Per me la testimonianza dell’evangelo è
lo sguardo di benevolenza sugli sforzi e sui fallimenti delle società umane, lo
stesso sguardo che ha avuto Cristo sulla peccatrice. Sì, per me essere
testimone dell’evangelo significa avere questa attitudine di compassione e di
indulgenza per la fragilità umana.
(P.
Ricoeur)
Credo
avesse ragione lo scrittore Giorgio Saviane ad affermare che “Dio è rischio,
conquista”. L’uomo, nel corso della Storia, ha pagato non poco il cercarLo [1]. Le vie
che si possono scegliere (nulla a che vedere con quelle teologico/filosofiche
di San Tommaso) per arrischiarsi in simili itinerari sono numerose ed in questa
larga offerta il “pensare teologico” si apparenta a quello schiettamente
‘filosofico’ [2]. I. Kant ha, dal canto suo,
scritto: «alla filosofia si cerca di accostarsi per diverse vie». La teologia, però,
buona ma esigente compagna di viaggio, ha le più pesanti responsabilità in
questa arrischiata impresa. Essa si intreccia profondamente alla Storia perché pensa
la fede “degli uomini con nome e cognome”, delle comunità con le loro
peculiarità culturali [3]. Il
derivato dei modi di vivere la religione, in generale, la fede cristiana, in
particolare, ha scritto storie che, gloriose o degne di biasimo, pesano sul presente
e, certo, possono influire non poco sul futuro. Un errore, dunque, sarebbe
quello di confondere la Speranza cristiana con un generico affidamento ad un
futuro migliore, disconoscendo che l’escatologia comincia dalla convinzione che
la soteriologia fonda sul quotidiano! D’altro canto, come ricordava Husserl ad
un livello meramente filosofico, l’uomo
è un essere che progetta il suo futuro. Un progetto minacciato dall’incertezza che si espande a tutti i
livelli di vita [4]. Uno dei “mattoni
fondamentali” di tale ‘progetto’ è, non solo per il cristiano, la Speranza [5]. Solo
quando il futuro escatologico mi avrà mostrato la Verità potrò farne a meno;
mentre camminiamo nel tempo, sperare è aiuto e compagnia essenziale. S.
Agostino, a sostegno di questa posizione, scriveva: «La speranza non ci sarà
più quando vedremo ciò che speriamo. La speranza è necessaria durante il
cammino e ci aiuta nel viaggio» (Sermone 158, 8, 8). Il mondo contemporaneo, in
questo anticristiano, pensa, all’opposto, che la speranza non ha alcun senso
nel presente proprio perché non prelude ad alcuna pienezza del Senso in un
futuro ‘escatologico’ [6]. Si
può registrare, semmai, appena qualche grottesca e debole allusione ad esso nel
sentire contemporaneo. Nell’Ulisse di Joyce, la stranita Molly, afferma: «Che
scocciatura questa vita! Spero ci sia riservato qualcosa di meglio nell’altro
mondo».
Minimalismo
che solo “obtorto collo” si può lontanamente accostare ad una sbiaditissima
forma di escatologia. Ripensare in termini appropriati certe questioni è,
ormai, impegno irrinunciabile: mai come oggi, fosse pure in forme deviate e
devianti, le questioni riguardo al sacro, la religioso affollano le agende
degli intellettuali e della gente comune. In questo momento storico, quali sono
le responsabilità dei teologi? In che atmosfera, semiosfera la teologia
cristiana deve attualizzare la Parola di Dio? Troppa spiritualità degna sola di
un “supermarket delle religioni” entra a costituire i nostri deviati ed
impoveriti “desiderata” di ispirazione religiosa. Il Dio ebraico – cristiano ha
un Volto: è Qualcuno, non qualcosa! Il musicista Schönberg, nel suo Mosé ed
Aronne, fa dire al primo: - nessuna immagine può darti un’immagine
dell’irraffigurabile… Il secondo, replica: - puoi forse amare ciò che non ti è
concesso di raffigurare? I teologi devono ricordare che Dio mai ha concesso il
diritto di raffigurarceLo; tuttavia, in Cristo, ci ha rivelato il modo che Egli
stesso predilige per farsi incontrare [7]. Lo
scandalo è che Dio ha scelto proprio l’uomo che, invece, barcollava nel buio
forgiando idoli ed immagini destinate a sbiadire subito. La libertà rabbiosa
dalla Trascendenza ha portato non tanto alla valorizzazione della storicità ma,
nella maggior parte dei casi, alla idolatria dell’immanenza [8]. La
teologia, se non comprende e prende sul serio la sete di Senso, di fede, di Dio
dell’uomo contemporaneo, lascia che – per riprendere l’espressione di un Profeta
– ci si abbeveri a “cisterne screpolate”. Se le adesioni al religioso sono, per
molti versi, patologiche, i teologi non possono aggirare il dovere di apportare
chiarezza. Nel deserto del Senso giganteggiano troppi miraggi religiosi: il
divino appare una illusione ottica quale unica risorsa all’arsura. Come disse
Evelyn Waugh, “quando i pozzi sono asciutti la gente prova ad attingere al
miraggio”. Si tratta di versare nei pozzi asciutti del “non senso” quell’acqua
che, come Gesù rivela alla Samaritana, ci farà abbandonare la brocca vuota
della disperazione. Andare e venire ininterrottamente dai pozzi per attingere
miraggi sta mettendo in pericolo il prosieguo stesso della Storia. La speranza
cristiana può guarire il pessimismo letale del pensiero attuale, senza
tralasciare, però, di mostrare al credente la necessità di non rinunciare al
pensiero [9].
Siamo
chiamati ad indagare il rapporto tra “teologia” e “storia”; in prima battuta, direi
che la e trae in inganno! In realtà,
la natura stessa del sapere teologico fa problema: può essere “universale” una
teologia che non si declina nei diversi linguaggi, nelle diverse culture? Sopra
parlavo delle numerose “vie” per iniziare a fare
i conti con la “questione di Dio”; vie,
perché ci si mette in cerca solo sulle strade del mondo, tra gli uomini con
nome e cognome e non arroccandosi su accademici convincimenti. Fare teologia
significa essere sempre pronti a cambiare, laddove fosse a maggior Gloria di
Dio e per il bene dell’uomo, direzione. Parlando della religione, Sri Aurobindo, disse: è una via che conduce a Dio. Una via non è una casa. Il credente è un itinerante che non teme le soste
presso gli altri perché la sua fede “si fa” camminando
e non si custodisce nel baule dei ricordi nella soffitta di una casa protetta da ogni folata di vento. La
questione primaria così va posta: l’universalità
e la declinazione particolare sono elementi
diametralmente opposti? Ci si chiede:
«Come
può una teologia essere universale e al tempo stesso tener conto del pluralismo
insopprimibile delle lingue e delle culture […] della legittima autonomia dei
singoli ambiti? Come può essere pluralistica senza divenire relativistica? Come
possiamo conciliare la pluralità legittima con la necessaria unità della
teologia?» [10].
La
teologia non vive fuori del mondo e non potrebbe, in alcun caso, evitare che
sulla propria pelle vengano a ricamarsi questioni accese da saperi nati in
campi di ricerca eteronomi, o da istanze che, fino ad ora non aveva preso in
considerazione; infatti, le «principali svolte a livello di paradigma culturale
hanno generalmente provocato corrispondenti svolte sul piano del paradigma
teologico» [11]. Nel Novecento, l’intero
edificio dell’umano sapere ha conosciuto riscritture ispirate, se non imposte,
dal noto fenomeno della complessità,
del multiforme che aggrediscono a
tutti i livelli il “mondo della vita”! Tale mutamento
di paradigmi culturali non poteva lasciare inviolato il patrimonio
teologico! Il “pluralismo” è un fatto:
ci sono diversi modi di ‘vedere il mondo’, di ‘raccontarlo’ e non è detto che
debbano essere “sistemi in lotta”; si tratta di comprendere che la Verità non si dà se non in verità legittime
nei vari contesti linguistico/culturali. È utile richiamare le posizioni di un
teologo francese del Novecento che, a Le Saulchoir, riprese la Tradizione, i
Padri della Chiesa, san Tommaso per rileggerli attraverso le provocazioni e le
istanze del mondo moderno!
Marie
– Dominique Chenu (1895 – 1990) fece a tal punto i conti con il suo tempo che
non disdegnò, a prezzo di rischi notevoli, di offrire la propria solidarietà ai
preti operai. La storia, per lui, è il luogo
della Parola di Dio. Nel mondo
non si hanno che tracce della
Trascendenza. Se non le amiamo, però, non ci parlano dell’Oltre!
Diceva
Novalis che cerchiamo ovunque
l’incondizionato (Ubedingte) e troviamo sempre e solo cose (Dinge); cose che, però, nella loro mondanità
lasciano tralucere, all’occhio interiore dell’uomo di fede, l’Incondizionato. Chenu ha lasciato ai
teologi una lezione che si può agevolmente ricamare sulla pelle dei nostri
tempi vivibili all’insegna della complessità e del disincanto esasperato:
«Il
teologo non ha e non può avere alcuna speranza d’incontrare il proprio dato
fuori dalla storia […], da quell’auditus
fidei che si diffonde nel tempo, da Abramo […] fino a Cristo e nella Chiesa
di Cristo in modo permanente lungo i secoli» [12].
Si
parla della pedagogia di Dio: la
Rivelazione, cioè, avviene per gradi e tiene conto della progressiva maturità
dell’uomo. I Padri dicevano che non poteva darsi in una sola volta la
Rivelazione, altrimenti ci avrebbe schiacciato. Essa va esposta tenendo presente la capacità
ricettiva dei credenti. Il teologo lavora
su una storia. La fede è stata pensata in modi diversi e, perciò, «la
storia della teologia nutre la teologia» [13]. Rinunciare a simili ricerche e ritenere la
“questione di Dio” indifferente per il futuro del mondo, intristisce e minaccia
il presente; infatti, «ci siamo trovati più nudi di fronte ad un’oscurità […]
su cui non sappiamo più proiettare l’illusione di un volto divino, rassicurante
[…] cui affidare il senso che a noi sfugge» [14]. L’intelligenza
in teologia conosce, per Chenu, un “uso scientifico” del quale bisogna rendere ragione pur riconoscendo che la
“scienza teologica” non esiste sganciata dal mistero della Parola di Dio. Il 17 marzo 1985, nel convento di
Saint Jacques, concesse una intervista a padre Aldo Tarquini [15]. Nel
corso del colloquio, Chenu tornò sul nostro tema e sintetizzò: «ho introdotto
il metodo storico nella teologia». Fu una presa di posizione non facile e, se
si attirò il biasimo di Roma, fu perché lì «avevano de – temporalizzato la
teologia».
Un
altro teologo francese, partiva da un presupposto cristologico; infatti,
scriveva, i contemporanei di Gesù «ebbero accesso alla sua invisibile divinità
tramite il contatto con la sua umanità sensibile» [16].
La
concretezza del Verbo impone di tenere in gran considerazione anche la
dimensione storica dell’uomo, senza farla scadere in “idolatria
dell’immanenza”! Un guasto, tuttavia, si produce nella mentalità cristiana:
«se
i cristiani contemporanei hanno giustamente denunciato le illusioni del mito
del progresso, sono spesso caduti in un pessimismo che li induce a guardare con
diffidenza le prospettive del futuro […]. Il salutare realismo […] non deve
impedire ai cristiani di condividere le legittime aspirazioni al miglioramento
della condizione umana» (cit. p. 70). Il nostro autore ci invita, pertanto, ad
essere gli artigiani della città nuova perché
chi costruisce bene ‘nel tempo’ edifica, contemporaneamente, per
l’‘escatologico’; sì, «le speranze umane hanno un legame con la speranza teologale»
- che è - «l’attesa dei beni eterni, ma […] la lotta nella città terrena per
dare il pane a chi non ne ha e per vestire gli ignudi, è una condizione per
diventare cittadini della città celeste» (p. 74). Combattere lo scetticismo del
mondo riguardo alla proposta cristiana non è urgente quanto lo sforzo di
irrobustire la fede dei cristiani: «Non è il mondo che dubita dei cristiani.
Troppo spesso sono i cristiani a dubitare […] dell’efficacia sociale della loro
fede» (p. 76).
Ci
siamo già chiesti: come può la teologia
essere pluralistica senza conoscere l’amara deriva del relativismo? Ebbene,
la scuola di Le Saulchoir, con Chenu, risponde: «La teologia […] è emanazione
dell’esperienza di vita, per questo c’è un pluralismo in teologia». I Vangeli, in
fondo, contengono già una teologia che documenta dei modi di vivere con Cristo.
È dall’esperienza di comunità di credenti che riceviamo la Parola! La teologia
è viva se si lascia interrogare dalle comunità nei modi che esse hanno
sviluppato. La vita spirituale accoglie
il pensiero concettuale e questo evita
di irrigidirsi lasciandosi avvolgere dalle calde braccia della quotidiana fede
vissuta: «La vita spirituale […] ha bisogno anche di essere pensata
concettualmente… E la teologia è questo strumento perché uno possa […] anche
[…] vedere i rapporti che esistono tra i vari aspetti del messaggio cristiano.
Credo che lo studio sia un’esigenza della vita spirituale stessa. D’altra
parte, la teologia, se diventa veramente matura, scopre che le sue formule concettuali
sono tutte inadeguate e perciò ci vuole un elemento […] intuitivo […]. Questo
si ha solo nell’esperienza vissuta dalla fede» [17].
È
opportuno parlare di teologie piuttosto
che di Teologia? Il popolo cristiano
non è il passivo punto di accumulazione della fede pensata dai teologi, ma ne è
anche fonte ed ispirazione. La teologia,
dichiarava Chenu a padre Tarquini, «non è prima di tutto a servizio dei
vescovi, ma del popolo di Dio; […] la vera teologia […] è incarnata nella vita
del popolo». Siamo tutti noi la Chiesa ed i destinatari del Suo insegnamento.
Quello che intendo dire è illustrabile con un aneddoto. Un giornalista chiese a
Madre Teresa di Calcutta: - Che cosa dovrebbe cambiare nella Chiesa?
Sorridendo, rispose: - Io e lei! Ognuno di noi, con le proprie potenzialità e
finanche con i propri limiti, è chiamato a lavorare per il bene della Chiesa. Popolo è realtà eterogenea e, dunque,
quanti concorrono a costituirlo, non vivono e pensano la fede allo stesso modo.
L’intervista più volte richiamata a Chenu si chiudeva citando un episodio
tratto dalla vita di san Francesco. Il Poverello di Assisi ricevette, la
gerarchia ecclesiastica sospettava del Suo modo di vivere il Vangelo, la visita
di un cardinale. Il visitatore lo interrogò a lungo e, tra le altre cose, gli
chiese: - Dov’è il vostro chiostro? Conducendolo
fuori a vedere la città, Francesco rispose: - Il mondo è la nostra clausura e
l’oceano il nostro chiostro! Il miglior modo di rendere presente, fittamente
intrecciata alle trame della Storia la Parola, è predicarla nel dialogo
quotidiano con altri. San Francesco ci è guida preziosa anche in questo caso.
Si racconta che, un giorno, uscendo dal convento, incontrò frate Ginepro e lo
invitò a predicare. L’umile frate fece presente che la poca istruzione rendeva
l’invito troppo impegnativo. Francesco, però, insistette ed il compagno andò
con lui in città. La girarono tutta pregando in silenzio per quelli che
lavoravano; sorridevano ai bambini e con particolare attenzione a quelli più
poveri; colloquiavano con gli anziani ed accarezzavano i malati. Una donna
portava un recipiente colmo d’acqua ed i frati l’aiutarono con letizia.
Francesco propose a Ginepro di tornare in convento; questi, perplesso, domandò:
- E la nostra predica? Ed il Santo, sorridendo, rispose piano: - L’abbiamo
fatta… l’abbiamo fatta. La clausura, il chiostro, per l’uomo di fede è il
“mondo”. Confrontandoci con esso dobbiamo mostrare che non si può fare a meno
di Cristo! Un acerrimo nemico della fede cristiana, Ernest Renan, sottolineò: strappare il nome di Gesù dal mondo sarebbe
come scuoterlo dalle fondamenta. Charles Péguy disse che l’Incarnazione deve stare in diretta
connessione con la grazia temporalizzata e storicizzata:
«Come
Gesù è stato veramente e letteralmente fatto uomo, nello stesso modo […]
lealmente e senza inganno la grazia è stata fatta temporale e storica» [18].
Dio
si è innestato in maniera irreversibile nella Storia. Giunge troppo tardi
l’invito spavaldo del poeta Prévert: ‘Padre
Nostro che sei nei cieli, restaci! L’errore che si commetteva nella Chiesa
Cattolica prima del Concilio Vaticano II era quello di de – temporalizzare la teologia. Denigrare il mondo non significa
recarsi più vicino a Dio; coprire il rifiuto di confrontarsi con la realtà con
un presunto, insano, amore per Dio è atteggiamento letale:
«Non
basta abbassare il mondo per salire alla categoria di Dio […]. Poiché non hanno
il coraggio di essere del mondo credono di essere di Dio» [19].
Cristo
non è venuto per condannare, ma per salvare il mondo; come potrebbe, allora, un
cristiano essere tranquillo nel testimoniare il proprio amore per Dio
attraverso il disprezzo per il mondo?
«venne
Gesù […] aveva da fare tre anni […]. Ma egli non perse affatto i suoi tre anni,
egli non li impiegò a gemere ed a interpellare il malore e la disgrazia dei
tempi. Vi era comunque la disgrazia […] del suo tempo […]. Egli tagliò corto
[…]. Egli non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo» [20].
L’opera
di Cristo è sempre in fieri! Rifiutare
questo dono di Dio alla Storia non accresce la nostra libertà; piuttosto,
accentua la nostra disperazione, la solitudine esistenziale e metafisica. Un
antico adagio, attribuito a Publilio Siro, recita: donum accipere libertatem est perdere (accettare un dono significa perdere la libertà). Riguardo al
Cristo, dono del Padre all’uomo, la massima perde ogni giustificazione ad
esistere: in Cristo Dio libera l’uomo dal peccato e dalla disperazione. Per una
testimonianza autentica, attingiamo ancora al fervido humus intellettuale francese del Novecento. A causa della morte di
Raymond Radiguet, Jean Cocteau si trovò avviluppato tra le spire di un dolore
invincibile e si affidò all’“oppio”! Era ossessionato dalla “morte”. Un giorno,
però, a casa di Maritain, conobbe un missionario. Cocteau dirà che
quell’incontro gli aveva procurato lo stesso choc subito osservando le opere di
Picasso ed ascoltando certa musica… A Maritain, scrisse che, Nostro Signore, è ridicolo deificarlo: «ama essere vissuto
[…]. Bisogna tradurlo in tutte le lingue vive» [21]. Dio
parla se Cristo viene vissuto
traducendolo in tutte le lingue vive! Il Cristianesimo non è un
dolcificante che attenua i bocconi amari della Storia. Cocteau l’aveva capito:
«C’è forse un programma più eccitante, più scabroso, che seguire alla lettera il
Cristianesimo?» (cit. p. 60). La Chiesa deve fare tesoro di queste anime che
giungono alla fede attraverso tormenti di non lieve entità. Nel Post Scriptum del libretto dal quale
attingo, l’intellettuale francese racconta di un sacrestano di Villefranche:
quell’uomo lo caccia dalla chiesa puntualmente alle sei «perché si chiude.
Scuote le chiavi […], mi fa una scena perché non esco abbastanza in fretta».
Riteneva, perciò, il nostro autore, essere soltanto una bella farsa l’idea che la Chiesa attira il mondo (pp. 64 – 65). La
Chiesa deve stare molto attenta, a partire dai ‘sacrestani’, a non dare l’idea
di essere incapace di calarsi nella storia, nel mondo… La sua appassionata
partecipazione alla vita degli uomini non deve mai apparire come una “bella
farsa”. Opponendosi alla Chiesa, che ricorreva all’anatema per escludere l’altro, Simone Weil, diceva: Io resto dalla parte di tutte le cose che
non possono entrare nella Chiesa. Solo se essa è fedele a Cristo ed agli
uomini possiamo ripetere oggi le
parole di sant’Agostino: non crederei al Vangelo se non vi fossi spinto dall’autorità della
Chiesa Cattolica (Contra ep. Manichei
5, 6). La Chiesa mostri di avere la Verità
indissolubilmente legata alla Carità.
Un filosofo gesuita ama la formula di Ricoeur: “Spero di essere nella verità”. Commenta: «La verità è sempre più
ricca della nostra comprensione di essa» [22].
Riguardo al “modo di comunicare”, poi, Henrici, aggiunge: «la qualità della
comunicazione della Chiesa dipende da
quella della comunicazione nella Chiesa
[…]. Purtroppo resiste ancora a volte una certa vecchia mentalità
ecclesiastica, per cui vale più il segreto che la trasparenza» (cit. p. 215).
La Chiesa tenga nel giusto conto la fede vissuta, la vita spirituale, l’apporto
della mistica per evitare che perfino un sacrestano possa darne una immagine
deleteria [23]. Si può pensare che
l’uomo postmoderno abbia definitivamente lasciato alle spalle l’uomo cristiano?
La risposta è negativa. Alexandre Kojève, dice che l’Uomo che si “converte” culturalmente resta pur sempre ciò che è
unicamente grazie al ricordo. Una
specie animale, al contrario, si “converte” per mutazione in altra specie e, dunque, «non ha più nulla a che vedere
con quella donde è uscita»; invece, l’Uomo
«ricordandosi
del dato che è stato e che ha negato – rimane ‘specificamente determinato’ (bestimmt) dai caratteri concreti di tale
dato, pur essendo libero nei suoi confronti dacché lo ha negato» [24].
Si
è liberi dal ‘dato’ negato, ma si diventa ciò che si è proprio in virtù di
quanto neghiamo. Rimaniamo, allora, specificamente
determinati dai caratteri concreti del dato (nel nostro caso, dal cristianesimo) pur avendo avuto la libertà di negarlo. Siamo anche ciò che
abbandoniamo. Kojève cita Hegel: l’uomo “non è rimasto una cosa immediata”, ma
si ‘fa’, ‘agisce’ negandosi come ‘dato’. È, infine, una «realtà umana dialettica solo in quanto è storico: ed è tale solo ricordandosi
del suo passato sorpassato». L’uomo è storico non solo perché è una realtà
dialettica, ma anche perché può richiamare il passato; sì, anche il nostro
passato cristiano! Siamo determinati dai dati dai quali siamo liberi perché li
abbiamo negati [25].
Richiamare
il passato, la tradizione, non significa vivere con la sindrome del torcicollo. La tradizione cristiana chiede, poiché il
cristianesimo stesso è storico, di entrare a far parte attivamente del tempo
presente. Si riferiva alla letteratura, ma T. S. Eliot ha lasciato parole
impiegabili anche nei riguardi della tradizione cattolica:
«La
tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi
vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si
abbia, anzitutto, un buon senso storico […]; avere senso storico significa
essere consapevole […] che il passato […] è anche presente» [26].
Ad
ogni buon conto, respiriamo sempre nell’atmosfera della storicità; per tappe,
in progressione continua si dà la verità (anche quella religiosa) all’uomo che
non potrà mai pensare di possedere l’essere interamente in un determinato
momento storico. Ricordo una frase di Karl Jaspers: noi non viviamo immediatamente dell’essere, perciò la verità non è un
nostro possesso definitivo; noi viviamo nell’essere temporale; perciò la verità
è la nostra via. Di fronte al mistero
di Dio è necessario un atteggiamento più umile. Il poeta greco Nikos
Katzantzakis raccontava di aver visitato un monastero turco di dervisci
danzanti; riportò parte di un dialogo svoltosi tra un cristiano ed un
derviscio: “Che nome date a Dio, Reverendo?” – domandò l’abate. “Non ha alcun
nome”, rispose il derviscio. “Dio – aggiunse – non si può costringere in un
nome. Il nome è una prigione e Dio è libero”. “Ma”, ribatté il Reverendo, “se
volete chiamarlo, se è necessario, come lo chiamate?”. “Oh!” – rispose il
derviscio – “lo chiamerò oh!”. Tremando,
l’abate a voce sommessa, disse: ha
ragione. In realtà, non ha ragione! Dio, per noi, ha un Nome, un Volto, ma
ha – avendo assunto la nostra umanità, storicizzatosi – tutti i volti, tutti i
nomi. Aveva ragione a dire Cocteau che Dio ama
essere vissuto e tradotto in tutte le lingue vive. Né prigioniero in un
nome, né completamente anonimo perché dissolto in un oh! La “verità”, per noi, ad ogni buon conto, non può che essere
una via… un progressivo storicizzarsi… È un sentire
assai intimo al pensiero moderno:
«la
vita esiste solo […] nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non
rechiamo nella vita nessun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità
che il senso e il significato sorgono soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma
non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico» [27].
Qui
sta lo splendore e la miseria dello storicismo:
il senso non va imposto, ma atteso ed inteso come possibilità che si dona a
noi. Tale assunto dice che non possiamo avanzare la pretesa di essere i
depositari del Senso; tuttavia, se ci riteniamo passivi di fronte ad esso,
patrociniamo un’antropologia riduttiva; in più, mentre per il cristianesimo il
“singolo” non ha un valore inferiore rispetto ai “molti”, per una visione strictu sensu storicista, il destino
dell’uomo storico (un’astrazione!),
conta più di quello che interessa l’uomo con nome e cognome. Le rivoluzioni
allestite con spirito utopico guardano alle grandi realizzazioni in favore
dell’umanità e sono disposte a mettere in conto, con troppa leggerezza, le sofferenze
e persino la morte dei singoli. Uno studioso scrive che il “massimo difetto” di
Marx, fu di avere una speranza senza
amore:
«L’idea
che la rivoluzione dovesse produrre in un colpo solo tutto ciò che, invece,
dobbiamo realizzare noi stessi, con senso di fedeltà, giorno per giorno […] non
una volta per tutte. L’ethos della
riforma può suonare più povero del pathos
della rivoluzione, ma promette frutti più sicuri. Il sogno efficace della vita
migliore è di casa […] dove l’errore è ritenuto possibile […]. Ma lì dove ci si
ritiene in possesso del giusto e del vero e si è del tutto certi della salvezza
mondana […] lì sperare è ancora pericoloso» [28].
La
proposta cristiana, che la teologia illustra, ha una speranza piena d’amore,
d’immortalità per “ogni uomo” e non per un “modello d’uomo”. L’umanità, per la mentalità cristiana, viene presa sul serio nel singolo. Dio si è incarnato in Gesù… in quell’uomo, non genericamente nell’Uomo!
Gesù stava in rapporto dialettico con i modi di vivere la religione del Suo
tempo; pertanto, vale anche per Lui:
«Il
condizionamento storico incide sull’espressione della rivelazione» [29].
Il
cristianesimo si è dato la forma che conosciamo confrontandosi con culture animate
da altre categorie mentali ed ispirate da credenze anche ad esso diametralmente opposte. Scrive un
autore tedesco:
«Considerando
l’evoluzione dogmatico – teologica dei primi secoli si parla, non a torto, di
un’ellenizzazione del pensiero cristiano […]. Effettivamente, se il
cristianesimo si fosse venuto a trovare storicamente in un diverso orizzonte di
pensiero, di civiltà e di linguaggio, sicuramente nella fisionomia della sua
tradizione e della sua teologia si sarebbero impressi tratti diversi da questi»
[30].
Nel
nostro tempo, essendo il cristianesimo ancora una volta in un diverso orizzonte di pensiero, di civiltà e
di linguaggio, si tratta di comprendere quale fisionomia la sua tradizione e
la sua teologia possono assumere.
Dobbiamo fare, piaccia o no, qualche concessione alle istanze contemporanee se
vogliamo che il messaggio cristiano continui ad ispirarci: «se non si cede
abbastanza alla modernità», ed alla post-modernità,
«si rischia […] di continuare a difendere la fede, ma in spazi in cui l’uomo a
poco a poco ha cessato di abitare» [31]. Nel
Novecento, merito di Maritain è quello di aver messo in luce le cose che non
vanno – dal punto di vista storico – nel “mondo cristiano”; poi, però, precisa
che tiene ad «escludere ogni malinteso»: con le parole “il mondo cristiano”,
continua, «designo una categoria sociologica, inclusa nell’ordine e nella
storia delle civiltà temporali e che è qualcosa di questo mondo, ma che non è
il Cristianesimo, né la Chiesa. Le deficienze del mondo cristiano non possono
offuscare né il Cristianesimo, né la Chiesa» [32].
Vero è che non spetta al Cristianesimo, alla Chiesa (che stanno oltre i guasti
del sempre cangiante ‘mondo cristiano’) portare la felicità (infatti, si tratta di portare verità), ma non va escluso del tutto, a detta del filosofo, che
possano contribuire, non poco, a «ravvivare le energie di giustizia e d’amore
nelle profondità dell’esistenza temporale» (cit. p. 42). Sia per “ravvivare
energie di giustizia e d’amore” nell’ambito delle “realtà terrestri”, sia per
portare (principalmente) “verità”, resta fermo, per Maritain, che «un
Cristianesimo decorativo […] non è più sufficiente. La fede deve essere […]
reale, viva, pratica. Credere in Dio deve significare vivere in maniera tale
che la vita non potrebbe essere vissuta se Dio non esistesse. La speranza
terrestre nel Vangelo potrà così finalmente divenire la forza vivificatrice
della storia temporale» [33].
La
speranza terrestre nel Vangelo non
porta guasti; sperare, invece, è pericoloso laddove qualcuno si ritiene possessore del “giusto” e del “vero”. Nella
speranza cristiana, invece, il nostro fare è sempre ispirato dall’attesa di una
Promessa che non delude e non è manipolabile dalle nostre capacità progettuali:
«Il
futuro di Dio, quale lo confessa la fede cristiana, non è un futuro dal basso (futurum), ma un a – venire (Zu – kunft) nel senso originario della
parola […] sfugge al potere dell’uomo di pianificare e […] a noi in –
deducibilmente avviene (adventus)» [34].
Da
questo discende la consapevolezza, per Kasper, che la sola «speranza nel futuro
escatologico di Dio rende possibile dei progetti intrastorici per il futuro».
Comprendere la storia aiuta a chiarirsi dove e quando lasciar agire Dio? No, in
queste cose un margine di rischio rimane sempre. Kasper non può non rilevare
che «la chiesa, la sua predicazione e la teologia devono spesso imboccare il
sentiero dell’esperimento e del rischio storico» [35]; la
storia, tuttavia, non è, come pensano alcuni, un cammino soggetto alle leggi
della razionalità. Il nostro autore, infatti, avvisa:
«non
si deve […] confondere la storia con lo sviluppo organico. La storia non si
sviluppa, ma sempre di nuovo è posta in gioco nella decisione» [36].
Sempre di nuovo! Il cristiano è “creatura esodale”, frequentatore
della “via”: è l’uomo dell’aperto che
si abbandona con fiducia all’attesa di un Evento e, laddove potrebbe
causare danni per superbia antropologica, lascia
essere le cose [37]. Le grandi utopie, come quella marxista,
per esempio, sono piene di riferimenti, simboli, concetti, vocaboli biblici! La
liberazione di Israele dall’Egitto assurge a modello di ogni altra
liberazione.:
«L’Esodo
è una storia, una grande storia, che è diventata parte della coscienza
culturale dell’Occidente – tanto che una serie di eventi politici sono stati
collocati e capiti all’interno della sua cornice narrativa. Questa storia ha
reso possibile il racconto di altre storie» [38].
La
Bibbia è una matrice. Leggendo la storia degli ebrei si comprende sempre più
che il Dio Provvidenza non poteva non essere il Creatore. Il Dio creatore e che
ci accompagna nella Storia è l’Altro
di fronte al Quale posso essere davvero Io
perché un Tu mi riconosce. Essere
consapevoli che Dio è il Creatore non è lo stesso che saperlo a livello
meramente nozionale [39]. La
Bibbia rende consapevoli del fatto che il Creatore è l’Altro che ci chiama ad
una relazione reale per fare assieme la Storia. L’Esodo è narrazione che genera
altre storie; per noi cristiani, l’esodo diventa percorso di liberazione che
riscuote successo unicamente se passiamo sulla Via/Cristo:
«La
‘via’ nel senso cristiano è la persona stessa di Gesù Cristo» [40].
Il
Cristianesimo non ha interesse a stabilire concettualmente una verità (sarebbe,
al più, una certezza!). Conclude Guardini:
«Il
cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita
[…] è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo
è costituito da Gesù di Nazaret […] da una personalità storica» [41].
Stiamo
trattando questioni da richiamare continuamente perché dobbiamo partire da una
constatazione amara:
«Nel
nostro tempo bisogna prendere atto della fine di un’evidenza del Dio cristiano»
[42].
Lo
si può notare soprattutto nel fatto che l’uomo stenta a credere non solo di
essere capace di dare un ‘senso’ al mondo, ma nutre pure sfiducia verso la
possibile di ricevere in dono il ‘Senso’. L’uomo, ormai, semplicemente più non
“crede”:
«Credere
vuol dire anche simboleggiare un mondo e dargli senso […] iscrivervi delle
finalità, anche se questa finalità viene da altrove» [43] .
Né
le “finalità” venienti ad extra, né
quelle costruite paiono credibili. In un mondo orfano di uomini capaci di
credere nel futuro, la teologia deve fornire un modo ‘altro’ di abitare. Una
alternativa che non de – forma il
mondo, ma lo rispetta per dei – formarlo
deve essere la proposta teologica. Conclude Gisel:
«la
teologia non fa appello a un altro mondo; essa illumina diversamente il mondo e
l’umano che in esso si dispiega o l’umano di cui il mondo è intessuto» [44].
La
teologia illumina diversamente il mondo e
l’umano e, per farlo, non disdegna di attingere alle “realtà terrestri”.
Dobbiamo purificare lo sguardo per intercettare “tracce divine” nel mondo;
fissare non più l’idolo, bensì, l’icona:
«L’idolo
tenta di avvicinarci al divino e di adattarcelo […] l’idolo perde la distanza
che identifica e autentica il divino come tale – come ciò che non ci
appartiene, ma ci viene incontro. All’idolo, per contrapposizione, risponde
l’icona. Di che offre il volto l’icona? “Icona del Dio invisibile” (Col 1, 15),
dice del Cristo san Paolo» [45].
L’idolo fa pensare che il divino sia
vicino, prossimo, fino a divenire manipolabile; l’icona, invece, Volto del
Cristo, rende visibile il Dio invisibile! Cristo è l’icona che Dio ha ricamato
sulla pelle della storia perché l’uomo Lo vedesse! Nel mondo dei volti che
portano i segni, gioiosi o dolorosi, del fare la Storia la Parola di Dio trova
il luogo privilegiato. I teologi del Terzo Mondo, vedono Cristo nella storia dei
“poveri cristi” che vivono la povertà evangelica come un dramma quotidiano:
«Se
la parola di Dio si esprime incarnandosi nella storia […] – la teologia – non
s’elabora più partendo anzitutto da testi […] normativi dal punto di vista
giuridico […], ma […] dalla fede attualmente vissuta nella comunità» [46].
Ci
sono popoli che appellano al Vangelo aspettando nutrimenti essenziali per rafforzare
l’attesa della Speranza. Di fronte alla crescente domanda di giustizia dei
poveri, dei perseguitati, dei naufraghi della Storia, dei “dannati della terra”
(Fanon), la teologia ha da dire molto; anzi, proprio laddove pare sia il caso
di levare le tende, deve rintracciare il terreno giusto per accamparsi. La
teologia va in esodo con tutti quelli che, come Israele, fuggono la schiavitù
(di qualunque natura sia) e preferiscono farsi guidare dal Signore. La teologia
deve compromettersi con la Storia perché nessuno ha le mani più sporche di chi
non se le è sporcate per tirare il fratello fuori dal fango. I rapporti tra Teologia e Storia meritano studio attento, ma prima mettiamo al sicuro una
convinzione:
«Il
passaggio epocale che la storia ci pone dinanzi obbliga a porsi domande che
fino a ieri non avrebbero trovato molto spazio anche all’interno della
riflessione teologica […]; alla teologia non è permesso rimanere alla finestra
e osservare distrattamente quanto avviene nella piazza sottostante […]. È
compito della teologia […] esprimere il suo contributo perché all’umanità che
cerca di raccapezzarsi in questo momento di sbandamento sia permesso di
ritrovare la strada che la conduce verso un futuro carico di senso» [47].
CONCLUSIONE
- La
teologia deve con – vivere nelle storie
e non solo vivere a contatto con la Storia
La
teologia, per non perdere i contatti con la Storia deve divenire sempre più
consapevole del fatto che, essenziale alla sopravvivenza dell’umanità, è lo scambio di memorie, la convivenza di storie e narrazioni.
Scambiarsi le proprie storie è la
sola possibilità perché i popoli continuino a fare la Storia perché in essa si gioca la “questione di Dio”. La teologia
deve abbandonare l’atteggiamento di chi – per riprendere Fisichella – rimane
alla finestra e osserva
distrattamente quanto avviene nella piazza sottostante! Viviamo nell’epoca
della globalizzazione: le ‘ragioni’
degli altri impongono di rivedere le nostre ‘figure della ragione’ che, fino a
qualche tempo fa, vantavano pretese universali; oggi, invece, vale l’interculturalità. Globalizzare le
memorie, significa esportare le proprie storie, intrecciarle nel raccontarsi
reciproco. La globalizzazione venne correttamente intesa dal cristianesimo
originario:
«Paolo
è il primo a comprendere e meditare» quella che si potrebbe definire
«“globalizzazione” della croce, quando la proietta al di là delle differenza
umane: “Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo, né libero” (Gal 3, 28); dalla
globalizzazione della croce procede una sorta di negativismo nei confronti
delle attuali disparità dell’ordine economico – sociale e politico» [48].
Un
antropologo italiano ci ricorda che, ad Istanbul, c’è un edificio che ammette
due denominazioni: ‘Santa Sofia’ e ‘Aya Sofya’. Venne eretto da Giustiniano nel
537 e dedicato alla “Divina Sapienza”. Ne presero possesso, nel 1453, gli
Ottomani che, sebbene di fede musulmana, lo lasciarono non solo intatto, ma
corsero ai ripari per impedire che si riducesse in macerie. L’aspetto odierno è
quello di un “museo” nel quale coesistono
“mosaici cristiani” e “passi del Corano”! L’antropologo si chiede perché non ci
riesca di pensare alla cultura richiamandosi al glorioso edificio di Istanbul;
cultura, cioè, intesa come
«un
sovrapporsi e un intrecciarsi di storie, idee, gusti, identità, sogni, scienza.
È più facile pensare a […] frontiere che ci piace credere come naturali […],
difficili da cancellare. “Le frontiere?” ha affermato il viaggiatore norvegese
Thor Heyerdhal. “Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e
stanno tutte nella mente degli uomini» [49].
La
teologia deve proporsi come il ‘Santa Sofia’ di Istanbul: nella sua storia si
intreccino storie, idee, identità, sogni, scienza. Si dovrebbe fare, infine, teologia
come se si esercitasse il mestiere del saltimbanco.
L’intellettuale ed uomo di teatro Moni Ovadia, afferma: «Io cerco sempre di
proteggere e ribadire il mio statuto di saltimbanco, anche “legittimato” da un Midrash che racconta come due grandissimi
maestri dell’ebraismo guardando una piazza di mercato riflettessero insieme in
questi termini. Il primo disse: “Secondo te di questi uomini chi andrà in
Paradiso?”. L’altro […] rispose: “Secondo me i due saltimbanchi”. “Perché?”.
“Perché fanno ridere la gente”. Allora ecco la mia ricetta: meno effrazione ed
intrusione nello statuto del Divino, un po’ più di quel ridere intelligente e
vertiginoso che ci mette di fronte alla nostra infinita fragilità e
aleatorietà, un po’ di silenzio in cui questo ridere alto può risuonare nella
sua massima profondità» [50].
- Il
credente deve fare frutto nella Storia
Se
ci limitiamo a nutrirci dei riferimenti della fede cristiana, raggomitolati in
una fedeltà che assomiglia per lo più a pigrizia, non avremo un rapporto autentico
con la Storia. Ognuno di noi faccia crescere frutti nel campo della Storia;
frutti che abbiano l’inequivocabile sapore di Dio! Mi spiego con una storiella.
Un uomo che voleva diventare saggio, salì su di una montagna che, si
raccontava, ogni due anni registrava la manifestazione di Dio. Per un anno
l’uomo si nutrì di quanto la terra donava; finito il cibo, però, se ne andò
protestando per la mancata teofania. L’aspirante saggio era deluso per aver
atteso invano. Apparve, però, un angelo e disse: - A Dio piacerebbe moltissimo
parlare con te. Per tutto l’anno ti ha nutrito. Sperava che tu provvedessi alle
tue necessità nell’anno seguente. Ma, in tutto questo tempo che cosa hai
piantato?
Se un uomo non è capace di far
crescere frutti là dove vive, non è pronto a parlare con Dio [51].
Egli, infatti, volendoci responsabili
(capaci – abili – di rispondere), ci interpella sul nostro fare in favore degli
altri, del mondo, della Storia: In tutto il tempo che ti ho concesso, cosa hai
piantato? Nel cuore del nostro tempo,
dobbiamo “piantare” nuovamente una “domanda fondamentale” e che riprende il
quesito che si pose, nel 1920, un teologo protestante: se oggi in genere ci siano uomini capaci di pensare realmente Dio.
Rispondeva: «Ancora non possiamo pensare a Dio» [52].
Sebbene si viva zwischen den Zeiten –
fra i tempi – lo spazio che si è
aperto, liberato per “la domanda su Dio”, a detta del teologo, ci blocca; sì,
perché, chi sta ‘fra i tempi’ patisce il fatto che «il tempo sta in silenzio»
(cit. p. 507). Mi viene da pensare che, forse, questo silenzio oppressivo
riguarda gli “intellettuali di Dio” e non certo quelli che Moni Ovadia chiama i
“saltimbanchi”: quelli, cioè, che rendono gaia la gente mostrando con
leggerezza la vitalità del credere che li anima.
Fare
teologia con il volto cupo e l’animo spento significa piantare cardi sul già
disastrato terreno della contemporaneità. Questo significa, onestamente,
tradire il proprio mandato di
teologo; la teologia, infatti, è «responsabilità della fede di fronte
all’altro» (Altro) [53].
Apriamo, piantiamo spazi nei quali “la domanda su Dio, il pensare a Dio” siano
possibili ed avremo davvero fatto, del nostro ufficio teologico, un dono
prezioso all’uomo ed assai gradito al Signore. La situazione, oggi, è pesante e
credo che possiamo sottoscrivere le parole del Consigliere dell’ex Presidente
degli Stati Uniti Clinton:
«Dov’è lo spazio per la preghiera, per i riti
religiosi comuni, per i beni spirituali e culturali in un mondo in cui
l’economia globale gira grazie alla commercializzazione di beni materiali? […].
Se l’unica scelta che abbiamo è quella tra i mullah e i centri commerciali, tra
l’egemonia dell’assolutismo religioso e quella del determinismo del mercato, né
la libertà, né lo spirito umano possono prosperare» [54].
Respirare
sana ed autentica spiritualità è davvero difficile e la Storia non può
proseguire se certe dimensioni dell’uomo inaridiscono. Piantare semi di autentica fede cristiana può – come auspica Barber
– aprire, donare possibilità ricche di vere opportunità soteriologiche:
piantare il seme della preghiera evita di rimanere appiattiti sulle logiche del
mercato e sprona a fare la Storia con la motivata Speranza che sul timone le
mani le ha messe Dio. Chi prega, chi pratica la propria fede rinunciando,
laddove è necessario, alla seduzione delle merci e della religiosità a buon
mercato, ringrazia Dio e serve l’uomo. Lo sappiamo: mai potremo fare qualcosa
per Dio che Egli non abbia già concesso a noi, abbondantemente e con largo
anticipo; tuttavia, la Storia assume altre pieghe se l’uomo sa mostrarsi ancora
“grato” a Chi l’ha rinnovato
ontologicamente. Sentirsi redenti aiuta a relazionarsi al meglio con gli altri
e con gli accadimenti storici. Saper ringraziare per il dono della Salvezza è
il segreto di chi vuole continuare a leggere teologicamente la Storia. Si legge
in un romanzo col quale, dal punto di vista letterario, si inaugura la
modernità:
«Il
più delle volte coloro che ricevono sono inferiori a coloro che danno; così Dio
è superiore a tutti, perché è il sommo datore, e i doni dell’uomo non possono
contraccambiare con parità quelli di Dio per l’infinita distanza da Lui; ma in
certo modo la gratitudine supplisce a questa insufficienza e pochezza» [55]
[1] Il
male è che, per lo più, Lo si è cercato poggiando su presupposti razionali che
tengono out gli affluenti emotivi,
affettivi: «per duemila anni (il Cristianesimo) ha cercato di spiegare in
Occidente il messaggio cristiano sostanzialmente con i mezzi dell’intelletto
[…] così la storia dei dogmi è diventata una storia violenta all’interno e
verso l’esterno […] perché non è mai possibile spiegare pienamente le immagini
della fede con i mezzi razionali» (e.
drewermann, Parole per una terra da scoprire. Testi scelti e introdotti da K. Walter,
Brescia 1993, pp. 235 – 236).
[2]
Invece, una netta separazione tra fides
et ratio veniva sponsorizzata da un filosofo ebreo: «Affermiamo per certo
che né la teologia è tenuta a servire la ragione, né la ragione la teologia, ma
[…] ciascuna è padrona nel proprio campo […]: la ragione nel campo della verità
e della sapienza, la teologia in quello della pietà e dell’obbedienza» (b. spinoza, Trattato teologico – politico, Torino 1984, p. 364).
[3] Un
teologo contemporaneo scrive che la sua vita, il suo pensiero sono stati guidati
dal riferimento a “due Altri”: l’Altro
religioso e l’Altro sofferente:
«ho compreso con sempre maggior forza ed apprensione di dover parlare con gli
Altri sofferenti e religiosi come cristiano
e teologo. Se […] non sono in grado di continuare il mio lavoro teologico nel
dialogo e nell’incontro vivificante con ambedue questi Altri, allora la mia
fede non è autentica e la mia teologia è uno svago» (p. knitter, Una terra
molte religioni. Dialogo interreligioso e responsabilità globale, Assisi
1988, pp. 18 – 19).
[4] Le
forze che l’emancipazione della società civile lascia erompere da sé «stanno
spaccando l’Europa in “due nazioni” […]. L’unità della civiltà occidentale è
minacciata dal duello fra lo spirito della Tradizione e lo spirito della
Modernità: un duello mortale […] in tutti i campi» - e ciò comporta che -
«mentre la cogenza dei vecchi principi si va affievolendo, i nuovi principi non
sono ancora pienamente vigenti» (l.
pellicani, Saggio sull’origine del
capitalismo. Alle origini della
modernità, Milano 1988, p. 349).
[5]
Speranza che, nella modernità, ha subito danneggiamenti enormi. Rileva uno
psicologo: (Dopo la Seconda Guerra Mondiale il «mondo cristiano è […] veramente
messo a confronto col principio del Male […] la sua prima violenta eruzione si
ebbe in Germania, e rivelò fino a qual punto il cristianesimo del secolo XX
fosse stato svuotato di contenuto» (c. g.
jung, Ricordi, sogni, riflessioni,
Milano 1965, p. 366). Non possiamo dimenticare la follia, paradossalmente
espressa con toni religiosi, dal grande persecutore degli ebrei: «È perché
credo di agire secondo lo spirito dell’Onnipotente, nostro creatore, che: Nel difendermi dall’ebreo combatto per
difendere l’opera del Signore» (a
hitler, Mein Kampf (1924) – La mia vita. La mia battaglia, Milano 1941, I,
p. 70). Tirare Dio dalla propria parte per commettere un genocidio: anche
questo è stato il “secolo breve”!
[6] La
prova del Cristianesimo, però, si gioca tutta qui: far rilucere nel tempo un
anticipo della realizzazione completa del progetto di Dio. «Il principio della
verifica della fede cristiana […] consiste nel fatto che i cristiani […]
mostrano nella loro vita pratica di possedere una speranza capace di trasformare il mondo già sin da ora» (e. schillebeeckx, Dio, il futuro dell’uomo,
Roma 1970, p. 199).
[7] La
filosofia ha la sua importanza nelle cose della fede, ma “incontrare Cristo” è
qualcosa che avviene ad una profondità maggiore: «Dio s’incontra a un livello
troppo profondo perché la filosofia, intesa come indagine dimostrativa e metafisica
oggettiva, possa parlarne» (l. pareyson, Filosofia ed esperienza religiosa,
«Annuario filosofico», 1, 1985, p. 46).
[8]
«Questa rottura con Dio, cominciata come una […] rottura fiera […] con tutto
ciò che sottomette l’uomo all’eteronomia e all’alienazione, finisce in una
sottomissione […] all’onnipotente flusso della storia […] l’anima umana si
getta […] in balia al cieco dio della storia» (j.
maritain, Il significato
dell’ateismo contemporaneo, Brescia 1983, pp. 21 – 22).
[9] «L’escatologia
cristiana deve tentare di introdurre la speranza nel pensiero secolare, e il
pensiero nella speranza del credente» (j.
moltmann, Teologia della speranza,
Brescia 1970, p. 26). La fede, poi, diventa storica quando diviene il ‘pensato’
dell’uomo che vive in una particolare situazione temporale, culturale: «la fede
non è altro che il risultato del pensiero, e solo sul pensato si forma la
tranquilla coscienza di possedere il vero. Ogni fede è nata da un ragionamento,
e sia anche da un ragionamento che concludeva ad accettare un’autorità o una
rivelazione» (b. croce, Il non pensare e la fede. Saggi filosofici,
VI, Bari 1931, p. 103).
[10]
Cfr., w. kasper, Teologia e Chiesa, Brescia 1989, p. 9.
[11] Cfr., p. c. hodgson, Wind of
the Spirit, London 1994, pp. 53 – 54.
[12] m. – d. chenu, Le Saulchoir. Una scuola di teologia, Casale Monferrato 1982, p.
47. La Chiesa stessa, pur annunciando ininterrottam ente la propria natura
invisibile, deve, al contempo, sentirsi interpellata dall’ora! Il Vangelo di Luca insiste molto sulla salvezza che viene
“oggi, ora” nel mondo; un vangelo dell’urgenza! Gesù esorta Zaccheo a scendere subito dall’albero sul quale il
peccatore si era arrampicato perché ‘oggi’
la salvezza deve entrare in casa sua. La Chiesa sente l’urgenza di incontrare
il “mondo di Zaccheo” che è, leggendo oltre la pagina lucana, quello di ogni
uomo che, qui ed ora, cerca il Senso e chiede
aiuto: «la Chiesa cattolica […] viene coinvolta
dai problemi, nuovi e incalcolabili, che investono il nostro futuro» (b. häring, Diritti e limiti del dissenso, in «Concilium» XVIII (1982) 8, pp.
151 – 175, qui p. 151).
[13]
Cfr., m. – d. chenu, La teologia come scienza. La teologia nel
XIII secolo, Milano 1971, p. 16.
Altrove, lo stesso autore, scriveva: «ritrovando […] la sensibilità alla
storia, l’uomo oggi approfondisce la sua fede, la “fedeltà” all’Incarnaizone.
Si sbarazza di un docetismo, si un monofisismo che tendevano a tenere il Verbo
incarnato fuori […] della realtà del mondo, e che lo vorrebbero oggi tenere […]
in una contemplazione intemporale» (m. –
d. chenu, Teologia della materia.
Civiltà tecnica e spiritualità cristiana, Torino 1966, p. 19).
[14]
Cfr., s. levi della torre, L’assenza invadente del divino, mostra e
catalogo a cura di f. speroni – l. valeriani, Roma 2000, p. 48. Uno
scrittore italiano sottolinea la necessità di non rinunciare a percorrere le
“vie” verso l’Altro: «Molti vedono
solo una piccola fessura dove tu trovi invece crepe e abissi. Cercherai Dio per
tutta la vita e questo basterà a salvarti. Non smettere di cercare, ma sappi
che, ovunque tu vada, ti guiderà sempre la sua Grazia» (p. v. tondelli, Rimini,
in Opere, 2, voll., Milano 2000, I,
p. 747).
[15] In
«Vita sociale» 42 (1985), pp. 161 – 170 ed in «Koinonia» 170 (1995), pp. 7 –
14.
[16]
Cfr., j. daniélou, Il cristiano e il mondo moderno, Siena
2004, p. 38.
[17] «La
questione della salvezza». Intervista a Zoltan Alszeghy, s.j., a cura di Angelo
Amato, in Interviste teologiche, a
cura di c. dotolo – g. giorgio, Bologna 2009, pp. 13 – 19,
qui, p. 18.
[18]
Cfr., ch. péguy, Lui è qui. Pagine scelte (a cura di
Davide Rondoni e Flora Crescini), Milano 2009, p. 476.
[19] Ibidem., pp. 485 – 486. Chi ha detto che
Dio è soprattutto, sprezzantemente, Altro
dal mondo? Diffidate di chi pensa di
saperla lunga nel campo della fede cristiana: «Dio è qualcosa di radicalmente
diverso da ogni altro qualcosa di cui si possa dire che è questo o quello. Di
Dio si può soltanto dire che è qualcosa e non il nulla, che Egli è e basta» (a. kojève, L’ateismo, Macerata 2008, p. 24).
[20] Ibidem., p. 110. L’Incarnazione indica, senza possibilità di equivoci, che Dio
“sceglie” il mondo! Sul valore permanente della Incarnazione, Chenu insegnava: essa
«non è avvenuta una volta per tutte in un angolo della Giudea; dura sempre,
vale sempre, vale ovunque, e tutto ciò che sfuggirà alla sua influenza
sull’uomo e, attraverso l’uomo, su questo mondo ampio e magnifico, ripiomberà
nella miseria: la redenzione del mondo sarebbe in tal caso fallita» (m. – d. chenu, Il Vangelo nel tempo, Roma 1968, pp. 90 – 91).
[22]
Cfr., «Una filosofia cristianamente ispirata». Intervista a Peter Henrici s.j.,
a cura di Andrea Di Maio, in Interviste
teologiche, cit. pp. 195 – 216, qui p. 209.
[23] A
tal proposito, un teologo contemporaneo esorta a sviluppare e mantenere una
«educazione al mistero. Il senso del mistero che l’istituzione deve garantire;
in fondo il significato dell’istituzione è garantire il mistero. Invece abbiamo
condotto la storia della Chiesa sempre attraverso la societas perfecta». Ci viene da questo autore anche l’invito a
recuperare la dimensione profetica:
«oggi le nostre catechesi non fanno che discorsi moralistici, eticistici. Il
discorso profetico è davvero altra cosa» («Rapporto tra mistica e istituzione».
Intervista a Benedetto Calati o. s. b., a cura di Cettina Militello, in Interviste teologiche, cit. pp. 103 –
112, qui p. 108).
[24]
Cfr., a. kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel,
Torino 1973, pp. 109 – 111.
[25] Per
comprendere questa posizione apparentemente ingarbugliata di Kojève, può
aiutare questa citazione: «la parola “Dio” […] viene continuamente posta anche
dall’ateo quando dice che non esiste alcun Dio. La parola “Dio” esiste […]
anche per colui che dichiara che egli è morto e di cui teme lo spettro, come di
colui di cui paventa il ritorno» (k.
rahner, Corso fondamentale della
fede, Alba 1977, pp. 72 – 73). Per quanto si dica ‘superata’ storicamente
la “questione di Dio”, dunque, si continua a vivere di Lui: «La questione di
Dio è quella di un dossier mai
archiviato, la questione di Dio si caratterizza per il suo rientrare in gioco e
sopravvivere alle confutazioni, rinascendo da tutte le condanne inflittele
nella teoria e nella pratica» (j. l.
marion, Dialogo con l’amore,
Torino 2007, p. 81).
[26]
Cfr., t. s. eliot, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la
critica, Bologna 2003, p. 69.
[27]
Cfr., w. dilthey, Critica della ragione storica, Torino
1982, p. 384.
[28] d. sternberger, Maestri del ‘900, Bologna 1992, p. 134.
[29] paolo vi, Mysterium Ecclesiae, Ench. Vat., 4, Bologna 1985, p. 1661, n. 2576.
[30]
Cfr., k. hemmerle, Tesi di ontologia Trinitaria, Roma 1986,
p. 35.
[31]
Cfr., g. lafont, Storia teologica della Chiesa. Itinerario e
forme della teologia, Cinisello Balsamo 1997, p. 160.
[32]
Cfr., j. maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo,
Brescia 1983, p. 41.
[33] Ibidem., p. 46. La stessa dimensione
‘spirituale’ dell’uomo non si dà senza un qualche legame con il nicciano “amore
per la terra”: «La situazione concreta in cui un uomo deve saper affrontare la
sua vita cristiana è senz’altro un aspetto necessario della stessa
spiritualità» (k. rahner, Confessare la fede nel tempo dell’attesa.
Intervista, a cura di P. Imhof e H. Biallowons, Roma 1994, p. 97).
[34] w. kasper, Introduzione alla fede, Brescia 2003, pp. 43 – 44.
[35] Ibidem., p. 175. Il cristiano non è il
solo a stare di fronte al rischio storico;
l’uomo nichilista, che sorge alla “fine della storia”, pure vive e pensa
«addentrandosi a lume di candela nel buio» (l.
colletti, Fine della filosofia ed
altri saggi, Roma 1996, p. 13).
[36] Ibidem., p. 179. Siamo tenuti a vivere
perennemente alla «ricerca di un’etica della storia o di una storia da vivere
in modo etico» (m. zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale,
Milano 2000, p. 24).
[37] Ci
possiamo accostare alle parole di un filosofo del Novecento: «l’abbandono di
fronte alle cose e l’apertura al mistero […] offrono la possibilità di
soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo
fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire». Tale “abbandono”, una
simile “apertura” – «non accadono mai senza il nostro consenso, non sono […]
accadimenti casuali […] scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e
appassionato» (m. heidegger, L’abbandono, Genova 1983, p. 39).
[38]
Cfr., m. walzer, Esodo e rivoluzione, Milano 1986, p. 14.
Riflettere sulla storia attraverso il paradigma
teologico, aiuta a comprenderla meglio ed a sviluppare narrazioni che aprano
nuovi sentieri. Le narrazioni bibliche ampliano le possibili visioni del mondo:
per questo, «o si pensa teologicamente, o non si pensa abbastanza» (w. benjamin,
Angelus novus, Torino 1976, p. 72).
[39] Levi
Jizchak, sfidando il parere contrario del suocero, visitò un famoso rabbino. Al
ritorno, lo scettico suocero gli chiese, con durezza, cosa avesse imparato. Che vi è un creatore del mondo – fu la
risposta! Il vecchio, ironico, chiamò un servo e gli chiese se non fosse anche
a lui nota la cosa… Alla risposta affermativa dell’umile servo, il vecchio
gongolava. Il genero, però, oppose: Certo,
tutti lo dicono, ma lo hanno veramente appreso?
[40] r. guardini, L’essenza del cristianesimo, Brescia 1993, p. 39.
[41] Ibidem., p. 11. «Cristo in persona è il
momento decisivo della salvezza. Non la sua dottrina, non il suo esempio […], ma
Egli stesso semplicemente» (p. 36).
[42]
Cfr., p. gisel, La teologia: identità ecclesiale e
pertinenza pubblica, Bologna 2009, p. 70. Giovanni Paolo II, al n.9 della Ecclesia in Europa, denunciò: «La
cultura contemporanea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte
dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse».
[43] Ibidem, p. 116. L’autore fa notare che,
in Occidente, il religioso, in generale, patisce una de-istituzionalizzazione delle forme ereditate ed una prepotente
individualizzazione.
[44] Ibidem., p. 171. La teologia parla al
mondo del gesto gratuito di Dio che si dà sulla Croce perché l’evento continua
a fecondare la storia: «un Dio crocifisso ci salva innanzi tutto dal dio […]
tremendo che risponde alla violenza con la violenza, che ha a disposizione
tutto e tutti, ma non è disponibile a niente e per nessuno, capace di salvare
se stesso e dannare gli altri» (s. fausti,
L’idiozia. Debolezza di Dio e salvezza
dell’uomo, Milano 1999, p. 58).
[45]
Cfr., j. l. marion, L’idolo e la distanza, Milano 1978, pp.
18 – 19.
[46]
Cfr., m. – d. chenu, Un novo evento: i teologi del Terzo Mondo, in «Concilium» 4/1981, p. 49.
[47] r. fisichella, La via della verità, Milano 2003, pp. 147 – 148. La cultura oggi ha
bisogno della religione perché questa può conferire ad essa un sostanza
diversa: «La religione è la sostanza della cultura, mentre la cultura è la
forma della religione» (p. tillich,
Theology of culture, New York 1959,
p. 42). Il Vaticano II ci ha insegnato che si può trattare teologicamente la
cultura e culturalmente la teologia perché la storia ha bisogno che entrambe
aiutino l’uomo ad abitare sensatamente il mondo. Ha scritto H. Carrier: «Si
minimizzerebbe il contributo reso alla cultura se ci si limitasse ai passaggi
della Gaudium et spes che ne trattano
in modo specifico… tutto è stato culturale nel Concilio, come tutto è stato
teologico. In quest’ottica bisogna rileggere e interpretare i documenti
principali…» (Cit. da r. latourelle
(ed.), Vaticano II: Bilancio e prospettive, vol. 2, Assisi
1987, pp. 1447 – 1448).
[48]
Cfr., Paul Ricoeur: la logica di Gesù.
Testi scelti, a cura di Enzo Bianchi, Magnano (BI) 2009, p. 101. Il
pensatore francese auspica lo stesso ampio respiro per il modo di comunicare
della Chiesa: «la cristianità storica è una realtà sociologica di carattere
minoritario, e lo è sempre di più; di conseguenza, se la chiesa ha un messaggio
per il mondo e sui problemi politici del mondo, il suo messaggio deve essere
pronunciato in qualche modo al di fuori della prospettiva della comunità confessante.
Da qui la necessità di una predicazione a tutti gli uomini» (p. 94).
[49]
Cfr., m. aime, Eccessi di culture, Torino 2004, p. 6.
Una posizione simile è stata espressa da un biologo teorico: «Centrale nella
maggior parte dei miti della creazione è la concezione che la vita sia un dono
di Dio o degli déi. I Pueblo parlano del sipapu,
aperture sacre nel terreno che spaziano da Città del Messico fino a nord di
Santa Fe. Stando alla leggenda, le prime genti uscirono attraverso i sipapu del
mondo sotterraneo e popolarono il nostro mondo. È interessante notare che gli
spagnoli, conquistati i Pueblo, abbiano eretto il celebre Santuario de Chimayo
proprio sopra il sipapu più settentrionale, dove, narra la leggenda, una sacra
apertura sarebbe stata la fonte della sabbia sacra. Io stesso, in quel
santuario, ho fatto passare quella soffice terra tra le mie dita, tra grucce
abbandonate pendenti dai muri. Abbiamo costruito le nostre chiese sui siti
sacri di altre culture e qui installato i nostri déi: Notre Dame, ad esempio, è
ubicata su un sito sacro druidico […]. Ma questa usurpazione è anche una sorta
di riconoscimento, un omaggio perverso a
una cultura più antica: un luogo sacro è un luogo sacro, come un giorno sacro è
un giorno sacro» (s. kauffman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione
e della religione, Torino 2010, p. 49).
[51]
Cfr., b. ferrero, Dieci buoni motivi per essere cristiani (e
cattolici), Torino 2009, p. 12.
[52] Cfr., f. gogarten, Fra i tempi, in aa. vv., Le
origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, p.
505.
[53] g. ruggieri, La compagnia della fede. Linee di Teologia fondamentale, Torino
1980, p. 14.
[54] b. barber, Il McMondo e i no global dopo l’attacco dell’11 settembre, in «la
Repubblica», 29 gennaio 2002.
[55]
Cfr., m. de cervantes, Don Chisciotte
della Mancia, Milano 1985, vol. II, p. 830.
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