L’uomo trova che non questo, non quello determina la direzione di marcia. La costante negazione sembra (…)sfociare all’inizio e alla fine in quello che diciamo il nulla. In tal modo l’uomo si interroga sul nulla e si spinge al di là del nulla. Cerca qualcosa di più. (H. Waldenfels).
* Il poeta Giorgio Caproni parlava di guerra d’unghie, vana, perché mai nessuno riuscirà a perforare il muro della terra. Gettare lo sguardo oltre il fenomenico appare impossibile, come dirà anche Montale, in ‘Meriggiare pallido e assorto’: in cima al visibile, ammette amareggiato il poeta, semmai vi giungessimo, cocci aguzzi di bottiglia impediscono l’accesso all’invisibile e, così, rasentiamo sempre soltanto la muraglia del fenomenico. Eppure, la ricerca continua perché l’uomo, come canta Rilke, è simile ad un tempio di cui non si vede mai la cupola. L’Oltre, però, apre da Sé un varco all’anima religiosa attraverso la Parola. Agostino , a tal proposito, osservava che abbiamo ricevuto ‘lettere’ (le Sacre Scritture) dalla ‘città celeste’ “verso cui siamo pellegrini”.
* Riconoscersi pellegrini verso l’Oltre genera una nostalgia della Patria celeste che possiamo cogliere anche sulla bocca dei lirici che, diceva una poetessa, non possiamo dire sia impazzita perché nomina spesso l’eternità. Nei canti aztechi precortesiani già ci si struggeva di malinconia in quanto esiliati nella peritura carne bramante l’assoluto: Dov’è mio cuore, il luogo della vita?/Dov’è la mia vera casa?/Dov’è la mia vera dimora?/Io soffro qui sulla terra! Secoli dopo, una voce poetica, griderà: io voglio essere eterno! (Jimenez). Per il cristiano, anelare alla Patria celeste, non è cercare qualcosa di vetusto, che è stato e non è più, bensì respirare in una atmosfera sempre fresca, giovane. Per J. H. Newman il cristianesimo non invecchia perché è verità vivente e va cercato nella nostra fede, non essendo “uno squallido tema di ricerche archeologiche”. Se la verità del cristianesimo è sempre viva, altrettanto lo è la nostalgia che vuole ricondurci al suo nucleo vitale.
* Verso dove dirigere il cuore credente? Agostino commentava la frase che il sacerdote pronuncia durante la Santa Messa , in alto i nostri cuori. Per i cristiani, “tutta la vita è cuore in alto. Che vuol dire (…)? Speranza in Dio, non in te stesso”. Significa vivere di nutrimenti celesti e non, come recita il titolo di una opera dell’ateo Gide, di nutrimenti terrestri. Al sacerdote, rispondiamo che i cuori sono rivolti al Signore. Ammonisce Agostino: “Fate in modo che la risposta sia vera (…)e non succeda che la lingua parli e la coscienza neghi”. Non lingua sonet, et conscientia neget. Non si tratta di ripetere pedissequamente una formula, ma di attivare una reale predisposizione a ricevere ciò che ci caratterizza e ci costituisce dall’alto, che è dono di un Altro.
Ma perché accendere questa predisposizione? Simone Weil parla di energia trascendente che ha la sorgente in cielo; basta desiderarla perché venga a noi e si traduca in azione per mezzo dell’anima e del corpo. È un alimento assolutamente da desiderare. Appena ne facciamo richiesta, “per il fatto stesso che la chiediamo”, sostiene Simone, diveniamo certi che Dio la concede! Nemmeno un giorno dobbiamo accettare di privarcene perché – conclude la Weil – “quando i nostri atti vengono alimentati soltanto da energie terrene, sottoposti alle necessità di quaggiù, non possiamo fare e pensare che il male…”. Siamo piante terrestri le cui radici affondano nel cielo.
* Il ‘fine’, la piena umanizzazione dell’uomo è la realizzazione di sé; cioè, coltivare le virtù al massimo grado. Ma qual è il Termine Ultimo che funge da modello? Dio! Gregorio di Nissa afferma che la virtù perfetta è Dio stesso! Dunque, chi vuole ottenerla “sarà coestensivo all’infinito e non conosce riposo”. Alimentarsi di energia trascendente è compito sempre in fieri. Dobbiamo essere perennemente in ricerca e scavare la superficie del fenomenico per vedere se non si apra una feritoia attraverso la quale scorgere brani di eternità. Gregorio di Nissa, perciò, esortava a non stancarci “mai di guardare, come se nulla avessimo mai visto (…). La capacità dell’udito, che riceve un discorso riguardante qualsiasi argomento, non è tale da essere colmata. Non si troverà mai un discorso che esattamente racchiuda in sé stesso ciò che cercava”. Se il telos, il compimento del nostro processo di umanizzazione è Dio, l’uomo si configura come Homo viator (Marcel).
* Lutero paragonava chi non ha fede ad un uomo che non riesce ad attraversare il mare perché, colmo di spavento, non si fida della solidità della nave. Il risultato è che rimane dove si trova, paralizzato spiritualmente: “non si salverà mai, perché non vuole salire a bordo e attraversare il mare”. Il pellegrinaggio verso Oltre richiede coraggio ed abbandono alla fede che, per chi prova timore e tremore di fronte a Dio, appare fragile zattera, non solida nave. Il fatto, però, è che rimanere dove ci si trova conduce al rifiuto della salvezza. Sentirsi liberi dall’ansia dell’Oltre non è vera libertà. Goethe affermava che la volontà di negare ciò che ci supera non ci rende liberi; a renderci tali, piuttosto, è “il fatto di onorare qualche cosa che è al di sopra di noi”. La fede fa intuire che Dio è benevolo verso le nostre paure e ci viene incontro se pure in maniera larvata ne abbiamo desiderio. Mauriac diceva che c’è sì un ‘abisso’ tra la nostra misera condizione umana e l’Agnello di Dio, ma la misericordia può colmarlo! In fondo, il limite delle possibilità umane non equivale neppure lontanamente al limite delle possibilità di Dio (Hans Weder). Occorre tenere accesa la speranza nella misericordia di Dio affinché trasformi la nostra fede, da insicura zattera, in solida nave. In ebraico ‘speranza’ si dice tiqwah che significa anche ‘filo’ e richiama l’immagine di una ‘corda tesa’. Chi spera è teso verso il futuro, ma a partire da dove si trova. Come diceva Padre Chenu, l’avvenire è una dimensione del presente. Ma anche il futuro, l’Oltre, può partorire il presente.
* Sembrerà incredibile, ma il futuro suscita il presente; l’Oltre origina l’hic et nunc! Giovanni Vannucci, durante una conferenza, riportò un aneddoto. Un ambasciatore cinese a Parigi ricordò che, della sconfitta di un loro generale, si dava questa spiegazione: il giorno dei suoi funerali non sono state adempiute alcune cerimonie rituali. I presenti risero: come pensare che un evento futuro condizioni un fatto passato? Era presente anche il teologo – geologo gesuita Teilhard de Chardin, che disse: ‘No, l’ambasciatore ha ragione’. Padre Vannucci sostenne che è frequente che si capisca dopo anni il perché di un incontro, della lettura di un libro…Si tratta di pensare con la categoria del tempo vitale che “non parte dal passato verso il presente, ma parte dal futuro verso il presente. Il seme che cresce nei nostri campi – citava ad esempio – (…): perché sviluppa ora le sue radici? Perché c’è il tempo vivente che lo chiama dal futuro, e il grano che cresce ‘sogna’ (…)la spiga che un giorno riuscirà a raggiungere nella sua maturazione. Il presente è una risposta nella vita concreta, nel reale, agli appelli che ci vengono dal futuro”. Il cristiano deve avere memoria del futuro: l’uomo che ha fede è un seme che lotta per svilupparsi chiamato da ciò che diventerà; è seme che non vuole marcire, perché sa che il suo non è – grazie alla promessa di Cristo – un futuro di morte, ma di Risurrezione! Come la spiga è il compimento del seme che geme e soffre sottoterra per svilupparsi, così la Risurrezione è il futuro, l’Oltre dell’uomo. Il cristianesimo, ricordava polemicamente Ferruccio Parazzoli, è una religione di corpi, non di fantasmi o di anime spoglie e rilucenti: ci è stata promessa, infatti, la risurrezione dei nostri corpi “così come sono, gloriosi e miserabili”.
* Affinché quanto detto abbia senso, occorre esercitare una opzione: volere davvero andare oltre la humana conditio vincendo la paura di attraversare il mare del fenomenico sulla nave della fede, per riprendere la citata metafora di Lutero. Teilhard de Chardin affermava che la realtà superiore del mondo soprannaturale si rivela solo a chi ha l’audacia di ‘deciderla vera’; a chi si sforza, cioè, di costruirla in se stesso! Visione ed azione di fede, insomma, si tengono per mano. Cristo, diceva Teilhard, va sperimentato; dobbiamo sceglierLo, farne l’opzione fondamentale. Si ridurrà a fantasma se non andremo verso di Lui “senza esitare”. Se consideriamo Cristo più reale di ogni altra cosa, continuava il gesuita francese, e Lo cercheremo al di sopra di tutto, diverrà “la più solida realtà che vi sia” sperimentabile “come sempre più reale, indefinitamente”. Le apparenze del mondo rimangono inalterate, ma chi crede “penetra in una sfera del creato in cui le cose, pur conservando la loro struttura abituale, sembrano fatte di un’altra sostanza. Tutto rimane immutato nei fenomeni, eppure tutto diventa luminoso, animato, amante…”. Non c’è più bisogno, a questo punto, di combattere, come Caproni, una vana guerra d’unghie a scavare la superficie della terra perché l’Oltre Lo si incontra innanzitutto lasciandolo accadere.
* Von Balthasar afferma che la Chiesa vive sia oggettivamente che soggettivamente. Nel primo caso, come istituzione, nei suoi sacramenti; nel secondo, invece, nei santi, nei fedeli. Vive, però, soprattutto “nell’interscambio cielo – terra: (…)dal cielo verso la terra e dalla terra verso il cielo”. La Chiesa è un tra salvifico perché salva la memoria di Dio senza rinunciare all’attenzione per il mondo, per l’uomo. È la memoria dell’Oltre che rende abitabile la terra. Teodosio, vescovo di Edessa, amava dire che se sbiadisce in noi il ricordo di Dio si inaugura nell’interiorità lo spazio per “il tumulto delle passioni”. Per fortuna, malgrado i nostri limiti, l’Oltre ci raggiunge nella Parola/Cristo e nelle parole delle Scritture. Ammetteva, stupito, Bonhoeffer: “È un grande miracolo che la parola eterna di Dio onnipotente cerchi abitazione in me”. Può mutare il modo di recepire l’Oltre, cambiano le forme con le quali ne discutiamo, ma esso resta inalterato, incorruttibile! Il teologo di fede battista Harry Emerson Fosdick scrisse nell’autobiografia che cambiano le astronomie, ma le stelle restano come sono. Rintracciava in questo una analogia con la religione: “Nessuna teologia esistente può essere una formulazione finale della verità spirituale…Quello che ho fatto (…)farei ancora e cercherei di farlo meglio: credere sia nelle stelle che permangono sia nelle astronomie che mutano”. Anche la Chiesa , per animare una tensione salvifica, deve collocarsi tra l’immutabile insegnamento divino e le mutevoli esigenze del mondo.
* Don Giussani, in una conversazione, citò Kafka: C’è una meta, ma non una via. Anche il più lucido pensatore, il più angosciato esistenzialista intuisce l’Oltre! È come se, continuava Giussani, il mondo e la storia fossero una pianura molto estesa popolata da ditte, imprese edili specializzate nella costruzione di strade e ponti per tentare di collegare “il momento effimero” nel quale vive l’umanità “e il cielo trapuntato di stelle”. Una voce, però, invita tutti a fermarsi ammonendo che, per quanto possano essere validi costruttori, una distanza incolmabile rimane tra noi e “la stella ultima del cielo”, tra noi e Dio. L’uomo che ha così parlato, poi, li esorta a seguirlo perché, afferma, io vi costruirò il ponte, “anzi io sono questo ponte! (…)io sono la via, la verità, la vita!”. Qui si fa riferimento alle parole che Cristo pronuncia nel vangelo di Giovanni (14, 6). Eccola la Via che Kafka diceva inesistente. Se a noi, ora, provoca Giussani, quell’uomo dicesse le stesse cose, come reagiremmo? Insomma, “cosa fareste, cosa direste? Scettici quanto possiate esserlo non potete non sentire il vostro orecchio attirato da quella parte”. Il futuro della meta che ci attende provoca l’ascolto nel qui ed ora. Alcuni giudicheranno pazzo l’uomo che accampa la pretesa di essere il ponte che collega all’Oltre mentre altri, aggiunge Giussani, gli daranno credito e lo seguiranno. “Su centoventi milioni” quelli che si fidarono ed ascoltarono “erano dodici”! Il fatto che gli diedero retta è un dato storico, è accaduto. Che Kafka, ed altri con lui, affermino che ‘nessuna via’ porta alla meta ultima, vale sul piano teorico, non su quello storico. Conclude Giussani: “Il mistero non si può conoscere! Questo è vero teoricamente. Ma se il mistero bussa alla tua porta…‘Chi mi apre io entro e vengo a cena con lui’(Ap 3, 20); sono parole che si leggono nella Bibbia, parole di Dio nella Bibbia. Ma è un fatto accaduto”. Sì, la pretesa di Cristo di essere Via all’Oltre, il Ponte verso Dio è storicamente accertato che è stata da alcuni presa sul serio!
* Martin Luther King, ne La forza di amare, racconta di un viaggio in India con la moglie. Erano nello stato di Karala e visitarono la riva di Capo Comorin, dove si incontrano l’oceano indiano, il mare d’Arabia ed il golfo del Bengala. Su una grande roccia affacciata sull’oceano, assistettero al definitivo tramonto del sole. Martin si guardò intorno e vide la luna, “un’altra sfera di scintillante bellezza”. Il sole sprofondava nell’oceano e la luna appariva. La terra, a tramonto ormai avvenuto, era avvolta nella tenebra ma, ad oriente, mitigava il buio il lucore lunare. Martin disse alla moglie che quello spettacolo naturale era una metafora della vita. Infatti, come il buio del dopo tramonto oscura la terra, così le speranze infrante causano oscura disperazione e lo spirito vi si smarrisce: “Ma da sempre, di nuovo, guardiamo verso oriente e scopriamo che là vi è un’altra luce” a fugare le tenebre. La lancia del disinganno si converte in una freccia di luce. La vita, secondo Luther King, sarebbe impossibile se Dio avesse una unica luce; per nostra fortuna, invece, ne ha due: “una (…)per guidarci nello splendore del giorno, quando le speranze sono realizzate e le circostanze sono favorevoli, e una (…)per guidarci nelle tenebre”. La compagnia dell’Oltre è assicurata sia nelle luminose vittorie e nei momenti di olimpica serenità, sia nel tenue splendore lunare dell’intuibile speranza quando tramontano certezze. Per credere alle due luci, però, occorre affidarsi all’Oltre con la stessa fiducia con la quale un bimbo si affida alla madre nei momenti in cui ha timore di qualcosa o di qualcuno. Farsi piccoli di fronte all’Oltre è la sola possibilità di rimanere sereni. Un amico del presidente degli Stati Uniti Theodor Roosvelt raccontava che non di rado la sera quel potente uomo diceva: ‘Usciamo, andiamo a guardare le stelle’.Fissava lo sguardo su una nebulosa nella costellazione di Andromeda difficilmente visibile ad occhio nudo e concludeva: ‘Questa galassia è formata da centinaia di milioni di stelle, altrettanti soli, e di queste galassie ce ne sono milioni e milioni nell’Universo’. Poi, con l’anima colma di stupore, concludeva: ‘Ecco, ora siamo abbastanza piccoli, possiamo andare a letto’. Di fronte all’Oltre l’anima deve farsi piccola, ricettiva, bambina. Solo così si accetta, senza avvertire dolore nell’amor proprio, che dipendiamo dall’Altro. Il filosofo Aldo Masullo affermava che è veramente adulto chi non teme di essere bambino e, se ci rendiamo conto di non essere soli “nell’infinità dell’essere” ci rifugiamo, senza vergogna, “nella ‘tenerezza del Dio diverso’ potendo così rifiutare tutte le inique e avvilenti protezioni del mondo”.
* La filosofa ebrea Simone Weil scrisse una poesia nel 1941, Il Mare. Esso è docile al limite e silenziosamente sottomesso alle leggi naturali. È una massa offerta al cielo perché corrisponde al volere divino; è, dunque, uno specchio d’obbedienza: accetta senza condizioni di non estendersi oltre il consentito! Chi limita, dice altrove Simone, è Dio, ‘misura di ogni cosa’: Lui “impedisce al mare di andare più lontano di quanto non debba”. Così, prosegue, deve accadere per il nostro mare interiore: “Dobbiamo essere obbedienza perfetta perché non siamo Dio (…). In noi l’illimitato deve essere docile al limite, come il mare. Il limite viene da altrove”. La Weil ritiene la categoria Oltre garante affidabile contro il peccato di hybris. I greci, era sua convinzione, con la poesia, la filosofia e le scienze non fecero che lanciare ponti “tra la miseria umana e la perfezione divina”. Ma tutto è inutile se l’Oltre non si concede per grazia. A volte, scrive Simone, ci comportiamo come se fosse possibile elevare l’anima saltando continuamente a piedi uniti sperando che ciò – andando sempre più in alto – consenta, un giorno, invece di ricadere, di “salire fino al cielo”! Impegnati in questo sforzo mai premiato, proprio il cielo non lo guardiamo più: “la direzione verticale ci è preclusa”. Quale atteggiamento, allora, consiglia Simone ? “se guardiamo a lungo il cielo – propone - , Dio discende e ci rapisce (…)facilmente. Come dice Eschilo, ‘ciò che è divino è senza sforzo”. Volendo riprendere la weiliana metafora acquatica per esprimere il rapporto dell’uomo con il mistero e con il limite, potremmo citare le incoraggianti parole del teologo Cristoforo Charamsa: “Davanti al mistero, l’intelligenza del cristiano non si spegne, non fugge (…)la ragione non sbatte contro un muro, ma si espande come in un mare. Non può attraversare l’oceano, ma può conoscere la direzione in cui si muove la barca”.
* Heiler, studiando le religioni dell’umanità, rileva che miti e culti dei popoli primitivi mostrano “fede nel cielo” perché colpiti dalla sua vastità; dalla pienezza di luce (legame sole ed astri notturni); dalla relazione cielo/pioggia (che rende feconda la terra). Da ciò discendono “la profonda venerazione e il timore di fronte al cielo”. Esso è nel nostro destino! Anche se saltando verso di esso o fissandolo non risolveremo alcunché, vi aneliamo per intuire almeno l’Assoluto. Von Balthasar sosteneva che l’anima avverte Dio come il cieco il sole: senza vederlo! Rilke affermava che siamo nostalgia e desideri. Se la prima deriva dal vivere nella piena e non aver patria dentro il tempo, i secondi sono un dialogo sommesso di ore quotidiane con l’eterno. Viviamo pienamente nel tempo che non è la nostra vera patria e, pensandola con nostalgia, la desideriamo fino a fare delle ‘ore quotidiane’ un ininterrotto dialogo con l’Eterno; un dialogare in sordina perché possibile solo ricorrendo ad accenni e tremanti parole. La distanza dall’Oltre non annulla la relazione con esso. Scriveva Martin Buber che Dio è l’infinitamente distante, ma “neppure l’uomo più lontano da Dio può togliersi fuori da questo rapporto reciproco”.
* Sant’Antonio di Padova richiama una nozione di scienze naturali riguardo alle conchiglie marine ed alle perle che contengono. Si dice che, in determinati periodi dell’anno, hanno bisogno della rugiada che scende, goccia a goccia, col chiarore della luna. Quando ciò si verifica, le conchiglie si aprono affinché le valve aspirino “l’umore desiderato”. Le perle sono bianche se le gocce di rugiada cadono pure; rossicce o pallide se le gocce sono torbide; così, dice Antonio, le perle “sono generate più dal cielo che dal mare”. Appariranno come deciso da qualcosa che viene da oltre! Ricevendo la rugiada al mattino, poi, le perle saranno più bianche; con quella serale, invece, presenteranno un colore più scuro. Più rugiada dall’alto le investe, più le perle saranno belle. Le conchiglie si collocano tra gli scogli per sfuggire ai pescatori e, se il sole scotta troppo, si chiudono e si gettano in mare. Qual è l’insegnamento morale che da ciò si ricava? “le conchiglie, così chiamate perché sono concave, sono i penitenti poveri e umili in spirito che si nascondono nella concavità; cioè nell’umiltà del cuore. Hanno anche sete di rugiada come di uno sposo. Si dice infatti: l’anima mia ha sete di Dio, fonte della vita. La rugiada della grazia celeste feconda come uno sposo, col proposito delle buone opere”. Il retto agire, se entriamo nella concavità dell’umiltà del cuore, è una perla che acquista maggior biancore, purezza se si lascia visitare dalla rugiada celeste che è dono dell’Oltre.
* Pascal dice che siamo in un punto di mezzo: dagli estremi siamo sempre distanti. Essere leggermente più intelligenti degli altri porta a capire “le cose un po’ più dall’alto”, ma le distanze dall’Oltre restano enormi. L’inquieto cuore, però, si sforza di arrivare quanto più vicino all’Assoluto. Il poeta indiano Tagore ricorreva a queste espressioni: “Sono irrequieto. Sento nostalgia di cose lontane”. Ed invocava: O grande ‘Al – di – là’. Questo poeta ricco di spiritualità insegnava che, quando diciamo l’infinito è irraggiungibile, il verbo ‘raggiungere’ non ammette l’idea di possesso. La più alta felicità, a suo dire, è in un acquistare che, allo stesso tempo, è non acquistare. Precisava anche che non possedere l’essere infinito non è convinzione intellettuale, ma qualcosa da sperimentare e questa esperienza è felicità. Ricorreva, per esemplificare il suo pensiero, ad una bella immagine: “L’uccello, volando nello spazio, sperimenta ad ogni battito d’ali che lo spazio è illimitato e che le sue ali non potranno mai portarlo al di là. E in ciò consiste la sua gioia. Nella gabbia il suo spazio è (…)sufficiente appena per le esigenze della vita di un uccello, ma non ha più del necessario. E l’uccello non può essere lieto, entro i limiti del necessario (…)ha bisogno di sentire che ciò che possiede è incommensurabilmente più di quanto possa mai volere o afferrare, e solo allora può sentirsi felice”. Chi non sperimenta l’infelicità per il suo rimanere entro i limiti del necessario finisce col realizzare, pagando un prezzo troppo alto, la sentenza di Novalis: cerchiamo l’assoluto, ed invece ci aspettano le cose.
* Romano Guardini scrisse che quanto esiste è reale, essenziale ma, allo stesso tempo, lascia intuire di non essere qualcosa di definitivo. Le cose valgono – insisteva – solo come punti di passaggio ed in esse traspare l’elemento veramente definitivo autentico; le cose ne sono soltanto le forme espressive. La non ‘definitività’ degli enti giustifica la speranza nell’Oltre. Yankélévitch riteneva che il nostro autentico ‘problema filosofico’ consiste nella riflessione sui fini del tempo e non sulla fine; non ci deve, dunque, preoccupare la fine della storia, bensì i suoi fini perché “i fini smentiscono la fine”. Ammettere l’Oltre evita gli scogli del pessimismo, anche sul piano storico. Ma è da qui che bisogna partire, dalla nostra condizione mortale! Benjamin, in una lettera del 17 aprile del 1931, inviò ad un suo interlocutore una metafora: siamo come naufraghi che possono solo opporre alle loro vicissitudini il salire, con fatica, sulla cima dell’albero fradicio della disastrata imbarcazione. Da quella postazione precaria, tuttavia, si dà la sola “possibilità di dare un segnale” che potrebbe salvarci. Quando naufraghiamo nelle situazioni disperate della vita, proprio sui frammenti sanguinanti degli amari momenti esistenziali ci eleviamo per invocare l’Oltre. Lo scrittore Corrado Alvaro affermava che l’uomo non si conosce abbastanza per misurare quello di cui ha bisogno; eppure, sente che, più che il bisogno, ha il desiderio dell’Oltre. Nel racconto ‘La notte insonne’, Alvaro descrive lo stato d’animo di un uomo in preda ad un delirio d’amore: “inutile bere acqua, inutile ubriacarsi di vino, inutile uscire, inutile rotolarsi sul letto”. Nulla in questo mondo di apparenze placa la sete. Conclude il personaggio di Alvaro: “I pensieri camminavano pel mondo assetati di una sete divina”. Aveva ragione Guardini: le cose sono solo punti di passaggio…
* Nel 1954 lo studioso cattolico di Filosofia del Diritto, Giuseppe Capograssi, tenne un discorso in Campidoglio nel quale enunciò quelli che, a suo dire, costituiscono i tre bisogni fondamentali dell’uomo contemporaneo: 1)eguaglianza – giustizia; 2)amicizia – sorriso; 3)speranza nell’assoluto. Batté la mano sullo spigolo del tavolo e precisò che se vengono garantiti i primi due bisogni non si è ancora fatto nulla di veramente importante. Inascoltata rimane la richiesta di senso di fronte alla nostra finitezza. Qui si sperimenta una disperazione che, tuttavia, ha di positivo che conduce a guardare Oltre: “Il momento della disperazione è il momento della più perfetta chiaroveggenza dell’uomo sulla vita (…)è il momento del grido a Dio, che supera il finito e che può salvare dal finito (…). L’individuo si ricorda di Dio (…). Il grido col quale l’individuo chiama di là dal finito Dio in aiuto, è già di per se stesso l’aiuto che Dio comincia a dare all’individuo”. La disperazione che appella all’Oltre è già un riscatto dal finito. Diceva Cioran, non credente, che l’esserci dedicati da tanto tempo all’assoluto si giustifica col fatto di non aver trovato da soli “un principio di salute”. Con l’acuirsi della fame di senso acquista drammaticità, ma anche credibilità, la dialettica qui/Oltre. Cercare oltre il finito un principio di salute (salvezza)è la nostra miseria, ma anche la missione che ci fa grandi. Agostino diceva che “altro è vedere la terra della pace da una cima boscosa…e altro è seguire la strada che ad essa conduce”. La contemplazione dell’Oltre non è sterile evasione soltanto se sperimentiamo, costi quel che costi, l’azione nel qui ed adesso.
* Origene, scrisse: “Crediamo che la bontà di Dio richiamerà in un unico fine tutte le sue creature mediante il suo Cristo”. Nella visione escatologica della storia, c’è la convinzione che saremo uniti a Cristo e non saremo più identità frantumate, scisse l’una dall’altra. La passione per l’Oltre vive di una attesa. Teilhard de Chardin sostiene che la nostra fede è cresciuta sempre guidata dalla fiaccola dell’attesa: quella del ritorno di Cristo (parusia). Molti avvenimenti, però, nel corso della storia “ci hanno lasciati delusi, e resi diffidenti”. Il gesuita francese, però, oppone che è inevitabile “ravvivare la fiamma” dell’attesa fiduciosa. La fonte che irrora questa fiducia è l’“attrazione sempre crescente esercitata direttamente dal Cristo”. Non è detto che, sul piano umano, l’attesa dell’Oltre renda disoccupati. De Chardin, puntualizza: “Il progresso dell’universo, e specialmente dell’universo umano, non è una concorrenza fatta a Dio”. Potremmo dire: l’andare oltre sul piano orizzontale (storico e personale)non deve tradursi in una dichiarazione di guerra all’Oltre verticale. Si tratta, piuttosto, di innestare negli sforzi orizzontali il seme cristiano. Conclude Teilhard: “Per desiderare la parusia (il ritorno di Cristo), dobbiamo unicamente lasciare battere in noi, cristianizzandolo, il cuore stesso della terra”. Non sfigurare il mondo per animare sterili fughe in ascesi improvvisate, ma trasfigurarlo perché divenga degno di essere il luogo dell’Oltre che Cristo tornerà a visitare.
* Origene, nelle Omelie sull’Esodo, rifletteva sul comporta mento degli ebrei che, di fronte alle minacce del deserto, rimpiangevano la schiavitù in Egitto. Vero è il contrario: “Chi muore nel deserto, per il fatto stesso che ha lasciato gli egiziani e si è allontanato dal ‘Signore delle tenebre’ e dalla potenza di Satana, ha già fatto qualche progresso, anche se non ha potuto giungere alla piena perfezione…”. Oltrepassando la soglia della sottomissione al peccato fa vivere già e non ancora il tempo escatologico. La vita spirituale, che ha come meta il congiungimento con l’Oltre, si realizza per passi, anche quelli apparentemente meno significativi. Si tratta, un po’ alla volta, di leggere dentro il mistero della fede; ecco cos’è l’intelligenza cristiana. Lo stesso Origene, d’altro canto, affermava: “Con l’intelligenza del mistero verrà edificata la mia anima”. È progredendo poco oltre nella comprensione della fede cristiana che mi avvicino all’Oltre. La vicinanza a Cristo è già un inizio promettente, ma ancora non basta! Agostino, infatti, insegna: “Quando diventiamo fedeli aderendo con la fede al Cristo, già cominciamo a camminare sulla via anche se ancora non siamo in patria”. Il già è costituito dal camminare sulla giusta via, il non ancora è la consapevolezza che l’Oltre è ancora assai lontano. Ad ogni modo, il cammino della fede cristiana valorizza enormemente l’esperienza e ciò riflette l’interesse che il cristianesimo ha per la storia dell’uomo. Più che ascoltare la Parola che giunge dall’Oltre, il vero cristiano, ne fa esperienza. Illumina, su questo tema, Anselmo d’Aosta: “Quando (…)l’esperienza supera l’ascolto, altrettanto la scienza di chi fa esperienza supera la conoscenza di chi ha solo ascoltato”.
* Per von Balthasar la provocazione dell’Oltre è inscritta in noi. Abbiamo nel cuore, dice, un mistero più grande di noi e, dunque, la ‘parola di Dio’ viene nell’uomo che “non ha bisogno di preparare prima artisticamente il suo interno”. Siamo il luogo già predisposto ad accogliere Dio. L’ospite santo, per usare una espressione del nostro autore, trova il Suo spazio in noi perché “c’è già, nell’intimo dell’uomo, da tempi immemorabili”. Ne siamo consapevoli? A volte avvertiamo una forza che ci trascende e ci conduce a pensare e guardare oltre noi stessi e pare naturale ripetere le parole del teologo Heinrich Kemner: “Noi non spingiamo, siamo spinti”. Chiesero al filosofo ateo Bertrand Russell come avrebbe giustificato la sua miscredenza se si fosse trovato al cospetto di Dio. Rispose: “Gli direi che non ci sono prove sufficienti”. Chi si radica in una posizione razionalista e la difende ad oltranza non coglie altri segni, altre tracce dell’Oltre fuor dei recinti della logica. Quando Barry McGuire si convertì volle convincere anche un suo caro amico che Dio è reale. Chiese consiglio, perciò, ad un sacerdote dal quale attendeva finezze teologiche. In realtà, ricevette questo unico suggerimento: “Digli di fare una passeggiata e guardarsi intorno”. Se leghiamo la risposta di Russell a questa del sacerdote, abbiamo che il primo vuole fondare, ovviamente fallendo, sulla propria ragione la fede, mentre il secondo invita ad andare – già sul piano fenomenico – oltre. Chi ha gli occhi rivolti dentro se stesso vede solo l’io o, peggio, l’ego; chi proietta ‘oltre se stesso’ lo sguardo (fisico e mentale) coglie indizi, tracce, semi del Verbo, orme di Dio. Non è svalutando il mondo e supervalutando l’intelligenza che si arriva a qualche risposta nel campo della fede. L’intorno è buona base di partenza verso l’Oltre. Quando ci prepariamo a ‘certe ricerche’ va meditato il consiglio di C.S. Lewis che, dopo travagliate riflessioni ed esperienze, si aprì alla fede cristiana: “Non c’è niente di buono nel tentare di essere più spirituali di Dio. Egli ama la materia”.
* Vivere radicati nel mondo, ma sempre aperti a quanto irraggia l’Oltre. Vale per la Chiesa e per ogni credente. Il teologo luterano Bonhoeffer, impiccato dai nazisti, tenne un sermone sul secondo libro delle Cronache (20, 12). In quel passo, il re di Giuda, Giosafat, si prepara a combattere contro gli Ammoniti ed i Moabiti e sa che l’impresa è disperata. Si rivolge, dunque, a Dio: ‘Non sappiamo che fare; a Te sono rivolti i nostri occhi’. Il re ammette, dunque, i propri limiti! Bonhoeffer considera che sarebbe poco piacevole per noi se, in una situazione difficile per il nostro paese, chi ha responsabilità amministrative confessasse così candidamente la propria debolezza. La Germania e l’Europa, quando il sermone venne pronunciato, erano rette da capi che non sapevano come opporsi al dilagare del fenomeno nazista. Per il teologo luterano il torto peggiore fatto ai cristiani del suo tempo era quello di aver fatto loro credere che la ragione ed il progresso fossero in grado di elaborare strategie per scongiurare il terrore imminente. Siamo, diceva il coraggioso predicatore, come immersi in un bel paesaggio che, all’improvviso, si ritrova avviluppato in una fredda nebbia; il sole si è oscurato e siamo restati “soli nella notte e nel freddo”. Questa era anche l’esperienza di re Giosafat ma egli dice a Dio guardiamo a Te! Dobbiamo imitarlo visto che non abbiamo “più niente di saldo sotto i piedi” e sappiamo che dall’alto veniamo “afferrati e tenuti sopra l’abisso senza fondo”. Come Giosafat la Chiesa luterana doveva decidere cosa fare di fronte alla minaccia nazista. Bonhoeffer, in una predica del 26 febbraio 1933, quando ormai Hitler era al potere, riprende un episodio del libro dei Giudici (6, 15; 7, 2; 8, 23). In esso, Gedeone deve salvare Israele oppresso dai Madianiti. Era della tribù di Manasse e batteva il grano nel frantoio per non essere venduto dai Madianiti. Il riscatto del popolo di Dio, dunque, affidato ad un debole, ad un oppresso? Riceve la missione, ma tentenna: ‘La mia famiglia è la più povera di Manasse, e io sono il più piccolo nella casa di mio padre’. Così la chiesa luterana al tempo di Hitler: è debole, può esercitare una scarsa influenza su quanto accade, eppure deve rispondere al gravoso appello di Dio e tentare qualcosa contro l’avanzata del male. Bonhoeffer sottolinea che, come Gedeone, sbaglierebbe la chiesa luterana a chiedersi smarrita ‘perché proprio io, debole, piccola?’; giusto, invece, è riflettere su quali siano e da Chi vengano i mezzi offerti per reagire al male. Si tratta di mettere al primo posto non i propri limiti, le nostre debolezze, ma la consapevolezza che la missione viene dall’Alto, da Oltre: “Non hai capito che (…)l’appello viene da Dio? Non ti basta (…)? Non scompaiono davanti a questo appello, se rettamente inteso, tutte le questioni dei ‘mezzi’?”. Il Signore dice a Gedeone di non temere: Lui lo accompagnerà. Conclude Bonhoeffer: “‘Io sarò con te’, cioè tu non devi agire ricorrendo a qualsiasi altro aiuto; dal momento che io ti ho chiamato, sarò con te e agirò”. Quando chiama, singoli o collettività, l’Oltre diventa compagno di strada.
* L’Abbé Pierre, durante una carestia in India, ricevette una lettera da una giovane volontaria svedese: ‘È così terribile!’ – scriveva – ‘È come una negazione di Dio!’. Sempre da quei desolati luoghi, però, giorni dopo, un amico scriveva al sacerdote francese: ‘In mezzo a tanto dolore i suoi volontari sono come il volto di Dio!’. Due commenti diversi alla stessa tragedia. Conclude l’Abbé Pierre: “Dipende da noi che la terra diventi assurda, insopportabile, o che, al contrario, la terra sia una speranza”. Far tralucere in questo mondo la Presenza , l’Oltre è qualcosa che dipende da noi. L’ amore per l’altro fa irrompere, anche fosse un bagliore, l’Altro. “Si deve amare l’umanità di Cristo – dice Hadewijch di Anversa – per giungere alla sua divinità”. Agostino, dal canto suo, insegna: “Cammina attraverso l’uomo e raggiungerai Dio”. Ecco i movimenti fondamentali di chi ha fede: 1)Cogliere nel Verbo l’umano incoraggia ad andare oltre fino alla sua divinità; non ci spaventa un dio che ha saputo essere uomo tra gli uomini. Si dà in questo caso un andare oltre, fino al divino, a partire dall’umano; 2)Conoscere ed amare l’uomo è una via da attraversare per andare oltre, fino a Dio. Commentando il racconto della creazione redatto dalla tradizione sacerdotale, Ravasi nota che, giunto alla creazione dell’uomo, il fine autore non ricorre più alla formula Dio disse – usata fino ad allora copiosamente – ma introduce “una microscopica ma significativa variante. Dio, dopo aver creato l’uomo, quando sta per dargli il suo destino non dice più: ‘Dio disse’, come diceva per tutte le cose, ma dice per la prima volta: ‘Dio disse loro’. Mettendo in scena il pronome personale ‘loro’ si vuole in qualche modo indicare che in quel momento Dio sta parlando con un’altra persona; non parla più con le cose cieche che appaiono. Ormai egli ha davanti una persona (…)comincia a stabilire un dialogo”. Dio, anche nel linguaggio, va oltre quando crea l’uomo e dal nominare passa al dialogare. Qui viene posto in noi il desiderio dell’Oltre.
* Agostino, nelle Confessioni, così prega Dio: “rivolgici a te (converte nos), mostraci il tuo volto (et ostende faciem tuam)”. Dio è Soggetto in entrambi i movimenti: deve dirigere il nostro sguardo su di Lui (converte nos)e deve farci il dono del Suo Volto (ostende faciem tuam). Se questo avviene, scrive Agostino, “saremo salvi”. La nostra anima, continua, si volge dove capita, ma fino a quando è fuori di Dio prova dolore; anche se “si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé”. La bellezza che non rinveniamo in Dio, non salva! Teresa di Lisieux diceva che il fine della santità è “fissare il Sole divino; il Sole dell’Amore”; fissare, cioè, lo sguardo nell’Oltre. E questo, faceva rilevare Agostino, è da chiedere a Dio. Non è che noi restiamo passivi fino a dovercene mortificare. Quello che conta è imparare ad affidarsi a partire dal finito, che è ben altro dal rassegnarsi nel finito! La spiritualità cristiana, per bocca di Ignazio di Loyola, ha saputo equilibrare i doveri del qui con la consegna dei nostri sforzi all’Oltre. Ignazio, scrive: “Lavorare, come se tutto dipendesse da me, e abbandonare tutto a Dio, come se tutto dipendesse solo da Lui”.
* Quando siamo di fronte alla Bibbia ci prepariamo a meditare, più che su fatti, su eventi. Carmine di Sante spiega che evento, etimologicamente, evoca il verbo e – venire ‘venire da fuori (ex)’: indica quanto, per un gruppo, un soggetto, una cultura giunge da altrove, da un Oltre indipendente dalla storia, dalla volontà ed intelligenza dell’io. È ciò che si offre, si dona apparendo all’io per sorprenderlo, stupirlo: “è sinonimo di irruzione – aggiunge di Sante – di ciò che ir – rompe dal di fuori, come il fulmine o il temporale e, irrompendo, rompe l’ordine o sistema costituito, ridefinendolo e creando un nuovo ordine”. L’evento che irrompe nella storia e rompe categorie di pensiero solide è la Risurrezione di Gesù. Si tratta di una irruzione dell’Oltre nella nostra finitezza per predisporla alla vita eterna. Se questo evento lo prendessimo sul serio, il mondo ne uscirebbe rinnovato. Bonhoeffer, nella Pasqua del 1944, scrisse una meditazione provocatoria per accostare la questione escatologico/soteriologica: “Un soffio d’aria nuova, purificante, può venire nel mondo contemporaneo (…)dalla risurrezione di Cristo. Qui sta la risposta al ‘dammi un punto d’appoggio e solleverò la terra’”. Se Archimede poneva, in questa esclamazione, un problema scientifico, il punto d’appoggio costituito dalla Risurrezione di Cristo interessa una richiesta di senso: il sacrificio della Croce e l’evento pasquale sollevano mondo ed uomo conducendoli, salvi, nell’Oltre, a Dio? Continua Bonhoeffer: “Se un paio d’uomini lo credessero veramente, e ne facessero derivare la loro azione terrena ne nascerebbero molte altre cose”. Se si tratta di sollevare il mondo verso l’Oltre, verso Dio, il punto d’appoggio deve essere piantato bene in terra: Cristo solleva tutto e tutti per andare al Padre, ma a partire da un luogo geografico identificabile. Non possono non stare assieme – in viva e feconda relazione dialettica – qui/Oltre. Tensione, dialettica che si convertirà in unità nell’Oltre? Qui si arresta la parola teologica e si entra nel mistero. Un sapiente ebreo disse che tutti gli insegnamenti dei saggi che l’avevano preceduto si contraddicono l’un l’altro, ma “sono veri nel cielo, perché nel cielo tutte le verità sono uno”…poi, però, aggiunse, vedremo! Di fronte a ciò che non è mero fatto, ma evento questa prudenza è d’obbligo.
* Bonhoeffer, nella meditazione della Pasqua 1944 appena citata, aggiungeva: “Vivere partendo dalla risurrezione: questo significa Pasqua”. Pasqua – lo sappiamo – vuol dire passaggio, andare oltre. Un altro teologo protestante, Karl Barth, insisteva nel collocare – pienamente - nell’evento pasquale la sacra cena. Non la chiama ultima cena perché la considera, piuttosto che qualcosa di luttuoso, anticipatrice del festino nuziale dell’Agnello. Essere ospiti alla tavola del Signore, precisa, non è immagine, ma avvenimento: qualcosa che e – viene, irrompe nel consueto e riscrive il senso e l’ordine delle cose. Infatti, per Barth, nutrendoci a quella mensa possiamo realmente “camminare nella forza di questo cibo”. Camminare non sottende il desiderio di andare oltre? Il seme della vita eterna è la speranza cristiana: “Unito come sono a Gesù Cristo, non mi trovo più ormai nel luogo ove domina la morte, poiché, grazie a lui la nostra carne ha già raggiunto il cielo”. Cibarsi alla sacra cena è unirsi a Cristo per camminare affinché si lasci il luogo in cui domina la morte e si vada Oltre; in questo modo, dunque, la nostra carne ha raggiunto il cielo. Se accogliamo nella maniera giusta la testimonianza della ‘sacra cena’, “viviamo fin da ora nella anticipazione dell’eschaton, in cui Dio sarà tutto in tutti”.
* Quando accadrà che Dio sarà tutto in tutti? Nessuno lo sa! Nel frattempo, occorre spendersi qui affinché si realizzino le condizioni per l’irruzione dell’Oltre. Che fare? Possiamo ispirarci ad un racconto di Wiesel. Narra di un antico saggio ebreo che percorreva le strade di Sodoma e gridava la sua protesta contro l’indifferenza verso il dolore umano e contestava che non ci si scandalizzasse per la malvagità. Un bimbo finanche, accortosi della inefficacia della sua azione, chiese perché si ostinasse a gridare nel vuoto. Il saggio, rispose: “Io non grido prima di tutto perché qualcuno mi ascolti; grido per impedirmi di ascoltare, io, la voce di questa indifferenza e di venirne persuaso (…)io grido per me, prima ancora che per loro; perché chiunque desideri interrogarsi a proposito di ciò che è realmente giustizia, trovi (…), nel senso di questo grido, il principio reale a partire dal quale la sconfitta dell’umano patire e della sua malignità incominciano”. In un mondo insensibile alle provocazioni dell’Oltre che chiedono ‘giustizia’, ‘bontà’, in una realtà sorda al Trascendente, dobbiamo continuare a gridare; se non per trovare ascolto presso gli indifferenti, almeno per non ascoltare noi le voci dell’indifferenza. Col grido verso Dio testimoniamo che Oltre c’è un Garante del Diritto e se l’indifferenza degli altri vorrebbe rendere vano lo sforzo, ricordiamoci che dobbiamo difendere anche noi stessi da quella indifferenza affinché uno spiraglio per l’irruzione dell’Altro rimanga aperta.
* Robert Baker, geografo australiano, a 39 anni si ammalò di cancro oltre a soffrire di epatite cronica attiva. Il tumore, però, fu preso in tempo. Ad ogni modo, confessò che gli stava a cuore che il dolore patito fosse parte del piano supremo che Dio pensa per le Sue creature. Erano passate appena due settimane dall’intervento chirurgico che allontanò la minaccia del tumore quando tornò alla scuola superiore dove, per gli auguri di Natale, si rivolse a oltre mille studenti “di cui solo una dozzina frequentava regolarmente l’associazione cristiana nella scuola. Un pubblico tosto! Parlai del termine ‘eternità’ reso famoso da Arthur Stace che, fino alla sua morte nel 1967, scrisse col gesso la parola ‘Eternità’ sui marciapiedi delle strade di Sydney”. Baker era duramente provato nel fisico e nel morale, ma non poté non parlare dell’Oltre, dell’Eterno! Racconta di Stace che, col gesso, una povera cosa, un materiale di scarso valore economico, riuscì, scrivendo sui marciapiedi della sua città, a rammentare l’Oltre ai concittadini. Tutti noi, che abbiamo mezzi poveri (linguistici soprattutto)per esprimere il nostro interesse per l’Eternità dobbiamo ricordarci anche della povertà ontologica di Mosè che salì sul Monte Sinai e che, come scrive Gregorio di Nissa, “si trovò nella caligine nella quale era Dio”. Personalizzando l’esperienza mosaica, Gregorio, continua: “Allora io possedevo l’amore per colui che desideravo ma l’oggetto del mio amore svanì fuggendo alla presa dei miei ragionamenti. Io lo cercavo infatti durante le notti, sì da conoscere quale ne fosse la sostanza, donde provenisse, dove terminasse, in quale condizione possedesse l’esistenza. Ma non lo trovai: lo chiamavo per nome, per quanto mi era possibile trovare un nome per colui che non è nominabile”. Prima di Cristo è questa la condizione del credente: Dio è assoluta alterità e la relazione si fonda solo su timore e tremore.
* Carlo Maria Martini ha riflettuto su Atti 2, 27 che contiene il primo discorso di Pietro a Gerusalemme. Gli uditori si sentirono trafiggere il cuore. Non è scritto ‘si sentirono convinti’, in quanto Pietro non ha parlato ricorrendo a sottigliezze dialettiche per suscitare negli altri un consenso necessario. Anche nel racconto della Passione si parla di trafittura: quella a danno del costato di Gesù e che Tommaso toccherà per superare la sua oligopistìa, vocabolo greco che il vangelo usa per indicare una ‘fede scarsa’. Toccato il costato di Gesù, l’incredulo seguace, ammetterà: ‘Signore mio e Dio mio’ – “come se quella trafittura si fosse, per contagio, trasmessa nel cuore di Tommaso”. Cosa vuol dire questo? Dove si vuole arrivare? L’essere feriti si lega all’incapacità di vedere la Verità , ma è bene rilevare che “la certezza della trafittura è ineliminabile, è chiara”. Se ci fosse nulla oltre la nostra ‘scarsa fede’, nemmeno sentiremmo il morso di questo amore struggente che ci chiama, ci provoca. Questo amore che ferisce, dice Martini, “non è sperimentato dal soggetto che ne assume coscienza (…); è invece ricevuto come dono”. Un cuore può essere colpito ed attraversato solo da una freccia che giunge da fuori, che viene dall’Oltre! Luca, infatti, nel passo studiato di Atti, scrive che la trafittura al cuore si sente: è patita, è irrompere di Altri. La ‘forza dell’Amore’ conferisce una energia che consente di guardare, senza terrore, “oltre il limite comune dell’attesa umana (…), la morte”. Sì, l’Amore ci fa credere che il nostro sguardo, atterrito inizialmente dal limite insuperabile, può guardare oltre, sperare nell’Oltre. Incalza Martini: “Che uno possa guardare senza mettersi le mani sugli occhi oltre il limite necessario e apparentemente insuperabile dell’esperie nza umana, è qualcosa che non cessa di stupirmi e di apparirmi (…)come un dono, come qualcosa che uno non si dà”. La fede, a questo punto, è come “una invasione dell’amore di Dio”, un irrompere dell’Oltre che rompe le abituali categorie di pensiero con le quali tentiamo di chiarirci il senso della nostra finitudine. Si tratta, però, conclude Martini, di un dono “molto sofferto”.
* Il Vangelo mostra che, di là delle ‘leggi di natura’, più della cura per le meraviglie del creato, Dio innanzitutto si prende cura dell’uomo. Dio opera a nostro favore fino a sospendere le leggi che ci vincolano nel tempo e nello spazio e, dunque, come scrive Martini, crediamo possibile collocarci oltre il limite comune dell’attesa umana, la morte. Il cuore cerca il senso oltre le proprie disperate convinzioni e riceve risposta dall’Oltre. Luca 7, 11 – 17, narra della vedova di Nain che sta per seppellire il suo unico figlio. Ebbene, Gesù ne ha compassione e, annullando le leggi di natura, risuscita il giovane! Questo insegna che Oltre ogni limite umano c’è un amore che trafigge e, con questa ferita, salva. Romano Guardini, commentando questo episodio lucano ne Il Signore, scrive: “Vi è una curiosa risposta al problema del modo in cui si prospetta, in fondo, la vita umana: nell’immensità dello spazio rotea un corpuscolo esiguo chiamato terra (…)e, minuscoli esseri, di nome uomini vi trascinano la loro esistenza. Il tutto dura un breve momento, poi ogni cosa è finita”. Questo è ciò che, a livello fenomenico, sappiamo della vita. Nell’avvenimento narrato da Luca, però, c’è un mutamento completo della situazione: “si vede chiaramente che per Dio quegli esseri insignificanti (…)sono più importanti di spazi incommensurabili e della Via Lattea, e che il breve tempo entro il quale la vita terrena si conchiude è più importante della serie infinita di anni che formano i calcoli dell’astronomia”. Di fronte al dolore umano, alla disperazione di una vedova che piange la fine del suo unico figlio, quanto sta oltre le nostre possibilità, leggi naturali e cosmiche, viene annullato per Amore: “Dio non sacrificherebbe mai un cuore umano per conservare in efficienza la nebulosa Sirio o Andromeda”. Tutto passa in secondo piano di fronte al pianto di una creatura su questo corpuscolo esiguo chiamato terra. Il qui che appella all’Oltre, per bocca della creatura stritolata nella morsa del dolore, scardina l’ordine cosmico grazie all’intervento divino che – irrompendo da Oltre – riscrive le nostre vicende all’insegna dell’Ordo Amoris. In questo brano lucano “si rivela chi è Dio: colui per il quale il destino umano ha tanta importanza. Non è il dio del sistema mondiale, non il dio astronomico. Anche questo, certo, ma questo non rappresenta che il trono della sua magnificenza (…). È il Dio del cuore”. Violando leggi di natura da Lui stesso emanate, il Dio del cuore mostra di tenere più all’appello disperato che sale da qui che all’ordine dell’ universo: “Cuore e destino di ciascuno di noi sono, visti da Dio, il punto centrale dell’ universo”. Il punto di vista di Dio sull’uomo ribalta le cose: la nostra posizione periferica rispetto al Tutto (ragionando scientificamente), diviene centrale (in prospettiva teologica). Conclude Guardini: “Devo dunque credere; credendo affermare questo vero significato che il mondo ha, malgrado le imperiose apparenze di tutto ciò che vedo”. È vero: le apparenze del qui dicono – imperiosamente – che non c’è altro. Ma credere è cercare nelle apparenze il loro vero significato certi che si dia! E questo, come mostra l’agire di Gesù a vantaggio della vedova di Nain, risiede nell’Oltre che, riscrivendo l’ordine cosmico come Ordo Amoris, salva.
* Vorrei concludere con una poesia, La barca, di Mario Luzi nella quale si canta, in forma di preghiera, la relazione inscindibile qui/Oltre. Non ha bisogno di commento, perché spero che ognuno di voi – credendo – ne scriva uno con la propria vita. Ricordo solo un aneddoto, prima di lasciarvi a questa illuminante lirica. Un pagano rideva del fatto che i cristiani osservassero i precetti di un solo libro. Un vescovo gli raccontò una storia. Un sapiente domandò a Gesù come possa un solo libro bastare in eterno a tante persone. Ne ebbe questa risposta: Dici il vero, ma il mio popolo quel libro lo riscrive giorno per giorno. Andare oltre, progredire con la Parola nella Parola e per mezzo della Parola è salire – evitando le paure degli apostoli rubricate in un noto episodio evangelico (cfr., Mt 8, 23 – 26) – sulla barca della fede per incontrare, già qui anche se non completamente, l’Amore che viene dall’Oltre. Ora lasciamo che Luzi ci inviti sulla barca della fede indicandoci la destinazione:
Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare,
volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.
Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che procede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.
Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.
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