Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

AGOSTINO E LA PAROLE

Che io ti cerchi, Signore, invocandoti; che io ti invochi credendo in te, perché la tua parola ci è stata annunciata – Agostino, Confessioni, I, 1.1.

Per avere una immediata percezione di quanto la Parola fosse al centro della vita di Agostino d’Ippona, potremmo iniziare la nostra riflessione con un aneddoto. Il vescovo africano, durante una messa, si portò sulla balaustra per dare la comunione, ma briciole di pane consacrato (allora non c’erano ostie azzime) caddero sul pavimento; due donne, con rapidità e piene di zelo religioso, si misero a raccoglierle. Agostino, pur rispettando quel gesto pio, non ne fu del tutto contento. Dopo la comunione, infatti, ecco cosa disse a quelle donne:
“Signore, avete fatto un bel gesto di fede, bene. Ma quando poco fa vi trasmettevo la Parola, voi chiacchieravate tra voi. Sapete quante briciole avete lasciato perdere? Sappiate che la Bibbia e l’eucaristia sono il medesimo Pane, e le loro briciole le medesime briciole”.
Nutre il Corpo di Cristo, ma nutre anche la Parola biblica! L’amore per essa fu, per il Nostro, lenta e faticosa conquista iniziata con il rifiuto della scrittura e della lettura. Nelle Confessioni – la sua autobiografia - si legge che, mandato a scuola per imparare a leggere e scrivere, era, riguardo a questo dovere, assai refrattario:
“non ne percepivo l’utilità” (1, 9. 14).
Scriveva e leggeva poco e quasi nulla imparava. Tanta svogliatezza, però, non mancherà di imputare anche ad una discutibile pedagogia. Le tende alla finestra della scuola – spiega con sottile ironia – non servivano tanto ad evitare le distrazioni degli alunni quanto, piuttosto, a fare da “velo per nascondere l’errore di una pedagogia sbagliata” (1, 13, 22). Col tempo, il vescovo africano capì che non erano le parole in sé ad avere scarso valore ed a provocare la sua indifferen za riguardo l’apprenderne l’uso; annota nelle Confessioni: non “accuso le parole, che sono come calici preziosi, ma il vino che in quei calici preziosi ci veniva propinato da insegnanti ubriachi. E se noi non si beveva, eravamo picchiati” (1, 16, 26). Le parole erano vuote di quanto potesse divenire vita in chi ascoltava:
“eravamo costretti a correre dietro le finzioni poetiche” (1, 17, 27). Da questo gigante del cristianesimo viene un monito ai pedagogisti ed agli insegnanti: non si può avere una relazione seria, vitale con parole che – al più – offrono uno spettacolo della vita, ma non la fanno risuonare vivacemente in esse! Ad ogni buon conto, più avanti, Agostino parla dei suoi progressi in retorica e, sinceramente pentito, ammette:
“Mi ero molto distinto nella scuola di retorica. Ne andavo superbo e mi gonfiavo di orgoglio”.
L’autocritica diventa critica ed ecco come ricorda il suo professore di retorica: un docente di Cartagine, un uomo dal le gote gonfie di paroloni. Il contatto con Dio diventerà verace quando il Maestro d’Ippona prenderà siderali distan ze dall’uso superficiale del linguaggio.

Nell’ottavo Libro delle Confessioni si mostra come sia sempre difficile cercare Dio, rispondere alla Sua chiamata: “Dovunque si manifestava la verità delle tue parole (…), non sapevo darti per risposta che (…) pigre e sonnolenti parole”; non faceva che dire adesso, ma la decisione di aderire alla proposta divina veniva irrimediabilmente procrastinata! La verità delle parole di Dio non guarisce immediatamente il nostro pigro e sonnolento dire che incoraggia, piuttosto, la fuga da Dio. È dovuto, tutto questo, anche al fatto che Dio ci vuole, più che solerti e veloci nel risponderGli, convinti! Egli rispetta la nostra libertà! Non c’è alcun automatismo tra chiamata e risposta, ma c’è, invece, bisogno che una terapia della Parola guarisca la patologia del dire umano che ritarda l’incontro con Dio. Nessuno sa quanto siano lunghi i tempi della cura e, poi, ogni uomo ha una diversa reazione all’urto con Dio. Il fine non è aderire ad un messaggio di natura religiosa, ma quello di aprirsi all’avventura di una vera e propria ‘conoscenza di sé’, impossibile alla creatura se non avviene l’incontro con il Creatore; come amava ripetere il Nostro: noverim me, noverim te (Che io conosca me, che io conosca te). Nel dialogo Dio/Uomo ne va della nostra identità. Che la piena, autentica conoscenza di sé possa realizzarsi unicamente in un evento dialogico è convinzione fondata direttamente in Dio, nel Suo essere. Scrive uno studioso che dalla

“comunicazione della parola non è esente nemmeno l’Essere eterno, anzi (…), è proprio tale Essere che si caratterizza come comunicazione della Parola, segno del suo eterno Pensiero. Nella logica della comunicazione, così come appare dalla rivelazione cristiana, è la Verità stessa che si esprime anche nella creazione (…). Dio stesso ha assunto la particolarità della Parola dell’Essere Trinitario, mostrando così la sua natura dialogica e relazionale e ponendosi a fondamento teologico e metafisico della parola dell’uomo. Una parola fondata ontologicamente non può che ritrovare il suo modello nel Logos stesso che la precede e la giustifica” [1].

Il logos non è autoreferenziale, ma è strutturato (ed in parte ricevuto) dal Logos divino che è intrinsecamen te dialogico in quanto Dio è unico, ma non solo: è dialogo intratrinitario, dialogo d’Amore tra Persone divine (pericore si). Nel Libro decimo delle Confessioni, Agostino mostra la potenza terapeutica della Parola che è reale proprio perché, come appena argomentato, è ispiratrice e fondatrice del nostro logos: “Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità”. La Parola guarisce l’ascolto malato dell’uomo che si rende sordo alla voce divina. In latino, surdus significa sì chi non percepisce suoni, ma è implicato anche nella parola assurdo: sordità ed assurdità – anche in ambito etimologico/ semantico – sono strettamente imparentate. Dio chiama anche guarendo lo sguardo: “balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità”. Anche l’aria dell’immanenza è irrespi rabile senza il profumo della Trascendenza: “diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te”.
Il respiro dell’anima deve essere potenziato, per anelare al Trascendente, dalla fragranza di Dio. Se la luce (intesa in senso fisico) è necessaria alla vista, se il parlare mostra che siamo interessanti per l’altro e perciò esistiamo (si esiste solo in quanto altri ci riconosce), va detto che l’uomo – per chi aderisce all’antropologia cristiana – è fornito anche di sensi spirituali. Se si ammala il corpo, ovvio, si convoca il medico; se si ammala la ‘sfera spirituale’, invece, chi può guarire? I sensi spirituali presentano patologie se lontani dalla fonte vitale che li alimenta. Scrive Origene:

“Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera ‘luce’ per illuminare gli occhi dell’anima, il ‘Verbo’ per essere udito, il ‘pane’ di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato ‘olio’ e ‘nardo’ perché l’anima si diletti dell’odore del Logos, egli è divenuto ‘il Verbo fatto carne’ palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita” (Commento al Cantico II, 167, 25).

Il nutrimento spirituale è assicurato totalmente da Cristo che é perfino l’odore che diletta l’anima. Tutto questo, però, deriva dal fatto che si sia fatto carne (Logos sarx), rendendosi ‘palpabile ed attingibile’. Parola sì, ma carne; carne sì, ma per comunicarsi come Parola viva. L’aneddoto agostiniano col quale abbiamo aperto, l’aveva anticipato: Parola e Corpo di Cristo sono inscindibili!

Le parole, tuttavia, sono una ricchezza incalcolabile per aprirsi a Dio. Solo quando ne avremo sondato l’intima debolezza sapremo che abbiamo necessità di sentire altro, di lasciarci raggiungere da un dire radicalmente diverso. Un periodo di comunicazione patologica è da considerarsi positivo solo se tale arco di tempo critico diviene una palest ra nella quale sviluppare il muscolo di questa consapevolez za: il dire umano indifferente alla Trascendenza, è mutilato. Agostino, nel De Trinitate (XV, 28, 51), desiderava che lo si portasse oltre le parole: “Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’intimo della mia anima”. Quando sarà goduta tale liberazione? “Quando arriveremo alla tua presenza, cesseranno queste molte parole”.
Le parole muoiono solo quando si inizia a vivere con Dio; quando la nostalgia di Dio che traspare dai nostri discorsi sarà sostituita dalla gioia muta, perché si grida ed esulta col cuore nel celebrare un incontro interminabile. L’uomo, d’altronde, non potrebbe andare verso Dio se Questi non lo precedesse protendendosi verso di lui, se non accettasse di entrare nella storia (kenosi) abbassandosi fino a prendere la nostra carne. Agostino scrive che le anime non andrebbero oltre il sensibile se Dio “per benevolenza verso la massa non avesse abbassato e calato l’autorità dell’intelligenza divina all’umana sensibilità” (Contra Acad III, 19, 42). Se sapere di noi è possibile solo grazie a Dio che mostra nel Logos/Figlio chi è l’uomo nelle Sue intenzioni, se ne ricava che è Cristo tutto ciò che merita di essere saputo: Scientia ergo nostra Christus est, sapientia quoque nostra idem Chritstus est (La nostra scienza è Cristo, la nostra sapienza è lo stesso Cristo) (De Trinitate XIII, 19, 24). La verità della fede viene rivelata dalla Parola che basta a se stessa; mentre, le nostre parole, che tale verità annunciano, sono derivate e divengono efficaci soltanto esponendosi al Verbo e visitate dallo Spirito. Le verità di fede, scrive il Nostro, in se manent – sussistono in sé – e, dopo, le scopre (inventi) il ragionamento (ratiocinatio) e, scoprendole, ci rinnovano (nos innovant) (De ver rel 39, 73). L’incontro con la Parola produce quanto promesso nell’Apocalisse: fa nuove tutte le cose!

La venuta di Cristo in che rapporto sta con le parole bibliche anticotestamentarie e con quelle evangeliche? Ne La prima catechesi, risponde Agostino:

“Il Cristo è venuto anzitutto perché l’uomo sapesse quanto Dio lo ama (…) e tutta la Scrittura divina (…) è stata scritta per predire la venuta del Signore; e tutto quello che – dopo – è stato messo per iscritto e confermato dall’autorità divina, racconta il Cristo e insegna l’amore” (4, 8).

La teologia narrativa mostra che quanto leggiamo nei testi sacri non si configura come documento storico, ma è annuncio dell’amore di Dio per l’uomo svelato nel dono del Figlio. Le parole bibliche annunciano Cristo e le parole evangeliche ce Lo raccontano insegnandoci l’amore. Annun ciare le Scritture, però, non è sufficiente; anzi, il vescovo africano – in un Discorso (9, 3) – giunge ad affermare che nostro avversario non è il diavolo ma, pensate, la stessa Parola; sì, perché – scrive – “ti comanda delle cose che ti contrariano, delle cose che non fai”. Quanto comanda il Vangelo è troppo sconveniente riguardo ai nostri interessi abituali per essere invenzione umana. La parola evangelica è talmente scomoda che, anche da un punto di vista meramen te letterario, ci tocca inquietandoci. Ne La dottrina cristiana, il Maestro d’Ippona, avverte dei pericoli in cui incorrono quanti fanno i conti con le oscurità e le ambiguità della Scrittura affrontandola “alla leggera”! Ci sono passaggi in essa che non lasciano spazio ad ipotesi, fossero pure false; si patisce, cioè, un disorientamento totale. Agostino, tuttavia, legge in positivo queste asperità ermeneutiche:
“Per me non ci sono dubbi, che tutto ciò sia disposto dal piano divino per domare l’orgoglio con lo sforzo e salvare dalla noia l’intelligenza di chi ritiene immeritevoli le ricerche troppo facili” (2, 6.7).

L’oscurità ermeneutica sperimentata in un corpo a corpo con la Bibbia è una salvaguardia per gli orgogliosi perché non possono comprendere la Parola senza sforzo, ed uno stimolo per le più acute intelligenze che si annoierebbero  confrontandosi con una materia penetrabile senza troppa fatica.

Se sono gli idoli ad essere muti, il Dio ebraico – cristiano parla, ma in un modo non catturabile entro uno stile rigido, monolitico. Agostino ci avverte: non siamo obbligati a credere che “ciò che una cosa significa in un determinato passo, per analogia, essa lo significhi sempre” (La dottrina cristiana 3, 25, 34 – 36). La Parola è intrinsecamente plurisemantica e va letta nei diversi contesti. Dio è vivo e non si può pensare che il Suo dire sia ripetitivo ed avulso dal contingente. La valenza eterna della Parola non si sconta con la lontananza dalle situazioni umane sempre mutevoli; accompagna l’uomo e, mai legittimandone scelte e comporta menti per facile irenismo, li arricchisce di note critiche a margine. Qual è, tuttavia, il criterio interpretativo da adottare di fronte alla immancabile polisemanticità di un detto biblico? Il vescovo d’Ippona, ora, mette in gioco quella che potremmo definire una ermeneutica dell’Amore – della carità. Sempre ne La dottrina cristiana, scrive:

“Per le espressioni figurate (…), esamina con attenzione minuziosa ciò che leggi, sino a che l’interpretazione sia condotta alla sua fine, cioè il regno della carità. Se già il senso proprio lascia intendere quella fine, allora puoi ritenere che in quel testo non c’è nessuna espressione figurata”.

Nei passi oscuri, nelle immagini complesse del linguaggio biblico, lo sforzo va orientato a rinvenire sotto di esse il fine: la carità. Laddove l’interpretazione andasse in senso contrario, vuol dire che la ricerca nostra non è andata a buon fine; quando, però, il fine è immediatamente comprensibile, immagini ed espressioni figurate sono assenti. Agostino fa un esempio e cita Giovanni 6, 54: il Signore ci dice che se non si mangia la carne del Figlio dell’uomo e non se ne beve il sangue, non c’è salvezza. Pare si stia comandando qualcosa di abominevole; in realtà, si allude all’Eucaristia. Si invita ad una unione piena col Signore. Il fine è l’Amore e, dunque, immagini ed espressioni figurate vanno esplorate col principio ermeneutico dell’amore.

La peregrinatio animae agostiniana, si è svolta tenendosi in dialettica relazione con la Parola. Sopra ricordavamo che la inquadrava come nostra avversa ria perché, spesso, o ci disorienta o ci induce a fare cose che non sono di nostro gradimento. Dal punto di vista schiettamente ermeneutico, siamo tenuti a leggere la Bibbia con gli strumenti adatti per la lettura e l’interpretazione di testi non sacri, ma qui scatta una peculiarità che costituisce lo scarto ermeneutico dell’ esegeta rispetto a chi studia testi non religiosi: “bisogna (…) fare molta attenzione a non prendere in senso letterale un’espressione figurata” – insiste ancora ne La dottrina cristiana. Continua:

 “È a questo che si riferisce la parola dell’apostolo: La lettera uccide, lo Spirito da vita (2Cor 3, 6). Prendere un termine figurato come se fosse detto nel suo senso proprio significa pensare carnalmente” (3, 5. 9).

L’esegeta cristiano non può, non deve pensare carnalmente; sì, il Logos si è fatto carne, ma per veicolare una verità che non è rivolta soltanto all’uomo carnale, ma anche a quello spirituale. L’interprete della Parola deve impegnare tutto se stesso: la Bibbia va affrontata integralmente da un uomo in cui sono ben integrate ed armonizzate tutte le dimensioni che lo rendono davvero umano. Un esegeta francese propone la lezione dei maestri del passato:

“Per gli antichi meditare è leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica” (Jean Leclercq).

La boccavoce alla parola scritta e, leggendo il testo sacro, qui entra in gioco la nostra dimensione corporea; la memoria fa sì che la parola non rimanga fuori di noi, ma scenda in profondità. Siamo, qui, già in una dimensione non materiale; poi, l’intelligenza (spirituale) comprende (cum – prende, abbraccia l’insieme).La volontà, infine, rappresenta, potremmo dire, il potere esecutivo: mostra – come insegnava Isaia – che la Parola è sempre efficace. Quando ci si nutre così, anche il modo di parlare a Dio cresce in qualità. La parola è ciò che va da noi all’altro, ma non ci lascia poveri perché ciò che è donato rimane con noi; proprio come il Figlio che, pur venendo a noi, rimane nel Padre. Nel Sermone 119, 7 Agostino insegna: “Io ho già avuto nella mia mente la parola che vi rivolgo; si è diretta fino a te e non si è allontanata da me; ha cominciato ad essere presente in te ciò che in te non era; si è mantenuto in me nel passare a te”. Quando la mia parola entra in te, io non l’ho persa: arricchisce te senza impoverire me!
Ecco, adesso, l’impianto teologico sul quale si regge e si giustifica questa forma di amorosa comunicazione reciproc amente arricchente: “come la mia parola si è fatta conoscere alla tua mente senza allontanarsi dalla mia, così quel Verbo si è fatto conoscere alla nostra mente senza allontanarsi dal Padre suo. La mia parola era in me ed è uscita in voce, il Verbo di Dio era presso il Padre ed uscì in carne”. Troviamo tracciata, in questa espressione, la convinzione più profonda del teologo africano: la parola interiore che esce e, continuando ad appartenermi, si dona ad altri, assume tutto il proprio valore dal Verbo (Logos) che, uscendo dal Padre per incontrarci, non Lo abbandona in maniera definitiva. La nostra parola è, però, ciò che raggiunge altri come voce mentre, la Parola di Dio, esce verso l’uomo facendosi carne. Dinamica è anche la relazione tra parola interiore (pensiero) e parola esteriore (linguaggio). Giorgio Santi, scrive nel saggio Agostino d’Ippona filosofo:

“In Agostino (…) la parola esteriore, parlata o scritta, rimanda alla parola interiore, c’è una sorta di cammino che va dal linguaggio al pensiero, dalla parola esteriore, il verbum vocis, alla parola interiore, il verbum mentis” (cit., p. 139).

Come nella Trinità vi è dialogo tra Persone, così l’uomo è costituito dal dialogo tra verbum vocis e verbum mentis. Lo schema triadico è alla base anche della mente agostiniana. Agostino, aggiunge Santi, propone

“una ontologia triadica della mens che è fondata, quale imago, nella teologia trinitaria. La riflessione trinitaria di Agostino (…) segna il passaggio da una filosofia di stampo neoplatonico dell’Uno – Essere immutabile ad una concezione più dinamica di derivazione biblica, dell’Essere intero come (…) Parola creatrice, rivelatrice e redentrice” (cit. p. 9).

Per chi transita dal logos filosofico al Logos sarx e, ancor prima, al Dio che si compromette con la storia umana, il ritorno alla teoretica si imbeve di succhi vitali, potentemente si arricchisce di elementi realistici. Agostino, dunque, quando fa teologia senza abbandonare l’atmosfera filosofica, non si mette più in relazione al logos, ma alla Parola viva operante nella storia. Scrive ancora Santi che, nel vescovo di Ippona, il ruolo della filosofia è inteso

“principalmente come comunicazione di una parola che supera i limiti del tempo, sia perché questa è la Parola pronunciata dall’eterno, sia perché questa parola anche se pronunciata dall’uomo nella sua versione scritta permane e ci consente un dialogo che oltrepassa la semplice contemporaneità. Inoltre nella prospettiva agostiniana una parola non è tale se non ha alle spalle un pensiero che la sorregge e la significa” (Ibidem).

Credo avesse ragione chi ha affermato che Agostino scrive pregando o, per meglio dire, prega con la penna in mano (James O’Donnell). Come tutte le vere, autentiche e ferventi anime cristiane, aveva compreso che la parola umana può e deve essere un canale importante per far discendere nel mondo la Parola, che l’umano debole dire deve sapersi contenere per evitare di idolatrare il linguaggio; a contare – per il teologo – deve essere non l’erudizione, ma l’unzione, non la scienza, ma la coscienza, non la carta, ma la caritàcome asseriva il beato Francesco da Siena. Deve prevalere quella che Paolo definiva ho logos toû stauroû (la parola della croce) (1Cor 1, 18). Crocifiggere nostre parole per la Gloria della Parola! Nell’ottavo Libro delle Confessioni il vescovo africano narra la Sua conversione; in quello succes sivo, espone fatti che qui ci interessa richiamare.
Nell’autunno del 386 decide di abbandonare la carriera di retore e di insegnante poiché sperimenta il conflitto fra la Parola di Dio (verba tua) e le chiacchiere (loquacitatis), tra la Legge di Dio (legem tuam) e le accese diatribe forensi (bella forensia):

“Non volevo che mai più i fanciulli cercassero, anziché la tua legge e la tua pace, i fallaci furori e gli scontri forensi comprando dalla mia bocca le armi alla loro ira”.
Ormai, l’ex retore, portava nel cuore folgorato dalle frecce dell’Amore divino (sagittaveras tu cor nostrum caritate tua) la Parola del Signore che gli stava, precisa, “conficcata nelle viscere” (gestabamus verba tua transfixa visceribus) (Conf. 9, 2, 2). Durante le vacanze vendemmiali, iniziavano a Milano il 23 agosto e duravano fino al 15 ottobre, Agostino si ritirò in campagna, a Cassiciacum, e lì sperimentò quella che definì christianae vitae otium. In quel tempo, finalmente, la Parola guarì le parole dell’ex retore. Aveva, infatti, incontrato il Salmo 4, che recita: Figli degli uomini, fino a quando i vostri cuori saranno gravati? Perché amate la vanità e cercate la menzogna? Agostino, come dovrebbe fare ogni ermeneuta, personalizzò il dettato biblico:

“Anch’io per tanto tempo, ignaro, ho amato la vanità e ho cercato la menzogna. Perciò un brivido mi corte tutto all’udirlo (il Salmo 4). Ricordavo di essere stato simile a coloro ai quali sono rivolte queste parole” (Conf. 9, 4, 9).

Da qui prende senso la breve preghiera rubricata altrove:

“guarisci ed apri le mie orecchie affinché possa udire la tua voce” (Soliloqui 1, 1, 5).

Agostino guardò con rammarico al suo passato di retore e scrisse, riguardo a tale professione, cose che mostrano chiaramente quanto avesse a cuore non profanare parole per aprirle alla Parola. Leggiamo nelle Confessioni:

“Ecco un uomo che cerca fama di eloquente davanti a un giudice, che è un uomo (…) e persegue un avversario con odio implacabile; ma, preoccupato della sua dizione, sta bene attento di non cadere in un errore di pronuncia, dicendo ‘l’ommini’ invece che ‘gli uomini’. E non si preoccupa, nel suo furore, di voler togliere di mezzo un uomo dalla società degli uomini” (I, 18, 29).

Il retore si preoccupa di ben pronunciare la parola uomo, ma non evita di danneggiare concretamente un uomo! La parola autentica, impregnata d’amore, non origina da una robusta capacità retorica, ma dallo scavo interiore: da lì proviene una parola che grida forte anche in silenzio. Scrive nel decimo Libro delle Confessioni:

“La confessione che io fo al tuo cospetto, mio Dio, è (…) silenziosa e non silenziosa. Manca il rumore sensibile, ma echeggia il grido del cuore! Nulla, infatti, di buono io dico agli uomini, che tu prima non l’abbia sentito dire da me…Né Tu ti senti dire nulla di buono da me, che prima non me l’abbia detto Tu…Tu stesso!”.

Se c’è un circolo virtuoso tra parole e Parola, il dire si corrompe o in ‘chiacchiera’ o in ‘verbo’ che danneggia l’altro. La Scrittura è, infatti, tesa a mostrare come relazionarsi caritatevolmente agli altri perché questo è il solo modo si servire bene Dio. In Combattimento cristiano, il santo affermava: “Nelle Sacre Scritture Dio insegna agli uomini come agire con i loro simili cosicché servano Dio” (I, 8). La pedagogia della Scrittura riguardo ai rapporti umani, giunge a buon fine quando la Parola seduce (dux ‘conduce’ – se a Sé) e questo deve accadere all’uomo fin dalla tenera età. Rivolgendosi ai giovani, nel Sermone CCCXCI 4, Agostino, scrive:

“Se ascoltate questa parola che è da Dio (…), sarete più belli, ma (…) anche più vigorosi. Se poi, di queste parole vorrete ridere negli stessi vostri giochi d’amore, è come se voleste ferirvi con i ferri con cui il chirurgo risana”.

La Parola assume forza terapeutica solo e soltanto se la si lascia operare in noi come, con fiducia, si lascia al chirurgo l’uso dei ferri per ricondurci alla salute; se si gioca con disinvoltura ed imperizia con i ferri che possono guarire, si rischia di convertirli in strumenti pericolosi, in armi che feriscono. In primo luogo, però, quello che di prezioso il santo vescovo ci insegna, è il dovere di attraversare con attenzione anche i testi profani, di ben analizzare le parole quotidiane per poter, poi, comprendere in quale punto si trovino mancanze e che possono essere colmate solo da Altri. Nelle Confessioni (4 2, 3), già si nota come Agostino fosse sulla buona strada nel combattere quanti volevano profanare finanche parole umane, troppo umane:

“una volta partecipai ad un concorso poetico in un teatro e uno dei soliti imbroglioni mi fece chiedere quale tangente ero disposto a dare per farmelo vincere. Risposi: ‘Neppure una mosca anche se la corona fosse d’oro’. Io detestavo tali sporche pratiche”.

Non solo viene fuori la grande dignità del poeta, ma anche la volontà ferma di non acquistare illecitamente onore alle proprie parole. Riguardo, poi, alla lettura di testi profani, lo studioso africano aveva stima per quelli che diffondevano le ‘arti liberali’; tuttavia, studiandoli attentamente, notò che “ignoravano la Fonte della verità” che professavano! Avevo, scrive, “la schiena rivolta alla luce e la faccia alle cose da essa illuminate” e, dunque, “proprio la mia faccia non era illuminata” (Conf. 4 16, 30). Non è male, allora, leggere ciò che conosce verità espresse in accezione profana; conta, piuttosto, esporre tutto alla Luce affinché non si viva voltando le spalle alla Verità. Le parole sono l’ombra della Parola e, girando totalmente su se stessi, (questo significa conversione) ci si espone alla sola Fonte in grado di mutare il debole umano dire in una vita ispirata e guidata da Dio. Seguire l’iter agostiniano è un modo efficace per non lasciare che la Luce batta invano sulla schiena consentendo, invece, che la nostra faccia venga dardeggiata dai raggi del Logos per guarire dalle patologie del logos.

Stiamo imparando, in questo excursus agostiniano, che Dio dona la grazia solo attraverso mediazioni e la parola umana è un medium da utilizzare in maniera assai accorta. Da un testo scritto a due voci arriva una riflessione che si può saldare con profitto a quanto detto:

“l’esperienza della grazia di Dio e il suo rivelarsi non avvengono indipendentemente dalle mediazioni. La Scrittura è in un certo senso la prima e non l’ultima di queste mediazioni che ci educa interiormente (…). Chi (…) cerca la fede non può esimersi da un accostamento alla Scrittura e dalla ricerca del suo senso genuino al di là di una lettura superficiale e affrettata (…) la lettura della Bibbia non produce risultati magici o miracolosi, da essa non si sprigiona una forza speciale: la parola è vera solo quando risuona interiormente, quando è capita e accolta. La Scrittura non è neppure un testo su cui misurare la propria intelligenza, quasi fosse un trattato scientifico (…). Scientifico può essere l’approccio preliminare a essa per acquisire gli strumenti di lettura e compiere così una valida esegesi (…): occorre avere ben presenti i generi letterari usati, la mentalità simbolica, le espressioni a base di immagini e i riferimenti continui ad ambienti culturali di altri tempi. Superate le difficoltà di linguaggio, la verità della Scrittura va confrontata con la nostra vita e nella vita va verificata. E tale lavorio vitale non può essere ristretto a un orizzonte individuale (…). La Scrittura (…), va letta e vissuta in una comunità concreta. Solo così, come nelle sue origini, la parola è parte di una realtà umana che la conserva e la rende intelligibile” [2].

Un sostegno al nostro tema si può ricevere attingendo ad un saggio di cui è autrice una psicoterapeuta francese, apparten ente alla Chiesa Armena e ricca di esperienza riguardo l’accompagnamento spirituale. A Suo dire, se la Parola viene considerata come un detto e non come un dire, la si separa da chi l’enuncia divenendo un idolo! Deve essere, invece, “la parola di un Altro” e non un “prolungamento di noi stessi”. L’importanza della Parola, poi, si rileva dagli effetti che produce nella nostra vita come relazione ad altri. Si tratta, per la nostra autrice, di riflettere su: 1) la Parola che noi facciamo parlare; 2) la Parola ascoltata [3]. Nel primo caso,

“non è Dio che deve essere interrogato sull’affidabilità della sua parola, ma lo siamo anzitutto noi, sul modo in cui ci siamo impadroniti di essa, in cui l’abbiamo fatta parlare, in cui l’abbiamo attirata nel senso che ci conveniva” (cit. p. 63).

La psicoterapeuta francese ci invita a non contrabbandare le nostre parole come Parola. Agostino scavò lungamente in se stesso per trovare La Voce tra la ridda di voci in conflitto del suo io in cerca della Verità. L’interiorità umana è drammati camente polifonica e non è semplice distinguere quanto si dà come nostra inconscia elaborazione nella ricerca di Dio, quanto come nostra interessata costruzione, quanto come autentica ispirazione. La Meguerditchian mette in guardia dal pericolo di non comprendere, o di non voler comprende re, la differenza tra un logos interiore psicologico ed il Logos che si viene ad iscrivere in noi come Altro. Non possiamo manipolare la Parola perché non siamo di fronte a logoi filosofici gestibili al fine di mostrare la giustezza di una tesi; qui siamo di fronte ad una Presenza reale, che parla senza tenere conto dei nostri interessi e dei nostri schemi mentali rassicuranti, ma falsi. La psicoterapeuta rubrica espressioni chiare:

La Parola non funziona come l’oroscopo che annuncia certe cose. Non è un oracolo: è anzitutto e fondamentalmente una Persona. Prima di essere un detto, è un dire, è Colui che parla. Noi possiamo aderire al contenuto della parola in una maniera che la dissocia da colui che l’enuncia. Il contenuto separato da colui che lo dice – sia nel campo della promessa, sia nel campo della minaccia – può prendere quindi qualsiasi senso; diventa area di proiezioni in cui noi ascoltiamo soltanto quello che vogliamo udire o abbiamo paura di udire, in cui ascoltiamo noi stessi e non più un altro” (cit. p. 66).

Con il Suo personalissimo rapporto con Dio, Agostino ha mostrato che ogni parola del credente deve lasciar trasparire l’alterità della Parola che non vuol dire, in nessun caso, estraneità. Ciò che i giganti del pensiero cristiano ci insegnano con la loro appassionata filologia, con la loro ermeneutica fondata sull’Ermeneuta Cristo è che, sganciato da un paradigma relazionale, anche quanto Dio ci dice può congelarsi in idolo, divenire forza letale. La Meguerditchian, aggiunge:

la Parola è spirito, ma la parola presa di per sé, senza riconoscimento del Vivente che la enuncia e del vivente a cui è indirizzata, diventa lettera morta e mortifera” (p. 69). Ci deve essere chiaro che “la parola vivente (…) lavora al di là di ciò che se ne percepisce o se ne comprende” (p. 70).

Agostino – sospettando delle parole che aveva adoperato in retorica – non si accorse che, dietro una revisione apparente mente intellettuale, accademica, lavorava, in silenzio, ma alacremente, la Parola del Dio vivo! Andò, il vescovo africano, ben oltre l’amore per i versetti biblici perché sapeva che il fine del cristiano è incontrare Dio; perciò, anche per noi valga il  suggerimento della psicoterapeuta francese:

“nella lettura dei testi, l’attribuirci troppo in fretta la parola udita – fosse pure una bella promessa – ci priva della ricchezza più grande che è la ricerca e l’incontro del Dio che parla in tal modo” (Ibidem).

Non fermarsi alla parola perché nel detto non si esaurisce il Parlante, il Logos incarnato, via al Padre, il Logos che vedremo solo quando, diceva Agostino, tutte le parole saranno superate.              

La Meguerditchian, affrontando la questione dell’ascolto, muove da una premessa: “L’effetto della parola dipende tanto dalla Parola quanto da colui che la riceve” (p. 71). Ci ricorda che molte delle cose dette da Gesù non hanno trovato accoglienza e ciò non costituisce un handicap del kerygma; anzi, questo fenomeno all’apparenza negativo, mostra che “Gesù non ha sacralizzato la parola al punto di dire soltanto quella che avrebbe trovato una terra aperta” (Ibidem).
Se Agostino non idolatra la parola, ma ama il Dio che si fa Parola, se lascia la carriera di retore e di insegnante non lo fa seguendo l’esempio del Maestro? Gesù non dice soltanto ciò che feconda l’altro perché il Suo operare andava oltre l’annuncio; la Parola è Qualcuno e non un insieme di discorsi edificanti circa i quali preoccuparsi unicamente che vadano a buon fine. Insiste la nostra autrice:

La Parola non ha niente di una parola magica che si pretende produca effetti per il semplice fatto che viene enunciata. Ho conosciuto persone che mettevano il ‘Padre nostro’ sotto il loro guanciale, sicure che così sarebbero state protette. Noi possiamo attribuire alla Parola un’ onnipotenza che le toglie la sua portata di parola vivente rivolta a un uomo, che ci esonera (…) dal rispondere” (Ibidem).

Amare la Parola è altra cosa rispetto all’idolatrarla; riconoscere la potenza della Parola non è aggettivare con magica il termine ‘potenza’. La portata della Parola è di essere parola vivente rivolta a un uomo. Siamo destinatari di un appello, di una chiamata, una vocazione ed anche il non rispondere varrebbe una risposta (anche se autodistruttiva). Se non si storicizza, la Parola rischia di essere interessante solo per chi tentasse una archeologia della religione. La Parola, però, lavora di là della nostra capacità di comprensio ne e, prima o poi, darà frutti. La psicoterapeuta francese ci ricorda che “la non ricezione della parola non invalida il suo intento; (…) la parola lavora al di là della qualità di ascolto che le viene data” (p. 73).
Agostino, come riferito, non mostrava di nutire un sufficiente interesse, da ragazzo, alla scrittura, alla lettura; eppure, cosa notevole, divenne retore, filosofo, insegnante.
La parola lavorava – inconsapevole – per la Parola!
Il vescovo africano, poi, divenne scettico e, in seguito, indifferente verso la forza retorica delle parole utili in tribunale e nei discorsi politici perché scoprì che la Verità non era il prodotto di una manipolazione segnica, bensì il Dio vivo e Persona della storia.
Le parole, a quel punto, assunsero, felicemente, un ruolo ancillare in confronto alla Parola che non fu per Agostino una parola dalla potenza maggiore, ma incontro con Altri.




















CONCLUSIONE

Francis O. Collins, da agnostico, divenne ateo, ma si accostò alla fede compiendo studi di medicina. Ormai è un genetista di altissimo livello ed è stato prezioso nella ricerca di errori di trascrizioni genetiche che causano malattie quali fibrosi cistica, neurofibromatosi, malattia di Huntington. Il suo nome diverrà subito familiare appena lo si accosta al Progetto genoma. Gli Editori Sperling & Kupfer hanno editato la versione italiana del suo saggio The Language of God
(In italiano: Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia fra scienza e fede, Milano 2007).
Collins è convinto che si può studiare l’elegante sequenza del codice del DNA e trovarvi il linguaggio di Dio. Ma il libro non si ferma solo a trattare argomenti scientifico – teologici di rilievo (e con linguaggio sempre agile ed accessibile); nel saggio racconta, come Agostino nelle Confessioni, anche se lo scienziato non indulge all’ introspezione, la storia della propria conversione. 
Non si sente più il desiderio di Dio, secondo Collins, perché trionfa il materialismo. Cita l’opinione di Annie Dillard:

“il mondo intero non sembra essere più sacro (…). Abbiamo spento il roveto ardente e non siamo in grado di ridargli fuoco (…). Un tempo il vento e i colli gridavano a gran voce gloria a Dio? Oggi le cose inanimate della Terra non parlano più  e gli esseri viventi dicono ben poco a pochi individui (…) Che cosa abbiamo fatto in tutti questi secoli se non cercare di richiamare Dio alla montagna o, non riuscendovi, strappare una parola a qualsiasi cosa che non fossimo noi? Che differenza c’è tra una cattedrale e un laboratorio di fisica? Non dicono entrambi ‘Salve’?”.

Niente più grida gloria a Dio? Non è proprio così. Se di Dio ormai non si riesce più a far parlare le cose, se non ci sono parole che vengano da qualcosa che non siamo noi, restano scienziati come Collins che ascoltano la Parola attraverso il linguaggio elegante delle sequenze del codice del DNA. I laboratori possono salutare la presenza di Dio in quanto scoprono! Collins cita un sonetto di Sheldon Vanauken:

Between the probable and proved there yawns/A gap. Afraid to jump, we stand absurd,/Then see behind us sink the round and, worse,/Our very standpoint crumbling. Disperate dawns/Our only hope: to leap into the Word/That opens up the shuttered universe
(‘Fra il probabile e il provato si apre una breccia/Timorosi di saltare, indugiamo senza ragione,/poi, dietro di noi, vediamo sprofondare il terreno e, peggio ancora,/il nostro stesso punto di osservazione cominciare a sgretolarsi./Dalla disperazione nasce la nostra sola speranza: balzare nella Parola/che spalanca i cancelli dell’universo’).

Agostino si vide fra il ‘probabile’ della conversione ed il ‘provato’ del logos filosofico e dell’abilità retorica ma, tra i due momenti, una ‘salutare crisi’, aprì una breccia: si ha sempre timore a lasciare ancoraggi fragili, ma visibili, palpabili…poi, il terreno delle certezze epistemiche che ci rassicurava si sbriciola inesorabilmente…la breccia, ormai, si muta in abisso. Solo toccando il fondo della disperazione dovuta alla perdita di antiche certezze nasce la speranza che conduce al ‘balzo nella Parola’ che spalanca i cancelli dell’universo.
Per Agostino avvenne proprio così…e per il credente proiettato nel futuro ricco di scienza, tecnologia, nuovi saperi? Collins, dopo aver riportato il sonetto di Vanauken, confessa qualcosa che – da Agostino fino a lui – ci si augura non possa mai smettere di accadere nelle vite umane:

“A lungo rimasi tremante – scrive il genetista – sull’orlo di questo squarcio (tra il probabile ed il provato) che continuava ad allargarsi. Infine, non vedendo possibilità di fuga, saltai”.

Che sia attraverso le parole dell’arte retorica o della filosofia (Agostino), che sia per mezzo dello stupore ammirato di fronte all’elegante sequenza del codice del DNA (Collins) si può sempre tentare di apprendere the Language of God ed iniziare a dialogare sull’asse verticale.
Resta da compiere il balzo nella Parola e, morta la disperazione per l’inconcludenza dei saperi umani, troppo umani, nasce la vera speranza e si compe il balzo

PER APPROFONDIRE

aa. vv., L’opera letteraria di Agostino tra Cassiciacum e Milano, Palermo 1987; aa. vv., Agostino, Il Maestro e la parola. Il Maestro, La dialettica, La retorica, La grammatica, a cura di m. bettetini, Milano 1993; aa. vv., Verità e linguaggio. Agostino nella filosofia del Novecento/3, a cura di l. alicir. piccolominia.  pieretti, Roma 2002; g. reale – c. sini, Agostino e la scrittura dell’interiorità, con introduzione e a cura di massimiliano finazzer flory, Cinisello Balsamo (MI) 2006; l. alici, Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino, Roma 1976; g. balido, Strutture logico formali e analisi linguistiche di testi agostiniani, Roma 1998; g. b. cataldo, Semantica e intersoggettività della parola in S. Agostino, in “Sapienza” 26 (1973), pp. 170 – 184; a. di giovanni, Verità, parola, immortalità in Sant’Agostino, Palermo 1979; p. grech, I principi ermeneutica di S. Agostino: una valutazione, in “Lateranum” 40/8 (1982), pp. 209 – 223; t. manfredini, ‘Unità del vero e pluralità delle menti’, in S. Agostino.Saggio sulle condizioni della comunicazione, Bologna 1960;  f. porzio, Teologia e linguaggio nelle Confessioni di S. Agostino, in “Rassegna di Teologia” 20 (1979), pp. 134 – 143. c. riggo, S. Agostino perenne maestro di ermeneutica, in “Salesianum” 44 (1982), pp. 71 – 101; g. ripanti, Agostino teorico dell’interpretazione, Brescia 1980; g. santi, Dio e l’uomo. Conoscenza, memoria, linguaggio, ermeneutica in Agostino, Roma 1989; i. sciuto, ‘Verità della parola e interpretazione in S. Agostino’, in aa. vv., Parola e senso. Studi di ermeneutica, Padova 1984, pp. 68 – 79; r. simone, Semiologia agostiniana, in “La cultura” 7 (1969), pp. 88 – 117; o. todisco, Parola e verità. Agostino e la filosofia del linguaggio, Roma 1993.     


[1] Cfr., giorgio santi, Agostino d’Ippona filosofo, pontificia universi tà lateranense, Roma 2003, p. 10.
[2] Cfr., giulio cesare massalucio pietrantoni, Intelligenti nel credere. Un cammino di ricerca esistenziale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997, pp. 107 – 108.
[3] Cfr., noémie meguerditchian, Psicologia e discernimento spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002, pp. 62 – 75.  

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