Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Wittgenstein-Custode dell'indicibile.

Una prova di Dio dovrebbe essere propriamente qualcosa per cui ci si possa persuadere dell’esistenza di Dio. Ma io penso che quei credenti che hanno fornito simili dimostrazioni […] non sarebbero mai giunti alla fede mediante simili dimostrazioni […]. La vita può educare a credere in Dio. Vi concorrono anche delle esperienze […], ad esempio, sofferenze di vario genere (L. Wittgenstein)

Dall’esergo risulta chiaro che, nelle tormentate eppur affascinanti vicende del pro e contro Dio che si snodano lungo l’intero Novecento, il pensatore di cui ci occupiamo invita a considerare il religioso entro categorie venate di pathos. Ho definito il pensatore austriaco custode dell’Indicibile perché, di là di ogni sistema filosofico, di ogni sperimentazione linguistica e di qualsiasi teologia, intende trovare Dio nelle esperienze umane ed in particolare, lui, tormentato da problemi filosofici ed esistenziali strettamente legati, nelle sofferenze di vario genere. Di questo racconteremo.

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Chi crede di poter dire qualcosa su Dio, basandosi sulle prove dell’esistenza di Dio, disputa su un fantasma (Rudolf Bultmann)

Nel Libro di Giobbe, come tutti sanno, alla fine di un tormentato percorso, il protagonista, davanti a Dio, ammette: Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca (40, 4). Il polemos teologico si chiude con un gesto che sfocia nel mistero o, se preferite, in un atto che si rinserra nella nicchia dell’indicibile. Giobbe, compreso che i misteri del male, del mondo, dell’esistenza, rimangono inaccessibili alle umane capacità speculative, si inchina a Dio! Custodirà intatta per la consapevolezza dell’indicibilità della Trascendenza. Nel Novecento sorge un altro – potremmo dire – custode dell’Indicibile: il logico, matematico e filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein [1889 - 1951] (d’ora in poi citato con la W). Lo scopo di questo lavoro non consiste nell’esporne sistematicamente il pensiero, ma nel mostrare come, pur dotato di una solida mente logico – analitico – matematica, riuscì a conservare al riparo da insidie razionalistiche l’anelito umano a Dio [1]. L’approccio del nostro autore alla religione iniziò assai presto. A quattordici anni, infatti, frequentò la scuola secondaria a Linz (vi studiava anche Adolf Hitler); ebbene, non fu uno studente esemplare e, quando si diplomò, l’unico voto positivo l’ottenne proprio in Religione. C’è chi ha affermato che tutta la sua vita venne spesa cercando quella che definì das erlösende Wort (la parola salvifica). La salvezza dell’anima fu, per lui che dibatteva di logica, matematica con i neopositivisti, neoempiristi, una ossessione. Ecco cosa lo spinse, sebbene mai appartenne alla Chiesa Cattolica (né ad altra istituzione religiosa), a fare i conti con la figura di Cristo: «Tu non puoi chiamare Cristo il Salvatore, senza chiamarlo Dio. Perché un uomo non ti può salvare» [2]. La filosofia, qui, ha spazio limitato o, addirittura, nullo! W era pienamente consapevole del fatto che l’uomo ha bisogno di una salvezza che viene da un Altro e, per questo, molto insegna all’uomo postmoderno che lungamente delira riguardo ad improbabili soteriologie mondane. Che Cristo è Dio non ce lo dice una sofisticata teologia o una solida argomentazione filosofica: l’insopprimibile desiderio di essere salvati impone di pensarla in questo modo. Pietro Abelardo, secoli addietro, scriveva: io non voglio essere filosofo […], non voglio essere Aristotele se per questo è necessario che mi separi da Dio. Il filosofo austriaco avrebbe sottoscritto senza alcun tentennamento l’affermazione di Varillon: non bisogna razionalizzare Dio. È un cuore che batte. A W interessava uscire dall’indecenza (Unanständigkeit) della vita. Aveva partecipato alla guerra e, il contatto con tanta sofferenza, diceva, l’avrebbe potuto rendere ein anständiger Mensch (un uomo decente). Bastava, tuttavia, quell’esperienza? No! La spinta decisiva a divenire un uomo decente derivava dal coltivare un “legame con Dio”: «un essere che ha un legame con Dio – affermava apoditticamente – è forte» [3]. La “fede religiosa” era per lui un’attività, un modo di vivere; nulla, nel suo pensare la “dimensione religiosa” indulgeva al dottrinario. All’amico Drury diceva che, vivere religiosamente, non si rattrappisce nel mero parlare di religione: «Se […] vogliamo vivere una vita religiosa non è che si debba parlare di religione, ma è il nostro modo di vivere che dev’essere diverso» [4]. Parlare con gli strumenti logico – linguistici della razionalità scientifica intorno a Dio, alla fede, non fu mai una cosa possibile per il nostro autore; l’Indicibile del religioso va custodito tacendone. L’uomo che vuole diventare anständiger (decente), consapevole della propria “miseria ontologica”, invece di argomentare, invoca aiuto, grida verso Dio. Contrariamente ai colleghi del Circolo di Vienna [5], che confinavano nell’insensatezza ogni riferimento alla metafisica ed al religioso/mistico, W si occupò dell’anima prendendo sul serio l’anelito religioso come risposta alle crisi esistenziali:  la religione cristiana, a suo dire, «è solo per colui che prova un estremo sconforto […]. La fede cristiana […] è il rifugiarsi in questo supremo bisogno di aiuto» [6].

Proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso (N. Bobbio)

Si potrebbe pensare che il rifiuto di W di pensare filosoficamente il religioso sia dovuto alla non appartenenza alla Chiesa Cattolica che, oltre a ritenere compito della ragione dimostrare l’esistenza di Dio, eleggeva la filosofia tomista a dispensatrice di strumenti teoretici per “pensare la fede”. In realtà, le cose stanno diversamente. Il pensiero cristiano ha proposto vie alternative per muovere verso la Trascendenza. Un pensatore del Novecento, da cattolico, scrisse: «La realtà del religioso e del divino comincia ben prima di ogni conoscenza scientifica, dal fatto che dio si dà […] nelle coscienze umane […]. Questa realtà è ciò che la filosofia si incarica di pensare e, se può, di formulare in termini intelligibili, ma la sua riflessione sbaglia oggetto se […] intraprende lo sforzo contraddittorio di costringere la religione nei limiti della ragione […]. La filosofia della religione non è la religione» [7]. Ciò che il filosofo austriaco chiamava il mistico interessa non la “Filosofia della Religione”, bensì, la “ricerca del senso”. I neopositivisti vogliono rimaner tenacemente saldati all’empirico e quanto da esso esula, a livello linguistico e concettuale,  dicono, va gettato alle ortiche: è poesia, frutto di una mente estatica o, peggio, esaltata! Per il nostro autore, le cose stanno diversamente: «Il senso della vita […] del mondo possiamo chiamarlo Dio […]. Pregare è pensare al senso della vita […]. Credere in Dio vuol dire che la vita ha un senso» [8]. Nello stesso testo, leggiamo: il significato ultimo della vita lo possiamo chiamare Dio. In questo atipico lavoro filosofico l’interesse primario è questo: che so di Dio e del fine della vita! Attento studioso del linguaggio umano, W sapeva che molti guasti in teologia e nella religione derivano da un uso non corretto del linguaggio: «un certo caratteristico uso errato della nostra lingua percorre tutte le espressioni etiche e religiose» [9]. Etica e religione – piuttosto che esaurirsi nel perimetro degli interessi teoretici – originano «dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore». Con gli argomenti religiosi siamo di fronte, cioè, ad un «documento di una tendenza dell’animo umano» [10]. La fede e l’etica, dunque, né possono essere confutate e ritenute insensate (era la lezione dei neopositivisti viennesi), né si può argomentare filosoficamente intorno ad esse: Dio, dunque, è l’Indicibile da custodire [11].

Riconoscere Dio non è un problema né di scienza […] e neanche di filosofia come tale. È un problema di libertà […], l’opzione è decisiva (L. Giussani)

I neopositivisti, neoempiristi sostenevano che la “parola Dio” è insensata in quanto indica nulla che abbia un “referente empirico”. I discorsi intorno alla fede, all’etica, al religioso, pertanto, sono vani in quanto non li si può sottoporre al vaglio della razionalità scientifica. Gran parte della filosofia moderna e contemporanea si è messa contro Dio proprio perché, sequestrata dal fascino dei procedimenti scientifici, ritiene di doversi occupare unicamente di quanto si vede e si tocca [12]. Qual era, anche se punti di contatto sono certificati, la differenza tra la posizione di W e quella degli altri componenti del Circolo di Vienna? Si tratta, argomenta uno studioso, di una differenza evidente e resa, anzi, ancora più abissale, dalla conclusione paradossale del Tractatus: la realtà alla quale essa fa riferimento, infatti, non è quella «immediatamente percepibile» cara ai neopositivisti; al contrario, si tratta di una realtà completamente altra, il mistico! Esso costituisce «una specie di contraltare rispetto al mondo dei fatti» (il filosofo austriaco ne era convinto: il senso del mondo sta fuori di esso e non interessa i fatti). Il mistico, inoltre, costituisce una realtà sulla quale tacere «là dove, invece, i neoempiristi di Vienna ritenevano giusto parlarne per criticarla e avevano concluso per il non senso» [13]. Conosciuta ai più è l’affermazione, depositata nel Tractatus, che sostiene: su ciò di cui non si può parlare, occorre tacere [14]. Contestare, confutare, rigettare il mistico: non è la posizione di W. Si tratta, piuttosto, di pregare – invocare – tacere. Un filosofo italiano illustra i punti fermi di un pensiero che sa e può custodire l’Indicibile: «Non dunque l’atteggiamento scientifico, logico e/o metafisico è la posizione giusta per l’osservazione dell’indicibile, ma […] una attenzione che permette di avvertirne il richiamo […]. L’indicibile, perciò, rimane logicamente tale e non può di conseguenza essere sostituito dalle forme trascendentali del dicibile» [15]. L’ineffabile (l’Indicibile), scriveva nella proposizione 6.522 del Tractatus, davvero è; il mistico “mostra sé”: si mostra, non dimostra. Insistiamo su di un punto della massima importanza: si tratta di non pensare che il filosofo austriaco “comandi” di “non parlare” del “mistico”. Il custode dell’Indicibile non esalta il mutismo, bensì valorizza il silenzio o altre forme di linguaggio ( preghiera, invocazione) per “accennare” al mistero. Cosa vuol dire esattamente “tacere su ciò di cui non si può parlare?”. L’ha spiegato con chiarezza adamantina uno studioso di filosofia contemporanea: «non si deve comprendere male […]. In tedesco dice: “Wovon man nicht sprechen kann darüber ‘muss’ man schweigen”. Non dice: “… darüber ‘soll’ man schweigen”. Ossia non viene dato un comando: “taci su tutto ciò che concerne l’etica, la religione, la filosofia ecc”. Viene soltanto fatta una constatazione. Per quanto possiamo dire e fare delle affermazioni su questi argomenti, noi non diciamo nulla, ossia le nostre espressioni non rinviano a una realtà empiricamente verificabile […]. Ma sebbene noi non “diciamo” nulla […] tuttavia in questo linguaggio viene “mostrato” qualcosa» [16]. Ecco il punto centrale: per i neopositivisti, visto che nulla diciamo con le nostre affermazioni sul mistico, sul senso della vita, sulla religione e sull’etica, tanto vale lasciar cadere completamente simili questioni. Se non è possibile il rimando ad una realtà empiricamente verificabile (Hubbeling), allora siamo fuori strada quando parliamo di Dio: non è dimostrabile. Per W, al contrario, è il mistico, l’ineffabile, l’Indicibile che mostra se stesso e, col nostro linguaggio, possiamo ammiccare alla “realtà altra” che veicola il senso che è, d’altro canto, fuori dal mondo [17]. Il linguaggio può “mostrare”, non “dimostrare” che c’è qualcosa oltre l’empiricamente verificabile: «Questo mistico non può essere rappresentato. Però si mostra. Per mistico non s’intende, in Wittgenstein, soltanto qualcosa che ha rapporto con Dio […]. Wittgenstein non fu una figura religiosa. Sebbene battezzato nella Chiesa Cattolica, non ebbe alcun legame con questa Chiesa, né con qualsiasi altra chiesa. Tuttavia egli non parlò mai male della fede cristiana. Egli, come diceva, si toglieva tanto di cappello dinanzi alle tendenze religiose nell’uomo» [18].

Comprendi che Dio è incomprensibile (Sant’Ilario)

Dio è l’invisibile evidente (V. Hugo)

Il rispetto che il filosofo austriaco mostrava verso l’“anelito religioso”, il custodirne l’indicibile evitandone sia il sequestro teologico – filosofico sia preservandolo dall’acido corrosivo delle critiche neopositiviste, offrono una lezione a certa teologia verbosa, ridondante dal punto di vista concettuale. Dicevamo che l’autore del Tractatus riteneva un certo tipo di linguaggio infecondo per l’etica e la religione; in un aforisma, poi, elegge a bersaglio dei suoi strali critici la teologia: questa, «che insiste nell’uso di certe parole e ne bandisce altre, non spiega nulla […]. Essa gesticola […] con le parole, perché vuol dire una certa cosa e non sa esprimerla. La prassi dà alle parole il loro senso» [19]. La teologia non spiega, ma – con la sua terminologia – non fa altro che gesticolare: si muove confusamente nella nebulosa dell’Indicibile. Essa non sa esprimere quella certa cosa che, invece, “deve mostrare se stessa”: il mistico! L’umiltà davanti all’Indicibile educa il pensiero, non lo umilia. Va detto ancora una volta, ad onor del vero, che il nostro autore non apparteneva ad alcuna chiesa e, per questo, non era vincolato a nessun tipo di filosofia, né era tenuto a fare teologia seguendo un’autorità. Ad ogni modo, fatti gli opportuni rilievi critici, restano valide due sue lezioni: non ci si illuda di eliminare Dio, il religioso, dai cuori umani con i sortilegi orditi dai neopositivisti, né ci si illuda di padroneggiare l’ineffabile con impianti metafisico – filosofico – teologici. Il mistico si mostra. Chi pretende di arrivare alla fede poiché conosce tutte le parole della teologia è, in fondo, un idolatra del logos e non certo un adoratore del Logos/Cristo. Del filosofo austriaco si dice che viveva «una fede non espressa in parole» [20]. Gesticolare con le parole nulla dimostra e, riguardo alla fede, quello che conta è, piuttosto, mostrare. La fede è «un appassionato decidersi per un sistema di riferimento […] è anche un modo di vivere o di giudicare la vita» [21].

Sopportare di amare un Dio invisibile, è la prova che lo amiamo (André Gozier)

Per vivere occorre un sistema di riferimento. Come, però, lo cerca (meglio, lo costruisce), la filosofia? Attraverso argomentazioni fredde (il nostro autore diceva che le teorie sono grigie)! La fede, all’opposto, è un “sistema di riferimento”, ma richiede che ci si decida ad adottarlo non grazie alla capacità teoretica, bensì, in forza di una appassionata adesione. Con essa si vede e giudica in un “certo modo” la vita e, quindi, non ci si deve unicamente preoccupare di zavorrare la propria anima di dogmi e proposizioni teologiche sottilmente speculative. È chiaro che non intendo parlare male della teologia, ma credo che, ricordare più spesso dove l’autore del Tractatus volgeva lo sguardo, sia utile: la prassi è una categoria che nella Teologia del Novecento risplende di nuova luce. Rendere operative le indicazioni evangeliche è doveroso per chi dice di aver fede; senza le “opere” le “parole” restano mero flatus vocis. Un amico, nel 1944, comunicò con entusiasmo a Ludwig che intendeva convertirsi al cattolicesimo. Il filosofo lo pose immediatamente di fronte alla realtà: come avrebbe inciso sulla sua esistenza un tale cambiamento? Ecco cosa contava. Parlare da cattolico, dirsi cattolico non era cosa da consegnare ad enunciazioni entusiaste e cariche di parole suadenti ed altisonanti. L’espressione di W, fu questa: «Se qualcuno mi dice di essersi comprato l’attrezzatura da equilibrista non mi lascio molto impressionare sinché non vedo come la usa» [22]. La figura dell’equilibrista era frequente nel suo repertorio di metafore. Possedere degli attrezzi non certifica che li si sappia usare. È la prassi che verifica la fede! In fondo, è vero: si ha un bel parlare di esegesi, semantica, linguistica, di scuole teologiche, ma se Vangelo e Cristo non li si lascia fermentare nel nostro “modo di vivere” si sta, per riprendere il giudizio di W, semplicemente gesticolando con le parole. Ecco come si poneva davanti al Nuovo Testamento: «Qualsiasi cosa ci possa essere di vero o di falso nel Nuovo Testamento, una cosa non può essere messa in dubbio: che io per vivere giustamente dovrei vivere in maniera del tutto diversa da come mi piace. Che la vita è molto più seria di quanto appaia in superficie. La vita è di una tremenda serietà» [23].

L’amico del silenzio si avvicina a Dio (Giovanni Climaco)

Custodire l’Indicibile significa metterlo a riparo e dalle superbe parole teologiche che non possono esprimerlo e dalle critiche che ne denunciano, solo per ossequio verso paradigmi scientisti, l’insensatezza. W acquistò, un giorno, un libro di Tolstoj che lo condusse al Vangelo: da allora, entrambi i testi non vennero più abbandonati! Li lesse avidamente e comprese che «il cristianesimo dice propriamente: lascia cadere ogni intelligenza» [24]. Non che il cristiano sia chiamato all’ignoranza; si tratta, piuttosto, di attivare primariamente quella che potremmo definire l’intelligenza del cuore. Più che costringere la mente a stabilire cosa significhi “fede in Cristo”, “credere”, per il filosofo austriaco è necessario parlare di amore per Cristo evitando, così, tutti «quei pensieri intricati sul “paradosso”, sul significato eterno di un fatto storico»; tale procedimento fa scomparire «l’irritazione dell’intelletto» [25]. È bene lasciar cadere ogni intelligenza che pretende di provare qualcosa riguardo alla fede per mezzo del gesticolare con parole; indagare con un armamentario concettuale cosa significhi “fede in Cristo”, come accada che un “evento storico” (la nascita di Gesù) possa avere “valore e significato eterno”, è lasciare all’intelletto il diritto di irritarsi. Più che negarci il diritto di fare teologia, W ci invita a prendere in considerazione quelle che, a suo avviso, costituiscono delle trappole riguardo alla relazione con Dio. Saremo più ricchi se sapremo accostare al modo usuale di fare teologia le provocazioni di questo autore che tenta di custodire l’Indicibile non solo dagli attacchi esterni, ma anche dalle facili esaltazioni di chi mette a tema filosoficamente i contenuti della fede cristiana. Il Vangelo, la sequela di Cristo siano una relazione reale che dà nuovo smalto, finalità più alte alla prassi. La religione cristiana, per W, «non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo» [26].

La fede non è un […] atto teorico (G. Duns Scoto)

Perché il nostro autore voleva che fosse Dio a salvarlo? Come mai parlava, riguardo al cristianesimo, non di dottrina, ma di evento reale nella vita dell’uomo? Non poteva accettare che le critiche neopositiviste, le ingenuità dei teologi, sminuissero il peso che la fede cristiana deve avere nella vita. Perché? Anche se i procedimenti scientifici, per mezzo dell’archeologia, della papirologia, avessero tolto credito alla storicità dei Vangeli, W, giurava, non avrebbe smesso di rispettarli. Ma perché? Diceva: «i resoconti storici del Vangelo potrebbero, se intesi nel senso della storia, essere dimostrabilmente falsi, e tuttavia la fede non ci perderebbe nulla» [27]. Era un logico, un matematico, un ingegnere aeronautico, ma nulla della validità della fede era disposto a mettere in discussione in nome del “verbo scientifico”: preferiva lasciarsi afferrare per il cuore dal “Verbo di Dio”. Sì, ma da dove origina questa incrollabile convinzione? In primo luogo, a differenza degli intellettuali del Circolo di Vienna, credeva che l’amore sia la sola forza che permette di credere a quanto la ragione sconfessa con superbia: «soltanto l’amore può credere alla resurrezione» [28]. Era un uomo tormentato e convinto del fatto che, annotava nel Tractatus (proposizione 6.52) anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. La scienza non vuol saperne di problemi che rasentano il metafisico? Spiacenti, ma essi risultano essere ineliminabili! Se tutte le domande scientifiche trovassero risposta, avremmo raggiunto l’obiettivo della Storia? No! W era profondamente toccato da quelli che chiamava i nostri problemi vitali; nessuna dottrina, nessun verbo scientifico può giovare ad essi. Il cristianesimo, invece, non essendo “solo” dottrina, teoria, ma descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo, può illuminare di senso i nostri problemi vitali. Qual è la differenza tra “teoria”, “vita” e “religione”? Per il pensatore austriaco, la prima «è grigia. Ma la vita e la religione sono piene di colori» [29].

Voler provare l’esistenza di Dio è il colmo del ridicolo (S. Kierkegaard)

Se il nostro autore riteneva essere la religione cristiana non teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, tuttavia, di anima e della sua salvezza si è occupato fino ad operare un distinguo tra quanto costituisce l’interesse delle “scienze naturali” e quanto, invece, sta oltre gli steccati di un sapere grigio. La proposizione 6.4312 del Tractatus illumina: «Non è […] questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e tempo è fuori dello spazio e tempo (Non sono già problemi di scienza naturale quelli che qui sono da risolvere». Perché, insisto, pensare in questo modo e mettersi in contrapposizione con gli altri logici e filosofi di Vienna? Perché giungere, a causa di queste posizioni, a meritare l’irritazione di Betrand Russell che, in alcune lettere, pure confessava di amare Ludwig come un figlio? Un autorevole esponente del Circolo di Vienna, documenta: «Quando Wittgenstein parlava di religione, il contrasto tra la sua posizione e quella di Schlick diventava straordinariamente evidente: […] erano d’accordo entrambi che le dottrine religiose nelle loro varie forme non avessero un contenuto teoretico, ma Wittgenstein rifiutava la concezione […] che la religione appartenesse alla fase infantile dell’umanità e che tendesse a scomparire lentamente nel corso dello sviluppo culturale» [30]. Le dottrine religiose, tanto per W quanto per i detrattori della religione, non possono avere un contenuto teoretico verificabile perché accolgono la parola “Dio” priva di referente empirico; le strade, tuttavia, si dividevano ed il nostro autore si ergeva a custode dell’Indicibile battendosi contro chi riteneva la religione un incidente di percorso organizzato a partire dalla fase infantile dell’intelletto umano. Lo sviluppo culturale, scientifico, per W non estirperanno il religioso dal cuore. Rileggiamo la proposizione 6.52 del Tractatus: anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Continuiamo, ora, a seguire Carnap: «in Wittgenstein esisteva un forte conflitto interno tra la sua vita emotiva e il suo pensiero intellettuale: il suo intelletto, agendo con grande intensità e potere di penetrazione, si era reso conto che molte affermazioni nel campo della religione e della metafisica non dicevano, rigorosamente parlando, nulla»; dunque, «egli non cercava di chiudere gli occhi dinanzi a ciò, ma questa conclusione era estremamente penosa per lui da un punto di vista emotivo, come se dovesse ammettere una debolezza in una persona amata» [31].

Essere religioso vuol dire porre appassionatamente la domanda sul senso della nostra esistenza (P. Tillich)

Starei più attento a non parlare esclusivamente di emotività riguardo al rapporto di W con la religione; poi, proprio perché onestamente egli – per riprendere Carnap – non cercava di chiudere gli occhi dinanzi a quanto appariva problematico nella fede, maggiormente va ammirato per  lo sforzo di custodirne il mistero, il mistico, l’ineffabile, l’Indicibile. Lo stesso Carnap, scorrendo con maggior attenzione le pagine del Tractatus, si rese conto che l’autore si era dato un compito diverso da quello degli altri componenti del Circolo di Vienna: «quando leggevamo il libro di Wittgenstein al Circolo avevo erroneamente creduto che il suo atteggiamento verso la metafisica fosse simile al nostro, poiché non avevo rivolto sufficiente attenzione alle sue proposizioni sul misticismo […]: ebbi l’impressione che la sua ambivalenza nei riguardi della metafisica fosse soltanto un aspetto particolare di un più fondamentale conflitto all’interno della sua personalità» [32]. Mi sembra, in verità, riduttivo ricondurre gli interessi del pensatore austriaco ad un conflitto all’interno della sua personalità. Vero è che, quando se ne andò in un paesino a fare il maestro elementare, a lungo venne ricordato come un tipo stravagante ma, il tentativo di custodire l’indicibile del religioso, merita giudizi quanto meno più attenti. Se quanto l’autore del Tractatus aveva affermato riguardo ad “etica”, “religione”, “metafisica”, poteva davvero venir liquidato come la risultante di un aspetto particolare di un più fondamentale conflitto all’interno della sua personalità, perché mai al Circolo ci si dedicava in maniera continua e pensosa alla lettura di quel testo? Karl Menger, testimonia: «Erano emersi alcuni contrasti all’interno del gruppo a proposito del Tractatus di Wittgenstein. Così, su suggerimento di Carnap, Schlick decise di dedicare alla lettura del libro ad alta voce tutte le successive riunioni […]. La lettura di gruppo frase per frase, occupò l’intero anno accademico prima che mi unissi a loro» [33]. Si badi: una lettura per “l’intero anno accademico” del Tractatus, condotta “frase per frase” ed a “voce alta”, sono suggerimenti di Rudolf Carnap, la stessa persona, come abbiamo mostrato, che giudicava sbrigativamente certe curvature teoretiche del collega appena un aspetto particolare di un più fondamentale conflitto all’interno della sua personalità! La realtà, invece, è più complessa. W cercava lo sfondo che dà il significato al tutto! L’inesprimibile, pur preso dentro una impossibilità, forniva un terreno dal quale spiccare il volo verso il significativo: «L’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato» [34]. Senza la provocazione di uno sfondo inesprimibile – indicibile – misterioso il significato riesce scialbo. W non si trovava, però, in una posizione comoda quando denunciava la consapevolezza di poggiare sullo sfondo dell’inesprimibile. Si definiva, infatti, un cavaliere maldestro che prende coscienza della propria insicurezza se il cavallo minimamente si inquieta. Ora sa di dipendere interamente dal cavallo [35].

È meglio non sapere nulla, ma credere in Dio e rimanere nell’amore di Dio, anziché rischiare di perderlo con ricerche sottili (Sant’Ireneo)

Se W affermava che l’uomo ha bisogno soltanto di Dio [36], pure aveva chiara consapevolezza del precario equilibrio di chi si trova sul terreno del religioso. Nella vita era un cavaliere maldestro e, in quanto “pensatore religioso”, un funambolo. È caratteristica ineliminabile del “pensatore religioso”, cioè, essere «come un funambolo che cammina, si direbbe, quasi soltanto sull’aria. Il suo terreno è il più stretto che si possa immaginare, eppure rimane possibile camminarvi sopra davvero» [37]. Pensare religiosamente è un esercizio pericoloso, ma necessario, di ‘funambolismo’: il terreno sul quale muoversi è stretto eppure, paradossalmente, percorribile! Invocava, il nostro autore, il soccorso di Dio, ma non fece mai dell’anelito religioso un porto di pace. I “problemi” di logica e quelli inerenti alla salvezza della sua anima lo agitavano allo stesso modo perché in lui mai “pensiero” e “vita” subirono scissioni [38]. C’è, a tal riguardo, una testimonianza preziosa. Bertrand Russell parla del nostro ingegnere aeronautico e filosofo come di un uomo assai inquieto: andava, infatti, a trovarlo ogni sera a mezzanotte per tre ore e, silente, percorreva la stanza del filosofo inglese senza fermarsi e nervosamente.Russell: «Una volta gli chiesi: “Stai pensando alla logica o ai tuoi peccati?”. “A entrambi”, rispose e continuò il suo andirivieni» [39]. Il pensatore e matematico inglese – come ho già avuto occasione di scrivere – lo considerava quasi un figlio e se sopportava quelle stranissime visite notturne era solo perché aveva paura che, se mandato via, Ludwig avrebbe potuto suicidarsi! Era davvero tormentato dai peccati, dal desiderio di essere un uomo “decente”; il suo desiderio di redenzione era forte, non una posa intellettuale formalmente religiosa: «è la mia anima – annotava –, con le sue passioni, quasi con la sua carne e il sangue che deve essere redenta, non il mio spirito astratto» [40]. Pronunciare parole religiose non era in lui una questione accademica. Da qui si comprende come fosse imprescindibile fare i conti con il linguaggio: «Tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro (il Tractatus) l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne» [41].

[Dio] è inutile dimostrarlo, dobbiamo mostrarlo (M. Zundel)

W era davvero assai attento alle possibilità del linguaggio riguardo all’espressione di proposizioni religiose. Si chiedeva: come posso sapere che due persone intendano la stessa cosa quando entrambe dicono di credere in Dio? I teologi dovrebbero preoccuparsi, ad esempio, di comprendere a quale Dio pensano quelli che li ascoltano o li leggono e, poi, mostrare quanto c’è di sbagliato nel modo comune di intendere il Trascendente. Sì, ma come la mettiamo col fatto che, per il nostro autore, la teologia si limita a gesticolare con le parole? C’è una soglia di inesprimibile, nelle cose della fede cristiana e della religione in generale, che il logico austriaco invitava a non oltrepassare. Egli aveva ben salda in mente una frase colta sulla bocca di un contadino uscito dalla penna di Tolstoj, l’amato autore dal quale mai si separava. Il semplice uomo di fede invitava, nel racconto, un amico a non interrogarsi troppo riguardo ad un presunto miracolo. Gli ripeteva: Quella è cosa di Dio, amico mio, cosa di Dio. Cosa aveva a che fare tutto ciò con la pretesa di fornire spiegazioni? Meglio arrestarsi con “timore e tremore” (Kierkegaard) sulla soglia dell’Indicibile. Riguardo a Dio, diceva già Giovanni Climaco, chi volesse definirlo sarebbe come un cieco che vuole contare i granelli di sabbia del mare! Ludwig non voleva cadere nelle mani di una superba cecità. Del Trascendente aveva bisogno non per soddisfare una sete intellettuale, ma per formarsi un’anima decente. Diceva che avrebbe voluto essere una “stella”, premio ottenuto per aver volto la propria vita al bene; invece, lamentava con invincibile amarezza, era rimasto sulla terra; e così sto cessando piano piano di esistere. Affrontava, perciò, il religioso con una fame di senso incontenibile: «Dio, dammi l’energia, la forza interiore di affrontare le pene dell’anima» [42]. Era davvero lacerato interiormente, diviso tra preoccupazioni varie. Sapeva – confessava a Drury – di dover vivere senza la consolazione di appartenere ad una chiesa; eppure, era altrettanto consapevole che la rinuncia a tale consolazione era giustificata dal suo modo di essere religioso (il 7 settembre del 1937, affermava di essere irreligioso – ma con angoscia [43]). Che intendo dire? Come avrebbe potuto accettare di aderire ad un credo zavorrato da fiumi di parole tese a dimostrare l’esistenza di Dio fondando su di un procedimento razionale? Confidò, infatti, all’amico Drury: «È un dogma della Chiesa romana che l’esistenza di Dio possa essere spiegata attraverso la ragione naturale. Solo per questo dogma sarebbe cosa impossibile per me essere cattolico» [44]. Mostrare e non dimostrare: ecco il solo atteggiamento possibile, a detta del nostro autore, di fronte al religioso! Resta che, come dice von Wright (vedi nota 39), sebbene non si possa dire che aveva una certificata “fede cristiana”, di certo non avversò il Cristianesimo e mostrò sempre il massimo rispetto per quanti vi aderivano entrando nella Chiesa romana. Fu, ad ogni modo, assetato di Dio [45] che volle preservare, custodire nell’indicibile e merita pienamente che Ayer l’abbia definito un pensatore nel quale serpeggia la brama dell’indicibile. Raccontano: gli venne citato Kierkegaard – come può essere che Cristo non esista, se io so che mi ha salvato? – . Ludwig, allora, esclamò: «Vedi! Non si tratta di provare un bel nulla!» [46].

La preghiera è l’unico atteggiamento realistico di fronte al Mistero (H. U. von Balthasar)

Si può dire, ripensando alle tesi di W, che di ciò di cui non si può parlare (in senso razionalistico), occorre o tacere o pregare. È questo – suggeriva von Balthasar – l’atteggiamento realistico di fronte al “Mistero”, all’“Indicibile”. Lo stesso W aveva detto che pregare è pensare al senso della vita! Il religioso, aggiungeva, non è razionalizzabile, ma pieno di simboli bellissimi! Per il logico austriaco, quando la gente tenta di trarre da essi un sistema filosofico, ne consegue un fatto raccapricciante. In più, il rapporto con Dio interessa il soggetto. A Drury, nel 1929, disse: Si assicuri che la sua religione sia solo una questione tra Dio e lei! Ai cattolici non sta bene lasciar scivolare le questioni di fede in un rapporto esclusivo tra noi e Dio; tuttavia, la dimensione ecclesiale della fede cristiana non esclude del tutto il rapporto interpersonale col Trascendente. Il punto di vista del nostro autore, in realtà, non intende intaccare il valore della comunità in accezione cattolica. A W sta a cuore solo mostrare che l’etica, il religioso non si possono “insegnare” e non si “spiegano” ricorrendo a teorie, a teologie garantite e patrocinate da autorità, istituzioni. Quanto disse in una vivace discussione con Schlick sull’etica può andare bene anche per le sue posizioni religiose: «Alla fine della mia conferenza sull’etica ho parlato in prima persona: credo che sia qualcosa di molto essenziale […] posso solo presentarmi in quanto individualità e parlare in prima persona. Per me la teoria non ha valore […] non mi dà niente» [47]. La teoria non vale una testimonianza – sia riguardo all’etica, sia riguardo al religioso – offerta “in prima persona”.  Per il cristiano, invece, la dottrina, la teologia hanno un peso considerevole solo se si traducono in una fede vissuta pienamente in relazione autentica con gli altri e con Dio. È chiaro, dunque, che per noi la teoria, la filosofia, la teologia hanno un valore (ci danno qualcosa), ma – qui concordiamo con W – il primato spetta alla traduzione esistenziale di ciò che conosciamo. Il religioso, si sia pienamente o per nulla d’accordo con il nostro autore, interessò ampiamente la sua esistenza: era, potremmo dire, lo sfondo dal quale quasi tutto irraggiava e di uno sfondo simile, più volte, Ludwig confessò di aver bisogno. «Non quello che uno fa in questo momento, un’azione singola, ma tutto quanto il brulicare (das ganze Gewimmel) delle azioni umane, il sottofondo su cui vediamo ogni azione, determina il nostro giudizio, i nostri concetti e le nostre reazioni» [48]. Il sottofondo su cui W vedeva ogni azione era decisamente “religioso”: così, dunque, i suoi giudizi, i suoi concetti, le sue azioni. Rilasciando una testimonianza epistolare a Lady O Morrell Bertrand Russell, il 30 maggio 1912, dichiarò di essere rimasto assai sorpreso del fatto che Ludwig gli confessasse tutta la propria ammirazione per un detto evangelico: che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l’anima. Qualcuno è disposto a sostenere che rintracciare un pensatore (matematico e logico ed in parte positivista come W) nel panorama filosofico del Novecento tanto assillato dall’anima e dalla salvezza sia una intrapresa da poco? C’è chi pensa che il suo “invito” a tacere su ciò di cui non è dato parlare abbia causato qualche danno alla teologia contemporanea: «per Wittgenstein […] l’esperienza del “mistico” non può più venire espressa linguisticamente. Il che ha delle conseguenze disastrose per la teologia» [49]. Chi lo dice, però, che custodire e  preservare l’Indicibile dalle pretese dei “saperi specializzati”, dalle catture di “linguaggi” che pretendono di avere la parola che squadri da ogni lato (Montale), dalle manipolazioni di chi chiama Dio a sostegno delle proprie nefandezze (i nazisti sui cinturoni avevano inciso il motto – Dio è con noi!) sia un danno alla fede ed alla teologia? La cautela, se non proprio il kierkegaardiano “timore e tremore” di fronte alla Trascendenza è invenzione di W? Non poter esprimere linguisticamente il mistico, l’Indicibile, l’Ineffabile non si configura, nel nostro autore, come una “apologia” sconsiderata ed esaltata del “mutismo”; si tratta, piuttosto, di mostrare che a certe dimensioni si accede non con il “linguaggio scientifico” o attraverso congetture e confutazioni (K. Popper), bensì, per mezzo di un “silenzio” che lascia al mistico la libertà di mostrarsi. Se – seguendo Küng – si afferma che le conseguenze del pensiero del logico austriaco sono state disastrose per la teologia, si abbia l’onestà di apportare una lieve modifica a questa tesi: le conseguenze dell’esortazione a tacere sul mistico non sono state disastrose, al più, solo per certa teologia? Per quelle teorie che pretendono di risolvere il Mistero in un Sistema di pensiero! Laddove la teologia si fa “in ginocchio” e non soltanto “a tavolino”, le cautele di W non risultano sgradevoli. Con buona pace dei suoi critici, mi sento in dovere di mostrare che le tesi del pensatore austriaco sono state, in forma magari lievemente diversa, enunciate anche da “geni del Cristianesimo”. Ora, infatti, farò parlare un teologo – filosofo della Scolastica (Tommaso d’Aquino), il filosofo che ha teorizzato la Dotta ignoranza (N. Cusano) ed un teologo francese del Novecento (J. Daniélou). I tre nomi scelti si mostrano, affratellandosi all’autore del Tractatus, affidabili custodi dell’Indicibile. La prima citazione: «Dio non può essere veduto da noi in questa vita nella sua essenza, ma è da noi conosciuto mediante le creature per via […] di eminenza e di rimozione. Conseguentemente può essere da noi nominato […] non però in maniera tale che il nome, da cui è indicato, esprima l’essenza di Dio quale essa è […] perchè la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che noi possiamo concepire o esprimere a parole» [50]. Tommaso ci dice che l’essenza di Dio non è esprimibile tramite il linguaggio umano: lo stupore, che ha bisogno di “silenzio” ammirante e non di “funambolismi verbali”, non è soltanto – Aristotele docet – all’origine della filosofia, ma della teologia! Ascoltiamo il secondo autore: «Dio è indicibile perché Egli è maggiore all’infinito di tutte le cose di cui si può parlare e poiché questo è verissimo, con più verità parliamo di Lui rimuovendo e negando» [51]. Cusano fa riferimento apertamente al Dio indicibile: se ne parla con più verità soltanto se eliminiamo parole superflue e che nulla spiegano (rimuovendo). Eccoci, finalmente, al terzo ed ultimo autore: «Conoscere Dio non significa dunque ridurlo alla mia intelligenza, ma al contrario riconoscermi come misurato da lui» [52]. La catastrofe, per la teologia, non viene dalle posizioni assunte da W di fronte al religioso: le cautele riguardo all’Indicibile sono anzi più necessarie che mai in un tempo in cui, nel nome di Dio, si torna a giustificare qualsiasi atto criminale (Fondamentalismo, terrorismo); la cosa spaventosa, poi, è che si inserisce la pretesa di poggiare su teologie inattaccabili! Il pensatore austriaco ci insegna principalmente due cose: 1) l’anima, la sua salvezza possono essere assilli presenti e fecondi anche nell’esistenza di un logico, matematico, ingegnere aeronautico. Una testa ben fatta non libera da inquietudini esistenziali. Non si sfugge a Dio esaltandosi per il possesso di saperi specializzati e secolari; 2) il linguaggio non può impossessarsi del Mistero per razionalizzarlo; se così facesse, allora, non sarebbe più il Mistero a parlare, ma la sua traduzione razionale. Il mistico si mostra. L’anima ha il suo linguaggio. Si parla sempre più sull’anima e si lascia sempre meno parlare l’anima! Ci sono molti punti da sviluppare a nostro beneficio nelle tesi di W. È vero che occorre essere critici verso il pensiero dell’autore del Tractatus e non accoglierlo con attenzione devota quale alibi per tacitarne le asperità, le cose che non ci convincono; altrettanto vero, però, è che quanto c’è di buono in questo pensatore è l’inattualità del suo richiamo costante alla salvezza dell’anima senza smettere di porsi quesiti riguardanti la logica (questioni secolari e questioni religiose affiancate). Accostamento necessario da ripensare proprio oggi che si dibatte ancora con asprezza intorno a Fede e Ragione. Chi oggi tiene ben separati gli interessi intellettuali da quelli spirituali non ha fatto i conti con il pensiero di W che non smise mai di affermare che “l’uomo di scienza” vuol “sapere”, ma chi vuol diventare decente invoca salvezza e si apre a Dio. L’uomo della ricerca e l’uomo dell’invocazione, l’uomo che pensa e l’uomo in attesa del dono del “senso” possono convivere anche a costo di inquietudini generate dal dialogo costante tra “dimensioni” più complementari che opposte. Stare in pace non significa per l’uomo spirituale aver raggiunto un traguardo importante; anzi, c’è una forma di “pigrizia spirituale” che contrabbandiamo per “pace”: chi si accomoda in una definizione di Dio ottenuta con teologie elaborate “a tavolino” più nulla ha da fare se non ripetere ad oltranza vocaboli ossificati. Il cristiano – diceva Primo Mazzolari – è un “uomo di pace”, non un “uomo in pace”: W non fu “in” pace perché aveva compreso che, di fronte a Dio, le sicurezze teoretiche, le alchimie verbali, presto svaniscono in quanto dissolte dal pathos dell’esistenza. L’uomo ha bisogno soltanto di Dio – diceva il logico e mistico austriaco; ne ha soprattutto “desiderio”. La vita va spesa nello sforzo di comprendere “quale Dio” veramente desiderare; non è detto che le “esperienze di vita” e di “pensiero” di questo filosofo, il lui strettamente connesse, non possano costituire una eredità preziosa che mostri – attraverso un personalissimo percorso – che i sentieri verso la “Trascendenza” non sono interrotti (Heidegger).    


[1] Per chi volesse approfondire, consigliamo: n. malcolm, Ludwig Wittgenstein, Bompiani, Milano 1964; a. g. gargani, Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Bari 1973.
[2] l. wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 19301932 e 19361937, Quodlibet, Macerata 1999, p. 69.
[3] ibid., p. 35.
[4] Cfr., r. rhees (a cura di), Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Blackwell, Oxford 1981, p. 114.
[5] Non abbiamo sufficiente spazio per occuparci della storia di questo gruppo di intellettuali. Occorrerebbe una monografia. Si consiglia, pertanto, la lettura di: e. paci (a cura di), Neopositivismo e unità delle scienze, Bompiani, Milano 1958; m. c. galavottir. simili (a cura di), Il Circolo di Vienna. Ricordi e riflessioni, Pratiche Editrice, Parma 1992.
[6] l. wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 88.
[7] Cfr., e. gilson, L’essere e Dio, in Costanti filosofiche dell’essere, Massimo, Milano 1993, p. 221. 
[8] l. wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni (1914 – 1916), Einaudi, Torino 1985, pp. 173 – 174. Per comprendere questa complessa opera scritta in forma di aforismi e che, a detta dell’autore, vale più per quanto non dice che per quanto enuncia, rimandiamo a: g. e. m. anscombe, Introduzione al Tractatus di Wittgenstein, Ubaldini, Roma 1966. Il Tractatus pare destinato, persino nella forma, ad una lettura anche religiosa. Lo possiamo confermare grazie a questa  riflessione: è un «volumetto di appena cento pagine, in cui le frasi e i capoversi erano numerati secondo un sistema particolare tale da poter citare le frasi di Wittgenstein quasi come fossero versi biblici» (r. d. precht, Ma io chi sono? (ed eventualmente quanti sono?). Un viaggio filosofico, Garzanti, Milano 2009, p. 109). Dal Tractatus derivano, per la Filosofia e la Teologia, conseguenze interessanti: cfr., d. marconi, L’eredità di Wittgenstein, Laterza, Roma – Bari 1987.  
[9] Cfr., l. wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1967, pp. 14 – 15. Interessante per comprendere come sia per l’etica che per la religione il pensatore austriaco ritenesse irrinunciabile un attento riesame dell’armamentario linguistico: s. marini, Etica e religione nel «primo Wittgenstein», Vita e Pensiero, Milano 1989.  
[10] l. wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, cit. pp. 18 – 19.
[11] Cfr., p. manganaro, Wittgenstein e il Dio inesprimibile, Città Nuova, Roma 1999.
[12] Per una panoramica su questa problematica, cfr., c. cianciog. ferrettia. m. pastoreu. perone (a cura di), In lotta con l’Angelo. La filosofia degli ultimi due secoli di fronte al Cristianesimo, SEI, Torino 1989; r. ciprianig. mura (a cura di), Il fenomeno religioso oggi. Tradizione, mutamento, negazione, Urbaniana University Press, Roma 2002; g. mura (a cura di), Una “rilettura” di Dio nella cultura contemporanea, Città Nuova, Roma 1995.
[13] Cfr., r. pititto, La fede come passione. Ludwig Wittgenstein e la religione, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 22.
[14] Due illuminanti proposizioni del Tractatus, recitano: «Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è» (6.44). «V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico» (6.522).
[15] Cfr., l. baccari, Episteme e Rivelazione, Borla, Roma 2000, pp. 60 – 61. A differenza dei colleghi del Circolo di Vienna, il logico austriaco non getta alle ortiche la metafisica, né la ritiene insensata: si preoccupa, piuttosto, di preservarla nell’indicibile. «Wittgenstein non rigettava il metafisico; rigettava piuttosto la possibilità di costatare il metafisico» (n. malcolm, voce «Wittgenstein», in The Encyclopedia of Philosophy, a cura di p. edwards, vol. VIII, New York – London 1967, pp. 327 – 340, qui, p. 331).  
[16] Cfr., h. g. hubbeling, Ludwig Wittgenstein, in c. p. bertelse. petersma, I filosofi del Novecento, Armando, Roma 1995, pp. 59 – 69, qui, p. 65.
[17] «Credere in Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto» (Tractatus, cit., n. 7, p. 82). La proposizione 6.41, poi, afferma: «Il senso del mondo deve essere fuori di esso».
[18] h. g. hubbeling, Ludwig Wittgenstein, cit. p. 65.
[19] l. wittgenstein, Pensieri diversi, cit. 155.
[20] Cfr., Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul Engelmann, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 107.
[21] l. wittgenstein, Pensieri diversi, cit. p 120.
[22] Cfr., m. monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, p. 458. 
[23] Cfr., l. wittgenstein, Movimenti del pensiero, cit. p. 78.
[24] ibid., p. 64.
[25] ibid., p. 104.
[26] l. wittgenstein, Pensieri diversi, cit. p. 28.
[27] ibid., p. 67.
[28] ibid., p. 68.
[29] ibid., p. 117.
[30] Cfr., r. carnap, Autobiografia intellettuale, in p. a. schilpp (a cura di), La filosofia di Rudolf Carnap, 2 Voll., Il Saggiatore, Milano 1974, vol. I, pp. 1 – 85, qui, p. 27.
[31] ibidem.
[32] ibidem. È facile fraintendere le intenzioni del logico austriaco se non si presta molta attenzione al “lato mistico” del suo pensiero. Vale, in questo caso, l’annotazione di Paul Engelmann: «Tutta una generazione di allievi potè considerare Wittgenstein un positivista poiché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i neopositivisti: aveva tracciato una linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere […]. La differenza è […] che essi non avevano niente di cui tacere. Il positivismo sostiene – e questa è la sua essenza – che di ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui […] dobbiamo tacere» (in Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul Engelmann, cit. p. 70).  
[33] Cit. da d. gilliesg. giorello, La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Roma – Bari 2010, p. 189.
[34] l. wittgenstein, Pensieri diversi, cit. p. 40.
[35] id., Movimenti del pensiero, cit. p. 102.
[36] Cfr., id., Diari segreti, Laterza, Bari 1987, p. 112.
[37] id., Pensieri diversi, cit. p. 135.
[38] È questa, in verità, la caratteristica, degli autentici pensatori. Si dovrebbe filosofare (fare teologia) sempre in modo tale che «il vero pensatore non sappia più bene se (egli) viva il suo pensiero o pensi la sua vita» (e. mounier, Lo spirito filosofico, in «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», II (1985), n. 3, pp. 39 – 43). 
[39] Cfr., b. russell, Ritratti a memoria, Longanesi, Milano 1969, p. 27. È stato giustamente affermato riguardo a W che «fu nel contempo un logico e un mistico: nessuno dei due termini è appropriato, ma ciascuno suggerisce qualcosa di vero» (g. h. von wright, Wittgenstein, Il Mulino, Bologna 1983, p. 61). Nello stesso saggio, riguardo alla collocazione religiosa del pensatore austriaco, von Wright mantiene una posizione cauta: «Non so se lo si possa chiamare ‘religioso’ […]. Certamente non aveva una fede cristiana: ma nemmeno la sua visione della vita era anticristiana» (p. 58). 
[40] l. wittgenstein, Pensieri diversi, cit. p. 68.
[41] id., Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, Roma 1974, p. 72. Voleva zittire, il mistico Ludwig, tutte le chiacchiere intorno al “religioso” perché è possibile, a suo dire, una religione priva di parole buone solo per teorie: «posso immaginarmi molto bene una religione in cui non vi siano dottrine, in cui […] non si parli […], o piuttosto: se si parla, è questo stesso una componente dell’atto religioso e non una teoria […]» (id., Lezioni e conversazioni sull’etica, cit. p. 27). 
[42] id., Diari segreti, cit. p. 118.
[43] Cfr., r. monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, cit. p. 371.
[44] In Conversazioni con Ludwig Wittgenstein, in «Riza Scienze», 1989, p. 32.
[45] Tutti i suoi testi, infatti, hanno in qualche modo il diritto di ricevere attenzione dagli uomini religiosi, dai cristiani e dai teologi. Hanno detto della sua attenzione costante per il religioso: «È difficile […] pensare a un grande filosofo, dopo Nietzsche almeno il cui lavoro sia tanto pervaso da considerazioni teologiche» (f. kerr, La teologia dopo Wittgenstein, Queriniana, Brescia 1992, p. 244); d. magnanini, Il pensiero religioso in Ludwig Wittgenstein, La Goliardica, Roma 1974.
[46] Cfr., n. malcolm, Ludwig Wittgenstein, cit. p. 99.
[47] Cit. in f. waisman, Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da F. Waisman, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 106 – 107.
[48] l. wittgenstein, Zettel. Lo spazio segreto della psicologia, Einaudi, Torino 1986, § 567.
[49] Cfr., h. küng, Dio esiste? Risposta al problema di Dio nell’età moderna, Mondadori, Milano 1987, p. 116.
[50] tommaso d’aquino, Summa theologiae, I q. 13, a. 1, resp e ad 1um.
[51] n. cusano, La dotta ignoranza. Lib. I, CXXXVI, n. 87 (Rusconi, Milano 1988).
[52] j. daniélou, Dio e noi, Edizioni Paoline, Alba 1967, p. 67. 

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