La Parola: forza del nostro debole dire. Provocazioni di Dietrich Bonhoeffer
Siamo a ridosso del Natale! Essere qui per esporre – ognuno secondo le proprie possibilità culturali, spirituali – considerazioni riguardo il nostro rapporto con la Parola di Dio, si innesta perfettamente nel percorso di preparazione all’evento della nascita del Salvatore. Perché? Lo capiremo giungendo alla citazione finale del mio intervento introduttivo. Ho scelto, dopo una breve riflessione sul rapporto tra uomo – parola divina e comprensione della realtà per come lo intende l’antropologia culturale, di farmi guidare da alcune citazioni del teologo luterano, che perse la vita ad opera dei nazisti, Dietrich Bonhoeffer. La premessa antropologica intende (con ovvi peccati di omissione) mostra re come da sempre e presso moltissimi popoli e civiltà, il rapporto del mondo reale con quello Trascendente sia stato fondamenta le! Mostrare che la parola umana e quella divina si tengono in una dialettica amorosa, feconda, capace di partorire inesauribilmente senso.La lezione è tanto più importante da evocare, quanto più siamo costretti ad ammettere – confermando la tesi che fu già di Heidegger – che il dire è scaduto in chiacchiera. Dato il tempo a disposizione, però, calo subito i riferimenti propedeutici che aiuteranno a seguire le relazioni successive focalizzate giustamente su questioni specifiche.
I
1. Dall’antropologia culturale apprendiamo che l’espressione dell’ anima umana non prescinde mai dal riferimento al “religioso”, all’“Oltre” e ciò particolarmente nel ‘linguaggio’.
Ogni civiltà conosce dei ‘miti di creazione’ che gli antropologi, opportunamente, ritengono una sorte di istruzioni per l’uso riguardo l’uso del mondo. Si rintraccia in quasi tutte le culture la tendenza ad intercettare ‘qui ed ora’ qualcosa di Trascendente perché ‘usare il mondo’ difficilmente accade senza un pensiero imbevuto di religiosità.
Gli Eschimesi, ad esempio, fanno coincidere il pilastro del cielo con la trave di sostegno della loro tenda (lo stesso usano i pastori dell’Asia Centrale e le tribù indiane del Nord – America). Nella cultura indiana, ad esempio, quando si costruiva una casa, veniva interpellato l’astrologo: a lui toccava stabilire dove fosse situata la testa del Serpente che regge il mondo. Là si colloca la prima pietra dopo aver conficcato in quel preciso punto un piolo, evocando un gesto divino, quello di Indra. Di lui di dice nei Rig – Veda: “colpì con la sua arma il punto vitale di Vritra!”. Lo scopo era quello di conquistare la luce solare. Si comprende che l’uomo tenta da sempre di far parlare il divino nelle cose o, almeno, di fare in modo che gli enti siano spie credibili dell’affacciarsi del Trascendente. Il linguaggio, certo, ma anche una casa, un monumento devono essere un modo di dire il divino. Il legame con l’Oltre innerva inestricabilmente l’intera gamma espressiva dell’uomo. Romolo, fondando Roma, scava il sacro fossato circolare e lo chiama – spiega Plutarco – “con lo stesso nome dell’Olimpo, cioè, mundus, mondo”. Nei riti romani, va detto, ‘mundus’ è la bocca dell’inferno dalla quale, durante la loro festa, risalgono le anime dei morti. C’è, dunque, un legame inscindibile con le dimensioni ‘altre’! Per i sacrifici vedici – vale la pena richiamare questo dato – viene costruito un particolare tipo di altare. Lo Shatapatha brahmana, testo sacro indiano, lo assimila alla creazione del mondo. L’acqua per modellare l’argilla richiama l’oceano primordiale; l’argilla, la terra, le parti laterali, Spazio intermedio; il piano superiore, è il Cielo. L’altare, allora, è un microcosmo. Il tempo pure entra in gioco nell’altare del fuoco che rappresenta l’anno: le pietre che lo circondano sono le notti; ve ne sono, perciò, 360! Tante, ovvio, sono le notti dell’anno. I mattoni, detti yajusmati, rappresentano i giorni e se ne contano, infatti, 360.
L’uomo non sa abitare il mondo, non riesce a raccontarlo a prescindere da potenti e significativi riferimenti al divino. In alcuni testi vedici, non a caso, l’assunto ora espresso è decisamente enunciato: “Noi dobbiamo fare quel che all’inizio fecero gli dei” (Shatapatha brahmana, VII, 2, 1, 2, 4); “così fecero gli dei, così fanno gli uomini” (Taittiniya – brahmana, I, 5, 9, 4). L’agire divino come ‘fonte e culmine’ dell’operato umano. Tutte le cose parlano, sebbene nel depotenziato ‘umano dire’, il ‘linguaggio originario’ delle divinità. Un esegeta biblico francese salda queste tradizioni agli insegnamenti ebraici: “non c’è nessun oggetto che si presti meglio di una cosmogonia a far sentire che quando è avvenuto un tempo è ciò che continua ad avvenire tutt’oggi” (P. Beauchamp). Il presente, cioè, di spiega e prende ‘senso’ dall’arcaico. In un modo o nell’altro, parliamo e pensiamo come gli dei, intrisi di insegnamenti arcaici non sempre trasferibili dall’inconscio alla luce della coscienza (quello che, in un certo senso, Jung chiamava archetipi).
Nelle cose sono incisi indelebilmente gli insegnamenti divini, le parole originarie creanti. Importante, in tal senso, è richiamare il cosmogramma rappresentato dal disegno sul tjuringa, pietra mostrata agli aborigeni australiani nei rituali di pubertà: seguendo il tracciato di quella pietra – mappa del viaggio degli antenati del tempo del sogno – gli ‘iniziati’ possono ritornare al tempo delle origini, inizio di tutto! Rifacendoci all’insegnamento vedico sopra riportato, dobbiamo fare quel che all’inizio fecero gli dei, così fecero gli dei, così fanno gli uomini, anche nei passaggi fondamentali delle propria vita, l’uomo deve intercettare i riferimenti essenziali nella divinità.
Quanto facevano gli aborigeni australiani è una cosa universale: anche noi abbiamo a che fare con i traumi dei passaggi di vita: bambino/ragazzo, adolescente/adulto… non sarà la perdita di certi riferimenti a rendere questi passaggi ancora più difficili? Nel 1909 il folklorista Arthur Van Gennep, utilizzò per la prima volta l’espressione riti di passaggio. Senza l’accompagnamento del ‘sacro’ e se questo non viene esperito in una comunità salda, calda, le fasi della vita rischiano di condurci alla perdita di noi stessi nell’oceano maligno del non senso!
2. La parola – ad ogni modo – ha sempre avuto un ruolo fondamentale (insostituibile) nei racconti delle origini di numerosi antichissimi popoli. Per la teologia di Menfi – per citare il caso a molti noto dell’Egitto – il demiurgo Ptah crea con il suo cuore e con la sua lingua; ad Eliopoli, poi, Atum crea gli otto geni primordiali ‘dialogando’ con Nun, oceano precosmico. Chi non torna ai racconti arcaici vede di fronte a sé un mondo da amministrare unicamente in nome dell’interesse e della razionalità pianificante. Mi ha dato – e vorrei facesse a voi lo stesso effetto – molto a pensare l’usanza degli Indiani Osage. Quando nasce un bambino, lo sciamano si reca a casa del nascituro e recita la creazione del mondo. Il bambino, all’inizio, assume soltanto latte materno, ma quando beve acqua per la prima volta, ecco lo sciamano pronto a ritornare allo scopo di completare il racconto narrando l’origine dell’acqua. Allo stesso modo si procede con altre sostanze che l’infante assume per la prima volta. Le cose spoglie della parola originaria, delle narrazioni delle origini, dunque, perdono il potere di fare senso! Se la moglie di un capo Hawaiano – insegnano ancora gli antropologi – è incinta, i bardi, senza sosta, recitano i canti genealogici che collegano il linguaggio reale ai grandi antenati, alla creazione degli astri, agli inizi del mondo, a piante, animali. Si agisce in questo modo per tutta la durata della gestazione con l’intento di favorire il pieno inserimento del futuro capo nella vita che lo attende. Questa sorta di accompagnamento narrativo è una cornice di senso nella quale lasciar prendere corpo la propria futura immagine. La parola – non solo nella cultura religiosa ebraico/cristiana – è centrale. L’avevo premesso: partire da lontano, accennando alle diffuse usanze dei vari popoli è necessario per comprendere che le declinazioni particolari che assume il dire, il narrare, la parola nella nostra credenza religiosa è innestato in una esigenza universale dell’animo umano. Prima di avvicinare le provocazioni del teologo luterano del Novecento, Dietrich Bonhoeffer, impiccato dai nazisti, che ci conducano ad un rapporto costante ed illuminato con la Parola, lasciamo spazio ancora a qualche riferimento che, stavolta, proviene dal mondo della letteratura, della poesia…
II
1. Penso che ogni credente (io penso, ovvio, specialmente a noi cristiani) debba avere sulle labbra le parole del compianto poeta e sacerdote David Maria Turoldo: io balbetto e sussurro sillabe a me stesso ignote; parliamo con, a, di Dio troppo spesso ricorrendo appena a sillabe balbettate, sussurrate e delle quali non conosciamo provenienza e significato. Conta, ad ogni modo, la volontà di comunicare col Trascendente. Conclude Turoldo: ma so che odi e ascolti/e ti muovi a pietà. Non è – a ben considerare – la fiducia nel nostro debole dire a spingerci a cercare un ‘modus comunicandi’ con Dio, ma la certezza che Egli non è insensibile nemmeno ai nostri balbettii confusi, sillabati. Senza questa previa, incrollabile fiducia, non salirebbe alcun suono al cielo! Prima verità nel ‘colloquio’ con l’Altro, dunque, è la fiducia in Lui più che nelle nostre capacità espressive. Saccheggiando dal dizionario della mistica musulmana, potremmo dire che noi siamo l’arpa, ma è Dio che fa vibrare le corde; siamo il flauto, ma è Dio che vi soffia la sua musica. Dobbiamo rendere l’intera persona capace di lasciare che Dio si dica attraverso noi. Si tratta non di passività, bensì di disponibilità. In realtà, non siamo arpe, né flauti, ma ci impegniamo a divenirlo perché confidiamo nel Suonatore. La Sua musica dà senso al nostro essere arpe e flauti altrimenti, privi del Suo intervento, saremmo, appunto, unicamente strumenti. Nulla mi fa più tristezza che osservare, posato in un angolo, uno strumento musicale che nessuno dei presenti sa suonare.
2. Prima di scrivere una sola sillaba di teologia, credo si dovrebbero recitare alcuni segmenti di una stupenda preghiera di San Benedetto. I passi che ci riguardano sono questi: “Degnati, o Dio buono e santo/di concedermi (…)/un udito che ti ascolti (…)/ una lingua che ti confessi/una parola che ti piaccia (corsivi miei). Non c’è discorso, argomentazione teologica che possa ritenere il linguaggio usato fine a se stesso o intenzionato ad ottenere vittorie di tipo retorico. Le parole credibili, accettabili del teologo, sono – in realtà – sempre il riflesso (pallido quanto si vuole) della Parola! Dobbiamo parlare con l’entusiasmo di chi, a sua volta invitato ad uno sposalizio, reca la lieta notizia dell’evento al mondo con licenza di costituire altri invitati. L’immagine è stata splendidamente scolpita da un poeta indiano, Tagore: “mandami – dice rivolgendosi al dio – come messaggero per il Regno/a invitare tutti alla tue nozze”. Non siamo noi i protagonisti delle nozze; la nostra è la funzione (non misera o di scarso rilievo), di annunciatori col compito particolare di invitare quanta più gente alle nozze divine. Una bella immagine per riflettere sul modo di annunciare la Parola.
3. Se le nostre ‘parole’ hanno necessità di rendersi accettabili, credibili, occorre – va ribadito fino allo sfinimento – che siano quanto più possibile imbevute di succhi trascendenti! La preghiera stessa non può non tenere conto – intrecciando parole – della Parola. Nell’orazione mi piacerebbe che si chiedesse il pieno, totale compromettersi della Parola con il nostro debole dire. Prima dell’orazio, mi aiuta non poco ripetere (cercando di penetrarne pienamente il senso) quanto, nell’Ottocento, fioriva sulle sagge labbra del vescovo russo, il metropolita Filarete di Mosca: “insegnami a pregare,/anzi, prega tu stesso in me!”. Si ha spesso bisogno di lasciare la possibilità alla Parola di entrare – come un soffio d’aria fresca, pura – nelle stanze chiuse, maleodoranti degli stereotipi verbali con i quali ci illudiamo (per pigrizia) di comunicare con Dio. Qualcuno – sebbene mistico di alto livello – si vide costretto a confessare: “le mie parole inquinano l’aria” (Nil Sorskij). Stiamo comprendendo sempre più – prima di accostare le provocazioni di un teologo contemporaneo – quanto sia fondamentale la parola nella vita religiosa, nel dare un impianto religioso al vivere e quanto sia difficile avere con le parole un rapporto che tenga conto, il più possibile onestamente e fedelmente, delle indicazioni provenienti dalla Parola.
Avendo percorso questo tratto di strada, fermiamoci a far nostra l’esclamazione (assai formativa in ambito spirituale) del monaco e vescovo Giacomo di Sarug, nato nel lontano 451 in Siria. Quanto è moderna la sua frase meritevole di assumere pieno diritto di cittadinanza nel nostro quotidiano pregare: “mi affretto a impregnarmi della tua Parola”. Una fretta dettata – giustificata – dalla sempre più frequente diserzione che anche i più sinceri credenti mettono in atto dall’insegnamento evangelico. Si parla sempre meno con la Parola e sempre più seguendo, magari, la moda filosofico/sociologico/teologica del momento.
Le parole teologiche in particolare, sono sempre seconde! Laddove esse non si rendono sottili e fragili come la filigrana, la Parola non traspare e non si sta, dunque, annunciando l’autentica, genuina fede evangelica. Tutti, semplici fedeli e dotti teologi, devono far risuonare nella propria coscienza il lamento attribuito a Cristo e riportato nella cattedrale di Lubecca, in Germania: Mi chiamate maestro e non mi ascoltate. Il professore di teologia – per parafrasare una celebre frase di Kierkegaard – non deve dimenticare di essere tale soltanto grazie a qualcuno che si è lasciato crocifiggere per lui per potersi mostrare come un credibile, autentico Maestro [1].
III
Provocazioni di Dietrich Bonhoeffer
«Solo dalla sacra Scrittura impariamo a conoscere la nostra propria storia»
In questa citazione, Bonhoeffer ci dice qualcosa che richiama quanto sopra dicevamo attingendo ai testi sacri indiani. In essi si affermava che dobbiamo fare quel che all’inizio fecero gli dei, che così fecero gli dei, così fanno gli uomini. Per il teologo luterano, la storia che ci viene raccontata nella Scrittura parla di noi. Quante volte ci si sente Israele: siamo in esilio, sotto la schiavitù dei vizi, dei piccoli egosimi… i nostri piccoli, ma letali Egitto! Quante volte non comprendiamo, come Israele, che “attraversare il deserto” è benefica, necessaria purificazione e non inevitabile dannazione. La manna è il cibo del momento: non bisogna credere che quanto ci nutre nel deserto sia quanto ci è destinato nella Terra Promessa. Là il cibo sarà per lo spirito. Il poeta e scrittore argentino Borges affermò che siamo ciò che hanno raccontato i filosofi; ma è meno vero che siamo anche ciò che ci narra la Scrittura? La Parola parla di noi in relazione con l’Altro e con altri! La Rivelazione si esplica, viene narrata, articolata, unicamente all’insegna della categoria fondamentale della Relazione. Di questa Parola che parla a noi e di noi, non solo di Dio, dobbiamo essere più testimoni che maestri. La provocazione di Bonhoeffer apre la memoria ad un riferimento storico ricco di insegnamenti teologici. Paolo VI, ad alcuni laici, il 2 ottobre 1974, disse: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni”. Prima del saggio Pontefice, Gregorio Magno, nella Regola Pastorale (II, 3), insegnava: “il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla”. Se la Scrittura è la nostra maestra di storia, chi la narra, la spiega deve fare attenzione a non ridursi a mero maestro nelle ‘cose di Dio’ ma, proprio perché in gioco c’è la nostra propria storia, deve assumere lo scomodo compito del testimone.
«L’essenza della comunità non consiste nel fare teologia, ma nel credere e nell’obbedire alla Parola di Dio (…). La fede sorge soltanto dalla predicazione della parola (Rm 10, 17)»
Bonhoeffer ha scritto pagine indimenticabili sulla ‘comunità’, sottolineando che essa non origina da esigenze psicologiche e non poggia si di un fondamento meramente emozionale: è ontologica! Il legame fonda sull’insegnamento di Cristo: laddove ci si riunisce Lui è in mezzo a noi. Si può non ammettere che questo generi una ‘riflessione’? Certo che no; tuttavia, il compito essenziale e primario della comunità è credere – obbedire alla Parola di Dio! Il vincolo della comunità cristiana non è propedeutico ad un lavoro intellettuale (esegetico, antropologico…): si tratta di procla mare e diffondere la ‘fede’ ed essa non si nutre che della Parola!
Ogni membro di questa comunità fondata su Cristo e sulla Parola che Lui stesso è in quanto Logos sarx, ha un compito didattico che nulla ha che vedere con lo svolgere un ufficio meramente accademico.
Nell’Esortazione Apostolica Gaudente in Domino del 9 maggio 1975, Paolo VI, al n. 5, sostiene che “educare cristianamente” significa “aiutare i fratelli ad incamminarsi sui sentieri della gioia evangelica”. La comunità ha bisogno anche della teologia, ma sarebbe pericoloso (oltre che sbagliato) pensare di nutrirla unicamente con essa. Non va trascurato che l’insegnamento viene da uno dei massimi teologi del Novecento!
«Per la Parola di Dio ho bisogno di tempo (…). La Parola di Dio esige il mio tempo. Dio stesso è entrato nel tempo e ora vuole che anch’io doni il mio tempo»
Il Dio cristiano scandalizza ed allo stesso tempo esalta in quanto è un dio che ha avuto tempo per l’uomo. La concezione antica (aristotelica) di Dio vuole che chi è eterno di nulla abbia bisogno. Se la divinità ‘ama’, vuol dire che ha ‘bisogno dell’altro’ e, dunque, imperfetta perché non paga di se stessa in se stessa. Il Motore Immobile di Aristotele attira a sé, ma non scende verso nessuno! La perfezione non conosce il pathos del divenire. Si dimenticherebbe, accettando questa lezione filosofica che, fin quando rimante tale, non è del tutto da biasimare, un particolare fondamentale: il nostro è un Dio/Padre. Non veniamo cercati perché Lui ha ‘bisogno’ di noi, ma perché nulla siamo lontano da Lui. Ci viene a cercare, entra nel tempo – come si esprime Bonhoeffer – perché sa che nulla possiamo fare da soli!
La Parola esige il mio tempo perché mi ha donato il Suo tempo! Nella Lettera Apostolica Tertio Millennio adveniente del 10 novembre 1994, al n. 7, Giovanni Paolo II, affermava: “Dio cerca l’uomo spinto dal suo cuore di Padre”. Non per imperfezione (come argomenterebbe certa filosofia), ma per sovrabbondanza d’amore veniamo cercati da Dio. Se, come visto nella prima provocazione rubricata, il teologo luterano sostiene che la Scrittura narra la nostra storia, va detto che Dio ha resa ‘pienamente significativa’, ‘ricca di una speranza credibile’ perché Lui stesso si è fatto storia entrando nel tempo. La fede in Cristo è testimoniata anche nel donare a Lui il nostro tempo perché sia sempre più la Parola, con i suoi ritmi, sonorità e contenuti, a renderlo sensato. Solo la Parola incarnata è ‘ultima, definitiva’; le nostre parole restano sempre penultime, aperte a smentite e correzioni. Protegge da pretese ideologiche letali il fatto che ogni nostro dire sia subordinato alla Parola che davvero è Amore in quanto, pur da sempre presso Dio, ha voluto incontrarci nel tempo. Il dire umano deve sempre più ritrarsi dopo aver mostrato che, fuoco vivo sotto la cenere dei nostri logoi, è solo lasciando spazio alla Parola che si evitano le derive del potere cieco sostenuto da retoriche imbevute di ideologia. La stessa teologia rischia derive deprecabili se dimentica la dipendenza dal Logos. Il vescovo di Edessa, Mons. Neofito Edelby, durante il Vaticano II, pronunciò parole a prima vista terribili, ma meritevoli di prolungata ed attenta meditazione:
“una delle cause delle difficoltà che la teologia ha sperimentato in questi ultimi secoli consiste precisamente nel fatto che i teologi hanno voluto racchiudere il Mistero in delle formule. Invece, la pienezza del Mistero travalica non soltanto la formulazione teologica, ma anche i limiti della lettera della Sacra Scrittura”.
Il Mistero viene nel tempo, ma la formulazione di esso supera il tempo!
«il cristiano può contare solo sulla Parola di Dio che gli viene detta»
La certezza che solo la Parola possa giovare al cristiano, responsabilizza riguardo all’annuncio: se credo davvero che essa sola può salvare, farò il possibile affinché ogni uomo che mi è possibile incontrare l’ascolti e, soprattutto, mi osservi testimoniarla. Il cardinale Schuster – dedicando una preziosa riflessione a S. Ambrogio, nel 1950, scriveva: “tempi ed uomini camminano e chi si ferma lungo la strada finisce per isolarsi dalla carovana”. Cosa fare? Concludeva: “Bisogna andare alle masse per ricristianizzarle”. L’uomo ha bisogno di Cristo, Parola definitiva di Dio per noi. Si tratta di una Parola che viene detta non perché divenga possesso privato, occasione di erudizione religiosa; piuttosto, ci rende pellegrini, uomini della bisaccia, votati all’annuncio.
Si risponde alla Parola che ci viene detta divenendo, appunto, responso – abili (responsabili), ‘capaci di rispondere’ a Dio ed ai fratelli. Bonhoeffer stesso, ebbe a dire:
“L’amore per Dio comincia con l’ascolto della sua parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo. L’amore di Dio agisce in noi, non limitandosi a darci la sua parola, ma prestandoci anche ascolto. Allo stesso modo l’opera di Dio si riproduce nel nostro imparare a prestare ascolto al nostro fratello”.
L’amore in accezione cristiana è un sovvertimento delle categorie ‘umane, troppo umane’ applicate, talvolta come filtri opprimenti e snaturanti, all’idea di amore che serpeggia nella storia. Credo che, nel rivolgersi da cristiani all’altro, occorra ricordare che l’amore cristiano è di un tipo radicalmente diverso da quello millantato nei discorsi quotidiani. Non è un caso, d’altra parte, che un autorevole filologo come il tedesco Wilamowitz Moellendorff abbia sostenuto che l’eros platonico e l’amore come agape “non hanno nulla a che fare l’uno rispetto all’altro”.
«La parola rivolta dalla chiesa al mondo non può essere che la parola rivolta da Dio al mondo, e cioè Gesù Cristo e la salvezza in questo nome»
Bonhoeffer ci sta dicendo una cosa di fondamentale importanza: non c’è una parola che la chiesa dona al mondo che sia difforme da quella stessa Parola – che è Cristo – rivolta al mondo da Dio. La chiesa, anche quando parla di sé, può farlo pure con formule altisonanti, ma giammai lontane dall’essere in stretto riferimento e dipendenza da Cristo, al cui servizio sta. Il concetto è stato espresso in una lunga, ma illuminante riflessione di Hans Urs von Balthasar:
“Per quanto affilata possa essere quindi la forma linguistica di una definizione della Chiesa, di un canone conciliare e così via dicendo, questa forma così accurata non può essere ammirata e apprezzata per se stessa, perché sta unicamente al servizio della forma di Cristo che essa vuole conservare e custodire. Per motivi di prassi pastorale l’annuncio ecclesiale deve quindi possedere il massimo di chiarezza, e questo anche in vista della situazione storico – ecclesiale e teologica in cui si colloca, ma questa chiarezza non entra in concorrenza con la forma e la formulazione della Scrittura. Essa non sostituisce, non alza la pretesa di esprimere in modo migliore, più completo e moderno, ciò che la Scrittura ha detto in modo ingenuo, frammentario, popolare e non scientifico, essenzialmente condizionato dal tempo e quindi bisognoso di riforma. Le espressioni magisteriali si trovano su tutt’altro piano. Esse sono interpretazione e non già fondazione della rivelazione, esse non tendono ad un sistema espressivo che potrebbe essere in grado di sostituire, totalmente o in parte, la Scrittura (…). Esse non fanno altro che rimandare a qualcosa che è diverso da quello che esse sono, qualcosa che le sovrasta essenzialmente ed è collocato sul piano della rivelazione divina”.
Quanto proclama la chiesa, Magistero, teologi, va inteso – per non correre il rischio di collocare sullo sfondo la Parola – come interpretazione e non fondazione della Rivelazione.
«Soltanto se osiamo ascoltare come se qui ci parlasse realmente Dio, che ci ama e non vuole lasciarci soli con le nostre domande, gioiremo della Bibbia»
Per mostrare che ‘realmente’ Dio ci parla nella Scrittura, occorre praticare una ermeneutica capace di “mostrare in che senso l’avvenimento del passato riguarda noi oggi” (X. Léon – Dufour). Non veniamo abbandonati all’inquietudine delle domande di senso che ci pungolano senza requie; in realtà, occorre convincersi che – come sostiene lo studioso francese Fossion – la “capacità di leggere la Bibbia” tende a sostenere e fortificare la “capacità di vivere”. Fossion, a dirla tutta, pensa addirittura che siamo di fronte a “due competenze che si comprendono l’una nell’altra”. Il problema è che, spesso, si ritiene che – per il fatto di aver fede – tutte le risposte siano giunte. Va meditata, curvandola in atmosfera teologica, una splendida affermazione del poeta tedesco romantico Hölderlin: “Quanto ci appartiene deve essere imparato allo stesso modo di ciò che ci è estraneo”.
La fede cristiana, convinti che ci appartenga, non va appresa meno di quanto avverrebbe nel caso ci trovassimo di fronte ad una religione diversa. Curiosità non fine a se stessa, passione di apprendere devono guidarci nei domini del conosciuto (o di quanto si ritiene essere tale) proprio come farebbero nel caso ci mettessimo di fronte all’ incognito, al nuovo. Solo così scopriremo se davvero Dio ci sorprende quando mostra di averci parlato realmente per mezzo degli autori biblici. Il Dio ‘vivente’ della Rivelazione ebraico – cristiana non può accettare che il credente si accomodi in convinzioni granitiche gestite come un tesoro messo al sicuro, come verità da deviare, senza troppo starci a pensare, su binari morti.
«Un rapporto con Dio deve essere esercitato, perché altrimenti non troviamo il tono giusto, la parola giusta, il linguaggio giusto, quando egli ci sorprende. Dobbiamo imparare il linguaggio di Dio (…) con fatica, dobbiamo lavorarvi al fine di poter parlare con lui»
Spezziamo la citazione di Bonhoeffer in micro unità di senso. 1) Noi dobbiamo accendere un rapporto con Dio. Non si tratta di porre un soggetto conoscente di fronte ad un oggetto da conoscere, ma di una esperienza che si configura e realizza in quanto relazione reale tra due soggetti;
2) La relazione non nasce già matura, ma richiede un lungo tirocinio… va esercitata. Essere cristiani è precisamente esercitarsi – ininterrottamente – a migliorare e a far maturare una relazione reale con Dio;
3) Non qualsiasi parola, tono, linguaggio aiutano di fronte ad un dio mai prevedibile che – per dirla con Mauriac – sta in agguato in ogni vita. Di Dio si parla solo a partire da Dio – recita una convinzione di Barth! Imparare il linguaggio di Dio è possibile soltanto frequentando la Scrittura; anche se, va ricordato, il filtro dell’umano dire resta ineliminabile;
4) Per raggiungere quanto indicatoci dal teologo luterano, però, occorre lavorare. Sento di dover sottolineare qualcosa che torna utile nell’affrontare la Parola: né il ‘rigore scientifico’, né una ‘pseudo/spiritualità’ frettolosa di arrivare al ‘senso’ sono di aiuto nel dare vita ad un “rapporto con Dio”.
Ci vuole, nell’esercitarsi ad imparare il “linguaggio di Dio”, equilibrio fra ‘rigore’ e ‘spiritualità’. Trovo illuminante che uno studioso della Bibbia abbia scolpito questa riflessione: “Fino a qualche tempo fa – confessa con disarmante onestà Maggioni – mi sembrava che il pericolo venisse da certe letture eccessivamente scientifiche, disperse in molte analisi che nascondevano il centro. Da qualche tempo ho paura anche del rischio contrario, quello cioè di frettolose, impazienti e superficiali letture spirituali (così dette, ma abusivamente), che non sopportano la fatica di cogliere la ‘lettera’ del testo”.
«La parola veritiera non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quando (…) qualcuno ‘dice la verità’ senza tener conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza, ma non la sostanza della verità»
Dio – come dicevamo poco sopra – non ci lascia nell’ angoscia del domandare: offre senso, ma lo fa com misurando la Sua Verità alla nostra capacità di intendere. Ecco il vero miracolo: che i pensieri di Dio che – come ricordava Isaia non sono i nostri – ci riescono in qualche modo comprensibili! D’altro canto, che importanza avrebbe ‘per noi’ la verità biblica se fosse irrimediabilmente distante dalla nostra intelligenza? Il fatto è che la Verità di Dio e quella dell’uomo sono profondamente relazionate. Il sacerdote canossiano Amedeo Cencini ha opportunamente rilevato in un suo recente scritto: “la Bibbia (…) è un testo (…) ispirato solo se ispirante; è sacro solo se incarnato in vicende umane; è una pagina bella solo se è un campo di lavoro o di battaglia; è amico fedele e quotidiano solo se interlocutore abituale e franco”.
La Bibbia è ispirata perché ispira: non lettera morta ma – per riprendere un’espressione del linguista contemporaneo Austin – linguaggio performativo: ‘dice’ ma ‘facendo’ ciò che dice (detto in soldoni). La Parola si incarna – nell’Antico Testamento, nella storia degli uomini e, nel Vangelo, nella storia di un uomo (Gesù di Nazaret)! Assunta la ‘natura umana’, Dio, in Cristo, rende indiscutibilmente interessante per ogni uomo la Parola. Aggiunge Cencini: “Dio mi parla di sé, ma anche di me; non è solo una teofania che apre la mia giornata di credente e discepolo della Parola, ma un’antropofania”. Ecco cosa rende la verità biblica non ‘apparenza’: il fatto che si innesti nel nostro vissuto quotidianamente e, rivelando, ci rivela a noi stessi. La teofania – in questa prospettiva – che è, sappiamo, il mostrarsi di Dio, si conferma essere, allo stesso tempo, una antropofagia, una ‘rivelazione piena e credibile’ dell’uomo. Agostino già diceva: “Dio si è fatto uomo; che cosa diventerà l’uomo, se per lui, Dio si è fatto uomo?”.
«Se potessi dire la Parola in modo che ci facesse realmente male. Deve farci male, perché altrimenti non è Parola di Dio. Ma vedo che già ora fate come quando in un cattivo romanzo si legge prima la conclusione a lieto fine, per non essere inquietati troppo da quello che precede, per poter sempre dire che tutto andrà bene»
Nietzsche – in una lettera all’amico Overbeck del 2 giugno 1885 – definì la propria filosofia “ciò che mi maltratta giù fino alle radici”. Il poeta e gesuita Gerard Manley Hopkins, dal canto suo, dirà, rivolgendosi a Dio: “o Signore di vita (…) manda la pioggia alle mie radici”. La filosofia può essere una spina nell’anima, ma la fede non è detto debba fare unicamente da balsamo.
Nietzsche (ateo) e Hopkins (credente) sperimentano uno stesso disagio interiore profondo ed intenso. Le radici dell’uno e dell’altro hanno bisogno di pioggia rinfrescante. Qui ci sono due strade: o farsi maltrattare dalla scomoda Parola di Dio, ma con la forte speranza che la luce si vedrà, o continuare ad almanaccare ispirati dal logos filosofico inaugurando un discorso che si esaurisce in uno sterile infinito intrattenimento (Blanchot). Chi si affrettasse a scorre le pagine della Scrittura nelle quali viene celebrata la Pasqua, la liberazione, riduce la Bibbia, per riprendere Bonhoeffer, ad una cattivo romanzo. Il cristiano, come ha detto qualcuno, deve inquietarsi soltanto di non inquietarsi; il cristiano è sì – diceva Primo Mazzolari – un ‘uomo di pace’, ma non un ‘uomo in pace’. Pace, in questa accezione, va detto, confina con ‘indifferenza’, ‘presunzione di aver trovato’. La Parola, invece, come la filosofia usava con Nietzsche, può finanche maltrattarci ‘giù fino alle radici’, ma – a differenza di quanto avviene col logos filosofico – abbiamo la certezza che la preghiera di Hopkins troverà accoglienza: Dio manderà fresca pioggia alle radici maltrattate. Il cristiano – come l’antico Israele – è creatura esodale: deve porsi alla ‘sequela’ del Rabbi di Nazaret perché Lui è la sola Via al Padre. Ho sempre pensato che dar luogo ad una esistenza cristiana preveda, inevitabilmente, l’assunzione di un programma di vita ben tracciato da don Carlo Gnocchi:
“L’uomo è un pellegrino, malato d’infinito, incamminato verso l’eternità. La personalità è sempre in marcia, perché essa è un valore trascendente: la sua forma perfetta non si raggiunge che nell’altra vita (…). Purché l’uomo non si lasci stancare dalla lotta, purché si opponga alla sclerosi progressiva o causata dagli anni e dalle delusioni della vita, purché dia ogni giorno un tratto alla costruzione del suo capolavoro. In vista dell’eternità”.
«Da cosa dipende che i miei pensieri deviano così velocemente dalla Parola di Dio (…) ? (…) Perché non sono ancora capace di dire, con il Salmo: “Ho preso piacere ai tuoi comandamenti” (Sal 119, 16). Ciò a cui prendo piacere, non lo dimentico. Dimenticare o meno non è cosa dell’intelletto, ma (…) del cuore».
Dopo aver tanto parlato degli effetti potenti, benefici della Parola, vale la pena indagare sul fenomeno dell’abbandono facile che le lasciamo patire. Forse il dramma è che non c’è – oltre la lectio, la dilectio! La Parola – seguendo la lezione del salmista – deve esserci di lezione, ma anche valere come diletto. Deve darci ‘piacere’. Molti autori insistono sul fatto che la Parola abbia ‘sapore’, che vada gustata, mangiata, assaporata. Ci sono sapori destinati a dilettare lo spirito, proprio come esistono sapori adatti a far gioire la nostra parte sensibile. Il dimenticare la Parola non è un fatto intellettuale, bensì affettivo. Si badi: qui ‘affettivo’ non significa riferirsi ancora ad una parte dell’uomo, ma al centro che unifica tutte le nostre facoltà. Bonhoeffer affermava di dedicare moltissimo tempo all’Antico Testamento ed aggiungeva che, affrettarsi a pensare in maniera neotestamentaria, era un azzardo assolutamente da evitare.
Il cuore – per chi pensa il Vangelo sul basso continuato e non tacitabile della mentalità ebraica – vale come l’interiorità unificata della persona. Non a caso, la Hillesum, giovane ebrea morta nei campi di sterminio nazisti, parlava di un cuore pensante. Quello che ci accosta maggiormente e con aderenza affidabile alla Parola – sta dicendoci in questa ultima provocazione il teologo luterano – è il patico, non il logico. Il già citato sacerdote canossiano Amedeo Cencini, in questo caso, parlando della ‘mistagogia dell’anno liturgico’, ha insistito sulla centralità della Parola rinvenendo, nel seguirLa fedelmente, un itinerario così sintetizzabile: dalla teo – logia alla teo – patia. Il percorso conosce tre fasi. Nella prima, quella ‘teo – logica’, primeggia la mente che indaga, ricerca e la Parola/Logos è, per ora, “oggetto di riflessione”. Si accendo, qui, un contatto ‘fedele, regolare’ con il Logos e si percepisce “nel mistero studiato la fonte della propria identità”.
Il rischio, però, avverte puntuale Cencini è che la prima fase, congelandosi, porterebbe ad una intellettualizzazione della fede! La cosa triste, per il nostro autore è che la cosa non avviene di rado.
Nella seconda fase, detta della ‘teo – fania’, viene contemplato il “mistero celebrato nel tempo liturgico”. Alla riflessione sulla Parola si aggiungono la ‘visione’ e l’‘ascolto’. Si mette in gioco, ora, l’uomo intero e, non limitandosi più ad una “verità da scrutare” si ha finalmente un “volto da contemplare”. Si ascolta un altro che, pur essendo pienamente ‘altro da me’, allo stesso tempo, “qui è il punto decisivo (…) straordinario, mi indica il mio volto, la mia fisionomia, il mio modo d’essere. È la mia verità!”. Non è un caso – per aggiungere un utile segmento riflessivo alla proposta di Cencini – che Michele Giulio Masciarelli, sacerdote e teologo dell’arcidiocesi di Chieti – Vasto, abbia di recente proposto, per l’edizione San Paolo, un saggio: Il mistero del Volto. Il sottotitolo non è meno eloquente: “Piccola teologia del volto del Signore”. La teo – fania, l’incontro con il Volto non è meno importante di una Rivelazione intesa come epifonia, ‘manifestazione della voce, della parola’. L’ebraico pàním (volto), nell’Antico Testamento ricorre più di 2100 volte; una parola, dunque, assai frequente!
Giungiamo, finalmente, alla terza fase del cammino proposto da Cencini. Siamo al punto d’arrivo: la ‘teo – patia’. Superiamo, qui, il ‘vedere’, l’‘ascoltare’ e si comincia a “vivere il mistero celebrato, rivivendo sulla propria pelle il senso dell’attesa di Israele (…) della kenosi del Figlio (…) del drammatico cammino verso Gerusalemme o della solitudine del Getsemani o dei giorni della Pasqua ecc. Quei misteri sono le stagioni esistenziali del credente”.
Ecco dove volevo conducessero, per gradi, le provocatorie perle di Bonhoeffer: il mistero che celebriamo nell’anno liturgico (con gesti e parole), diviene qualcosa che ci riguarda in prima persona; non rappresentazione, bensì condivisione. Io sono – frequentando, facendo diventare parte dei miei tessuti la Parola – Israele che attende l’uscita dalle mie schiavitù; io sono compromesso con la ‘questione di Dio’ fino al midollo (anche spirituale) del mio esserci in quanto Dio si è ‘abbassato’ (Kenosi) nel Figlio fino a me: ha – diceva sopra il teologo luterano – trovato tempo per me! Sono anch’io in cammino verso Gerusalemme (pure in accezione escatologica) e sperimento, in questo percorso, talvolta, la solitudine angosciosa che Gesù conobbe nel Getsemani. I misteri raccontati ed attualizzati con gesti altamente significativi nell’anno liturgico sono le mie stagioni esistenziali, la figurazione del cammino che mi tocca compiere in quanto credente, cristiano.
Come negli antichi rituali vedici, come avveniva nella cultura Hawaiana, nel modo di abitare degli Eschimesi, ciò che fece il dio ispira, motiva, rende sensato il nostro fare. I racconti delle origini sono fondamentali per comprendere quanto accade oggi e, dunque, nello specifico cristiano, la Parola è – parafrasando un noto Salmo – una lampada ai nostri passi nella quale l’olio della novità non soppianta quello antico e la rende capace di stendere raggi su percorsi escatologici leggibili grazie anche ad una sapiente e potente illuminazione di quanto ci precede. La Parola di Dio è l’eterno oggi!
Conclusione
Ci siamo fatti portare per mano da Bonhoeffer, pur concedendoci digressioni, pur lasciando campo ad altre voci…
Ad ogni modo, l’aver dedicato il mio intervento al teologo luterano, prima che altri sviluppino una riflessione sulla Parola aprendo altri percorsi, impone di giungere ad una conclusione che lasci parlare ancora il mio autore di riferimento.
Mi pare di poter affermare che se facciamo teologia lo dobbiamo certo – come disse Kierkegaard – al fatto che Qualcuno è morto in croce per noi, ma anche all’altrettanto innegabile fatto che Qualcuno è nato per noi.
Se la Parola non avesse mostrato di gradire un pieno coinvolgimento con la nostra natura, ardiremmo conferire una certa qual serietà e fondatezza al discorso teologico?
Nella nascita umana di Dio, convengo con Bonhoeffer, sorge la possibilità di fare teologia, ma anche tutta la verità riguardo ai limiti di questo pur nobile sforzo.
Il Logos incarnato precede, sostiene e supera infinitamente tutti i logoi teologici dei quali siamo capaci. Tenere davanti allo sguardo questa lezione porta all’umiltà che non è umiliazione: consapevolezza del limite è già essere ‘oltre’. Accettare di dipendere, nel nostro dire, dalla Parola è rendersi fecondi alla ininterrotta seminagione dell’Altro.
Nasce Gesù e la Parola valorizza pienamente l’umano, le sue dimensioni: ‘visive, linguistiche…’.
Il Natale è la festa della Parola che rende sensato cercare parole per esprimere, non il mistero, ma il nostro atteggiamento di fronte ad esso. Vorrei, dunque, concludere con una lunga, ma illuminante citazione di Bonhoeffer dedicata al Natale affinché anche i discorsi che seguiranno la mia introduzione al dibattito siano pieni della fragranza di ciò che è appena nato; affinché discorsi nuovi non dimentichino di avere un cuore antico:
Di fronte alla mangiatoia di Betlemme non vi erano sacerdoti, né teologi. Eppure tutta la teologia cristiana ha la sua origine nel miracolo dei miracoli, nel fatto che Dio si è fatto uomo. La sacra teologia nasce piegando le ginocchia in adorazione del mistero del bambino divino nella stalla. Senza la santa notte non vi è alcuna teologia. «Dio si è rivelato nella carne», il Dio – uomo Gesù Cristo, questo è il santo mistero che la teologia è chiamata a conservare e a preservare. Che incomprensione, quella per cui la teologia sarebbe chiamata a risolvere il mistero di Dio, così da abbassarlo al piano della saggezza umana, priva del mistero e banale! Invece è proprio questo il suo compito: preservare il miracolo di Dio come miracolo, comprendere, difendere, glorificare il mistero di Dio come mistero. Così e mai in modo diverso lo ha inteso la chiesa antica, quando rifletteva, con zelo e fatica, attorno al mistero della Trinità e alla persona di Gesù Cristo (…). Se il tempo di Natale non è in grado di accendere in noi un rinnovato amore per la teologia, così da essere costretti a riflettere con raccoglimento sui misteri di Dio, presi come siamo dal miracolo della mangiatoia dove sta il Figlio di Dio, allora vuol dire che l’ardore dei misteri divini è sparito anche dai nostri cuori.
[1] Il capitoletto secondo l’ho allestito vendemmiando citazioni da un libro – quasi una antologia di preghiere – uscito dalla enorme erudizione di un biblista italiano. Ne raccomando la lettura integrale perché può valere anche come testo di meditazione: g. ravasi, Preghiere. L’ateo e il credente davanti a Dio, Mondadori, Milano 2000. Per dotarsi di una visione più ampia e strettamente legata al nostro tema trattato a volo d’uccello nel primo capitolo, si vada a e. comba, Antropologia delle religioni. Un’introduzione, Editori Laterza, Roma – Bari 2008.
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