Questo testo è la trascrizione di un intervento tenuto in una libreria di Pompei per celebrare l’uscita della nuova versione della Bibbia CEI. Ho ritenuto opportuno arricchire l’originaria esposizione con una serie di riflessioni tratte da opere del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer. Mi auguro che il volumetto sia una “provocazione a pensare” ed uno stimolo a ricercare motivazioni inattaccabili per approcciare la Bibbia in maniera autenticamente cristiana.
Meglio una Bibbia nel cuore che sullo scaffale – Ch. Spurgeon.
Durante la supremazia nazifascista, a padre Lambert, chiesero – per poterlo colpire - se fosse più importante la Bibbia o il “Mein Kampf” scritto da Hitler; ebbene, per niente intimorito, il fedele sacerdote, rispose: «Il Mein Kampf insegna l’odio, è parola d’uomo; la Bibbia è parola di Dio e insegna l’amore». Venne puntualmente giustiziato! Un padre sconosciuto del sesto secolo, lo pseudo – Macario, aveva anticipato il coraggioso martire: «La parola di Dio è Dio, la parola del mondo è mondo». Non disperante dicotomia, ma salvifica differenza. La Parola è la critica dell’uomo, del mondo, della Storia e, quando avrete tra le mani la nuova versione della Bibbia, pensate – in prima battuta – a quanto abbiamo appena esposto. Dare la vita per non mettere la Bibbia al secondo posto è coerenza spinta all’estremo, ma non si può rinunciare nemmeno a fare della propria vita un perenne rispecchiamento della Scrittura.
Di fronte al messaggio biblico dovremmo fare nostre le parole di Gandhi: il mio messaggio è la vita – avendo cura di aggiungere – alla luce della Parola! San Girolamo, istruendo per via epistolare un sacerdote, ricordava che non vi è fatica nel parlare, essendo sazi, del digiuno; ed aggiungeva: nel “sacerdote di Cristo” deve esserci accordo fra la coscienza e la parola. È superfluo sottolineare che l’insegnamento va ricamato anche sulla pelle di noi laici. Prima di proporre ad altri la Bibbia, accertiamoci che essa sia il nostro nutrimento irrinunciabile. Vale la formula inde pascor unde pascor di Agostino; questi, infatti, in un Suo “Discorso”, spiegava che la Parola offerta ai fedeli era il nutrimento del quale lui stesso viveva: metteva sulla tavola dei suoi ascoltatori alimenti dei quali lui stesso si saziava! Questo significa che, pur se in maniera figurata, tutti siamo chiamati a compiere, per fedeltà alla Parola, un sacrificio come quello di padre Lambert: dare tutto! Prima di sentirci davvero degni di accostare la Bibbia, dovremmo prelevare alcune parole dall’immenso granaio di espressioni forti donateci da Gregorio di Nazianzo: «Ho lasciato tutto il resto a chi lo vuole: la ricchezza, la potenza, la gloria […]; abbraccio solo la Parola». Chi non prende sul serio una simile dichiarazione e non mostra, con la propria vita, di renderla “qui ed ora” agente, meglio manchi l’appuntamento con la Parola; lasci pure – mi perdoni la titolare della libreria che ci ospita – la “nuova traduzione” della Bibbia sugli scaffali!
Vi invito – perché qui mi si consente di dispensare solo pochi grani di (spero) saggezza – ad accendere “due momenti” quando, a casa, aprirete la vostra copia della Bibbia. Li desumo, a garanzia della saggezza della tesi, da Isidoro di Siviglia. Leggendo, spiegava, «apprendiamo le cose che ignoriamo»; meditando, invece, «conserviamo quelle che abbiamo appreso». Non ci sia “lettura” senza “meditazione”; altrimenti, perdiamo quanto abbiamo appreso. Il criterio, per cogliere (o tentare di cogliere) il “senso” di una pagina biblica è, a mio avviso, suggerito da Pierre Bühler: quello della mendicità ermeneutica.
Si tratta di “mendicare” il senso perché la Scrittura – secondo il nostro autore – contiene una promessa ermeneutica che è, poi, quella «di una presenza reale del Cristo». Lui dobbiamo incontrare! Lutero diceva che, come una mamma sposta il velo della culla per guardare il proprio bambino, così noi dobbiamo aprire la Bibbia per vedere Cristo. Vederlo per mostrarlo agli uomini assetati di senso del nostro tempo complesso, sempre più scristianizzato. A questo proposito, prima di andare in giro a raccontare cosa abbiamo oggi acquistato in libreria, scrivete sul vostro quaderno di appunti (vedo con piacere che ne siete tutti muniti) una frase (che è tutto un programma) dell’esegeta Hermann-Josef Venetz: «Se si vuol prendere sul serio la Bibbia, non si deve far astrazione dal ‘qui e ora’ della situazione attuale dell’uomo». Il biblista Romano Penna non si discosta d’un palmo da questa lezione e ci ricorda che la Bibbia «non è un libro increato e celeste». Tengo a chiarire, però, cosa si deve intendere per “interpretare” la Scrittura; in primo luogo, non si tratta di inseguire, all’infinito, pensieri confusi e che si elidono l’un con l’altro! Non è quello che Blanchot chiamava infinito intrattenimento. Fu Giovanni Paolo II, al n.84 dell’Enciclica Fides et Ratio, a gettare un benefico raggio di luce sulla questione. Leggiamo: «L’interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un’affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l’espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi».
Toccato appena (come accadrà per altri temi qui scomodati) il problema dell’interpretazione, non si può tralasciare, tuttavia, un fatto: la Bibbia è un testo che esige quello che Umberto Eco definisce lettore cooperante (o ‘ideale’, ‘modello’); il destinatario, cioè, per il semiologo italiano, deve «trarre dal testo ciò che il testo non dice, ma che presuppone, promette, implica». Mai una lettura passiva della Scrittura porterà qualche frutto! Per “cooperare”, però, occorre “assiduamente frequentare”. L’augurio che faccio a quanti tra voi porteranno fuori dalla libreria una copia della Bibbia, lo prendo a prestito da una espressione molto amata da un poeta cattolico francese del Novecento: abitare la Scrittura! (Claudel). Sì, vi auguro che essa diventi la vostra casa. Una casa nella quale condividere la Parola con le sorelle, i fratelli, poiché avete tra le mani un testo che opera meraviglie soprattutto se letto sulle ginocchia della Chiesa che siete voi tutti riuniti nel nome del Signore. L’acuto studioso Parmentier l’ha detto con adamantina chiarezza: «Il testo (biblico) esiste […] grazie alla comunità, per l’uso della comunità, per dare forma alla comunità». La Bibbia stessa lo sottolinea. La crescita della “comunità cristiana” delle origini e quella della Parola erano strettamente intrecciate, interdipendenti. In Atti 6,7, si legge: «La Parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme»; in Atti 12, 24: «La Parola di Dio cresceva e si diffondeva».
Avete tra le mani un testo che non va affrontato come una delle tante letture che si fanno per riempire il tempo. Nel Medioevo, Ruperto di Deutz, già ne era consapevole: «Leggere le Scritture è combattere col testo». Non ci si può fermare unicamente a questioni tecniche, filologiche e – come accade talvolta – ad un passo da spaccare in mille pezzi… Lévinas, da filosofo, suggeriva che la “vera interpretazione” consiste nell’andare al di là del versetto: avere, cioè, una visione più ampia. Si tratta di non perdere di vista la foresta fissandosi non sull’albero, ma sui particolari dell’albero. Combattere col testo per coglierlo “anche” nella globalità affinché venga fuori ciò che, per riprendere Eco prima citato, “il testo non dice”. Heidegger, dal canto suo, aveva un motto: Auslegen ist das Ungesagte sagen. Possiamo tradurre: interpretare è dire il non detto del testo.
Si corre sempre il rischio, ammettiamolo, che parlare di “cose tecniche” nell’approccio alla Scrittura, si riveli un modo per sopprimere impietosamente l’apporto dell’affettività; come se il “sapere” dovesse e potesse espungere il pathos – che il filosofo ebreo Heschel riteneva irrinunciabile – dal rapporto che abbiamo con Dio. In una guida introduttiva all’esegesi del Nuovo Testamento, lo studioso R. J. Erickson ha fatto chiarezza riguardo alla convivenza dei due aspetti – passione e rigore – che caratterizzano un buon esegeta: «Non occorre perdere la propria passione per essere rigorosi. Anzi la nostra passione può maturare in una comprensione e in un amore più profondi per la Parola di Dio […]. La vera passione (al contrario della passione cieca) ci spinge ad indagare in modo più completo – da una certa distanza – l’oggetto della nostra passione». Ecco il punto: la passione, se non è cieca, ma vera spinge a conoscere sempre più! Si deve, però, intendere il rigore come un ausilio donato alla passione: conoscere ciò che si ama presuppone, inevitabilmente, anche la scelta intelligente dei mezzi per progredire in questa conoscenza. Chi prende alla leggera quanto fa progredire nel conoscere ciò che ama? Chi pensa sia una minaccia ciò che getta luce su quanto amiamo mostrandoci sempre più e meglio quali giustificazioni enunciare per chiarire che la nostra è, non passione cieca, ma vera? La passione spinge all’ascolto della Parola e la vuole penetrare sempre più… non ho detto lettura, ma ascolto! Non morti segni sulla pagina troverete nella copia della Bibbia che porterete a casa, ma una voce viva, presente. A questo pensava, forse, Isacco il Siro quando esclamava: «La vita cristiana è la crescita di un orecchio». La Parola è qui perché, per dirla con Ravasi, si fa «spazio e tempo raccontabili». Per parlare con Dio non avremo che le Sue stesse parole; ogni lettore attento della Scrittura deve far risuonare dentro di sé e nella lode al Signore l’espressione di Agostino: «Ti confesserò quanto scoprirò nei tuoi libri». Dio vuole sapere cosa scopriamo nella Bibbia perché il fine della Parola è il dialogo!
A questo punto, però, va completato il discorso. Certo, abbiamo chiarito con Giovanni Paolo II cosa vuol dire “interpretazione” del testo sacro; abbiamo capito con Erickson come armonizzare “passione” e “rigore” nell’avvicinare la Scrittura; abbiamo compreso che il fine è il “dialogo” tra Dio e noi… Eppure, manca un tassello per completare il mosaico. La lettura attenta (lo studio) e contemporaneamente appassionata della Parola ha bisogno di essere sostenuta e – secoli addietro – l’ha sottolineato Isacco di Ninive: «Non accostare mai le parole dei misteri che sono nella Scrittura senza […] chiedere l’aiuto di Dio». Le Scritture, diceva Giovanni Crisostomo, ci sono state donate affinché le scolpissimo nel cuore. Se non è Dio a scalpellare per primo e con più forza credo che l’opera inizi male. Con l’aiuto di Dio possiamo fare in modo che si “conosca” la Parola per, direi rispolverando un termine caro alla Scolastica, connaturalità. Ora, non occorre scomodare Tommaso d’Aquino, Maritain per fare luce; quello che intendo dire con questa, per alcuni di voi, difficile parola è stato magnificamente esposto dalla compianta Chiara Lubich, fondatrice dei “Focolarini”. Non molti anni fa, questa donna straordinaria, ha scritto un libro che ha un titolo eloquente: Essere tua parola; ebbene, in esso, possiamo leggere un passaggio che esemplifica cosa intendo dire: «Se mi chiedessero: “Ma tu chi sei?”, vorrei rispondere: “Parola di Dio”». Siamo davvero cristiani quando siamo Parola di Dio; quando, come sopra ci diceva il Crisostomo, l’abbiamo scolpita nel cuore. Vi inviterei a meditare, prima di aprire la vostra nuova Bibbia, su quanto leggiamo nel Rinnovamento della catechesi: «Nella Chiesa ogni credente è, per la sua parte, responsabile della Parola di Dio» (12).
Penso che, restando su un piano fenomenologico, umano, si possa approcciare la Bibbia muovendo da un principio ermeneutico la cui paternità spetta a Paul Ricoeur: «noi non ci comprendiamo che attraverso i segni di umanità depositati nelle opere di cultura». La Scrittura è anche un’opera di cultura! La Bibbia, in fondo, racchiude l’esperienza dell’umanità – sentenzia W. Biermann. Per Ingo Baldermann, essa parla con tanta forza e chiarezza sui temi fondamentali dell’umanità «da poter essere compresa anche senza un’esegesi metodologica». Di là delle competenze esegetiche, dunque, la Bibbia non smette di parlare. C’è l’umanità in essa e la si presenta senza fronzoli, senza rimuovere le patine del male che la oscurano. Abraham Lincoln, uno dei più amati Presidenti degli Stati Uniti, avvocato brillante, disse: Il più grande dono che Dio ha fatto all’uomo è la Bibbia. Sì, non ad alcuni uomini, ma all’uomo! Un travolgente racconto di amicizia – non priva di turbolenze – tra Dio e l’uomo: «Ciò che la Bibbia dice in tutte le sue pagine e attraverso l’annodarsi delle sue storie e dei suoi molteplici linguaggi è che Dio ha deciso di essere amico dell’uomo» (Carmine di Sante). Ogni cristiano deve invitare chiunque gli stia di fronte ad avventurarsi in questa lettura attraverso un ascolto attento, autentico dell’invito che Dio ci rivolge ad essere Suoi amici; sì, anche perché, come sottolinea Ravasi, «la Bibbia ascoltata autenticamente diventa un seme che muta la società». Si guarda in modo diverso l’altro quando si sa che Dio vuole essere amico di ogni uomo. Nella sua fedeltà alla Parola (anche se per lui, ebreo, si ferma alla Torah), Lévinas sostenne che, nel relazionarsi all’altro, “nel suo volto”, sentiva proprio la Parola! Il volto dell’altro parla, esprime la Parola. Che fantastica intuizione! La Parola è concreta proprio come il volto dell’uomo che esprime la sua indigenza, che ci sequestra per servirlo e per dissequestrarci dalle ganasce dell’egoismo. È vero: la Bibbia «preferisce il reale all’ideale» (Van Meenen) e, per questo, parla dell’uomo bisognoso, della vedova, dell’orfano, dell’emigrante. Lévinas ha ragione: alla scuola della Torah impariamo a capire cosa ci dice il volto dell’indigente, del povero… La Parola, interpellandoci, tocca tutto di noi e tutto in noi. Si risponda oranti e contemplanti nell’agire: «Salmeggiate – diceva Girolamo – con tutte le vostre membra. Salmeggi la mano nell’elemosina, salmeggi il piede andando all’opera buona».
Ci racconta, non solo racconta la Bibbia. Ha detto un filosofo: «La Bibbia è letteratura, non dogma» (Santayana). Non ci scandalizziamo; in fondo, la teologia, l’esegesi, la dogmatica possono esistere perché preesiste questa magnifica storia d’amicizia (ripeto, pur combattuta) tra Dio e noi. Parla anche “fin troppo chiaramente” dell’uomo concreto, con nome e cognome. Da umorista, Mark Twain riusciva a dire una cosa pregna di autentico acume teologico: la gente prova fastidio di fronte ai passi biblici che non appaiono chiari; invece, lui si sentiva infastidito proprio da quelli che comprendeva. Sì, perché la Parola spesso ci inquieta, ci mette in crisi. Passiamo da uno scrittore umoristico ad un teologo del calibro di Agostino di Ippona. In uno dei Suoi “Discorsi”, ci chiede: chi è il nostro avversario? Contrariamente a quanto saremmo propensi a rispondere, il vescovo africano ci previene ed oppone: no, non è il diavolo! E chi, dunque? Anche in questo caso… non scandalizzatevi: l’avversario, per il santo teologo. è, nientedimeno, la stessa Parola di Dio! Chiarisce: «Perché è il tuo avversario? Perché ti comanda delle cose che ti contrariano, delle cose che non fai». Si possono saldare le due affermazioni: quella di Twain e quella di Agostino. Ne vengono due nuove indicazioni che vi torneranno utili quando inizierete a sfogliare la vostra Bibbia: 1) non ci devono infastidire i passi biblici non immediatamente chiari, bensì quelli che lo sono troppo e, se ci procurano un fastidio che si converte in interrogazione, inquietudine, siamo sulla strada buona; 2) la Parola non va presa alla leggera, ma addirittura come un avversario perché ci conduce a sovvertire la nostra abituale e comoda logica per entrare in una ottica paradossale. La Parola stessa, per noi cristiani, ha voluto manifestare il proprio senso in quanto pare non averne affatto: la Croce. Hans Urs von Balthasar ha finemente notato che al «centro della nostra fede c’è la Parola abbandonata, il Logos crocifisso». Gesù ci inquieta perché radicalizza ancora di più, nel mentre pare svelarlo completamente, il mistero dell’Amore di Dio. Ci interroga inquietandoci. Pensate che l’esegeta Hans Wijngaards ha contato, solo nel Vangelo di Giovanni, 164 domande!
In Cristo Dio ci interroga perché vuole comunicare con noi e, nella Bibbia, c’è una serie di domande che ci spingono a prendere consapevolezza di noi stessi: Dove sei? Dov’è tuo fratello? Mi ami tu? Voi chi dite che io sia? La nostra intelligenza non viene mortificata; anzi, viene chiamata prepotentemente in causa. Dove c’è comunicazione c’è la messa in comune di un problema, di una questione vitale. La teologia deve riflettere – alla luce della Scrittura – su cosa significhi “comunicazione tra Dio ed uomo”. Non è certo per caso che, in un saggio del 1992, Avery Dulles abbia detto a chiare lettere che la teologia è «in ogni momento correlata con le realtà della comunicazione». L’Istruzione Pastorale Communio et Progresso, al n. 11, definisce Gesù Cristo il perfetto comunicatore. La Parola si fa voce viva negli scritti biblici perché colta sulle labbra di persone vicine alla nostra umanità fino a farsi addirittura “corpo” in Cristo; Egli rende visibile, in un certo modo, la Parola mantenendo, allo stesso tempo, attenti i nostri cuori al mistero. Accade, per dirla con il gesuita Peter Knauer, che «la Parola del messaggio cristiano si fa presente con dei suoni udibili che fisicamente sono misurabili e frazionabili. In questo il messaggio cristiano corrisponde alla corporeità dell’uomo Gesù. Allo stesso tempo, tuttavia, questa Parola ha un significato indivisibile e intelligibile solo spiritualmente; in questo si esprime il carattere spirituale dell’uomo Gesù». Parola udibile, correlata alla corporeità del Salvatore; eppure, parola intelligibile solo spiritualmente, rifeirta alla natura spirituale di Gesù. Per questa ricchezza intrinseca, si può dire, con Origene che, meditando la Parola, comprendo spiritualmente la Legge, e compio un esercizio che rinnova la mente; giorno per giorno, ci si rinnova progredendo nel leggere la Scrittura. Nel nostro lessico quotidiano occorre innestare la Parola, il Vangelo.
Si tenga in considerazione il fatto che Sant’Antonio di Padova, nei “Sermoni”, deposita circa 6100 tra citazioni dirette ed allusioni bibliche; 4975 le allusioni puntuali. Per 570 volte cita i Salmi. San Francesco d’Assisi, poi, in un modo o nell’altro, nei brevi testi che ha lasciato, fa ricorso alla Bibbia con 674 rimandi! Quanti di noi, tra laici e, ahimé, sacerdoti, prestano la propria bocca alla Parola? Eppure, come dimenticare che Gregorio Magno, della lettura biblica, diceva: è come se vedessi la sua (di Dio) propria bocca. Parliamo di Dio quando filosofiamo; per parlare con Dio non c’è che la Parola che Lui stesso ci ha donato. Riportiamo l’esperienza di un testimone autorevole per chiarire, semmai ce ne fosse bisogno, questo punto. Il teologo Henri J. M. Nowen, dal giugno al dicembre 1974, soggiornò presso l’Abbazia di Genesee in Piffard (New York). Cercava pace, voleva praticare l’introspezione. Da questo periodo venne fuori il suo primo diario, Ho ascoltato il silenzio. Uno dei punti fermi ricavati da quell’esperienza, recita: «Forse parlavo troppo di Dio invece che con Dio». Sebbene sperasse di uscire da mesi di vita trappista diverso, più integrato, spirituale, virtuoso, caritatevole, dovette ricredersi ed ammettere che «un monastero non vien costruito per risolvere dei problemi ma per elevare lodi al Signore dal centro di quei problemi».
Da questo troncone di meditazione portiamo via un paio di questioni significative: 1) impariamo dai Padri della Chiesa, dai cristiani antichi a ricorrere più spesso, nel parlato quotidiano, alla Parola. In essa, poi, come Gregorio Magno, sforziamoci di vedere la bocca di Dio! Vincenzo Paglia invita a riflettere: negli “Atti dei Martiri” si legge che santa Cecilia portava nel suo petto sempre il Vangelo; Giovanni Crisostomo rimproverava un fedele perché ignorava quante fossero le lettere di Paolo; il vescovo Cesario di Arles invitava gli analfabeti ricchi ad ingaggiare qualcuno che leggesse loro la Bibbia. Si pensi, infine, alla Biblia pauperum: trattasi di quadri pittorici collocati nelle chiese per illustrare, a quanti non sapevano leggere, la Scrittura; 2) parlare “con” è più importante che parlare “di” Dio. Non si purifica il nostro rapporto con Lui e con la Parola andando in un monastero (oggi non è infrequente il cosiddetto “turismo religioso” confuso con una vera esperienza spirituale): non è lì che si risolvono i problemi perché le lodi al Signore, Salmi alla mano, vanno elevate – come diceva Nowen – dal centro di quei problemi. Più che rinchiuderci per concentrarci sulla Parola, istruiamoci per aprirci al mondo per proporre (mai imporre) la Bibbia. Noi siamo cristiani perché altri, secoli addietro, hanno scritto, testimoniato. Lo psicologo americano William James è diretto: «La nostra fede è la fede nella fede di qualcun altro». Fede “ricevuta” per “trasmetterla”; Parola “ascoltata” per “annunciarla”. Quanto apprenderete dalla Bibbia, ciò vale soprattutto per quanti tra voi l’acquistano per la prima volta, deve suscitare zelo missionario, apostolico; non erudizione fine a se stessa, ma – imparando a sentire il sapore della Parola – fate quanto potete affinché anche altri ne intuiscano la bontà, la fragranza. Ne va della conoscenza di Gesù Cristo, di Dio!
Molti possono ricevere molto se voi farete frutto dell’acquisto che state per fare. Chiudo questo segmento di riflessione con un richiamo storico. Papa Paolo III, siamo nella metà del Cinquecento, dispose che si evangelizzassero i popoli delle nuove colonie nelle Indie orientali. Dopo più di un anno di viaggio, infatti, Francesco Saverio giunse a Goa. Quando poi si recò nelle regioni della Concinina, scrisse ad Ignazio di Loyola: «Potessi correre alle Università dell’Europa, gridando come un pazzo a tutti quei giovani attratti più dai diplomi e da un buon posto che dall’urgente servizio dei popoli lontani, e gridare loro: Milioni di pagani seguirebbero Gesù, se diventaste, qui, gli operai del Vangelo». Pensate: la lettera risale a metà del Cinquecento e già bisognava lottare contro l’indifferenza verso la diffusione della Parola. I giovani, come accade per molti ancora oggi, avevano altro da fare (almeno allora studiavano, speravano in una carriera…): saremo anche noi, che ci siamo portati in questa libreria per acquistare una copia della Bibbia, distratti o, peggio, indifferenti verso l’evangelizzazione?
Uno degli accorgimenti per poter avvicinare la Scrittura è quello di farlo con entusiasmo; etimologicamente, significa “essere abitati dal dio”. Chiesero allo scrittore Bertolt Brecht quale fosse il suo libro preferito. Rispose: «Voi riderete: la Bibbia». Non deve preoccuparci se qualcuno riderà quando daremo la stessa risposta. Imitiamo Nathan Englander il quale, non solo diceva di essere da sempre convinto che fosse la Bibbia la più bella opera letteraria mai scritta, ma ammetteva di essere altrettanto certo del fatto che, chiunque l’abbia scritta, sia Dio! La Scrittura riguarda davvero tutti. Per rafforzare questa convinzione, potreste richiamare quanto scrisse Agostino nel commentare il verso 11 del Salmo103, che recita: Tutti gli animali della foresta si dissetano, e gli onagri saziano la loro sete. L’acqua che tutti bevono, nell’interpretazione di Agostino, è la Scrittura che è per tutti: grandi, piccoli. Scrive il santo vescovo africano: «In essa (Scrittura) beve la lepre e bene l’onagro; la lepre è piccola, l’onagro è grande». L’onagro, preciso, è un asino selvatico, di piccole dimensioni, molto diffuso in Asia. Continua Agostino: «la lepre è paurosa, l’asino selvaggio, e tutti e due bevono, ognuno però secondo la sua sete». Alla Scrittura dobbiamo abbeverarci ognuno secondo la propria sete. Il mio augurio è che la mia, la vostra, sia una “grande sete”.
Il fine della vita cristiana, non nascondiamocelo, è la santità e, precisava Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte, «il primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della parola di Dio» (39). Parola che, ricordava Clemente Alessandrino, è lo specchio del cristiano! In essa occorre specchiarsi per riconoscersi cristiani. Il confronto con la Bibbia non assomiglia al consultare una enciclopedia per sciogliere dubbi su di un argomento; infatti, chi ha fede, più che muoversi tra “problemi”, fa i conti con il “mistero”. Aver tra le mani, con fede, la Scrittura non significa lottare per sciogliere definitivamente il “mistero di Dio”, ma convivere con esso nutriti di una maggiore consapevolezza circa la incommensurabilità di quel mistero stesso: «La fede biblica – precisa Maggioni – non è uno sforzo affannoso per strappare Dio al suo mistero, bensì uno sforzo continuo per non cadere nella tentazione di dissolverlo».
Quando invitiamo chi stenta a credere a camminare con noi sui sentieri della Parola, non dimentichiamo di farlo con cautela, delicatezza, rispetto… in una parola, accompagnando al nostro sapere ed all’annuncio, la carità. Agostino enuncia la regola d’oro: non intratur in veritate nisi per charitatem (non si entra nella verità se non attraverso la carità). Ci vuole tempo, paziente frequentazione del testo sacro per ottenere buoni risultati. Si tratta, dunque, di seguire Gregorio Magno: se frequentiamo “assiduamente” la Scrittura, ci insegna, non ne vedremo soltanto la “faccia” (l’aspetto superficiale); bensì, anche il “pensiero” (il senso autentico) - «come attraverso un colloquio familiare». Sottolineate con la matita rossa: la lettura della Bibbia deve configurarsi come un colloquio familiare con Dio! Da sempre le religioni hanno conferito importanza notevole alla comunicazione, alla parola.
Il filosofo Ernst Cassirer, studioso delle “forme simboliche” del pensiero, ha fatto una precisazione che non possiamo non registrare: «Nei racconti della creazione in quasi tutte le grandi religioni dei popoli civili la parola appare sempre connessa con il supremo dio creatore […]. Così, ad esempio, in uno dei più antichi documenti della teologia egizia, al dio plasmatore Ptah viene attribuita questa potenza originaria “del cuore e della lingua” […]. Tutto ciò che esiste è giunto all’essere mediante il pensiero del suo cuore e il comando della sua lingua […]. In tal modo qui […] alcune migliaia di anni prima dell’era cristiana, Dio viene concepito come un essere spirituale che ha pensato il mondo prima di crearlo, e si è valso della parola come mezzo di espressione e come strumento della creazione». Il Dio cristiano, però, per mezzo di Gesù, ha voluto anche semplificare il Suo dire. Come? Gesù parla, com’è noto, per parabole; questo perché – chiarisce Maggioni – Dio è oltre i nostri pensieri e parole. Se ne ricava, conclude il nostro autore, che «per parlare di lui dobbiamo utilizzare le esperienze che abbiamo a disposizione». Nella Bibbia apprendiamo che la “potenza creatrice della Parola” si fa prossima, vicinissima a noi, prendendo sul serio, valorizzandole, le “esperienze che abbiamo a disposizione”. Senza tralasciare nulla dell’Antico Testamento, da cristiani, però, siamo tenuti a fare molta attenzione alle parole di Cristo. Vi sia di aiuto il punto di vista di Bultmann. A suo dire, infatti, l’opera (sein Werk) di Gesù sono le Sue parole (sein Worte). La salvezza è il “parlare di Gesù”; ha parole, continua il teologo tedesco, che sono Worte des Lebens – parole di vita! Conclude: «il fare (Tun) di Gesù è un parlare (Reden); il suo parlare è un fare».
La fede, diceva Tertulliano, si nutre della comprensione della Scrittura. Gli ebrei insegnano molto. Un pio ebreo deve copiare l’intero Pentateuco obbligato a non commettere errori: nemmeno a danno del più trascurabile particolare! L’inchiostro deve essere rigorosamente nero perché brilli sulla pagina bianca, per mostrare che la Parola brilla nell’oscurità del mondo. Si deve usare, infine, una “penna d’oca” e non “metallica”: il ferro, infatti, serve a forgiare armi, mentre la Parola diffonde la pace. La Bibbia va aperta con la chiave dell’amore. È stato detto che essa va letta come il giovane legge una lettera dell’amata perché «è scritta per me» (Kierkegaard). Con l’amore insistiamo a chiedere alla Scrittura di rivelarci, mostrarci il Senso; e, come fermamente credeva Sant’Ambrogio, se bussiamo alla porta della Scrittura, il Verbo aprirà. Piaccia o no, sia per contestarlo che per amarlo, non ci si libera di Dio. Schwanitz, a tal proposito, sosteneva che il Dio della Bibbia è la «figura più importante della nostra cultura. Chi non crede in lui trae comunque da lui la sua rappresentazione di Dio per poi negarla». Da cosa sarebbe nata l’impalcatura teoretica di Nietzsche, la figura dell’“Oltreuomo”, se non avesse avuto notizia del Dio ebraico – cristiano? Siamo, perciò, umili quando, leggendo la Bibbia, ci disponiamo a confrontarci con Lui. Cassiano, nel IX secolo, invitava ad «acquistare una incrollabile umiltà di cuore» per poter ottenere la “vera scienza” della Scrittura. San Bernardo, poi, sosteneva che la conoscenza di quanto leggiamo sta nell’amore. Ecco la chiave che Bernardo individua – come lui stesso si esprime – «per accostare parole dettate dall’Amore». Umiltà ed amore: binomio inscindibile quando aprite la Bibbia. Quando Maria dice all’angelo avvenga di me quello che ha detto (Lc 1, 38), l’evangelista sceglie la forma ottativa del verbo greco ghenoito che esprime “gioia, disponibilità assoluta”, non rassegnazione o accettazione passiva. Alla Parola che ci visita dobbiamo dire la stessa cosa: “avvenga in noi, con gioia, disponibilità assoluta, quello che hai detto”.
Sarei molto felice di sapere che non accostate la Bibbia con la predisposizione ad intercettarne incoerenze, oscurità. Siate piuttosto solleciti a munirvi di buone guide esegetiche accostando ad esse una raccomandazione di Charles Spurgeon: Chi legge la Bibbia per trovarci degli errori, si renderà presto conto che la Bibbia trova degli errori in lui. Questo opuscolo non è una introduzione alla Scrittura: si configura, piuttosto, come un contenitore di semi che tocca a voi spandere nel terreno fecondo della vostra capacità ricettiva. Vi lancio, perciò, appena una provocazione: non ascoltate soltanto quanto Dio “dice” nella Scrittura, ma imparate a prestare attenzione anche ai Suoi “silenzi”. Per aiutarvi a raggiungere il traguardo, posso solo riportare quanto sosteneva il teologo ebreo André Neher. Egli parla del Dio dei ponti sospesi: per colmare l’abissale differenza (ontologica) tra Lui e noi, dà la “parola”. Neher, poi, parla del Dio delle arcate spezzate: lascia a noi lo sforzo di gettare un arco che, tuttavia, resta interrotto. In sintesi: siamo in perenne tensione tra il Dio che comunica ed il Dio che non è raggiungibile del tutto attraverso il “dire”. Perché mai, allora, Dio tace?
Vi illumini la risposta del teologo ebreo: «se Dio fosse solo il Dio della Parola ci accecherebbe con la sua luce. Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà». Tace per lasciarci “liberi” in quanto una vera “relazione d’amore” non si impigrisce nelle rassicurazioni, nelle evidenze, ma si arrischia nel dubbio, nel domandare, nello sforzo personale di mantenere vivo il rapporto. Può solo essere un augurio, non una pretesa l’avere sempre e comunque il sostegno della Parola per colloquiare con Dio. Origene, tenendo una omelia sull’Esodo, infatti, sperava nella compagnia ininterrotta della Parola come sostegno alla debolezza del nostro dire: che la Parola ci assista e si degni essa stessa di far da guida alla nostra parola. Lo sforzo da parte nostra, come si vede, è ineliminabile. Dio tace perché si diventi noi stessi la Parola – come sopra si diceva con Chiara Lubich.
Quanti commenti, riflessioni su una sola frase biblica! La fatica è tanta. Se ne era reso conto benissimo Agostino, nel Capitolo 32 del XII Libro de Le Confessioni, annotava: «quante pagine ho io scritto, per poche parole, quante pagine! Se continuerò a cotesta maniera, quali forze o qual tempo mi sarà bastevole per commentare tutti i tuoi libri?».
Mai le parole esauriranno la Parola! Continuava:
«Concedimi, perciò, di esaltarti in essi più brevemente, scegliendo una fra le molte interpretazioni vere […]: quelle che tu mi avrai ispirato».
Le lungaggini non sono sempre positive e si tratta di scegliere, rafforzando la nostra capacità di discernimento, l’interpretazione che Dio stesso, tra le tante vere, ora ci ispira.
Leggere la Bibbia non deve condurre solo al commento, ma soprattutto a comprendere cosa effettivamente Dio ritiene che si debba, noi, in prima persona, apprendere.
Sono arrivato all’obbligo di tracciare una conclusione e sento di potermi affidare ad un percorso tracciato da Daniel – Ange e che, per punti, espongo con la speranza che diventi lo schema – guida per orientarvi in maniera intelligente, appassionata nella lettura della Bibbia animati dal desiderio di rendere la Parola operativa, qui ed ora.
La Parola – per Daniel – Ange va
1) gustata nel silenzio
2) approfondita con lo studio
3) assimilata con la preghiera
4) celebrata nella liturgia
5) vivificata nella vita fraterna
6) annunciata nella missione
e deve, infine,
7) essere la nostra lingua materna.
Appendice
Provocazioni di Bonhoeffer sulla Parola
«Solo dalla sacra Scrittura impariamo a conoscere la nostra propria storia»
Per il teologo luterano la storia raccontata nella Scrittura parla di noi. Quante volte ci si sente Israele: siamo in esilio, sotto la schiavitù dei vizi, dei piccoli egosimi… i nostri piccoli, ma letali Egitto! Quante volte non comprendiamo, come Israele, che “attraversare il deserto” è benefica, necessaria purificazione e non inevitabile dannazione. La manna è il cibo del momento: non bisogna credere che quanto ci nutre nel deserto sia quanto ci è destinato nella Terra Promessa. Là il cibo sarà per lo spirito. Se la Scrittura è la nostra maestra di storia, chi la narra, la spiega deve fare attenzione a non ridursi a mero maestro nelle ‘cose di Dio’ ma, proprio perché in gioco c’è la nostra propria storia, deve assumere lo scomodo compito del testimone.
«L’essenza della comunità non consiste nel fare teologia, ma nel credere e nell’obbedire alla Parola di Dio […]. La fede sorge soltanto dalla predicazione della parola (Rm 10, 17)»
Bonhoeffer ha scritto pagine indimenticabili sulla ‘comunità’, sottolineando che essa non origina da esigenze psicologiche e non poggia si di un fondamento meramente emozionale: è ontologica! Il legame fonda sull’insegnamento di Cristo: laddove ci si riunisce Lui è in mezzo a noi. Si può non ammettere che questo generi una ‘riflessione’? Certo che no; tuttavia, il compito essenziale e primario della comunità è credere – obbedire alla Parola di Dio! Il vincolo della comunità cristiana non è propedeutico ad un lavoro intellettuale: si tratta di procla mare e diffondere la ‘fede’ che si nutre della Parola! Ogni membro di questa comunità fondata su Cristo e sulla Parola che è Lui stesso, ha un compito didattico che nulla ha che vedere con lo svolgere un ufficio meramente accademico. La comunità ha bisogno anche della teologia, ma sarebbe pericoloso pensare di nutrirla unicamente con essa.
«Per la Parola di Dio ho bisogno di tempo […]. La Parola di Dio esige il mio tempo. Dio stesso è entrato nel tempo e ora vuole che anch’io doni il mio tempo»
Il Dio cristiano scandalizza ed allo stesso tempo esalta in quanto ha avuto tempo per l’uomo. La concezione pagana di Dio proclama che l’Eterno di nulla ha bisogno. Se la divinità ‘ama’, vuol dire che ha ‘bisogno dell’altro’ e, dunque, si rivela, contraddittoriamente, imperfetta. Il Motore Immobile di Aristotele attira a sé, ma non scende verso nessuno! La perfezione non conosce il pathos del divenire. Il nostro, invece, è Dio/Padre. Non veniamo cercati perché ha ‘bisogno’ di noi, ma perché nulla siamo lontano da Lui. Ci viene a cercare, entra nel tempo – come si esprime Bonhoeffer – perché sa che nulla possiamo fare da soli! La Parola esige il mio tempo perché mi ha donato il Suo tempo! Se, come visto nella prima provocazione rubricata, la Scrittura narra la nostra storia, va detto che Dio l’ha resa ‘pienamente significativa’, ‘ricca di una speranza credibile’ perché Lui stesso si è fatto storia entrando nel tempo. La fede in Cristo è testimoniata anche nel donare a Lui il nostro tempo perché sia sempre più la Parola, con i suoi ritmi, sonorità e contenuti, a renderlo sensato. Solo la Parola incarnata è ‘ultima, definitiva’; le nostre parole restano sempre penultime.
«il cristiano può contare solo sulla Parola di Dio che gli viene detta»
La certezza che solo la Parola possa giovare al cristiano, responsabilizza riguardo all’annuncio: se credo davvero che essa sola può salvare, farò tutto il possibile affinché ogni uomo che incontro l’ascolti. L’uomo ha bisogno di Cristo, Parola definitiva di Dio per noi. Parola detta non perché divenga possesso privato, occasione di erudizione; piuttosto, ci rende pellegrini, uomini della bisaccia, vite esodali donate all’annuncio inesausto. Si risponde alla Parola divenendo, appunto, responso – abili, ‘capaci di rispondere’ a Dio ed ai fratelli. Bonhoeffer ebbe a dire: «L’amore per Dio comincia con l’ascolto della sua parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo. L’amore di Dio agisce in noi, non limitandosi a darci la sua parola, ma prestandoci anche ascolto. Allo stesso modo l’opera di Dio si riproduce nel nostro imparare a prestare ascolto al nostro fratello».
«La parola rivolta dalla chiesa al mondo non può essere che la parola rivolta da Dio al mondo, e cioè Gesù Cristo e la salvezza in questo nome»
Non deve esserci una sola parola che la Chiesa doni al mondo difforme da quella stessa Parola – che è Cristo – rivolta al mondo da Dio. La Chiesa, quando parla di sé, può farlo soltanto in ontologica dipendenza da Cristo. Ha la voce solo perché parla del Vangelo! Scrive Hans Urs von Balthasar: «Per quanto affilata possa essere quindi la forma linguistica di una definizione della Chiesa, di un canone conciliare e così via dicendo, questa forma così accurata non può essere ammirata e apprezzata per se stessa, perché sta unicamente al servizio della forma di Cristo che essa vuole conservare e custodire. Per motivi di prassi pastorale l’annuncio ecclesiale deve quindi possedere il massimo di chiarezza, e questo anche in vista della situazione storico – ecclesiale e teologica in cui si colloca, ma questa chiarezza non entra in concorrenza con la forma e la formulazione della Scrittura. Essa non sostituisce, non alza la pretesa di esprimere in modo migliore, più completo e moderno, ciò che la Scrittura ha detto in modo ingenuo, frammentario, popolare e non scientifico, essenzialmente condizionato dal tempo e quindi bisognoso di riforma. Le espressioni magisteriali si trovano su tutt’altro piano. Esse sono interpretazione e non già fondazione della rivelazione, esse non tendono ad un sistema espressivo che potrebbe essere in grado di sostituire, totalmente o in parte, la Scrittura […]. Esse non fanno altro che rimandare a qualcosa che è diverso da quello che esse sono, qualcosa che le sovrasta essenzialmente ed è collocato sul piano della rivelazione divina».
«Soltanto se osiamo ascoltare come se qui ci parlasse realmente Dio, che ci ama e non vuole lasciarci soli con le nostre domande, gioiremo della Bibbia»
Per mostrare che ‘realmente’ Dio ci parla nella Scrittura, occorre praticare una ermeneutica capace di «mostrare in che senso l’avvenimento del passato riguarda noi oggi» (X. Léon – Dufour). Come sostiene Fossion – la «capacità di leggere la Bibbia» tende a sostenere e fortificare la «capacità di vivere». Fossion pensa che siamo di fronte a «due competenze che si comprendono l’una nell’altra».
«Un rapporto con Dio deve essere esercitato, perché altrimenti non troviamo il tono giusto, la parola giusta, il linguaggio giusto, quando egli ci sorprende. Dobbiamo imparare il linguaggio di Dio […] con fatica, dobbiamo lavorarvi al fine di poter parlare con lui»
Spezziamo la citazione di Bonhoeffer in segmenti. 1) Dobbiamo accendere un rapporto con Dio. Non si tratta di porre un soggetto conoscente di fronte ad un oggetto da conoscere, ma di una esperienza che si configura e realizza in quanto relazione reale tra due soggetti; 2) La relazione non nasce già matura, ma richiede un lungo tirocinio… va esercitata. Essere cristiani è precisamente esercitarsi – ininterrottamente – a far maturare una relazione reale con Dio; 3) Non qualsiasi parola, tono, linguaggio aiutano di fronte ad un dio mai prevedibile. Di Dio si parla solo a partire da Dio – esclamava Barth! Imparare il linguaggio di Dio è possibile soltanto frequentando la Scrittura; anche se, va ricordato, il filtro dell’umano dire resta ineliminabile; 4) Per raggiungere quanto indicatoci dal teologo luterano, però, occorre lavorare: né il ‘rigore scientifico’, né una ‘pseudo/spiritualità’ frettolosa sono di aiuto nel dare vita ad un “rapporto con Dio”.
Ci vuole, nell’esercitarsi ad imparare il “linguaggio di Dio”, equilibrio fra ‘rigore’ e ‘spiritualità’. Trovo illuminante quanto scrive Maggioni: «Fino a qualche tempo fa mi sembrava che il pericolo venisse da certe letture eccessivamente scientifiche, disperse in molte analisi che nascondevano il centro. Da qualche tempo ho paura anche del rischio contrario, quello cioè di frettolose, impazienti e superficiali letture spirituali (così dette, ma abusivamente), che non sopportano la fatica di cogliere la ‘lettera’ del testo».
«La parola veritiera non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quando […] qualcuno ‘dice la verità’ senza tener conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza, ma non la sostanza della verità»
Dio non ci lascia nell’angoscia del domandare: offre senso, ma lo fa commisurando la Sua Verità alla nostra capacità di intendere. Ecco il vero miracolo: che i pensieri di Dio ci riescano in qualche modo comprensibili! Che importanza avrebbe la verità biblica se fosse del tutto difforme dalla nostra capacità ricettiva? Il sacerdote canossiano Amedeo Cencini, rileva: «la Bibbia […] è un testo […] ispirato solo se ispirante; è sacro solo se incarnato in vicende umane; è una pagina bella solo se è un campo di lavoro o di battaglia; è amico fedele e quotidiano solo se interlocutore abituale e franco». La Bibbia è ispirata perché ispira: non lettera morta ma – per riprendere un’espressione di Austin – linguaggio performativo: ‘dice’ ma ‘facendo’ ciò che dice. La Parola si incarna – nell’Antico Testamento, nella storia degli uomini e, nel Vangelo, nella storia di un uomo (Gesù di Nazaret)! Assunta la ‘natura umana’, Dio, in Cristo, rende indiscutibilmente interessante per ogni uomo la Parola. Aggiunge Cencini: «Dio mi parla di sé, ma anche di me; non è solo una teofania che apre la mia giornata di credente e discepolo della Parola, ma un’ antropofania». Agostino: “Dio si è fatto uomo; che cosa diventerà l’uomo, se per lui, Dio si è fatto uomo?”.
«Se potessi dire la Parola in modo che ci facesse realmente male. Deve farci male, perché altrimenti non è Parola di Dio. Ma vedo che già ora fate come quando in un cattivo romanzo si legge prima la conclusione a lieto fine, per non essere inquietati troppo da quello che precede, per poter sempre dire che tutto andrà bene»
Nietzsche – in una lettera all’amico Overbeck del 2 giugno 1885 – definì la propria filosofia «ciò che mi maltratta giù fino alle radici». Il poeta e gesuita Gerard Manley Hopkins, dal canto suo, dirà, rivolgendosi a Dio: «o Signore di vita […] manda la pioggia alle mie radici». La filosofia può essere una spina nell’anima, ma la fede non è detto debba fare unicamente da balsamo. Nietzsche (ateo) e Hopkins (credente) sperimentano un disagio interiore profondo, intenso. Le radici dell’uno e dell’altro hanno bisogno di pioggia rinfrescante. Due strade: o farsi maltrattare dalla scomoda Parola di Dio, ma con la speranza che la luce si vedrà, o continuare ad almanaccare ispirati dal logos filosofico inaugurando un discorso che si esaurisce in uno sterile infinito intrattenimento (Blanchot).
«Da cosa dipende che i miei pensieri deviano così velocemente dalla Parola di Dio […] ? […] Perché non sono ancora capace di dire, con il Salmo: “Ho preso piacere ai tuoi comandamenti” (Sal 119, 16). Ciò a cui prendo piacere, non lo dimentico. Dimenticare o meno non è cosa dell’intelletto, ma […] del cuore».
Dopo aver tanto parlato degli effetti potenti, benefici della Parola, vale la pena indagare sul fenomeno dell’abbandono facile che le lasciamo patire. Forse il dramma è che non c’è – oltre la lectio, la dilectio! Molti autori insistono sul fatto che la Parola abbia ‘sapore’, che vada gustata, mangiata, assaporata. Calma, lentezza, lettura progressiva… Bonhoeffer dedicava moltissimo tempo all’ Antico Testamento ed aggiungeva che, affrettarsi a pensare in maniera neotestamentaria, era un azzardo assolutamente da evitare. Ciò che ci accosta davvero alla Parola – sta dicendoci in questa provocazione il teologo luterano – è il patico, non il logico. Amedeo Cencini, parlando della ‘mistagogia dell’anno liturgico’, ha insistito sulla centralità della Parola rinvenendo, nel seguirLa fedelmente, un itinerario così sintetizzabile: dalla teo – logia alla teo – patia. Abbiamo tre fasi. Nella prima, quella ‘teo – logica’, primeggia la mente che indaga, ricerca e la Parola/Logos è, per ora, “oggetto di riflessione”. Si accende, qui, un contatto ‘fedele, regolare’ con il Logos e si percepisce «nel mistero studiato la fonte della propria identità». Il rischio, però, avverte Cencini, è che la prima fase, congelandosi, porta ad una intellettualizzazione della fede!
La cosa triste, per il nostro autore è che la cosa non avviene di rado. Nella seconda fase, detta della ‘teo – fania’, viene contemplato il «mistero celebrato nel tempo liturgico». Alla riflessione sulla Parola si aggiungono la ‘visione’ e l’‘ascolto’. Si mette in gioco, ora, l’uomo intero e, non limitandosi più ad una verità da scrutare si ha finalmente un volto da contemplare. Si ascolta un Altro che, pur essendo pienamente ‘altro da me’, allo stesso tempo, «qui è il punto decisivo […] straordinario, mi indica il mio volto, la mia fisionomia, il mio modo d’essere. È la mia verità!». La teo – fania, l’incontro con il Volto non è meno importante di una Rivelazione intesa come epifonia, ‘manifestazione della voce, della parola’. L’ebraico pàním (volto), d’altro canto, nell’Antico Testamento ricorre più di 2100 volte. Giungiamo alla terza fase del percorso: la ‘teo – patia’. Superiamo, qui, il ‘vedere’, l’‘ascoltare’ e si comincia a «vivere il mistero celebrato, rivivendo sulla propria pelle il senso dell’attesa di Israele […] della kenosi del Figlio […] del drammatico cammino verso Gerusalemme o della solitudine del Getsemani o dei giorni della Pasqua ecc. Quei misteri sono le stagioni esistenziali del credente»
CONCLUSIONE
Se facciamo teologia lo dobbiamo – come disse Kierkegaard – al fatto che Qualcuno è morto in croce per noi, ma – aggiungerei - anche all’altrettanto innegabile fatto che Qualcuno è nato per noi. Nella nascita umana di Dio sorge la possibilità di fare teologia, ma anche tutta la verità riguardo ai limiti di questo pur nobile sforzo. Il Logos incarnato precede, sostiene e supera infinitamente tutti i logoi teologici dei quali siamo capaci.
Tenere davanti allo sguardo questa lezione porta all’umiltà che non è umiliazione. Accettare di dipendere, nel nostro dire, dalla Parola è rendersi fecondi alla ininterrotta seminagione dell’Altro. Nasce Gesù e la Parola valorizza pienamente l’umano, le sue dimensioni: ‘visive, linguistiche…’.
Il Natale è la festa della Parola che rende sensato cercare parole per esprimere, non il mistero, ma il nostro atteggiamento di fronte ad esso.
Vorrei che, per il prossimo Natale, tutti avessimo tra le mani la “nuova Bibbia” e, perciò, a mo’ di augurio anticipato, concludo con una riflessione di Bonhoeffer:
«Di fronte alla mangiatoia di Betlemme non vi erano sacerdoti, né teologi. Eppure tutta la teologia cristiana ha la sua origine nel miracolo dei miracoli, nel fatto che Dio si è fatto uomo. La sacra teologia nasce piegando le ginocchia in adorazione del mistero del bambino divino nella stalla. Senza la santa notte non vi è alcuna teologia. «Dio si è rivelato nella carne», il Dio – uomo Gesù Cristo, questo è il santo mistero che la teologia è chiamata a conservare e a preservare. Che incomprensione, quella per cui la teologia sarebbe chiamata a risolvere il mistero di Dio, così da abbassarlo al piano della saggezza umana, priva del mistero e banale! Invece è proprio questo il suo compito: preservare il miracolo di Dio come miracolo, comprendere, difendere, glorificare il mistero di Dio come mistero. Così e mai in modo diverso lo ha inteso la chiesa antica, quando rifletteva, con zelo e fatica, attorno al mistero della Trinità e alla persona di Gesù Cristo […]. Se il tempo di Natale non è in grado di accendere in noi un rinnovato amore per la teologia, così da essere costretti a riflettere con raccoglimento sui misteri di Dio, presi come siamo dal miracolo della mangiatoia dove sta il Figlio di Dio, allora vuol dire che l’ardore dei misteri divini è sparito anche dai nostri cuori».
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