anche da un ragionamento che concludeva ad accettare un’autorità o una rivelazione» (b. croce, Il non pensare e la fede. Saggi filosofici, VI, Bari 1931, p. 103).
[10] Cfr., w. kasper, Teologia e Chiesa, Brescia 1989, p. 9.
[11] Cfr., p. c. hodgson, Wind of the Spirit, London 1994, pp. 53 – 54.
[12] m. – d. chenu, Le Saulchoir. Una scuola di teologia, Casale Monferrato 1982, p. 47. La Chiesa stessa, pur annunciando ininterrottam ente la propria natura invisibile, deve, al contempo, sentirsi interpellata dall’ora! Il Vangelo di Luca insiste molto sulla salvezza che viene “oggi, ora” nel mondo; un vangelo dell’urgenza! Gesù esorta Zaccheo a scendere subito dall’albero sul quale il peccatore si era arrampicato perché ‘oggi’ la salvezza deve entrare in casa sua. La Chiesa sente l’urgenza di incontrare il “mondo di Zaccheo” che è, leggendo oltre la pagina lucana, quello di ogni uomo che, qui ed ora, cerca il Senso e chiede aiuto: «la Chiesa cattolica […]  viene coinvolta dai problemi, nuovi e incalcolabili, che investono il nostro futuro» (b. häring, Diritti e limiti del dissenso, in «Concilium» XVIII (1982) 8, pp. 151 – 175, qui p. 151).
[13] Cfr., m. – d. chenu, La teologia come scienza. La teologia nel XIII secolo, Milano 1971, p. 16.  Altrove, lo stesso autore, scriveva: «ritrovando […] la sensibilità alla storia, l’uomo oggi approfondisce la sua fede, la “fedeltà” all’Incarnaizone. Si sbarazza di un docetismo, si un monofisismo che tendevano a tenere il Verbo incarnato fuori […] della realtà del mondo, e che lo vorrebbero oggi tenere […] in una contemplazione intemporale» (m. – d. chenu, Teologia della materia. Civiltà tecnica e spiritualità cristiana, Torino 1966, p. 19).
[14] Cfr., s. levi della torre, L’assenza invadente del divino, mostra e catalogo a cura di f. speronil. valeriani, Roma 2000, p. 48. Uno scrittore italiano sottolinea la necessità di non rinunciare a percorrere le “vie” verso l’Altro: «Molti vedono solo una piccola fessura dove tu trovi invece crepe e abissi. Cercherai Dio per tutta la vita e questo basterà a salvarti. Non smettere di cercare, ma sappi che, ovunque tu vada, ti guiderà sempre la sua Grazia» (p. v. tondelli, Rimini, in Opere, 2, voll., Milano 2000, I, p. 747).
[15] In «Vita sociale» 42 (1985), pp. 161 – 170 ed in «Koinonia» 170 (1995), pp. 7 – 14.
[16] Cfr., j. daniélou, Il cristiano e il mondo moderno, Siena 2004, p. 38.
[17] «La questione della salvezza». Intervista a Zoltan Alszeghy, s.j., a cura di Angelo Amato, in Interviste teologiche, a cura di c. dotolog. giorgio, Bologna 2009, pp. 13 – 19, qui, p. 18.
[18] Cfr., ch. péguy, Lui è qui. Pagine scelte (a cura di Davide Rondoni e Flora Crescini), Milano 2009, p. 476.
[19] Ibidem., pp. 485 – 486. Chi ha detto che Dio è soprattutto, sprezzantemente, Altro dal mondo? Diffidate di chi pensa di saperla lunga nel campo della fede cristiana: «Dio è qualcosa di radicalmente diverso da ogni altro qualcosa di cui si possa dire che è questo o quello. Di Dio si può soltanto dire che è qualcosa e non il nulla, che Egli è e basta» (a. kojève, L’ateismo, Macerata 2008, p. 24).
[20] Ibidem., p. 110. L’Incarnazione indica, senza possibilità di equivoci, che Dio “sceglie” il mondo! Sul valore permanente della Incarnazione, Chenu insegnava: essa «non è avvenuta una volta per tutte in un angolo della Giudea; dura sempre, vale sempre, vale ovunque, e tutto ciò che sfuggirà alla sua influenza sull’uomo e, attraverso l’uomo, su questo mondo ampio e magnifico, ripiomberà nella miseria: la redenzione del mondo sarebbe in tal caso fallita» (m. – d. chenu, Il Vangelo nel tempo, Roma 1968, pp. 90 – 91).
[21] Cfr., j. cocteauj. maritain, Dialogo sulla fede, Firenze 1988, p. 51.
[22] Cfr., «Una filosofia cristianamente ispirata». Intervista a Peter Henrici s.j., a cura di Andrea Di Maio, in Interviste teologiche, cit. pp. 195 – 216, qui p. 209.
[23] A tal proposito, un teologo contemporaneo esorta a sviluppare e mantenere una «educazione al mistero. Il senso del mistero che l’istituzione deve garantire; in fondo il significato dell’istituzione è garantire il mistero. Invece abbiamo condotto la storia della Chiesa sempre attraverso la societas perfecta». Ci viene da questo autore anche l’invito a recuperare la dimensione profetica: «oggi le nostre catechesi non fanno che discorsi moralistici, eticistici. Il discorso profetico è davvero altra cosa» («Rapporto tra mistica e istituzione». Intervista a Benedetto Calati o. s. b., a cura di Cettina Militello, in Interviste teologiche, cit. pp. 103 – 112, qui p. 108).
[24] Cfr., a. kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino 1973, pp. 109 – 111.
[25] Per comprendere questa posizione apparentemente ingarbugliata di Kojève, può aiutare questa citazione: «la parola “Dio” […] viene continuamente posta anche dall’ateo quando dice che non esiste alcun Dio. La parola “Dio” esiste […] anche per colui che dichiara che egli è morto e di cui teme lo spettro, come di colui di cui paventa il ritorno» (k. rahner, Corso fondamentale della fede, Alba 1977, pp. 72 – 73). Per quanto si dica ‘superata’ storicamente la “questione di Dio”, dunque, si continua a vivere di Lui: «La questione di Dio è quella di un dossier mai archiviato, la questione di Dio si caratterizza per il suo rientrare in gioco e sopravvivere alle confutazioni, rinascendo da tutte le condanne inflittele nella teoria e nella pratica» (j. l. marion, Dialogo con l’amore, Torino 2007, p. 81).
[26] Cfr., t. s. eliot, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica, Bologna 2003, p. 69.
[27] Cfr., w. dilthey, Critica della ragione storica, Torino 1982, p. 384.
[28] d. sternberger, Maestri del ‘900, Bologna 1992, p. 134.
[29] paolo vi, Mysterium Ecclesiae, Ench. Vat., 4, Bologna 1985, p. 1661, n. 2576.
[30] Cfr., k. hemmerle, Tesi di ontologia Trinitaria, Roma 1986, p. 35.
[31] Cfr., g. lafont, Storia teologica della Chiesa. Itinerario e forme della teologia, Cinisello Balsamo 1997, p. 160.
[32] Cfr., j. maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia 1983, p. 41.
[33] Ibidem., p. 46. La stessa dimensione ‘spirituale’ dell’uomo non si dà senza un qualche legame con il nicciano “amore per la terra”: «La situazione concreta in cui un uomo deve saper affrontare la sua vita cristiana è senz’altro un aspetto necessario della stessa spiritualità» (k. rahner, Confessare la fede nel tempo dell’attesa. Intervista, a cura di P. Imhof e H. Biallowons, Roma 1994, p. 97).
[34] w. kasper, Introduzione alla fede, Brescia 2003, pp. 43 – 44.
[35] Ibidem., p. 175. Il cristiano non è il solo a stare di fronte al rischio storico; l’uomo nichilista, che sorge alla “fine della storia”, pure vive e pensa «addentrandosi a lume di candela nel buio» (l. colletti, Fine della filosofia ed altri saggi, Roma 1996, p. 13).
[36] Ibidem., p. 179. Siamo tenuti a vivere perennemente alla «ricerca di un’etica della storia o di una storia da vivere in modo etico» (m. zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Milano 2000, p. 24).
[37] Ci possiamo accostare alle parole di un filosofo del Novecento: «l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero […] offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire». Tale “abbandono”, una simile “apertura” – «non accadono mai senza il nostro consenso, non sono […] accadimenti casuali […] scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e appassionato» (m. heidegger, L’abbandono, Genova 1983, p. 39). 
[38] Cfr., m. walzer, Esodo e rivoluzione, Milano 1986, p. 14. Riflettere sulla storia attraverso il paradigma teologico, aiuta a comprenderla meglio ed a sviluppare narrazioni che aprano nuovi sentieri. Le narrazioni bibliche ampliano le possibili visioni del mondo: per questo, «o si pensa teologicamente, o non si pensa abbastanza» (w. benjamin, Angelus novus, Torino 1976, p. 72).
[39] Levi Jizchak, sfidando il parere contrario del suocero, visitò un famoso rabbino. Al ritorno, lo scettico suocero gli chiese, con durezza, cosa avesse imparato. Che vi è un creatore del mondo – fu la risposta! Il vecchio, ironico, chiamò un servo e gli chiese se non fosse anche a lui nota la cosa… Alla risposta affermativa dell’umile servo, il vecchio gongolava. Il genero, però, oppose: Certo, tutti lo dicono, ma lo hanno veramente appreso?
[40] r. guardini, L’essenza del cristianesimo, Brescia 1993, p. 39.
[41] Ibidem., p. 11. «Cristo in persona è il momento decisivo della salvezza. Non la sua dottrina, non il suo esempio […], ma Egli stesso semplicemente» (p. 36).
[42] Cfr., p. gisel, La teologia: identità ecclesiale e pertinenza pubblica, Bologna 2009, p. 70. Giovanni Paolo II, al n.9 della Ecclesia in Europa, denunciò: «La cultura contemporanea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse».
[43] Ibidem, p. 116. L’autore fa notare che, in Occidente, il religioso, in generale, patisce una de-istituzionalizzazione delle forme ereditate ed una prepotente individualizzazione.
[44] Ibidem., p. 171. La teologia parla al mondo del gesto gratuito di Dio che si dà sulla Croce perché l’evento continua a fecondare la storia: «un Dio crocifisso ci salva innanzi tutto dal dio […] tremendo che risponde alla violenza con la violenza, che ha a disposizione tutto e tutti, ma non è disponibile a niente e per nessuno, capace di salvare se stesso e dannare gli altri» (s. fausti, L’idiozia. Debolezza di Dio e salvezza dell’uomo, Milano 1999, p. 58).
[45] Cfr., j. l. marion, L’idolo e la distanza, Milano 1978, pp. 18 – 19.
[46] Cfr., m. – d. chenu, Un novo evento: i teologi del Terzo Mondo, in «Concilium» 4/1981, p. 49.
[47] r. fisichella, La via della verità, Milano 2003, pp. 147 – 148. La cultura oggi ha bisogno della religione perché questa può conferire ad essa un sostanza diversa: «La religione è la sostanza della cultura, mentre la cultura è la forma della religione» (p. tillich, Theology of culture, New York 1959, p. 42). Il Vaticano II ci ha insegnato che si può trattare teologicamente la cultura e culturalmente la teologia perché la storia ha bisogno che entrambe aiutino l’uomo ad abitare sensatamente il mondo. Ha scritto H. Carrier: «Si minimizzerebbe il contributo reso alla cultura se ci si limitasse ai passaggi della Gaudium et spes che ne trattano in modo specifico… tutto è stato culturale nel Concilio, come tutto è stato teologico. In quest’ottica bisogna rileggere e interpretare i documenti principali…» (Cit. da r. latourelle (ed.), Vaticano II: Bilancio e prospettive, vol. 2, Assisi 1987, pp. 1447 – 1448).
[48] Cfr., Paul Ricoeur: la logica di Gesù. Testi scelti, a cura di Enzo Bianchi, Magnano (BI) 2009, p. 101. Il pensatore francese auspica lo stesso ampio respiro per il modo di comunicare della Chiesa: «la cristianità storica è una realtà sociologica di carattere minoritario, e lo è sempre di più; di conseguenza, se la chiesa ha un messaggio per il mondo e sui problemi politici del mondo, il suo messaggio deve essere pronunciato in qualche modo al di fuori della prospettiva della comunità confessante. Da qui la necessità di una predicazione a tutti gli uomini» (p. 94).
[49] Cfr., m. aime, Eccessi di culture, Torino 2004, p. 6. Una posizione simile è stata espressa da un biologo teorico: «Centrale nella maggior parte dei miti della creazione è la concezione che la vita sia un dono di Dio o degli déi. I Pueblo parlano del sipapu, aperture sacre nel terreno che spaziano da Città del Messico fino a nord di Santa Fe. Stando alla leggenda, le prime genti uscirono attraverso i sipapu del mondo sotterraneo e popolarono il nostro mondo. È interessante notare che gli spagnoli, conquistati i Pueblo, abbiano eretto il celebre Santuario de Chimayo proprio sopra il sipapu più settentrionale, dove, narra la leggenda, una sacra apertura sarebbe stata la fonte della sabbia sacra. Io stesso, in quel santuario, ho fatto passare quella soffice terra tra le mie dita, tra grucce abbandonate pendenti dai muri. Abbiamo costruito le nostre chiese sui siti sacri di altre culture e qui installato i nostri déi: Notre Dame, ad esempio, è ubicata su un sito sacro druidico […]. Ma questa usurpazione è anche una sorta di riconoscimento, un omaggio perverso  a una cultura più antica: un luogo sacro è un luogo sacro, come un giorno sacro è un giorno sacro» (s. kauffman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Torino 2010, p. 49).   
[50] moni ovadia, Difendere Dio, a cura di gabriella caramore, Brescia 2009, p. 80.
[51] Cfr., b. ferrero, Dieci buoni motivi per essere cristiani (e cattolici), Torino 2009, p. 12.
[52] Cfr., f. gogarten, Fra i tempi, in aa. vv., Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, p. 505.
[53] g. ruggieri, La compagnia della fede. Linee di Teologia fondamentale, Torino 1980, p. 14.
[54] b. barber, Il McMondo e i no global dopo l’attacco dell’11 settembre, in «la Repubblica», 29 gennaio 2002.
[55] Cfr., m. de cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Milano 1985, vol. II, p. 830. 

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