INTRODUZIONE
Dal ‘pozzo delle Scritture’ attingiamo l’acqua che ci disseta e disseta l’altro.
San Bernardo non dubitava del fatto che, chi conserva, custodisce la Parola, pure ne sarà custodito e conservato. San Girolamo non si discostava di molto da questa lezione, poi, quando invitava a tenere sempre sottomano e davanti agli occhi la Bibbia. Mai gli antichi lettori di essa si sono nascosti che questa sia una impresa non facile; infatti, il filosofo Giovanni Scoto Eriugena, paragonava le Scritture alla terra che Dio affida ad Adamo: come quella va coltivata col sudore della fronte – diceva – così la terra delle Sacre Scritture richiede cura ed impegno. Si tratta, concludeva, di un terreno disseminato di spine e di rovi che stanno a simboleggiare la sottile complessità dei pensieri divini.
Se Scoto paragonava le Scritture a terra da coltivare con duro lavoro, possiamo considerare complementare a questa immagine quella fornitaci da Origene. Il grande esegeta ci invita a considerare la figura di Rebecca (Gn 24, 13 – 16). Non passava un giorno che non si recasse al pozzo. L’antico autore ci esorta a non ritenere quanto leggiamo una ‘favola’ perché lo Spirito – che ispira gli ‘scritti sacri’ – non ne racconta. Se per Scoto si tratta di imitare Adamo che suda per rendere produttiva la terra ostile, per Origene bisogna seguire l’esempio di Rebecca: «Se non vai ogni giorno al pozzo [delle Scritture] […], non potrai dare da bere agli altri, ma tu stesso patirai la sete della Parola di Dio».
Ecco: dobbiamo dissetarci per dissetare. Non si frequenta la Bibbia per un godimento intellettuale privato. Essa ha bisogno di parlarci in atmosfera ecclesiale. Benedetto XVI, ci insegna che, senza la Chiesa, la Bibbia diviene soltanto «una raccolta di molteplici fonti storiche, una collezione di libri eterogenei dai quali si cerca di tirare fuori, alla luce dell’attualità, ciò che si ritiene utile. Una esegesi che non viva e non legga più la Bibbia nel corpo vivente della Chiesa, diventa archeologia». Andare sui sentieri della Parola significa camminare con la Chiesa pellegrina che, nella Sua condizione esodale, ma ricca di Speranza, guidata dallo Spirito si incammina verso il compimento escatologico della storia. Non si è cristiani senza lo sforzo di vivere da pellegrini sui sentieri della Parola. Chi non è stato iniziato e istruito nelle Sacre Scritture non può dirsi vero cristiano, sentenziava Agostino. Ne va della vita! Sant’Efrem diceva che Dio ci ha donato la bocca a causa del Pane ed il Calice e gli occhi «in vista delle sue Scritture». Teniamo bene aperti gli occhi, ma non dimentichiamo di tenere sempre teso all’ascolto attento l’orecchio; infatti, come istruisce Agostino, Verbum Dei nunquam tacet (la Parola di Dio mai tace). Scriveva Agostino rivolgendosi al Signore, parlami tu – «sei Tu il mio Maestro». Nella Parola conosci il Parlante e ti conosci grazie a Lui: «bisogna lasciarsi giudicare dalla Parola di Dio», sentenzia il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez! Spero che, in questo opuscolo, basti il materiale raccolto per muovere, consapevoli delle possibilità e dei rischi, sui sentieri della Parola attraversando in maniera onesta e sincera le parole umane, troppo umane.
Frequentare le strade qui tracciate mira direi al raggiungimento di due scopi: 1) la gioia vissuta; 2) la gioia donata. Mi spiego con due testimoni cristiani, uno cattolico e l’altro protestante. Riguardo al punto 1°, valgano le parole di Ruperto di Deutz: «Soltanto nella Parola di Dio si trova gioia». Il soggetto sperimenta la pienezza della gioia nel lavorare la terra delle Scritture, fosse pure con sudore e, come la Rebecca ammirata da Origene, vada ogni giorno al pozzo ad attingere. Riguardo al punto 2°, ci guida il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Come molti sanno venne impiccato dai nazisti perché mai fece della fede una questione privata. Origene lodava la costanza con la quale Rebecca andava al pozzo, e ne faceva un modello per i cristiani chiarendo come debba avvenire il contatto con le Scritture; tuttavia, l’antico esegeta invitava ad attingere al pozzo della Bibbia anche per dare da bere agli altri.
Questa è la gioia donata se viviamo e dialoghiamo costantemente con la Parola. Dio ed uomo in dialogo? Dio ed uomo sono Dialogo! Bonhoeffer sapeva, come Origene, che ci si disseta al pozzo delle Scritture soprattutto per dissetare: «Come possiamo aiutare un fratello a trovare la retta via quand’è nel bisogno e nella tentazione se non proprio con la Parola di Dio? Tutte le nostre parole falliscono ben presto. Ma chi […] può parlare richiamandosi alla pienezza della Parola, degli ammonimenti, della consolazione della sacra Scrittura, costui caccerà i demoni con la Parola di Dio e potrà aiutare il fratello». Solo rivolgendosi all’Altro e nutrendosi dell’alterità della Parola si fa il bene nostro e dei fratelli, degli altri che portano incisa nel volto la traccia dell’Altro.
È meglio amare Dio che conoscerlo speculativamente. È meglio amare i fratelli recanti in sé l’immagine di Dio, anziché conoscerli – J. Maritain
Riflettendo sul brano dell’Esodo nel quale Dio parla dal ‘roveto ardente’ i saggi ebrei fanno Gli fanno dire: guarda, ti parlo dalle spine perché sono nel dolore proprio come Israele; quel dolore lo condivido! Due cose saltano all’occhio: la parola di Dio è rivolta a noi; il coinvolgimento di Dio con il nostro dolore è certo proprio perché – parlandoci – il Trascendente si innesta nelle nostre storie e nella Storia. Si rende, poi, comprensibile e ci comprende perché si dà a noi, innanzitutto, nel linguaggio.
A questo dato teologico possiamo agevolmente saldare un assioma dell’ermeneutica che, Gadamer, enuncia così: Sein das verstanden werden kann ist Sprache (l’essere che si può comprendere è linguaggio). Il Creatore e la creatura, dunque, possono comprendersi perché ‘sono linguaggio’ (Hölderlin, infatti, diceva che siamo un colloquio). Per mezzo della ‘comunicazione verbale’ Dio, accanto alla Perfezione pone – a nostro vantaggio – la Relazione. Il Logos, poi, non si congela in mero flatus vocis, ma si configura in – scomodando il Prologo del vangelo giovanneo – sarx (carne).
La Parola, qui, non si dà meramente come ‘fenomeno acustico’, ma si fa ‘accadimento’ che cambia la Storia. Gadamer ha giustamente notato che la ‘parola come accadimento’ (das Wort ist reines Geschehen) nulla ha che vedere con il logos greco: il Logos si fa vox, parola udibile e visibile nella creazione e, specificatamente, nell’incarnazione. Si può parlare – se si desidera comprendere tutto questo – di un’alterità dell’ermeneutica teologica (Ripanti) [1]. Gadamer ha sottolineato il legame strettissimo tra Incarnazione e parola. Il Verbo, facendosi carne, attuando (solo così è possibile)la realtà dello Spirito alla perfezione, mostra che il logos è stato definitivamente liberato dalla pura spiritualità [2]. Nel confronto con la Parola in gioco è il nostro rapporto con l’Altro. In Gesù, sostiene un autore contemporaneo, è la chiamata all’amore il tratto specifico del linguaggio che storicamente Dio apre a noi; un linguaggio che, purtroppo, consente anche il fraintendimento, l’inganno che, poi, si rivela nell’impedire al linguaggio proprio di farci udire quella chiamata. Andare incontro all’uomo in nome di Cristo, allora, significa esattamente «aiutarlo a dare la giusta risposta alla parola che Dio gli rivolge» [3]. Comprendere la Parola è praticare una ermeneutica dell’alterità consapevoli che nel Logos accade l’apertura all’Altro perché Lui per primo ci ha parlato! Chi aiuta l’uomo – per amore di Gesù – a rispondere nel modo giusto alla chiamata di Dio è, senza ombra di dubbio, non l’esegeta, il teologo di professione, ma il santo. Significativo che la lezione venga proprio da uno dei più fini teologi del Novecento; a suo dire, infatti, la ‘verità del Vangelo’ non risiede nei manuali (anche se essi non insegnano il falso), ma viene pienamente espressa soltanto nella ‘vita dei santi’. Sono gli unici testimoni veramente «afferrati dallo Spirito Santo di Cristo» e, oltre il loro esempio, il Signore «non ha previsto nessun’altra apologetica» [4]. Chi non passa sulla strada che conduce alla santità (solo obiettivo reale, per quanto alto ed impegnativo, della vita cristiana), non comprende la Scrittura e non incontra Cristo, il solo Ermeneuta, come insegna l’episodio lucano ambientato sulla strada di Emmaus. Prima di avere un testo sacro tra le mani, occorre appellarsi a Cristo: solo «dopo aver invocato Gesù – afferma Dionigi Areopagita nella Gerarchia celeste (cap. I, 2) -, eleviamoci per quanto possibile alle illuminazioni delle Santissime Scritture». Il primo passo verso la comprensione delle parole è l’invocazione alla Parola (Logos sarx)!
Si noti che Dionigi parla al plurale e, ciò, non a caso: si rivolge all’assemblea perché la Parola è un ‘accadimento’ che innesta nel cuore del mondo l’Altro per coinvolgere gli altri.
Il cristiano, per intendere correttamente cosa voglia dire interpretare all’insegna dell’alterità la Parola, deve far sue – lasciandole risuonare nelle pieghe più riposte del cuore – le parole di Agostino d’Ippona: Evangelio non crederem nisi me catholicae Ecclesiae commoveret auctoritas (non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa Cattolica) [5].
Il tempo che noi diamo a Dio diventa il tempo che Dio riserva a noi – M. De La Chepelle
Nella Chiesa agisce lo Spirito Santo e feconda è la ‘Comunione dei Santi’: in relazione dialogante, orante con queste due Presenze immancabili, guidato da Cristo, il cristiano si esercita a comprendere le Scritture; non è, infatti, possibile e fruttuosa una ermeneutica teologica disattenta alla categoria alterità. Il mistico renano – fiammingo Giovanni Ruusbroec (1293 – 1381), notava: «le norme della Scrittura, che sono opera dello Spirito Santo, vanno comprese e spiegate alla luce di Gesù Cristo e della vita dei Santi» [6]. Data la intrinseca natura dialogica della Parola, il cristiano non legge e non prega se non in riferimento costante agli ‘altri’ credenti ed a beneficio di quanti sono ‘fuori’ dalla Verità della Rivelazione. Riguardo alla ‘liturgia della Parola’, poi, la Chiesa ha parole forti:
«Il popolo fa propria questa Parola divina […] vi aderisce con la professione di fede; così nutrito, prega nell’orazione universale per le necessità di tutta la Chiesa e per la salvezza del mondo intero» [7].
Il primo momento è l’appropriazione ‘comunitaria’ della Parola; segue, poi, l’adesione configurata, espressa con la professione di fede. Si ha in questi due momenti, una alterità endogena: tutto avviene, cioè, ancora nell’ambito di una comunità. I momenti successivi, invece, interessano la dimensione universale della comunità cristiana: l’orazione, infatti, viene definita proprio universale e, questo, affinché si prendano a cuore le necessità di tutta la Chiesa. Il tratto da rimarcare maggiormente, però, è quello conclusivo: il percorso si svolge senza dimenticare la salvezza del mondo intero. Comprendere la Parola, pregarla, dunque, non prescinde dal riferimento costante all’Altro la cui traccia, potremmo dire con veloce riferimento a Lévinas, è nel volto dell’altro!
Chi cresce nei valori della vita attiva, arriva facilmente alla vita contemplativa – Isidoro di Siviglia
Mai aderire a Cristo e frequentare la Parola mirando ad una fruizione solipsistica di questi due momenti decisamente avvaloranti al massimo la vita cristiana. Cristo e la Scrittura sono chiavi di accesso al mondo per portarvi una voce discordante con lo status quo. Giovanni Paolo II, vero, esortava la Chiesa ad entrare nel nuovo millennio ed in Europa con il libro del Vangelo! Prima di stabilire se sia giusto o no inserire il lascito cristiano nel tessuto connettivo della nuova Europa, cerchiamo di comprendere cosa costituisce principalmente l’identità della Chiesa. Scopriremo, ne siamo certi, che non la individuiamo a prescindere dalle Scritture. Attraversare e lasciarsi attraversare dalla Bibbia (questa, in sintesi, l’alterità dell’ermeneutica teologica) equivale a comprendere in cosa si specchi la Chiesa per dotarsi di una identità che sia, poi, presentabile al mondo. Ascoltiamo la Pontificia Commissione Biblica:
«Fissando il canone delle Scritture, la Chiesa fissava anche e definiva la sua stessa identità, cosicché le Scritture sono ormai uno specchio nel quale la Chiesa può costantemente riscoprire la sua identità e verificare, secolo dopo secolo, il modo in cui essa risponde continuamente al vangelo e dispone se stessa a esserne lo strumento di trasmissione» [8]. Trova conferma, dunque, quanto già dicevamo ma, tra i fuochi rilevanti della citazione, lampeggia di nuovo senso la parte finale. La Chiesa non vive di rendita: non saccheggia una identità consolidata una volta e per tutte ma, specchiandosi nella Parola dell’Altro, può costantemente riscoprire la propria identità. L’identità nuova, d’altronde, è già potenzialmente nella Chiesa, in quanto, la Parola che La costituisce è dono dell’Altro che si dona nella Sua inesauribile novità. Il passo successivo, poi, vale soprattutto ad extra: la Chiesa deve verificare – camminando nella e con la Storia – la propria capacità di rispondere al Vangelo. Ecco il punto chiave: l’Evangelo è Parola che interpella e non possiamo lasciare inascoltata quella che Fuchs definiva chiamata all’amore. La chiamata e la risposta, infine, impongono la piena consapevolezza riguardo ai modi di trasmissione del ‘messaggio evangelico’. Volendo delineare un percorso, diremo: la Chiesa si specchia nell’alterità della Parola per conoscersi e si conosce unicamente perché interessata a rispondere alla chiamata all’amore per trasmetterla nel mondo in maniera ‘sempre antica’ e ‘sempre nuova’.
Con la mia vita io interpreto la Scrittura – San Nilo
Il Logos, dunque, non può non farsi dia – logos articolandosi, specificatamente, in chiamata e risposta. La capacità di rispondere qualifica e forma il credente; non c’è dignità più grande di questa capacità responsoriale che ci differenzia da tutte le altre creature, malgrado la nostra condizione di peccatori: «Rispetto alle altre creature l’uomo anche come peccatore, è superiore […]. Anche come peccatore egli non cessa di essere uno con il quale si può parlare, con il quale anche Dio può parlare. E proprio qui è fondata l’originaria natura dell’uomo: essere responsabile». Qui si fonda la nostra posizione speciale e la sua relazione con «la forma della rivelazione redentrice: Dio diventa uomo» [9]. La capacità di parola (Wortmächtigkeit) – insiste Brunner - impone la capacità di rispondere o, se preferite, la responsabilità (Verantwortlichkeit). Qui si salda il legame con Cristo: anche Lui – che non ha, bensì è la Parola – con parole umane dice ‘sì’ al Padre e si fa responsabile di tutti. La nostra posizione speciale dovuta alla capacità responsoriale ci relaziona alla forma che Dio conferisce alla rivelazione redentrice: si fa uomo. Discende, da tutto questo, un imperativo fasciato di urgenza: immettere con le modalità opportune, sempre di nuovo, non le parole, ma la stessa ‘parola Dio’ nel mondo orfano del Senso [10].
Dio non è ancora abbastanza trovato né può mai essere abbastanza cercato – Ugo di San Vittore
Nella nota 9, dunque, Ebeling chiarisce che, nel conferire spessore alla parola ‘Dio’, ne va del mondo: è questione che ha senso e necessità. Il cristiano sa bene che va ossequiata un’antropologia intrisa di alterità: non ha senso ridursi ad una res cogitans solitaria. Ebeling, a tal proposito, ha una visione dell’uomo non appannata da fumose teorie egocentriche: «Già il suo essere ordinato al prossimo illustra – scrive in Dio e parola – che […] l’uomo nel suo essere linguaggio, essenzialmente, non è autarchico» (cit. p. 63). Proprio Cartesio, al quale spetta la paternità della res cogitans, privilegiando il lato epistemico del soggetto, parla tranquil lamente di soggetto autarchico: «Chi possiede la scienza non si aspetta granché dagli altri; così può essere chiamato autarkès» [11]. Il sapere teologico, invece, pur configurandosi, a suo modo, come ‘scienza’, assume senso e valore soltanto se aperto all’Altro ed intenzionato a dialogare con gli altri. La teologia deve essere sempre più il resoconto di un dialogo autentico con Dio; la condivisione di una esperienza teandrica. Per l’antropologia teologica, d’altronde, è assiomatico che l’uomo parla perché c’è un Tu/tu che ascolta, risponde.
La parola non può mai avere una valenza unicamente intimistica, ma deve sempre andare verso Qualcuno/ qualcuno. A ragione, dal versante filosofico, Wittgenstein, nella seconda fase del suo pensiero, riteneva improponibile l’ipotesi di un linguaggio privato. Il nostro dire acquista significato unicamente nelle pratiche di vita. Torniamo sul suolo della teologia. Nell’articolo «Parola di Dio ed ermeneutica», Ebeling patrocina la ineliminabile ‘valenza dia - logica’ del logos umano: «La parola è concepita rettamente solo se viene considerata come un fatto i cui protagonisti sono almeno due, come l’amore. La struttura fondamentale della parola […] è […] la comunicazione, intesa non nel significato tenue di informazione, ma in quello pieno di partecipazione e comunione» [12]. La parola non deve limitarsi ad informare; piuttosto, accende partecipazione e comunione. Stando in comunione con Dio e con i fratelli si modifica in bene la nostra vita. Il pensoso fratello ateo cantato da Turoldo, non disperi: dalla testimonianza della nostra vita di comunione con Dio, impari che c’è un Tu che accoglie le sue angosciate istanze di senso. Dio, infatti, essendo Colui che parla ad una creatura capace di rispondere, entra in relazione anche con chi non crede in quanto il terreno comune è costituito dal linguaggio che non garantisce splendido isolamento in direzione né orizzontale, né Verticale. L’alterità della Parola ‘contraddice’ chi è lontano da Dio fino a toccarlo – in forza di tale contraddizione – nelle profondità altrimenti inaccessibili. Come si dà il vero parlare di Dio? Lo spiega ancora Ebeling nel già citato Dio e Parola: «Il vero parlare di Dio sarebbe quello in cui colui che ne è privo riceve da Dio la parola che contraddice lui, il privo di Dio, che lo contraddice a tal punto da aggiudicare a lui, privo di Dio, Dio» (cit. p. 35).
Chi ama Dio dialoga e colloquia ininterrottamente con lui come Padre – Evagrio Pontico
La fatica nel farci uditori della Parola (Rahner) a partire dalla Scrittura si carica dell’obbligo di sviluppare, in generale, una fine ricettività al testo; si tratta di un passaggio che precede l’approccio alla Bibbia. La regola da mandare a memoria, insomma, è questa: «Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo» [13]. Non c’è coscienza ermeneutica rettamente formata laddove non vi è previa educazione all’alterità di quanto va interpretato. In secondo luogo, occorre comprendere il mondo storico – culturale nel quale il testo è nato e l’ambiente nel quale oggi agisce l’interprete [14].
La regola deve essere rigorosamente osservata da chi vuole svolgere con successo una ermeneutica teologica; infatti, la «esplicitazione e l’espressione tematica degli elementi dell’ esperienza teologale prendono immediatamente forma in proposizioni, espressioni ed immagini tratte dalla comune concezione e visione del mondo che l’uomo ha» [15]. La Parola, intesa come espressione dell’intenzione salvifica di Dio in Cristo, non può sganciarsi mai dall’esperienza di chi vi aderisce; anzi, questa è profondamente intrecciata alle trame della Rivelazione. La salvezza si compie concretamente laddove l’esperienza credente si fa ricettiva con tutto il carico delle proprie possibilità(non solo linguistiche):
«Rivelazione in senso cristiano comprende sia l’azione salvifica di Dio che l’esperienza credente e l’espressione interpretativa di essa. L’elemento interpretativo della conoscenza credente è […] parte essenziale della rivelazione cristiana stessa. Perciò è soltanto nella risposta umana, dunque nell’atto di fede, che la rivelazione si compie propriamente» [16].
Parlare di Dio significa parlare degli eventi storici che resero e rendono l’uomo libero – R. A. Alves
Le modalità di ascolto della Parola, per comprenderne la sconvolgente portata, sono rintracciabili in una esortazione di Benedetto da Norcia. Nel ‘Prologo’ alla Regola, scriveva: «ascoltiamo con orecchie attentissime che cosa ogni giorno ci ripete la voce ammonitrice di Dio» [17]. L’ascolto richiede orecchie attentissime: si cita una parte per il tutto; orecchie, qui, significa che tutta la persona è tesa nell’ascolto. Dio è la voce Altra che irrompe ogni giorno in noi. La portata di questa irruzione non è interamente fenomenologica; essa, piuttosto, apre ad una pro – vocazione che interessa dimensioni ben più profonde:
«Il momento presente in cui la predicazione raggiunge l’uomo è il momento escatologico» [18]. La Parola Altra apre su di un tempo Altro. L’irruzione della Parola modifica la Storia e le micro – storie. La prova possiamo ricavarla da una esperienza di Teresa d’Avila. Nel 1580 era tormentata: fondare o no il monastero di Palencia? Si rivolse, dopo la comunione, al Signore e ne ricevette conforto, appoggio. Teresa, esclamò: «Oh, gran Dio! Come sono diverse le vostre parole da quelle degli uomini!» [19]. Si assentasse tale differenza qualitativa, il Logos non potrebbe divenire dia – logos e l’alterità verrebbe abolita a danno della possibilità di dialogo che non può svolgersi né tra eguali, né tra soggetti totalmente ineguali.
Dimmi Signore, le parole di vita e di gioia attraverso la bocca e la lingua delle Scritture. Donami di ascoltarle con orecchie interiori e rinnovate e di cantare la tua gloria con la lingua dello Spirito Santo – Yussef Busnaya, scrittore cristiano della Chiesa di Siria
Un luogo eminentemente dialogico è quello della Lectio divina: ambiente ‘responsoriale’. L’aggettivo ‘divino’ ha – spiega un esperto – due sensi; il primo è ‘oggettivo’: la lettura ha per ‘oggetto’ il libro di Dio, la Sua Parola; il secondo è ‘soggettivo’ ed implica «una lettura fatta a due, con Dio, cuore a cuore con lui, nell’intimità di un dialogo» [20]. Torna la lezione del teologo olandese Schillebeeckx: l’elemento interpretativo della conoscenza credente è parte essenziale della rivelazione cristiana stessa. La Chiesa, poi, deve essere la casa nella quale avviene l’incontro del ‘senso soggettivo’ e di quello ‘oggettivo’ del dialogo, cuore a cuore, con Dio. Come scrisse Giovanni Paolo II, la Chiesa deve essere la casa e la scuola della comunione per promuovere la spiritualità di comunione [21]. Il Beato Bartolo Longo aveva della recita del Santo Rosario una concezione simile a quella che Magrassi destina alla comprensione della ‘Lectio divina’: il Santo Rosario è ‘dialogo d’amicizia’ e ‘comunione’ – vissuto nella Chiesa – con Gesù e Maria: «Come due amici, praticando frequentemente insieme, sogliono conformarsi anche nei costumi, così noi, conversando familiarmente con Gesù e la Vergine, nel meditare i misteri del rosario, e formando insieme una medesima vita con la comunione, possiamo divenire, per quanto ne sia capace la nostra bassezza, simili a essi» [22]. Convivere in dialogo con Gesù e Maria significa essere consapevoli della differenza tra noi ed il divino ma, allo stesso tempo, volendo conformarci al modo di essere dei nostri Amici perché Li amiamo, dobbiamo tendere, fin dove ci è possibile, a farci simili a Loro.
Le Scritture sono vera voce del Verbo di Dio – Ruperto di Deutz
Ciò che deve sconvolgere positivamente il cristiano è il fatto che, a lui, Dio non parla più per mezzo di profeti, segni, accenni che potrebbero rivelarsi – a causa delle nostre limitate capacità ermeneutiche – fuorvianti; Dio ci ha detto la Sua Parola definitiva in Cristo che è Logos, Verbo fatto sarx (carne). È visibile, concreto, storico. Agostino, nel Commento alla Prima Lettera di Giovanni (24, 7), scrive che, se «i tempi che ci precedettero meritarono di avere i profeti ispirati e ripieni della Parola di Dio, noi fummo degni di avere come Profeta la Parola di Dio in persona». Si tratta, precisiamo, di un onore che comporta un onere: se si rivolge a noi la Parola di Dio in persona diventa impossibile non rispondere alla chiamata all’amore. Gesù, però, non è più un referente empirico; cosa significa, come Lui stesso disse, che l’adorazione si fa spirituale? Qui entra in gioco la qualità della nostra ricezione del Vangelo. Solo se non ci appare come un qualsiasi testo e soltanto se considerato come icona di Cristo possiamo sentire il Maestro ancora presente. Un teologo ortodosso, non per nulla, designa «l’intera Bibbia come ‘icona verbale’ di Cristo»[23]. Agostino, nel commentare stavolta il Vangelo di Giovanni, ci istruisce: «Cerchiamo di ascoltare il Vangelo come se il Signore fosse qui presente […] e comunichiamo agli altri la ricchezza che egli ci consente di attingere alle sue parole» [24]. L’ascolto dell’Altro porta alla comunicazione con altri. Si tratta, tuttavia, di comunicare non qualsiasi cosa, bensì, la ricchezza delle parole del Verbo, i pieni di senso logoi del Logos sarx.
È dunque grazie alla Scrittura che l’anima può, senza troppa fatica, dapprima avviare e poi alimentare la conversazione con Dio – D. Gorce
Il teologo, il pastore, educhino ininterrottamente il popolo di Dio a comprendere l’alterità della Parola mostrando che si tratta di nutrimento spirituale che fa crescere bene ed armonicamente la persona. Ogni giorno – chiunque si ritenga seriamente interpellato dalla chiamata all’amore – concretizzi l’imperativo categorico che Giovanni Crisostomo, nelle Sue Omelie sulla Genesi (XX, 1), formulava in questi termini: «Io non posso permettere che una giornata trascorra senza avervi nutriti della sacra Scrittura». Non si cresce nella fede privi di alimenti genuinamente cristiani. Chi si educa all’ascolto della Parola, non disperi: riceverà una visita di Dio! L’Apostolo Paolo fa dire al Signore: ho risposto anche a quelli che non mi invocavano (Rm 10, 20). Il Logos vuole farsi, per Amore, per rispondere alla sete di Senso, dia – logos; Lo vuole, oltre che per noi, anche malgrado noi! Questo mi porta a consigliare di ripetere, come se ne fossimo gli autori, la preghiera di Salomone raccolta in 1Re 3, 9. Alcuni, traducendo il passo, parlano di ‘cuore docile’; sembra, cioè, che il credente voglia essere una sorta di cagnolino ammaestrato di Dio. In ebraico, invece, il saggio re prega così: wenattatà le`avdekà lev šome’a. Traduzione fedele, sarebbe: donami un cuore d’ascolto.
Il credente vuole ascoltare col cuore che, nella cultura semitica, è la sede autentica dell’interiorità illuminata dall’ intelligenza. La Chiesa sia un immenso cuore che ascolta perché non si fa da sé, ma si lascia formare, contraddire, confermare dalla Parola che riceve e solo per donarLa. Benedetto XVI, chiudendo la ‘Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani’ del 2007, ha offerto una preziosa lezione di ecclesiologia: «La Chiesa non fa se stessa, e non vive di se stessa, ma della Parola creatrice che viene dalla bocca di Dio. Ascoltare insieme la Parola di Dio […]; ascoltare e studiare nella comunione dei credenti di tutti i tempi; tutto ciò costituisce un cammino da percorrere per raggiungere l’unità della fede, come risposta all’ascolto della Parola» [25]. La Chiesa, ascoltando e studiando la Parola come Dono, scopre il valore alterità; lo può insegnare a noi tutti perché sa che nulla ha ricevuto da se stessa. Ogni Sua parola viene – ricorda il Pontefice – dalla bocca di Dio. Come potrebbe non andare verso ‘altri’, la Chiesa che tutto riceve dall’‘Altro’?
La bocca pronuncia le parole del testo, la memoria lo fissa, l’intelligenza ne comprende il significato, la volontà desidera tradurlo in opere – J. Leclercq
La Parola che dona alla Chiesa la comprensione di se stessa accompagna anche nello sforzo di comprendere i tempi nei quali viviamo; altrettanto vero è il discorso opposto: leggere il giornale, testi che mostrino la situazione politico – culturale – religiosa del proprio tempo può illuminare la lettura dei testi sacri. Lo affermava, arditamente, un teologo protestante del Novecento: Bibbia e giornale stanno una accanto all’altro. Studiando la Lettera di Paolo ai Romani, il nostro autore, aggiungeva: «La lettura di ogni sorta di letteratura profana e anzitutto dei giornali, deve essere raccomandata con insistenza a chi vuole comprendere l’Epistola ai Romani. Poiché il pensiero, quando è autentico, è pensiero della vita, e perciò, e in ciò, è pensiero di Dio» [26]. Il pensiero della vita ed il pensiero di Dio, dunque, non sono simili, ma nemmeno totalmente disgiunti. Una feconda tensione dialettica, arricchente e chiarificatrice, intercorre tra essi. La vita è azione e Dio non ci ha trasmesso mere informazioni, teorie, dottrine, ma donato il Figlio Agente nella Storia. Dice un teologo svizzero: «Non si tratta di speculazione, non della soddisfazione del bisogno della scienza metafisica, ma della Parola di Dio. Gesù è il Logos, ciò che Dio ha da dirci. Appunto non una dottrina – la dottrina etico – religiosa del Rabbi Gesù di Nazaret – ma un’azione di Dio, l’automanifestazione che conclude e compie tutte le azioni rivelatrici dell’antica alleanza, la Parola di Dio eminentemente personale nella quale l’uomo è posto di fronte alla decisione come in nessun altro luogo, questo è Gesù Cristo» [27]. La parola ‘eminentemente personale’, ‘decisiva’ di Dio, Gesù Cristo, convoca per la decisione nella quale ci si gioca tutto. La chiamata della Parola definitiva di Dio esige la risposta definitiva dell’uomo.
Una delle cause delle difficoltà sperimentate dalla teologia in questi ultimi secoli consiste precisamente nel fatto che i teologi hanno voluto rinchiudere il mistero in formule – Neofito Edelby
Potremo fare a meno della Parola? La risposta può essere affermativa unicamente se il Suo posto venisse preso da Cristo in persona: «quando il Signore tornerà – scrive Agostino commentando il vangelo giovanneo (XXXV, 9) – sarà un giorno così luminoso che non saranno più necessarie le lucerne […]. Perciò saranno eliminate tutte le Scritture, che come lucerne venivano accese per noi nella notte di questa vita, perché non rimanessimo nelle tenebre». Il folle di cui parla Nietzsche, gira per la piazza, nel mercato e cerca Dio. Si accompagna, dice il filosofo, con una lanterna in pieno giorno. I cristiani, invece, si accompagnano nelle ore più assolate o più buie della Storia con le lucerne della Scrittura: non possiamo vedere il Signore ‘faccia a faccia’ ma, come diceva Paolo, in uno specchio. La Parola che leggiamo mentre ci legge è la luce (insufficiente?) a nostra disposizione. A differenza del folle nietzschiano, non gridiamo ‘Dio è morto!’ perché, lo sappiamo, a morire sono solo immagini del Trascendente; il Dio ebraico – cristiano, invece, al più, ha ‘nascosto il Suo Volto’. Per noi, poi, Lo ha nascosto – in forma di traccia – nel volto degli altri. Con le lucerne delle Scritture osserviamo l’altro per spigolare indizi di Trascendenza.
La luce del Vangelo ci illumini l’uomo per come è nelle intenzioni di Dio perché, incontrare davvero l’altro, è la via privilegiata per andare al Padre. In ogni volto, in ogni parola dell’altro intercettiamo i doveri che – in nome e per amore di Dio – ci portano fuori di noi per donarci in maniera asimmetrica e senza ritorno. Cosa consegneremo al Signore quando tornerà e potremo spegnere le lucerne? Che risposta diamo all’esortazione di Giacomo, siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non soltanto gli ascoltatori, illudendo voi stessi (Gc 1, 22)? L’alterità della Parola è non illusoriamente compresa solo e soltanto se ci conduce a vivere l’alterità in orizzontale all’insegna dell’amore per gli altri!
La Parola di Dio si manifesta e comunica l’amore operante e continuo del Padre, il quale mai cessa di agire, di compiere il suo mistero salvifico in noi e nel mondo – P. Visentin
L’efficacia dell’ermeneutica teologica dell’alterità. Cos’è? Possiamo comprenderlo imparando da quanto avviene nella Sinagoga, dalla tradizione ebraica (nostra radice). Nella Sinagoga, infatti, troviamo i lettori, non il lettore: tre per la liturgia ordinaria, sette per i sabati e le solennità. Uno studioso, spiega: «non è l’individuo che ha il primato sulla Parola ma tutta la comunità».
Si ha, cioè, una spersonalizzazione (positiva e feconda) della lettura: «essa non è il prodotto di un incarico privilegiato, ma piuttosto si arricchisce della personalità dell’intera comunità […]. Dio parla alla comunità tramite la comunità» [28]. Dal versante cattolico, poi, le cose non stanno diversamente: «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è ‘sacramento di unità’, ossia popolo santo radunato e ordinato e appartengono all’intero corpo ecclesiale, i cui membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e dell’attuale partecipazione» [29].
L’alterità riguarda non soltanto la ‘Parola in sé e per sé’, ma anche la Sua dimensione comunitaria, liturgica. Nella Sinagoga la lettura non è un incarico privilegiato e, nella Liturgia cattolica ognuno partecipa in diverso modo: non è ‘dispersione’. L’unità non è uniformità piatta ed alienante. La Chiesa che prega, annuncia, celebra la Parola è sacramento di unità. L’insieme dei carismi è la ricchezza mai confusionaria della fede cristiana improntata, se vuole essere matura ed autentica, alla sana alterità.
Nessuno di fronte all’uomo, riconobbe l’uomo, perché nessuno seppe cogliere la diversità e l’alterità come dei valori. Forse ciascuno di noi è una moltitudine, e la ricerca della nostra identità è un tentativo destinato all’insuccesso – Umberto Galimberti
Laddove un cristiano si porta nel mondo ad annunciare la Parola, fiorisce la Chiesa. Agostino, riflettendo sui Salmi, affermava: praedicaverunt verbum et genuerunt ecclesias (hanno annunciato la Parola della verità e hanno generato le chiese) [30]. Approcciare la Parola apre il cammino (irreversibile) verso l’Altro ed altri. Bonhoeffer diceva che non si dà altra scelta: se ricevi la Parola di Dio devi cominciare a cercarLo perché Egli non ammette alcun falso appagamento. La ricerca non ha fine. Da questo, poi, si tratta di far nascere quel sacramento di unità che è la Chiesa, la comunità dei credenti. Le Scritture vanno davvero lette sulle ginocchie della santa Chiesa (Agostino). Non si può annunciare una verità privata. Scrive un esegeta francese contemporaneo: «… finché io sembrerò avere la verità che testimonio, l’altro rifiuterà di ascoltarmi. Le formule che proporrò si urteranno con le formule che l’altro possiede. Se, al contrario, so rinunciare alle mie formule per manifestare la nudità del mio spirito davanti al mistero, allora è probabile che mio fratello lascerà cadere gli orpelli con cui rivestiva la sua verità» [31]. Ci si deve incontrare con l’altro a partire dalla Verità e non dalle nostre formule; uno scontro tra esse è il modo peggiore di intendere una fede vissuta all’insegna dell’alterità. Benedetto XVI ha toccato il tema dell’alterità della Parola con asserzioni perentorie ed assai istruttive. Durante una delle catechesi del mercoledì, richiamando il lavoro esegetico di San Girolamo, colse l’occasione per ricordarci che non «possiamo mai da soli leggere la Scrittura… La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione con il Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il ‘noi’ nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire» (L’Osservatore Romano, 15 novembre 2007).
L’insegnamento di papa Ratzinger potrebbe valere come il manifesto programmatico dell’alterità dell’ermeneutica teologi ca.
Bisogna che singoli e comunità portino l’ascolto della Parola di Dio al suo vertice: cioè alla preghiera comunitaria e personale – F. Barbero
Rimane fermo il punto: la Scrittura è una ricchezza che mai si esaurirà; un pluriverso di provocazioni che sempre si rinnovano. La Pontificia Commissione Biblica, nel già citato L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, sostiene che la comunità credente ha sentito l’obbligo di custodire i sacri testi perché non può non ammettere che essi avrebbero portato sempre luce e vita alle generazioni future. Non si incontra Dio una sola volta; non tutto ciò che è scritto chiude la questione; anzi, una ermeneutica teologica che sappia ispirarsi al paradigma alterità, trova questa convinzione proprio nella molteplicità di sensi veicolati dalle Scritture. È così: «il loro carattere eterogeneo stesso manifesta che l’esperienza dell’incontro con Dio conosce sfaccettature ed espressioni molteplici» [32]. Occorrono le testimonianze delle comunità credenti di ieri, di oggi e di quelle future per garantire una identità creativa, proprio perché fedele al sacro deposito, alla Chiesa. Nell’antichità questa lezione era già nota e ben applicata: «La chiesa antica riteneva di fondamentale importanza aver custodito e trasmesso incorrotto l’insegnamento degli apostoli. Ma testimoni e garanti della verità […], non erano esclusivamente gli apostoli… bensì la chiesa nella sua totalità: l’individuo può errare, ma non la chiesa universale assistita dallo Spirito» [33]. Si deve perennemente ripetere quanto affermarono all’Assemblea di Gerusalemme gli anziani: Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi… (At 15, 28).
La creazione è presentata dalla Bibbia come un discorso di Dio – G. Vannucci
Al teologo non resta che scrivere e studiare per mostrare ad ‘altri’ ciò che a lui stesso sta a cuore. La teologia non può essere una esercitazione privata, ma uno scavo appassiona to, eseguito col piccone della fede, su progetto di Dio, dei segni della Trascendenza per donare ad altri cartelli indicatori affidabili che dicano in quale direzione far procedere la Storia. Un teologo del Novecento confessa di avere scritto i suoi libri «allo scopo di mostrare a qualcuno qualcosa di cui io penso che debba essere visto. Ho letto ieri una frase di Goethe […]: al tempo presente nessuno sa tacere […]; occorre parlare e fare rumore non per vincere ma per essere fedeli alla posta in gioco» [34]. In nome di questa fedeltà, sento di dover mostrare – per comprendere l’alterità di Dio e della Parola – qualcosa che va considerato. Ecco l’argomento al quale alludo. Sappiamo che il rapporto col Trascendente è si pieno di fascino, ma avviene pure sotto l’ala del tremendum (R. Otto). Si rischia di comprendere l’alterità di Dio mossi dalla paura. Il tema è stato indagato dalla teologa Bruna Costacurta.
È stata lei a ricordarci che, nella Bibbia, l’uomo si configura «strutturalmente soggetto di paura» [35]. Rinveniamo, nella Scrittura, ben 40 radici ebraiche nel discorrere sul ‘temere’ e più di 100 termini, frasi ne focalizzano le manifestazioni somatiche. Di cosa è segno la ‘paura’ in questi luoghi teologici? Della creaturalità, della costitutiva fragilità umana. La paura, insomma, è il proprium del «vivente in quanto mortale» (p. 56).
L’uomo, temendo, confessa di essere consapevole della propria finitudine.
La Costacurta, perciò, considera il temere come il nostro luogo di verità. Di fronte alla minaccia costitutiva dell’uomo, l’essere mortali, fragili, si affaccia il nostro bisogno costitutivo: «essere salvato da un Altro» e, dunque, ci si apre alla Trascendenza.
L’Altro si scopre anche nel momento più amaro della consapevolezza umana. Se il divino stesso pare calare sulle spalle umane un peso troppo grande, che fa paura, non resta – conclude la nostra autrice – che passare dalla paura al timore di Dio. Nel secondo momento, infatti, «pur continuando a riconoscere quella misteriosa alterità e diversità, (l’uomo) l’accoglie però come portatrice di salvezza» (p. 59). La paura, ad ogni modo, resta un passaggio obbligato! Solo gli ‘idoli’ non meritano che li si tema. Cosa cambia, concretamente, nel passaggio dalla paura al timore?
«La paura – argomenta la Costacurta - […] riconosce Dio nella sua ‘potenza’, ma il superamento della paura che diventa timore riconosce Dio nella sua ‘potenza che salva’» (ivi.).
Una ermeneutica teologica improntata all’alterità (in senso orizzontale e Verticale), dunque, deve aiutarci a relazionarci all’Altro in maniera non infeconda: passare dalla paura per la potenza di Dio (a fronte della nostra pochezza ontologica e fenomenica) al timore per una potenza che salva.
Sto terminando la mia riflessione mentre fuori la sera è già molto vicina alla notte e spero di andare a dormire con la consapevolezza che la misteriosa alterità e diversità di Dio porta salvezza.
La paura può scaturire dall’intendere la potenza dell’Altro, ma se si corregge e converte in timore, genera la certezza che la potenza di Dio è tale solo perché salvifica. Si può richiamare quella che considero una sorta di ‘buonanotte’ che Origene rubricò in una delle Sue omelie sul ‘Cantico dei Cantici’ (II, 9). Vorrei che divenisse la nostra ‘preghiera della sera’: «Il braccio dello Sposo diventi il mio cuscino, e la mia anima si adagi sulla Parola di Dio» [36].
Il braccio di Dio è il cuscino sul quale posso dormire perché, pur temendo la Sua alterità, non ne ho paura in quanto so che la Sua potenza non mi annienta, ma – proprio perché Lui è onnipotente – sa renderla debole per chinarsi su di me e salvarmi; la Parola, poi, nella Sua intrinseca, ma feconda alterità contraddice i miei discorsi, le mie teorie, ma solo per elevarmi ad un grado superiore riguardo alla comprensione della chiamata all’amore (Fuchs) che Dio mi rivolge in Cristo. La mia anima si adagia con fiducia sulla Parola perché le mie deboli e stanche parole ne vengano – nel mentre trovano ristoro – redente.
Il Logos guarisce le patologie dei nostri logoi per portarci – per mezzo di un dialogo autentico – più vicini a Dio.
[1] La necessità di parlare di Dio con un linguaggio vicino alla sensibilità moderna (e postmoderna) ha imposto di pensare, progettare quella che è stata definita la «Nuova Ermeneutica». Il suo obiettivo primario, è stato detto, è «quello di studiare il problema della comunicabilità della rivelazione cristiana all’uomo di oggi. Il messaggio di Cristo non può essere limitato ai solo suoi tempi. Se è valido ancora oggi, in quale linguaggio si deve esprimere?» (P. Grech, «La Nuova Ermeneutica: Fuchs e Ebeling», in associazione biblica italiana, Esegesi ed Ermeneutica. Atti della XXI Settimana biblica, Paideia, Brescia 1972, p. 77).
[2] Cfr., G. Ripanti, «L’alterità dell’ermeneutica teologica», in Dio nella filosofia del Novecento, G. Penzo – R. Gibellini (edd.), Queriniana, Brescia 1999, pp. 319 – 327, p. 325.
[3] E. Fuchs, Ermeneutica, CELUC, Milano 1970, pp. 143 – 144.
[4] Cfr., H. U. von Balthasar, Un’estetica teologica, vol. I: La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1994, p. 463.
[5] Agostino d’Ippona, Contra epistola Manichei quam vocant fondamenti 5, 6 (PL 42, 176).
[6] G. Ruusbroec, Lo splendore delle nozze spirituali, Città Nuova, Roma 1992, Lib. I, cap. 21, p. 71.
[7] Cfr., M. Barba, Institutio Generalis Missalis Romani. Textus – Synopsis Variationes, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, p. 33.
[8] pontificia commissione biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 15 aprile 1993, III. B. 1.
[9] Cfr., E. Brunner, Natur und Gnade. Zum Gespräch mit Karl Barth, Mohr, Tübingen 1934, pp. 10 – 11. Si polemizza con Barth: a Suo dire, infatti, col peccato, l’immagine di Dio in noi è irrimediabilmente persa.
[10] Questa è l’urgenza segnalata da un esponente della teologia ermeneutica del Novecento: «Prepararsi per un recupero della parola ‘Dio’, a partire dalla parola di Dio, ha generalmente senso e necessità, perché è in gioco il mondo» (G. Ebeling, Dio e parola, Queriniana, Brescia 1969, p. 99).
[11] Cfr., R. Cartesio, «Lettera a Hogelande del 8 febbraio 1640», in Euvres Philosophiques, a cura di F. Alquiè,t. II, Garnier, Parigi, pp – 158 – 161.
[12] In Parola e fede, Bompiani, Milano 1974, p. 176. Un altro autore ha rintracciato analogie tra la ‘parola’ e l’‘amore’; in questo caso, però, non ci si riferisce all’amore umano, bensì a quello ‘divino’: «Già il linguaggio umano crea un’affinità, una prossimità, una comunione: colui che mi ama, parlandomi, mi invita a prendere dimora presso di lui. A maggior ragione, il linguaggio di Dio è linguaggio d’amore perché Dio è colui che ama […]. Allora uno dei presupposti per comprendere il linguaggio di Dio nelle Scritture è l’accordo: soltanto colui che percepisce il testo della Scrittura come il linguaggio di Qualcuno che lo ama perviene alla comprensione di quel testo, e – attraverso quella – all’autentica interpretazione del testo e di se stesso» (V. Mannucci, Bibbia come Parola di Dio (Strumenti, 17), Queriniana, Brescia 1986, p. 305). L’amore umano – consapevole di poter divenire autentico soltanto nel dialogo col Trascendente – sa di essere appena una parte dell’Amore: «L’amore dell’uomo è solo una speciale varietà, anzi una funzione parziale di una forza universale che agisce efficacemente in tutto e verso tutto. L’amore è sempre stato per noi, dinamicamente, un divenire, un crescere, uno svilupparsi delle cose nella direzione di un’immagine originaria, che è posta in Dio. Ogni fase di questa crescita del valore intimo delle cose, che l’amore produce, è dunque sempre anche un luogo di sosta – una stazione intermedia, anche se non ancora tanto lontana sulla strada che va dal mondo a Dio» (M. Scheler, «Ordo amoris», in Gesammelte Werke, vol. X, Francke, Berna – Monaco 1957, pp. 355 – 356).
[13] Cfr., H. G. Gadamer, Verità e metodo. Lineamenti di una ermeneutica filosofica, Bompiani, Milano 2000, p. 557.
[14] «Un asserto teologico è vero non perché esprime un contenuto valido atemporalmente, ma perché dà risposta al problema della concreta situazione del momento». La comprensione delle Scrit ture ha un carattere dialettico perché «deve essere conquistato sempre di nuovo» (R.Bultmann, Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, pp. 129 – 133).
[15] Cfr., E. Schillebeeckx, «La funzione della fede nell’autoconsape volezza umana», in J. Congar e A., La parola nella storia, Querinia na, Brescia 1968, p. 57.
[16] E. Schillebeeckx, L’approccio a Gesù di Nazaret. Linee metodologiche, Queriniana, Brescia 1972, p. 20.
[17] Cfr., Vita di San Benedetto di Gregorio Magno e la Regola, Città Nuova, Roma 1979.
[18] Cfr., R. Bultmann, Enciclopedia Teologica. Introduzione allo studio della teologia, a cura di A. Rizzi, Marietti, Genova 1989, p. 93.
[19] Vedi Fondazioni, 29, 6. Teresa di Gesù, Opere, Postulazione generale O.C.D., Roma 1985, 9a edizione.
[20] Cfr., M. Magrassi, «Lectio divina», in Dizionario Enciclopedico di Spiritualità, a cura di E. Ancilli, Città Nuova, Roma 1990, vol. 2, col. 1411.
[21] Giovanni Paolo II, lett. apost. Novo Millennio Ineunte, 6 gennaio 2001, 43.
[22] Beato Bartolo Longo, I Quindici Sabati del Santissimo Rosario, 27° edizione, Scuola Tip. Bartolo Longo, Pompei 1916, p. 27. La citazione è riportata anche da Giovanni Paolo II, al n. 15 della lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae, del 16 ottobre 2002.
[23] Cfr., P. Evdokimov, Le età della vita spirituale (Studi religiosi), EDB, Bologna 1981, p. 271; Id., L’Ortodossia, EDB, Bologna 1981, p. 271.
[24] Per comprendere come leggere in maniera fruttuosa il Vangelo si può seguire per intero il percorso agostiniano. Si consiglia, perciò, la lettura integrale di Agostino di Ippona, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2005.
[25] Cfr., L’Osservatore Romano, ed. settimanale, n. 5 (2 febbraio 2007), p. 4.
[26] Cfr., K. Barth, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 2002, p. 408.
[27] Cfr., E. Brunner, Der Mittler. Zur Besinnungüber den Christusglauben, Mohr, Tübingen 1927, p. 204.
[28] Cfr., L. Deiss, Vivere la parola in comunità, Gribaudi, Torino 1976, p. 136. La Parola è plurisenso e, una guida spirituale del nostro tempo, ha potuto recentemente affermare: «Quando Mosé scese dal Sinai portando due tavole, il messaggio era chiaro: l’intera legge non sta in uno soltanto dei due suoi aspetti» (J. Chittister, I dieci comandamenti. Leggi del cuore, Queriniana, Brescia 2008, p. 161).
[29] concilio vaticano ii, Costituzione sulla sacra Litugia, Sacrosantum Concilium, (4 dicembre 1963), 26.
[30] Agostino d’Ippona, Opere: Esposizione sui Salmi, Città Nuova 1982. Esposizione sul Salmo 44, 23.
[31] Cfr., X. Léon – Dufour, Un biblista cerca Dio, EDB, Bologna 2004, pp. 50 – 51.
[32] Cfr., E. Parmentier, La scrittura viva. Guida alle interpretazioni della Bibbia, EDB, Bologna 2007, p. 31.
[33] A. Wikenhauser – J. Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1981, p. 90.
[34] Cfr., H. U. von Balthasar, Geist und Feuer. Ein Gesprach mit Hans Urs von Balthasar, «Herder Korrespondenz» 30 (1976), p. 73.
[35] B. Costacurta, «Dalla paura al timore di Dio», in AA. VV., L’antropologia dei maestri spirituali, Edizioni Paoline, Milano 1991, p. 54.
[36] Origene, Omelie sul cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 1982. La raccolta va letta interamente!
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