Riflessioni per l’approccio alla Scrittura
Relazione di Antonio Buono
Gli scritti degli apostoli e degli evangelisti ci sostengono, ci illuminano, ci guidano e ci confortano nel cammino della vita (San Cirillo di Alessandria)
Prima che esperti relatori tengano un corso su alcuni contenuti biblici, mi si chiede di offrirvi brevi, rapsodiche considerazioni sul rapporto con la Parola che un cristiano deve animare. In alcuni miei opuscoli ho affrontato con più ampio respiro la materia ma, qui, lascio solo semi da far fruttificare quando si toccheranno temi specifici. Mi si perdoni se tenderò, per lo più, ad infarcire il mio intervento di citazioni, ma credo che la teologia sia tanto più fresca quanto più si rivolge alla Tradizione. Chiaro che, poi, ognuno di noi deve lavorare alacremente per far in modo che le parole di ieri siano – per riprendere un’espressione di Merleau – Ponty – più parlanti che parlate. A momento iniziale di questa riflessione eleggo una domanda che ritengo imprescindibile: quanto e come incide la Parola nelle nostre parole? È forza innovativa per il linguaggio sempre più avviluppato nel lessico ostico dei saperi specializzati o, caso non meno triste, assoggettato a visioni del mondo sempre meno a misura d’uomo? Scegliere di mettere nel cuore del nostro dire ‘Dio’ cambia radicalmente la nostra vita e non soltanto un modo di esprimerci. La tradizione cristiana contiene, riguardo a questa mia affermazione, molti esempi. Paolino di Nola, abbandonando la poesia pagana ed il maestro Ausonio, dichiarò: At nobis ars una fides, et musica Christus (L’unica arte è la fede, Cristo la poesia – Carme XX, 32). Quando le ‘parole’ incontrano il ‘Verbo’ cambiano radicalmente i nostri riferimenti culturali, linguistici, artistici… Come si vede, non muta soltanto una ‘forma di espressione’, ma un intero universo di senso ‘da esprimere’. Era stato un abile retore, ad esempio, Agostino; ebbene, convertitosi, scrive nelle Confessioni (XII, 2, 4): «Nei libri io cerco Cristo».
Le parole sono soltanto un volano per avviare la ricerca della Parola!
Questa – seguendo la lezione agostiniana – non è mero flatus vocis, ma Qualcuno in carne ed ossa! Le parole delle Scritture sono ‘vive’ perché vengono dallo Spirito e ne sono intrise. Ilario di Poitiers (sec. IV) era certo che non vi sono parole nelle Scritture che non siano «piene di Spirito Santo» (In psalmum 118); tale lezione è rimasta inalterata fino a Karl Barth, teologo protestante del Novecento: è lo Spirito – egli afferma – a fornirci di orecchi interiori che rendono capaci di ascoltare la parola divina.
Un impoverimento pericoloso viene, all’Occidente, dal non ritenere più fondante la Parola; non possiamo dimenticare – nel bene e nel male – i debiti culturali (e non solo) che abbiamo verso la Bibbia.
Philip Jenkins, in I nuovi volti del cristianesimo (Milano 2008), ha ricordato
l’impatto della Bibbia sulla formazione dell’Europa durante la sua epoca di cristianità – il medioevo e la prima età moderna – quando i testi e i temi biblici influenzavano il pensiero sociale, l’arte, le percezioni culturali, le tradizioni narrative e gli stessi concetti di storia e di nazionalità. Gli europei arrivarono a considerare i racconti della Bibbia come le loro stesse storie, poiché i brani e le storie bibliche plasmavano la percezione di tutti i diversi tipi di persone (pp. 33 – 34).
La questione, a mio avviso, è che non si ha più tempo per fermarsi ad ‘assaporare’ la Parola: produrre, correre ed altri imperativi neocapitalistici non educano all’ascolto. Giacomo, nella Sua Lettera (5, 7 – 11), parla della ‘pazienza’ del contadino che attende i frutti del suo lavoro. Il termine greco che usa è makrothymía: sguardo di chi vede le cose in grande, guardare lontano! Non ne siamo più capaci. L’immediato, il puntiforme dominano la nostra concezione del tempo. Ireneo (Contro le eresie 3, 3, 3) richiamava la figura di San Clemente, Vescovo di Roma, che aveva avuto rapporti diretti con gli Apostoli: «aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione» - scrive pieno di entusiasmo!
Soltanto se sapremo mantenere intatta la freschezza della ‘comunicazione apostolica’ riusciremo ancora ad avere nelle orecchie l’annuncio cristiano come fresco, attuale. Dobbiamo sentire la fragranza della Parola – attraverso la pagina biblica – come se la ricevessimo dalle labbra dei primi discepoli, da Gesù stesso. Non basta leggere, ascoltare la Bibbia; è fondamentale fare tutto ciò sentendosi in profonda comunione con la Chiesa, con la Tradizione che in essa parla inalterata ed assolutamente garantita. Ireneo, nell’Adversus haereses, depositò un insegnamento che deve risuonare hic et nunc sulle labbra di chi accosta la Parola. Richiamando la tradizione apostolica dei vescovi come diretta diramazione del lascito dei primi apostoli, disse che con «quest’ordine e successione pervenne fino a noi nella chiesa la tradizione apostolica e la predicazione della verità. Ciò prova che è stata conservata e trasmessa fedelmente dagli apostoli la stessa, unica, vivida fede» (III, 3, 3).
Armin Adam – che in Teologia politica (Torino 2008) – riporta questa citazione, spiega che si intendeva polemizzare con «l’autoreferenzialità dei maestri gnostici: essi svilupparono la loro dottrina a partire da se stessi e pertanto non possono attingere al flusso della verità, che, sgorgando da Gesù, scorre attraverso gli apostoli fino ai vescovi per nutrire la chiesa» (p. 44). Che differenza passa tra gli antichi gnostici e molti uomini di oggi? Poca! Entrambi, per riprendere alla lettera Adam, sviluppano la propria religione a partire da se stessi. La sola possibilità di ritrovare il legame originario con gli Apostoli, allora, è questo: frequentate la Parola guidati dalla Chiesa. Ancora Ireneo, nel primo libro di Contra le eresie, fa riferimento alla Chiesa che «insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca» (1, 10, 1 – 2). La comunione, l’unità – conditio sine qua non per intendere rettamente la Parola – sono garantite unicamente da una sana e piena ‘vita ecclesiale’. Il teologo luterano Bonhoeffer, anzi, fonda la ‘vita di comunione’ su Cristo e sulla necessità di annunciarsi reciprocamente la Parola.
Fame, sete ininterrotta di giustizia – scrive il nostro autore – spingono il cristiano
a desiderare continuamente la Parola redentrice. Essa può venire solo da fuori […] e viene ogni giorno di nuovo nella Parola di Gesù Cristo […]. Ma Dio ha messo questa Parola in bocca ad uomini, per consentire che essa venga trasmessa fra gli uomini. Se un uomo ne viene colpito, la ridice all’altro. Dio ha voluto che cerchiamo e troviamo la sua Parola viva […] in bocca ad uomini. Per questo il cristiano ha bisogno degli altri cristiani che dicano a lui la Parola di Dio […] ogni volta che si trova incerto e scoraggiato […]. Il Cristo nel mio cuore è più debole del Cristo nella parola del fratello (Vita comune, Brescia 2004, p. 19).
Cristo nel mio cuore può ben essere una figura plasmata a mio uso e consumo: presenza illusoria, rischiosamente soggettiva. L’altro, portando la sua testimonianza, mi induce a non riposare sull’immagine di Cristo che ho allestito in me; e, infine, la Chiesa (Magistero) aiuta a non confondere una immagine del Signore con il Signore. La parola dell’altro sulla Parola è fondamentale.
Si deve inquadrare la comprensione della Parola in un contesto intersoggettivo che non si incardina su basi fenomenologiche o sociologiche, bensì ontologiche: la comunione con l’altro non è ispirata dalla ricerca di un benessere psicologico, ma dal fatto che Cristo stesso ha voluto la comunione con noi e tra noi. Dio, essendo Trinità, è Comunione di Persone. L’alterità è al cuore dell’annuncio cristiano anche per la dogmatica! Al piano soprannaturale, con la comunione ed il dialogo tra Padre – Figlio – Spirito Santo (pericoresi), risponde, sul piano naturale, il dialogo, la comunione tra i fratelli. L’intelligenza della Parola, di fatto, non si sottrae a questo impianto ontologico. Gregorio Magno, nelle Omelie su Ezechiele, affermava: «So […] che per lo più molte cose della Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli»; concludeva: «per voi imparo ciò che per mezzo vostro a voi insegno; perché – è la verità – per lo più ascolto con voi ciò che dico». Seguire la Parola è l’avventura verso l’Altro che si compie soltanto in compagnia dell’altro. La Parola stessa non va intesa come rivelazione interiore perché giunge dal di fuori! Il pastore valdese Fulvio Ferrario, in Dio nella Parola, scrive:
Il Dio biblico viene incontro alle donne e agli uomini in una parola che non è interna all’essere umano, ma lo interpella dall’esterno: non possiamo dircela da soli né semplicemente scoprirla in noi, essa […] viene […] da fuori (Torino 2008, p. 16).
Non c’è fine alla creazione di libri (Qoelet)
I cuori dei fedeli devono – restando i percorsi di fede in parte personali – all’unisono leggere, pregare e meditare la Parola perché, insegnava Cipriano, Dio non vocis sed cordis auditor est (Dio ascolta il cuore più che le voci). Un cuore confuso non sarà mai compensato con una bella eloquenza. L’uomo che parla, oso affermare, non tanto ciò che dice, sta a cuore a Dio. Se non compromettiamo la nostra interiorità, rischiamo di proporci come sterili ripetitori di stereotipate formule. Accettare la Parola traducendola in vita significa prendere sul serio e il tempo e l’eternità. Girolamo conforta la mia tesi con quello che scrisse all’amico Paolino di Nola: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53, 10). Studiare la Parola non è un intrattenimento volto ad arricchire il tempo mortale: è, bensì, nutrirsi della Verità che non passa. Recita il Salmo 107, al verso 20: «Inviò loro la sua parola e li sanò». Dio invia la Sua Parola per sanarci non solo nel tempo, ma per renderci integri nell’eternità davanti a Lui. San Paolo, non a caso, invitava gli anziani di Efeso ad affidarsi «al Signore e alla parola della sua grazia, a colui che può edificare e dare la sua eredità» (At 20, 32). Dio, donando la parola di grazia, edifica e ci nomina eredi della salvezza nel Figlio! La prassi cristiana è sorretta, guidata dalla Parola. Per riprendere ciò che scrisse di Origene Eusebio di Cesarea, ogni cristiano mostri «che la condotta deve corrispondere esattamente alla parola» (Storia Eccl. 6, 3, 7). Non ci si fermi, perciò, alla lettera, all’involucro della Parola, ma si vada in profondità; si deve – insegnava Origene – «spezzare la lettera ed estrarne il cibo spirituale» (In Leviticum, omelia 5, 10). Non scendono in campo, per assolvere questo compito, forze meramente intellettuali, né sono sufficienti competenze (pur arruolabili) filologiche, ermeneutiche, semiotiche… Chi affrontasse i misteri delle Scritture rinunciando a farsi guidare dallo Spirito di Dio si perderebbe proprio come accade, scriveva l’abate Guiberto nel sec. XII, a colui il quale «cerca nel buio una mèta palpando muri sconosciuti». Come insegna l’episodio lucano di Emmaus, si vaga incerti ed amareggiati fino a quando Gesù stesso non si mette – attingendo alla Torah – a spiegare gli eventi della storia della salvezza. Resta fermo un punto per chiunque si accosti alla Parola: «Soltanto Cristo può dare la spiegazione delle Scritture» - diceva l’antico Erveo (In Ioaiam, 9).
Leggere per vivere (Gustavo Flaubert)
Se si vuole andare lontano nella comprensione della Parola, occorre ripetere, rivolgendosi al Signore, una espressione di San Bernardo:
si deve imparare «a correre, non a camminare nella nostra bravura, ma a correre nel profumo del tuo amore» (Sermones in Cant. 21, 11). Se la traccia che guida per i sentieri della Parola non è il profumo dell’Amore divino, non corriamo; al più, camminiamo nella nostra bravura, ma è vano. La tradizione giudaica, sentenzia:
Chi aumenta lo studio della Legge, aumenta vita […]; chi ha acquistato parole della Legge, ha acquistato la vita nel mondo futuro (Pirqe Aboth 2, 6.8).
Va precisato, però, che per noi cristiani, non si tratta di acquistare vita qui e nel mondo futuro attraverso il Libro: i Vangeli hanno valore non in quanto forzieri colmi di precetti etici, salvifici o legali, ma perché vi incontriamo Cristo. La Parola si è fatta ‘carne’, non ‘carta’! Non basta aumentare lo studio dei testi sacri: è Cristo – come Lui stesso dice – ad essere la Vita. Le parole evangeliche sono vive perché memoria di Gesù, il Vivente. Un consiglio prezioso a chiunque si accosta a tale memoria (che, per riprendere Montale, non funghisce su sé, ma si rivitalizza ininterrot tamente)viene dall’inesauribile intuito teologico di Agostino che, riflettendo sul vangelo giovanneo, scrisse:
Cerchiamo di udire ora il Vangelo quasi come se fosse qui presente il Signore; non diciamo quindi felici coloro che poterono vederlo! (In Joannem 30, 1).
Ecco il nodo centrale della questione: se il Vangelo viene ascoltato ora (ogni momento è intersecato con l’eternità), se udire è il tempo della visita reale di Dio, la Parola vive e non serve a nulla invidiare quanti videro il Signore. Egli è qui! La vitalità della Parola, sia chiara, non è dipendente o subordinata alla nostra decisione di ascoltare; tuttavia, non si parla se non per ‘parlare a qualcuno’ e Dio – ecco la cosa veramente sconvolgente – si è rivolto a noi.
Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe (Walter Benjamin)
Eppure, si hanno fondati, documentati motivi per lamentarsi: pare che il lessico cristiano sia inconciliabile coi vocabolari postmoderni. Sarà vero? Il fatto, per andare appena un po’ più lontano, è che si tende sempre più a ritenere la religione un analgesico, una via di fuga dai mali del mondo e dalle tare psicologiche. Entrano nel quotidiano anche di molti cristiani pratiche religiose che nulla hanno a che vedere col cristianesimo. Olivier Clement, in Fondamenti spirituali del futuro (Roma 1997), scrive:
Molti oggi sentono una grande urgenza di silenzio e di pace. Si rivolgono ai metodi di concentrazione dell’India e del buddismo. Riescono, a volte, a raggiungere una certa purificazione, ma sono sempre nel rischio dell’orgoglio gnostico e dell’ipertrofia dell’io occidentale confuso con il se orientale […]. La risposta cristiana di domani è invece riscoprire e attualizzare l’immenso patrimonio del cristianesimo (p. 101).
Le ‘urgenze’ dell’uomo contemporaneo rimangono fissate sull’epidermide di una vita sempre più vissuta con troppa superficialità. Riuscire con mezzi ‘umani, troppo umani’ a raggiungere ‘una certa purificazione’, porta al malcelato orgoglio che fa esclamare: guarda da solo fin dove sono arrivato!
Si confonde, innanzitutto, un miglioramento psicologico con un avanzamento spirituale; inoltre, si crede di poter fare a meno (qui si concretizza il rischio dell’agnosticismo) di riferimenti ed aiuti Trascendenti inaugurando un periodo di sterile superbia antropologica. Non un arruffato sincretismo tra l’io occidentale e quello orientale conduce lontano; si tratta, piuttosto, di lasciarsi visitare da una Parola davvero Altra; che ci porta e che non viene portata da noi. Ci riesce difficile accettare, ci fa irritare, che Qualcuno (Cristo) ci abbia detto come parlare a Dio? Ma chi, se non Lui, può insegnarci come parlargli? Si prega bene quando la voce presta la propria opera alle orazioni bibliche… Non sarà superfluo – per evidenziare sempre più la positiva alterità che si agita nella Parola – richiamare quanto disse un teologo luterano del Novecento.
Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando ad esistere (Italo Calvino)
Sto pensando a quanto scrisse Bonhoeffer sui Salmi: il Libro che li contiene si distingue – a suo dire – da tutti gli altri libri biblici in quanto è composto unicamente di preghiere. Solo ad uno sguardo superficiale, però, pare strano che ciò accada: le preghiere non sono solo parole umane? Per Bonheffer, in Il libro di preghiera della Bibbia (Brescia 2004), riguardo ai Salmi, occorre chiederci non «che riferimento essi abbiano a noi, ma che riferimento abbiano a Gesù Cristo» (p. 101). È – continua il nostro autore – la ricchezza della Parola di Dio che costituisce la preghiera e non di certo la povertà del nostro cuore. Come si spiega, allora, che nella Bibbia vi siano parole dette dall’uomo? In primo luogo, è l’Altro, Cristo, che – secondo il teologo luterano – prega nel salterio; David parla nei Salmi come prefigurazione del Messia. La formula conclusiva suona: «Se dunque la Bibbia contiene anche un libro di preghiera, questo ci insegna che la Parola di Dio non è solo quella che Dio ci dice, ma anche quella che egli vuole udire da noi». Il Padre Nostro, infine, è la preghiera nella quale si ricapitola ogni preghiera biblica. Le altre preghiere – rispetto al Pater – hanno la funzione di esplicitarne «l’inesauribile ricchezza», mentre la preghiera insegnataci da Cristo, di esse «costituisce il culmine e l’unità». Laddove le preghiere sembrano parole umane, in realtà, insegna Bonhoeffer, sono non quello che Dio ci dice, ma quello che vuole udire da noi. L’Altro, come si può ben comprendere, sta al centro! Nella relazione col dio ebraico – cristiano nulla viene inventato, né stabilito unicamente da parte umana. Gadamer, nel capolavoro Verità e metodo, enuncia tutto questo elevandolo addirittura ad una tra le regole fondamentali dell’ermeneutica:
una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Si badi: preliminarmente! Se prima di approcciare un testo non si è sviluppata una coscienza aperta all’alterità si inizia assai male. Bisogna sapere quali sono i nostri pre-giudizi, le prevenzioni per accostarsi alla pagina da interpretare – come dice splendidamente Gadamer – in modo da far valere il suo contenuto di verità nei confronti delle presupposizioni dell’ interprete. Accostarsi alla Parola di Dio non distinguendo quanto viene dalle nostre aspettative, dai nostri pregiudizi (che mai in ermeneutica hanno accezione totalmente negativa), comporta il rischio di ritrovarsi con logoi privi di quelle tracce d’alterità che ne mostrano il contenuto di verità.
… i lettori accudiscono il testo […]. Cosa ancor più sorprendente, leggendo generano significati costruendo rapporti fra le loro conoscenze, le loro esperienze e le parole scritte (Merlin C. Wittrock)
Lafrance cita, in Potenza della preghiera, Mons. Coffy:
La preghiera cristiana […] è dapprima ed essenzialmente la preghiera di Cristo che noi facciamo nostra. Esiste prima di noi e, quasi senza di noi […]. Non abbiamo dunque bisogno di inventare la preghiera […]. Pregare significa partecipare alla preghiera del Cristo, il solo Orante esaudito (Civitella san Paolo 1982, p. 117).
Le Scritture ebraico – cristiane, più in generale, sono davvero interpellanti in maniera feconda, in quanto vengono da Dio passando per il linguaggio umano. Le vie odierne di purificazione, garanti appena di un lieve avanzamento psicologico, sono soltanto umane. La Parola, invece, mette di fronte due soggetti: Dio e l’uomo e, dunque, inaugurando un dialogo vero, apre scenari di crescita umana, spirituale. Le Scritture – spiega Atanasio ne L’Incarnazione del Verbo,
furono pronunciate e scritte da Dio mediante uomini teologi, e noi, dopo aver imparato dai maestri teologi che le hanno lette […], trasmettiamo questo insegnamento anche al tuo desiderio di apprendere (56).
Non siamo di fronte ad elaborazioni individuali, ma ad un ‘deposito sacro’ tramandato dai primi testimoni di Cristo e confermato dall’esperienza ecclesiale.Le vie di purificazione solipsistiche o pseudo comunitarie, restano palliativi. Solo la Parola invita le nostre parole ad essere piene di senso per poter muovere verso la Verità che non è una ‘tecnica yoga’, ma Qualcuno.
Riuscire ad analizzare completamente cosa facciamo quando leggiamo, potrebbe essere l’impresa più brillante per uno psicologo, perché significherebbe descrivere gran parte delle operazioni più complesse della mente umana (E. B. Huey)
Quando si esorta un cristiano a perseverare nell’annuncio della Parola, si sente spesso dire: ma noi siamo in minoranza! Quelli che mi volgono le spalle sono più numerosi di quanti si mostrano disposti ad ascoltare… È una obiezione non solo futile, ma addirittura polverizzata secoli addietro da Giovanni Crisostomo in una predica. Richiamando l’esperienza dei primi Apostoli, affermò:
Se dodici uomini hanno fermentato tutta la terra, pensate quale deve essere la nostra cattiveria e la nostra inerzia, se oggi, pur essendo noi cristiani moltissimi, non siamo capaci di convertire il resto dell’umanità, mentre dovremmo bastare e diventare lievito per mille mondi! (Omelie in Mt 46, 2).
Il Crisostomo ritiene ‘cattiveria’ il non annuncio! La nostra povertà (non intesa unicamente in accezione economica) d’altro canto, è l’offerta più gradita al Signore; e, fin da quando venne al mondo, rovesciò nel modo di nascere le categorie di pensiero più dure a morire nella società: «Solo chi ha qualcosa è qualcuno davanti all’uomo. Ma davanti al presepio, è qualcuno solo chi ha niente» – diceva splendidamente Don Primo Mazzolari. La povertà numerica dei cristiani nulla ha che vedere con la loro (se c’è) ricchezza spirituale. Non passi inosservato, inoltre, che l’onnipotenza divina si rivela meglio proprio nel farsi impotenza. Gregorio Nisseno faceva questa fine riflessione teologica sul valore della kenosi:
Che la natura onnipotente sia stata in grado di scendere fino alla bassezza della creatura, dimostra la sua potenza molto più chiaramente dei miracoli che superano la natura (…). L’elevatezza si rivela nella bassezza (Oratio catechetica 24).
Allo stesso modo, la potenza della Parola si mostra nel diffondersi largamente anche attraverso una minoranza di annunciatori e testimoni. In fondo, benché elementare appaia la sottolineatura, non sfugge che siamo sempre – per quanto minoranza – più di dodici. Possibile che non si sia in grado di diffondere la Parola ed il gusto per essa? Le modalità di insegnamento della Parola, inoltre, non richiedono unicamente uno sforzo personale, ma vengono chiaramente ed abbondantemente illustrate dal Maestro – Gesù. Agostino, commentando i Salmi, sentenziò:
«In qualità di maestro, infatti, sapeva insegnare ciò che conveniva e non insegnare quanto era nocivo» (Enarrationes in Ps 36, 1). Il ‘criterio di discernimento’ riguardo al modo di insegnare, diffondere la Parola, dunque, non è di matrice esclusivamente umana; a differenza delle tecniche di purificazione assunte dagli adepti delle ‘nuove forme di religiosità’, qui si gioca tutto su di un registro divino. Il Fondamento non è né logico, né psicologico, ma ontologico: l’Essere, Dio che si fa Parola in Cristo per raggiungere tutti attraverso le nostre parole.
Le lettere hanno il potere di trasmetterci in silenzio le parole di coloro che sono assenti (Isidoro di Siviglia)
Le parole umane hanno di che attingere dalla realtà per immettere tracce del Trascendente nel mondo. Origene trovava occasioni per elogiare Dio tanto nelle più piccole cose quanto in quelle più appariscenti: «Io – dichiarava – ammiro il Signore negli elefanti quanto anche nelle formiche, e lo esalto tanto per il cammello quanto per le zanzare». Non c’è alcuna necessità, nel parlare di Dio, di svalutare il ‘terreno’; anzi, i Padri della Chiesa hanno da sempre – sulla scorta degli insegnamenti scolpiti nei Salmi – rintracciato nel creato il Volto del Creatore. La parola umana, tesa nel tradurre in segni sensibili quanto si contempla, fa dell’uomo il cantore della Luce. In un Inno di Sant’Efrem il Siro, siamo nel IV secolo, si legge: «In te, Signore, possa la mia bocca far uscire la lode dal silenzio». La fertilità del ‘dire umano’ viene garantita unicamente dall’inabissare in Dio la propria capacità espressiva; se non fossero rivolte a Dio le parole non potrebbero estrarre la lode dal silenzio. Il linguaggio umano vive e si rinnova proprio nello sforzo di lodare Dio, di annunciare la Parola… Muovendo verso l’indicibile non si cade nel mutismo, bensì nel poetico, nel simbolico e si arricchisce, vivifica la parola. Il rinnovamento del linguaggio umano si ha anche nel non renderlo unicamente capace di esposizioni acute, sofistiche, bensì nell’accenderlo nel canto, in un canto che non rimane mai uguale. Commentando il Salmo 97 che recita ‘Cantate un canto nuovo’, Origene, scriveva: «Cantico nuovo è il Figlio di Dio che è stato crocifisso – cosa che non si era ancora mai udita. Una realtà nuova deve avere un cantico nuovo».
Il Verbo, la Parola incarnata è la novità inaudita che rinnova il nostro canto. La retorica, le competenze linguistico – semiotiche sono di scarso aiuto nell’annunciare la Parola se non si muove da questo principio: la novità è la Parola stessa che si dà come congiunzione inseparabile di ‘parole’ ed ‘atti’. Non è questa la Rivelazione? Gli eruditi e gli ignoranti possono ugualmente frequentare la Parola proprio perché non si tratta di mettere in gioco qualcosa che erompe del tutto dalle nostre possibilità e capacità, ma soprattutto di mettersi in ascolto di un Altro! Il martire Giustino, a tal riguardo, rubricò una felice intuizione:
Da Gerusalemme uscirono degli uomini per il mondo, dodici di numero; e questi erano ignoranti; non sapevano parlare, ma grazie alla potenza di Dio rivelarono a tutto il genere umano che erano stati inviati da Cristo per insegnare a tutti la Parola di Dio (Prima apologia 39, 3).
Quando trovi qualche passo che ti può sembrare utile, tracciagli accanto un segno deciso che ti possa servire da promemoria, altrimenti potrebbe sfuggirti (Sant’Agostino)
Non sono le nostre capacità, dunque, garanti di una sana, piena, riuscita proclamazione della Parola, bensì la potenza di Dio. Alcuni profeti si dicevano incapaci di buona eloquenza e, nonostante ciò, adempirono in maniera eccellente alla loro missione. All’origine c’è sempre una ‘chiamata’ che non avviene a caso perché Dio ci conosce meglio di quanto noi ci si possa conoscere. Davanti alle nostre deficienze, lacune linguistiche, culturali, non scoraggiamoci; la Parola, infatti, richiede un approccio sapienziale, non meramente intellettuale. Quando ci sentiamo inadeguati a frequentare la Parola, facciamo nostre le espressioni semplici, eppur potenti, che Ambrogio rivolse a Dio commentando il Salmo 118:
Tu insegnami le parole ricche di sapienza, perché tu sei la Sapienza! Tu apri il mio cuore, tu che hai aperto il Libro! Tu apri quella porta che sta in cielo, perché tu sei la Porta.
Non qualsiasi parola, in primo luogo, deve pronunciare la bocca di chi crede, ma soltanto quelle ricche di sapienza; non da se stessi – rischiando di cadere in posizioni gnostiche o tipiche di un superuomo – occorre cercare la sapienza con la quale innervare quanto diciamo, ma in Dio che è la Sapienza. Un percorso personale ma, allo stesso tempo, comunitario. Pregare la Parola è possibile soltanto nella comunione ecclesiale. Paolo VI, sapientemente, definì la Chiesa un’associazione di preghiera. Nelle cose profonde della fede non si può stare soli; al più, in qualche atto esteriore, in alcune incombenze formali si può agire con una certa autonomia. Resta fermo che il fulcro del messaggio cristiano non fa concessioni, neppur minime, al solipsismo e nemmeno cavilla su quanto fondamentale non è. Qui seguirei il principio di Agostino che recita: nell’essenziale unità, nell’accidentale libertà, e in tutto carità. Il principio al quale proprio non possiamo rinunciare, dunque, è la ‘carità’. La verità stessa – insegna Paolo – va fatta nella carità. A dimostrazione che la ‘comunione cristiana’ non è paragonabile in alcun modo ed in nessun aspetto ad una mera associazione di individui, basti leggere cosa scriveva in Amicizia spirituale, Aelredo di Rievaulx: «Eccoci qui, io e te, e spero che un terzo, Cristo, si trovi in mezzo a noi». Tra ‘me’ e ‘te’, affinché si abbia vera e piena comunione, occorre sempre lasciare posto al Cristo, il Terzo!
Devi abituarti, leggendo un libro, a badare più al senso che alle parole, a concentrarti sul frutto piuttosto che sul fogliame (anonimo amanuense XIII secolo)
Una traccia del Terzo si trova, in qualche modo, in quanti sono molto cresciuti in sapienza nel confronto con la Parola: il Papa, il Magistero, i teologi in piena sintonia con entrambi. Un maestro, anche sul piano umano, è necessario. Istruirsi per mezzo di chi santamente si è istruito nella Parola è saggio ma, soprattutto, doveroso. Non è per caso, infatti, che nel Prologo della Regola di san Benedetto, si legga: o fili, praecepta magistri, et inclina aurem cordis tui (Ascolta attentamente, figlio mio, le istruzioni del maestro, e presta loro attenzione con l’orecchio del tuo cuore). Il maestro deve innanzitutto sapere chi è l’altro che gli sta di fronte; quale sia il grado di maturità umana e spirituale che ha raggiunto. Un principio squisitamente pedagogico. Il grande pedagogista e filosofo americano Dewey, infatti, amava ripetere: Se vuoi insegnare il latino a John, prima preoccupati di sapere chi è John! Chi non sa comunicare – a prescindere dalla forza della sua fede – causa seri danni a se stesso ed agli altri. Cesare Pavese, lo scrittore italiano che si suicidò con sedici bustine di sonnifero, patì la solitudine (soprattutto interiore) fino al momento in cui, appunto, levò la mano su di sé. Dalla sua penna desolata uscì un’affermazione che, a chi vuol essere ‘annunciatore della Parola’, non deve sfuggire: «Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri». La fraternità è categoria centrale del cristianesimo proprio in quanto si è detto ‘nostro fratello’ il Figlio del Padre (una fraternità ontologica).
L’umanità è una sacra famiglia in cui Dio stesso è presente come un fratello […]. L’uomo non può essere meno che il fratello del Verbo eterno del Padre, che si è fatto carne.
L’ha detto Rahner. Se la Parola è il Figlio del Padre ed ha fraternizzato con l’uomo affinché tutti fossimo fratelli, l’umanità non può che essere una sacra famiglia caratterizzata dalla Presenza del Padre. San Cipriano, vescovo e martire, riflettendo sul ‘Padre Nostro’, fece notare che vi predomina il noi. Non si prega per se stessi: «La nostra preghiera – spiegava il santo vescovo – è pubblica e comunitaria […] preghiamo […] per tutto il popolo» col quale, conclude, «siamo una sola cosa» (L’orazione del Signore, 8).
Sì, c’è la Presenza a garanzia dell’irrinunciabilità della fratellanza tra gli uomini. Leggendo il profeta Sofonia – capitolo 3, 14 – 18 – ci si imbatte nell’espressione ‘in mezzo’; in ebraico la radice è bqrb e nel capitolo 3 ricorre in cinque versetti; nel verso 11 si trova col mi iniziale e significa ‘da mezzo’. Il riferimento è alla Presenza di Dio in ‘mezzo’ al popolo! La Parola di Dio, il Verbo, ha posto la Sua tenda in mezzo al mondo.
Si legge per poter fare domande (Franz Kafka)
Non soltanto con il linguaggio, ma con tutto se stesso l’uomo deve ‘pensare e parlare a Dio’ più che parlare ‘di Dio’. Occorre ‘meditare’ la Parola per trovarvi il Signore. Un uomo orientale di elevata spiritualità, Krishnamurti, dice: «chi non medita è come un cieco in un mondo di grande bellezza, luce, colore». Celebrare, lodare il Signore ha sempre a che fare con la bellezza. Pur non essendo teologa, Cristina Campo, in Sotto falso nome (Milano 1988), ha definito ‘poesia’ la liturgia: «Splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile»(p. 127). Teso nella ‘lode a Dio’, l’umano dire si fa sovrabbondante: non ha bisogno di contare le parole. Ci si muove tra due incommensurabili, tra due poli che impongono l’infinito intrattenimento (Blanchot) del ‘dire’, del ‘celebrare’: Cristo ed il mistero della Chiesa visibile ed invisibile. Ha detto Agostino: «Cristo e la Chiesa costituiscono tutto il mistero delle Scritture» (Enarratione in psalmos 79, 1). Quando leggiamo la Bibbia – pur ricorrendo a parole umane – stiamo ascoltando Dio! Lo si prova citando un brano di Philip Jenkins espunto dal saggio I nuovi volti del cristianesimo:
Un aneddoto raccontato da Musimbi Kanyoro suggerisce […] ciò che un testo può significare in ambito comunitario. Racconta di aver letto uno scritto di Paolo in una comunità del nord del Kenia, concludendo con l’augurio che Paolo mandava duemila anni fa ai Corinzi: ‘il mio amore sia con tutti voi in Cristo Gesù’. La comunità […] rispose […]: ‘grazie, Paolo’. Stavano ringraziando Paolo per aver mandato loro i saluti, non il lettore perché aveva letto loro il brano (cit. p. 49).
Se ascoltiamo un testo sacro come accade a questi fratelli del nord del Kenia, sentiamo di doverci rivolgere direttamente a chi ci parla; in questo caso, Paolo; in altri casi, Cristo stesso! Quando ci viene letta una parabola evangelica, quando ascoltiamo un detto di Gesù, dovremmo dire ‘grazie’ non tanto a chi ce lo ha comunicato, quanto a Cristo stesso. La Parola per quegli uomini nel nord del Kenia è così viva da far dimenticare che è stata inviata ad uomini che non abbiamo conosciuto, tanto e tanto tempo fa. Si verifica sempre il fenomeno della contemporaneità alla Parola se non la consideriamo alla stregua di qualsiasi altra parola. Un esempio antico che lasci comprendere come si possa totalmente compromettersi con la Parola lo dobbiamo al biografo di Agostino, Possidio. Ci racconta che, quando Ippona era già invasa dai Vandali, Agostino, l’amato vescovo, era molto malato, febbricitante. Il santo teologo, allora, fece attaccare dei fogli contro la parete recanti, scritti con grossi caratteri, i Salmi penitenziali:
così che – continua il biografo – stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime (Vita di Agostino, 31, 2).
Il ‘rapporto patico’ con la Parola viene vissuto, dunque, tanto agli albori del cristianesimo, quanto ai nostri giorni. Sentire il sapore della Parola è essenziale. Un anonimo del secolo XII, infatti, insegnava che si tratta di trovare nelle Scritture non la scientia, bensì, il sapor (sapore): «gustare, questo è comprendere» – aggiungiamo con Guglielmo di Saint – Thierry (Liber de natura et dignitate amoris X, 31).
Per quante pagine l’uomo di studi possa leggere, egli non deve mai dimenticare che non è ancora arrivato neppure alla prima vera pagina (Rabbi Levi Yitzhak di Berdishev, in riferimento al Talmud)
Le parole delle Scritture, a mio modo di vedere, sono come tesori affidatici: se li sprechiamo saremo tristi, impauriti davanti al Signore; al contrario, custodendoli e rendendoli fruttiferi, si acquista la possibilità di esultare davanti a Lui. Questo è quanto affermava Origene:
Esultare alla presenza del Signore è segno di grande sicurezza. Come l’economo che abbia amministrato male i beni affidatigli dal padrone e li abbia dilapidati, teme la presenza del padrone, così, invece, quello che li ha amministrati bene gioisce alla presenza del padrone.
Frequentare la Parola esige la prudenza, la sapienza del bravo amministratore. Non è la Parola, in realtà, un bene che il Padrone tiene gelosamente per sé, ma qualcosa che affida fiducioso alla nostra cura: saranno i servi, se cattivi economi, a sentirsi a disagio col padrone e non questi ad essere severo con loro. Il dono che Dio ci fa della Sua Parola (che diviene definitivo in Cristo), ad ogni modo, è Amore! Non si può, non si deve mai fare dell’Amore (anche sul piano squisitamente umano) un’arma, una occasione per trarre da esso il proprio utile. Gratuito è il dono che Dio ci dà in custodia ed altrettanto gratuita deve essere la cura che vi prestiamo. San Bernardo, a tal proposito, rileva:
L’amore […] non cerca vantaggi all’infuori di sé. Il suo vantaggio sta nell’esserci (Discorso sul Cantico dei Cantici, 84, 4).
La Parola – allo stesso modo, perché è Amore – non si dà per proprio vantaggio, ma per esserci; sì, per esserci con noi, per noi e mai senza noi. Il dono è – in questo caso – onore ed onere, ma la fede non promette mai una felicità, un gaudio che sia frutto di un lavoro superficiale. Come disse acutamente Paolo VI nel Messaggio “Urbi et Orbi” per la Pasqua del 1969, «il cristianesimo non è facile, ma è felice». Oserei dire: è felice perché non è facile. Richiede una ‘conservazione amorevole’, una costante, fedele ‘custodia nel cuore’ della Parola (come Maria che serbava nel cuore le parole dell’Angelo). Si richiede sacrificio, ma conservare ciò che più conta significa amarlo e, come diceva Tommaso d’Aquino, ciò che si ottiene senza sacrificio si conserva senza amore. Solo chi si sacrifica per la Parola La conserva con amore.
Io penso che dobbiamo leggere solo libri che ci scuotano e ci provochino (Franz Kafka a Oskar Pollak, 1904)
Quando si affrontano argomenti simili, non è possibile prescindere da autorevoli voci della tradizione cristiana; la teologia non è che in minima parte elaborazione dello studioso perché, per lo più, il lavoro teologico deve far parlare nelle sue parole la Parola. In queste poche pagine, vero, non si può che gettare qualche seme, ma ritengo immancabile una domanda: cos’è predicare il Vangelo? Un tale interrogativo non può trovare risposta se non attingendo – tentando poi di ricavarne linfa per un percorso personale – al deposito di idee dei Padri della Chiesa. San Girolamo non disprezzava le letture profane, filosofiche, ma teneva a sottolineare lo specifico dell’annuncio evangelico. Scrisse nel Commentarium in Mt:
La predicazione del Vangelo è fatta di piccoli insegnamenti […]. Paragona una siffatta dottrina alle teorie dei Filosofi, ai loro libri, allo splendore della loro eloquenza, all’armonia delle parole, e vedrai quanto la semente del Vangelo sia più piccola rispetto a tutti questi altri semi (2).
Le teorie dei filosofi – ammette Girolamo – sembrano più seducenti e sontuose dei piccoli insegnamenti evangelici. Cosa accade, però, quando i semi filosofici crescono? «dimostrano di avere niente di vitale, niente di ardente, né di vivo». Siamo nel teatro dei concetti, non nel dramma personale di Qualcuno, come accade con Cristo nei Vangeli! Dramma che diventa universale perché vi si gioca non il successo o il fallimento di una tesi, ma il senso dell’esistenza umana, del creato. Se una teoria filosofica si dimostrasse falsa, informata da parole inconsistenti, poco accade: se ne trova una migliore e tutto torna a posto; se le parole del Vangelo si dimostrassero infondate, l’uomo ed il creato perdono senso. Il Vangelo: Fondamento della Speranza; ed Ireneo, in Contro gli eretici, giunge a dire che esso non potrebbero non articolarsi in maniera quadriforme:
I Vangeli non possono essere né più né meno di questi. Infatti, poiché sono quattro le regioni del mondo […] quattro i venti diffusi su tutta la terra e la Chiesa è disseminata su tutta la terra, e colonna e sostegno della Chiesa è il Vangelo e lo Spirito di vita, è naturale che essa abbia quattro colonne che soffiano da tutte le parti l’incorruttibilità e vivificano gli uomini (3, 11, 8).
La Chiesa è diffusa su tutta la terra che consta di quattro regioni e, dunque, per poggiare saldamente sul mondo, essa ha bisogno, a Sua volta, di colonne per sostenersi: ecco il Vangelo. Se vogliamo essere partecipi della diffusione della Chiesa nelle quattro regioni del mondo, non abbiamo altro appoggio, sostegno che la Parola di Dio; ed il Vangelo, ribadisco, non è tanto un libro, quanto una Persona. Come si usava nei primi secoli del cristianesimo, a queste convinzioni si accompagna una esortazione; stavolta, la si ricava da un antico manoscritto del XII secolo:
Fratelli, imparate quello che hanno scritto gli antichi Padri: leggete la Scrittura perché è luce e porta della vita. La sua lettura vi sia gradita, vi piaccia la sua santa parola. Da essa sgorga una fonte che sana il cuore […]. Sempre […] svela al credente i segreti celesti. Le sue sante parole fluiscono dolcemente come rugiada sull’erba. Leggendole e meditandole ognuno ricorda come si procede verso la vita beata e qual siano il cammino dei santi e la sorgente del bene. Alcuni, leggendole, spesso diventano sapienti.
Ecco il punto focale del iscorso: leggete la Scrittura! Non si può continuare – come fanno, purtroppo, tanti cristiani – a lasciare la Bibbia inerte sugli impolverati scaffali della biblioteca casalinga. Aveva ragione, non senta una punta di amara ironia, a scrivere Paolo del Vaglio: «Sarebbe bello che la Sacra Scrittura diventasse Sacra Lettura».
Conclusione
Questa fragile vita tra la nascita e la morte può pur essere un compimento: se è un dialogo. Nelle esperienze della vita, noi siamo appellati; pensando, agendo, costruendo, influendo, riusciamo a divenire esseri che rispondono. Per lo più non ascoltiamo la parola che ci viene rivolta, o la soffochiamo con le nostre chiacchiere. Ma quando la parola giunge fino a noi e da noi esce la risposta, esiste, per quanto ancora stentata, la vita umana nel mondo. L’infiammarsi della risposta in quella “parva scintilla” [piccola scintilla] dell’anima, il rispettivo accendersi della risposta al discorso che improvvisamente ci ha avvicinato, lo chiamo responsabilità (Martin Buber, Sull’educativo)
Buber è amaro, ma veritiero: per lo più non ascoltiamo la parola che ci viene rivolta: né quella ‘umana’, né quella ‘divina’! Se la parola dell’altro non ci raggiunge, non c’è risposta; non siamo capaci di rispondere (responso – abili), responsabili. La risposta, in questo caso alla Parola, deve infiammarsi: essere, cioè, non un mero dovere, ma gioia. San Bernardo, da canto suo, non dubitava del fatto che, chi conserva, custodisce la Parola, pure ne sarà custodito e conservato. San Girolamo, poi, invitava a tenere sempre sottomano e davanti agli occhi la Bibbia. Mai gli antichi lettori di essa si sono nascosti che questa sia una impresa non facile; infatti, Giovanni Scoto Eriugena, paragonava le Scritture alla terra che Dio affida ad Adamo: come quella va coltivata col sudore della fronte – diceva splendidamente il nostro autore – così la terra delle Sacre Scritture richiede cura ed impegno. Si tratta, concludeva, di un terreno disseminato di spine e di rovi che stanno a simboleggiare la sottile complessità dei pensieri divini. A Taizé, nella Regola, si invita a lasciar vivificare il lavoro ed il riposo dalla Parola di Dio. Fatica a parte, il gusto per la Parola cresce frequentandola. Gregorio Magno, infatti, diceva: «Si legge la Scrittura tanto più volentieri quanto più spesso la si legge». A Scoto che paragonava le Scritture a terra da coltivare con duro lavoro, possiamo accostare Origene.
Questi prende in considerazione la figura di Rebecca (Gn 24, 13 – 16). Non passava un giorno, leggiamo nella Bibbia, che non si recasse al pozzo. L’antico autore esorta a non ritenere ciò una ‘favola’ perché lo Spirito non ne racconta. Origene personalizza e rende applicabile ad ognuno di noi l’esempio di Rebecca:
Se non vai ogni giorno al pozzo [delle Scritture] […], non potrai dare da bere agli altri, ma tu stesso patirai la sete della Parola di Dio.
Dobbiamo dissetarci per dissetare. Non si frequenta la Bibbia per un individualistico godimento intellettuale, ma la si ‘vive’ – insistiamo - in atmosfera ecclesiale. Benedetto XVI dona una fondamentale lezione: senza la Chiesa la Bibbia diviene soltanto «una raccolta di molteplici fonti storiche, una collezione di libri eterogenei dai quali si cerca di tirare fuori, alla luce dell’attualità, ciò che si ritiene utile. Una esegesi che non viva e non legga più la Bibbia nel corpo vivente della Chiesa, diventa archeologia».
Andare sui sentieri della Parola significa camminare con la Chiesa pellegrina che, nella Sua condizione esodale, ma ricca di Speranza, guidata dallo Spirito si incammina verso il compimento escatologico della storia. Ignorare quanto Dio dice all’uomo è, me lo si lasci dire, letale. Non ho mai pensato che esagerasse Giovanni Crisostomo nel sostenere che la causa dei mali che affliggono il mondo è l’ignoranza delle Scritture. Dalle idee qui espresse appare chiaro che, a gustare la Parola, si arriva per sentieri aspri, ma la meta è dolcissima!
Non si è cristiani senza lo sforzo di vivere da pellegrini sui sentieri della Parola. Chi non è stato iniziato e istruito nelle Sacre Scritture non può dirsi vero cristiano, sentenziava Agostino. Sant’Efrem diceva che Dio ci ha donato la bocca a causa del Pane ed il Calice e gli occhi «in vista delle sue Scritture».
Teniamo bene aperti gli occhi, ma non dimentichiamo di tenere sempre teso all’ascolto attento l’orecchio; infatti, istruisce Agostino, Verbum Dei nunquam tacet (la Parola di Dio mai tace).
È annunciatrice ed interprete e, con Agostino, rivolgiamoci in questi termini al Signore: parlami Tu – «sei Tu il mio Maestro».
Nella Parola conosci il Parlante e ti conosci grazie a Lui:
«bisogna lasciarsi giudicare dalla Parola di Dio«, sentenzia il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez!
Frequentare le strade aperte dalla Parola mira, direi in sintesi, soprattutto a due beni:
1) la gioia vissuta;
2) la gioia donata.
Riguardo al punto 1, valgano le parole di Ruperto di Deutz: «Soltanto nella Parola di Dio si trova gioia». Si sperimenta la pienezza della gioia nel lavorare con sudore la terra delle Scritture (Scoto) e, come Rebecca, ammirata da Origene, si vada ogni giorno al pozzo di esse ad attingere. Il punto 2 ammette come guida Dietrich Bonhoeffer. Origene, come già detto, invitava ad attingere al pozzo della Bibbia anche per dare da bere agli altri; ebbene, il teologo luterano, come l’antico autore, ritiene che questo sia il guadagno di chi si abbevera all’inesauribile sorgente della Parola:
Come possiamo aiutare un fratello a trovare la retta via quand’è nel bisogno e nella tentazione se non proprio con la Parola di Dio? Tutte le nostre parole falliscono ben presto. Ma chi […] può parlare richiamandosi alla pienezza della Parola, degli ammonimenti, della consolazione della sacra Scrittura, costui caccerà i demoni con la Parola di Dio e potrà aiutare il fratello.
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