Non è un mestiere facile leggere per Lui, ripetere le sue parole. Ho paura di tradirle. Ci vorrebbero ben altre labbra e ben altro cuore! Ma so che, dopo, Lui vi parlerà e ciò che io non ho saputo dirvi, Egli ve lo dirà in maniera sicura, autorevole e dolcissima. Ciò che importa adesso è che vi prepariate ad ascoltare Lui, quando nel segreto della vostra coscienza, Egli stesso prenderà la parola (Don Primo Mazzolari)
Pascal affermava che la Scrittura sa parlare all’uomo in qualunque situazione di vita si trovi, essendo la Parola di Dio, spada e miele, martello e acqua fecondatrice. Sia che la vita abbia un sapore amaro, sia che la gustiamo come miele, la Parola ci accompagna. Studiando i Salmi, Ebeling fece questo ragionamento. Immaginiamo di essere in possesso di un particolare registratore che consenta di percepire voci e finanche disposizioni d’animo umani, quanto viene tralasciato e quanto ingiustamente si occulta nel cuore; ebbene, otterremmo “esattamente la scala delle oscillazioni psichiche e delle testimonianze linguistiche” depositate nei Salmi!
In essi, per Ebeling, si rinviene la “insuperabile espressione dell’ uomo nella sua struttura fondamentale”. In qualsiasi posto del mondo ripetessimo l’esperimento, conclude, otterremmo lo stesso risultato. Il modo di gustare la vita è, dunque, direttamente proporzionato al modo di gustare la Parola. Quando ci manca il ‘divino nutrimento’, in realtà, prima dell’uomo se ne rattrista Dio. Gutemberg, inventore della stampa, quando pubblicò la prima Bibbia, accompagnò l’evento con questa considerazione: “Dio soffre perché la moltitudine degli uomini non può essere toccata dalla Parola Sacra”. Pochi, prima della sua invenzione, infatti, vi accedevano. Più circola la parola divina e più cresce il gusto di assaporarla e più possibilità si danno di condurre una ‘vita santa’. Un padre del deserto consigliava di introdurre una parola della Scrittura nel cuore di un fratello se invaso da pensieri insani. Un altro padre del deserto fa sentire in bocca la freschezza che viene dal ruminarvi la Parola. Abba Macario richiama un ricordo dell’infanzia: donne e ragazze masticavano, per addolcire la saliva, profumare l’alito e purificare il fegato, “una specie di gomma”. Sfruttando questo ricordo, Macario offre una lezione sui benefici derivanti dal gustare – ruminandola a lungo – la Parola : “Se una cosa tanto materiale (come quella ‘specie di gomma’)dona tanta dolcezza a coloro che la masticano, quanto più il cibo di vita (…), il Nostro Signore Gesù Cristo, il suo alto e benedetto nome, fa svanire i demoni quando lo sentiamo in bocca. Se ruminiamo questo nome, masticandolo con costanza, la guida di un anima e corpo illumina la nostra mente, caccia tutti i pensieri cattivi dall’anima immortale e le rivela cose celesti, e soprattutto (…)Nostro Signore Gesù Cristo”. Il gusto della Parola, insomma, garantisce il gustare pienamente la vita allontanando quanto ce la rende priva di profumi e freschezza.
Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame (Gv 6, 35)
1. La teologia contemporanea, marcatamente tedesca, operando secondo i principi dell’ermeneutica, inquadra la Rivelazione come ‘evento linguistico’ (Sprachereignis), ‘accadere della parola’ (Wortgeschehen). Anche se il cristianesimo è legato alla parola, non tutto il suo senso si esaurisce nei testi sacri perché, essendo parola di Dio, non vive unicamente nei limiti dello scritto. Il Vaticano II invita a frequentare con assiduità le Scritture, dalle quali apprendiamo la sublime conoscenza di Gesù Cristo (Dei Verbum, 25), ma è consapevole che bisogna aggiungere qualcosa. Il segmento aggiuntivo lo si rinviene in un documento CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: anche qui si raccomanda l’assidua lettura dei testi sacri, ma si precisa che va praticata “nella fede della Chiesa”. Il gusto della Parola non coincide del tutto con la fruizione estetica della Scrittura, ma si configura soprattutto come attività ecclesiale, impegno comunitario. Era già chiaro agli autori dell’Antico Testamento. Nel Libro di Neemia (7, 72b – 8, 18), lo scriba Esdra legge e commenta solennemente, il giorno della Festa delle Capanne, la Torah a Gerusalemme per il popolo. Al capitolo 8, versetto 12, ecco come reagisce l’assemblea, gli uditori della Parola (Rahner): “Allora, tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni ai poveri e a far festa perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate”. Gustare la Parola , ecco la prima lezione che si ricava da questo passo biblico, significa andare oltre la fruizione estetica: la gioia per quanto si ascolta dipende dall’aver compreso. La comprensione, secondo insegnamento, non si ferma a livello intellettuale, ma si slarga in gesto caritatevole: mangiare e bere, sì, ma condividendo il cibo con i poveri! Il nutrimento celeste che è la Parola , come il cibo materiale, va diviso ma, in questo caso, con i poveri in spirito che non hanno il privilegio di partecipare alla proclamazione della Torah. Chi gioisce nella comprensione dei logoi biblici, deve dimostrarlo condividendo il cibo materiale e quello spirituale.
La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui (Gv 6, 55, 54)
2. Un autore ebreo contemporaneo segnalò che la Rivelazione è, in primo luogo, un evento acustico. In Deuteronomio 4, 10 – 12, sull’Oreb, Mosé udì, traducendo letteralmente l’espressione ebraica zulatì qol, ‘nulla se non una voce’. Voce che ha dettato regole ben precise per la nostra vita e, dunque, gustare le parole sante implica il farne esperienza. Secoli dopo l’avvenimento rubricato in questo brano biblico, tenendo conferenze ai suoi monaci, Cassiano precisò che “il senso delle parole non ci viene regalato da una qualche spiegazione, ma dalla viva esperienza che noi stessi ne abbiamo fatto”. Quelli che a Gerusalemme accolsero la lettura e le spiegazioni di Esdra come agirono? Fecero festa, banchettarono, ma divisero il cibo con i poveri: fecero, cioè, esperienza del fatto che tradurre la Parola significa convertirla in ‘gesto’, ‘concreto interesse per l’altro’ perché, essendo dono di un Altro, ha in sé tutte le provocazioni tipiche di una concezione della vita improntata all’alterità.
Non vi è progresso nella vita spirituale senza una frequente comunione (Basilio di Cesarea)
3. Come abbiamo bisogno, finché viviamo, di mangiare, bere, così, per tutta la vita, la Parola rappresenta il nutrimento da assumere con gusto. Se nell’ascoltare la Scrittura si cresce in Sapienza, va detto che il termine è compromesso, etimologicamente e da un punto di vista semantico, con sapore. La Parola ha un sapore che, mangiando mangiando, scopriamo elargitore di nuove fragranze. Origene diceva che “l’anima è sempre nuovamente chiamata dal buono al migliore, e dal migliore all’ottimo”. Il sapore del sapere teologico chiede di essere percepito con intensità sempre crescente. Quando la vita diventa insipida, quando le amarezze ce ne tolgono il gusto, la Parola arriva ad insaporire il tutto.
È una esperienza che possiamo rintracciare in una grande figura mistica: Angela da Foligno. Racconta di aver tentato, un giovedì della settimana santa, di fare il vuoto nella mente per meditare sulla morte di Gesù; mentre si predisponeva al raccoglimento, subitamente, scrive, “una divina locuzione risuonò nell’anima: non ti ho amata per scherzo”. Ancor prima di meditare, prima di adeguare l’ambiente interiore alla Parola, una divina locuzione la visitò: Gesù, con la Passione , mostra di averci amato a caro prezzo! Quando stentiamo a predisporci alla meditazione, la Parola è tanto sapiente e saporita da precederci perché sa bene che, talvolta, la nostra anima vive momenti di difficoltà, di aridità. San Bernardo diceva che l’uomo può cercare Dio, trovarlo, ma non precederlo. Egli si fa assaporare prima che ci prepariamo ad alimentarcene!
Questo Pane quotidiano è il rimedio all’infermità quotidiana (Sant’Ambrogio)
4. Non si esaurisce la vita cristiana nell’accoglienza dei testi sacri. Gregorio di Nazianzo, domandava: “Vuoi diventare un giorno teologo e degno della divinità?”; ebbene, continuava, si comincia dall’osservare i Comandamenti e si procede praticando i precetti. La comunità di Gerusalemme alla quale Esdra si rivolgeva, mostrò di aver gustato e compreso la Torah proprio praticando la carità. La ‘pratica’, scrive Gregorio, “serve da marciapiede alla contemplazione”. Chi gusta la contemplazione senza praticare i precetti, dunque, non è teologo! Gustare la Parola significa accettare, senza sentirsene sminuiti nell’amor proprio, che quanto in essa è veicolato supera la nostra capacità di coglierne ‘interamente’ il sapore. Conclude Gregorio: la “verità ti supera nella misura in cui il tuo essere è superato dall’essere di Dio”. Gustare la Verità è sentire la gioia della superiorità di Dio.
Colui che è sempre si propone a noi come nutrimento, affinché avendolo ricevuto in noi diventiamo ciò che egli è (Gregorio Nisseno)
5. Nella vita ordinaria, quando si ha successo, quando facciamo progressi intellettuali siamo tentati di farne materiale per accrescere il nostro ego. Gustiamo ciò che siamo diventati dimenticando di inviare porzioni dell’ alimento – successo a chi non ha la nostra stessa fortuna. Nutrirsi della Parola, invece, provoca atteggiamenti opposti. Se – come ricordava Gregorio di Nazianzo – la Verità e l’essere di Dio ci superano, non possiamo non riceverci dalle mani di un Altro. Consapevoli che gustiamo un dono e non una conquista, diveniamo ricettivi ed oblativi. Gerardus van der Leeuw, scrive: “L’homo religiosus (…)cerca costantemente nuove superiorità” ed in questo, diciamolo, non differisce dall’uomo che tende a realizzarsi oriz zontalmente; tuttavia, precisa lo studioso, “alla fine raggiunge il limite e vede che non raggiungerà mai la superiorità ultima”. L’uomo religioso incontra il limite non come qualcosa che toglie il gusto della ricerca, ma come il momento in cui fermarsi per riceversi dalle mani di un Altro. Conclude van der Leeuw: la superiorità ultima “raggiungerà lui, in modo incomprensibile, misterioso”. In questo caso, il gusto della ricerca si converte nella capacità di percepire il sapore di un sapere donato nel mistero e non acquistabile nella competizione.
[Cristo]: Io sono un nutrimento per quelli che sono giunti alla forza virile. Non tu mi cambierai in te, come fai con gli alimenti del tuo corpo, ma tu sarai cambiato in me (Sant’Agostino)
6. Essere avidi della ricchezza della Parola non è vizio intellettuale, ma necessità insita nella Cosa stessa. Il diacono sant’Efrem avvisava che non si deve mai credere che “non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che” siamo stati capaci di cogliervi. Ci tocca gustare, in questo caso, solo “una cosa fra molte altre”. Di fronte alla Scrittura restiamo nella doppia condizione di proprietari ed eredi. Conclude sant’Efrem: “Quello che hai preso e portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità”. A Gerusalemme Esdra accese la gioia nell’assemblea che fece festa e praticò la carità, ma si tratta di atteggiamenti da riproporre. Come ci si nutre nell’Eucaristia del corpo di Cristo reiteratamente, così deve accadere con la Parola. Si tratta di due sacramenti; non a caso, Bonhoeffer parla di sacramentum verbi ‘sacramento della parola’. Come l’Ostia consacrata si riceve, attraverso la bocca, nel cuore, così la Parola di Dio entra dall’orecchio e deve collocarsi nella parte più intima di noi. Questo, forse, intendeva dire San Girolamo esortando i fedeli ad edificare nel proprio cuore la biblioteca di Cristo. I Profeti invitavano a mutare il cuore di pietra in un cuore di carne: le parole dei Comandamenti impresse sulla pietra tra le mani di Mosé, devono trovare accoglienza nella biblioteca del cuore. Origene, pensando a questo, amava dire che Gesù ha scritto nei cuori il Deuteronomio. La patina legalistica ed esteriore della Legge è stata inondata di luce trasferendola nell’essere. L’Incarnazione del Verbo impone di non considerare i vangeli semplicemente dei testi. Il martire Ignazio di Antiochia, infatti, confessò ai Filippesi che si rifugiava nel Vangelo come nella carne di Cristo. La carne nutre ed essendo incarnato (sarx)il Logos, tutto diventa un fatto di gusto.
Diventate quello che ricevete! (Sant’Agostino)
7. La Scrittura , ad ogni modo, va intesa a due livelli: da un lato dice; dall’altro, annuncia. San Gregorio Magno insegnava che la Bibbia ricorre ad una stessa parola per esporre il testo e per enunciare un mistero.Ci dice “ciò che è stato in modo tale da predire con ciò stesso quello che sarà; e, senza mutare l’ordine del discorso, con le stesse parole sa descrivere ciò che è già compiuto e annunciare quello che sarà”. In ogni storia raccontata nei testi sacri c’è profezia: gustiamo l’accaduto prefigurandoci quanto accadrà. Si deve attivare l’intelligenza per comprendere cosa è accaduto in un determinato luogo, in un preciso momento storico; a rendere, però, non un esercizio meramente accademico tutto questo, è la consapevolezza che, quelle stesse parole, dicono quello che sarà. Si tratta di vivere la Parola rendendola presente in vista del futuro (escatologico) in quanto siamo chiamati a collaborare al progetto di Dio. La Parola si gusta meditando ciò che è stato e collaborando a quello che sarà. Ciò che gusta l’intelligenza deve attualizzare – aiutando a nascere il futuro – la pratica. Nel Talmud di Babilonia, leggiamo: “Rabbi Yochanan disse a nome di Rabbi Shimon bar Yochai: ‘È più importante vivere la Torah che studiarla, secondo quanto fu detto: ‘C’è Eliseo, figlio di Safat che versava l’acqua (simbolo della Torah)sulle mani di Elia’(2Re 3, 11). Non è detto ‘studiava’, ma ‘versava’. Ciò significa che la pratica della Torah è più importante del suo studio”.
Gesù vuole che noi diventiamo suo corpo non solo mediante la carità, ma realmente, mescolandoci alla sua stessa carne (Giovanni Crisostomo)
8. Il gustare la Parola consta di due momenti: nutrimento intellettuale e traduzione pratica. Lo scrittore Erri De Luca confessa di provare commozione solo al pensiero che molti hanno letto, studiato, commentato la Scrittura ed aggiunge che il “sacro in sé della Bibbia è diventato, attraverso loro, una civiltà”.Non si può negare, infatti, che molto dell’insegnamento biblico sta alla base di idee, pratiche, linguaggi della civiltà occidentale. Carmine di Sante rintraccia nella Scrittura una carica sovversiva perché, contrariamente a quanto avviene in alcune epiche, la storia viene raccontata a partire dagli ultimi, non dai forti e dai vincitori. Molte culture si identificano “con l’ordine divino costituito” e non concepiscono una “idea rivoluzionaria del futuro”. Inoltre, la Bibbia è “una foresta simbolica inesauribile” e le immagini messianiche, escatologi che, le figure terrificanti di bestie, potenze demoniache possiamo utilizzarle come elementi che mettono in discussione i poteri mondani. Citando Okure, conclude Di Sante: “l’‘economia’, il ‘dio’ moderno si può paragonare al drago e alle sue bestie (Ap 12 – 13). Come il drago, essa ha le sue bestie, e i suoi falsi profeti, ai quali ha delegato i suoi poteri (…)del mercato e del liberismo”. Come sarebbe stato l’ Occidente senza l’assimilazione, da parte di Marx, del messianismo biblico,delle sue provocazioni soteriologiche, escatologiche? Il filosofo ateo marxista Bloch parla di rivoluzione rifacendosi continuamente all’esperienza esodale di Israele. E i sogni dei personaggi biblici nulla hanno che vedere con Freud? Chi gusta la Parola e ne sa cogliere, oltre il racconto di ciò che è stato, l’annuncio di ciò che sarà, percepisce più agevolmente il sapore – amaro o dolce – della storia di cui è protagonista.
La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non produce in noi altro effetto che quello di trasferirci in lui (Leone Magno)
9. La Scrittura , però, ha lo scopo primario di cristificarci; cioè, argomentava Clemente Alessandrino, di farci “vivere come Dio in carne”. Questo è possibile, continuava, solo obbedendo a Cristo e, “per suo mezzo”, seguendo la Bibbia. Occorre seguire Dio, insisteva l’Alessandrino, che conduce attraverso “le Scritture divinamente ispirate”. Il gusto della Parola si esplica per mezzo dell’intelligenza spirituale della Parola stessa. Come la si ottiene? Apprendiamolo dalla Pontificia Commissione Biblica che, ne La Bibbia nella vita della Chiesa, illumina: affrontando il “senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta”. Ecco il Centro: la vita nuova comunicataci dallo e nello Spirito a seguito della Risurrezione di Cristo. Un modo di leggere che non si ferma alla lettera uccidendo lo Spirito! Nello stesso testo, si precisa che si deve “leggere teologicamente la Bibbia in seno alla tradizione vivente con un autentico spirito cristiano”. La Parola sta in una tradizione vivente e non isolata e congelata in testi. Ireneo di Lione ammoniva gli eretici: se non si riconosce l’importanza della tradizione, non si possono attingere verità dalla Bibbia.
O Cristo, come posso essere giudicato degno di tenerti, abbracciarti, vederti, mangiarti, possederti nel mio cuore? (Simeone il Nuovo Teologo)
10. La prova certa che qualcosa vive risiede nel fatto che vivifica. Origene si chiedeva se, meditando e studiando, riuscisse con le parole ad accendere i cuori, ad infiammare l’anima di chi lo ascoltava. Sprigionandosi fuoco da ogni parola, si interrogava, riesco “ad attuare ciò che medito”? Nel commento al Salmo 38, confessò il desiderio di far diventare ‘parole di fuoco’ negli ascoltatori le ‘parole di Dio’. Si augurava che ciò si verificasse “prima nel mio cuore, poi anche nelle anime” dei fedeli. Non si è veramente teologo, esegeta se non si mira a rendere vivi i cuori con la Parola vivente. È significativo che anche Origene ammettesse di trovarsi di fronte ad un compito ciclopico e certosino. Si tratta di una preoccupazione che non sfocia, però, in pessimismo. Ilario di Poitiers, infatti, si diceva certo del fatto che la parola di Dio giova “all’intelligenza di un’anima religiosa”. Una comprensione più profonda della Parola si ha solo se la si esamina interiormente. Solo così, per Ilario, acquista un più di senso “che al momento in cui la si riceve dal di fuori con l’udito”.La parola di Dio va ruminata, masticata interiormente per scoprire se è o no saporita. Il gustarla consegue dal portare la Parola dall’udito alla riflessione.
Colui che si accosta alla Comunione deve farlo come l’affamato che mangia, come l’assetato che beve (Baldovino di Ford)
11. La Scrittura si esprime con linguaggio simbolico. Non è comunicativa in maniera diretta, analitica. Stando a quanto afferma Clemente di Alessandria, proprio perché questo tipo di linguaggio vela la Verità la rende “più grande e più augusta”. Le cose espresse direttamente, invita a riflettere l’Alessandrino, si possono cogliere soltanto in un modo; invece, si possono “trarre molte relazioni di senso (…)da ciò che è detto con parole velate”. Qui torna in gioco l’intelligenza spirituale che ha un gusto raffinato. Tuttavia, Agostino non nasconde il prezzo che si paga per questa raffinatezza: “È faticoso sia annunziare che ascoltare la parola della verità”; eppure, mai un vero teologo vi rinuncia. Agostino, perciò, invitava a sopportare “di buon animo questa fatica”. Siamo semplici operai in quel giardino di delizie che è la Parola che isterilisce nei cuori se non è coltivata con gli attrezzi umili eppur nuziali delle nostre parole. Ha il vero gusto della Parola, perciò, chi vi si confronta con umiltà. Origene affermava di aver donato la maggior parte del proprio tempo ad esaminare la parola di Dio ma, ammetteva, “non direi che ‘so tutto’, perché amo la verità”. Se l’amore per la Verità è autentico, si riconosce di essere in atmosfera agapica: il senso, qui, tanto è quanto se ne riceve. Per questo Agostino, nelle Confessioni, insegna che dobbiamo volere ciò che si ascolta dal Signore e non ascoltare da Lui ciò che si vuole. Lasciar essere la Parola , conclude, ci rende servi più fedeli!
Se dopo la comunione non sentite qualche effetto del cibo spirituale che avete mangiato, è segno che la vostra anima è malata, o che è morta (San Bonaventura)
12. Ho sempre insistito nel sottolineare che la Scrittura ci legge mentre la leggiamo. Gregorio Magno affermò che, ponendola dinanzi agli occhi della mente, la parola di Dio fa da specchio nel quale è possibile vedere il nostro viso interiore. L’uomo che prova gusto a sapere chi egli sia, nello sviluppare il gusto della Parola, trova occasioni irripetibili per condurre questa ricerca su se stesso. I responsabili della Chiesa primitiva ritenevano i catecumeni impreparati a ricevere il battesimo fino a quando non avessero letto le Scritture ed imparato i Salmi. Come posso sapere se sono cristiano se non apprendo dalla Parola come diventarlo? Il poeta e scrittore argentino Borges si esplorava ossequiando questo criterio: Io sono ciò che i filosofi mi hanno raccontato. Ma l’antropologia teologica presenta un altro racconto dell’uomo; offre una narrazione teandrica che si svolge, cioè, nel dialogo divino/umano. Nei capitoli di questo racconto, si mostra l’uomo com’è nelle intenzioni di Dio. Heschel disse che la Bibbia va considerata, più che un libro da leggere, un dramma a cui bisogna prendere parte. Un ‘dramma’ in quanto narra la lunga storia della fedeltà divina e della infedeltà umana. Si gusta l’agrodolce storia teologica dell’uomo nell’accendere il gusto della Parola.
Tutti gli effetti che il cibo e le bevande materiali producono sul corpo, e cioè sostegno, crescita, ristoro e gioia, l’Eucaristia li opera sulla vita spirituale (Concilio di Firenze)
13. Tutti possiamo tenere tra le mani la Bibbia e vedere se, come diceva Borges, siamo solo quello che ci hanno raccontato i filosofi o se non sia possibile anche una prospettiva altra sull’uomo. Che nessuno possa dire – a prescindere dalla fede – ‘non mi interessa la parola di Dio’ era già chiaro a Giovanni Crisostomo: ai suoi ascoltatori suggeriva di non sottrarsi alla lettura della Bibbia con la scusa di non essere monaci, sacerdoti. Diceva ai laici del suo tempo: “ne avete bisogno molto più di loro”. Chi vive ritirato, dedito alla contemplazione, porta un numero di cicatrici esistenziali inferiore rispetto “a coloro che si trovano in mezzo al mondo e ogni giorno ricevono ferite”; proprio a loro “occorrono soprattutto le medicine”. Non ci sono provocazioni bibliche che non possano interessarci in quanto uomini. Riflettendo sull’invito rivolto ad Abramo (di lasciare la sua terra e divenire un migrante), Filone d’Alessandria, commenta: “Se le migrazioni, quale le ha presentate il senso letterale delle Scritture, riguardano un uomo (…), sono anche, secondo le leggi dell’allegoria, applicabili a un’anima amica della virtù che cerca il vero Dio”. Detto altrimenti: come Abramo, ognuno di noi, se cerca la Verità , che è Dio, deve lasciare le proprie sicurezze intellettuali, affettive e divenire migrante, sviluppare il gusto dell’ignoto affidandosi solo ad una Promessa. Chi di noi, facendo teologia, non sperimenta l’uscita da sé, dalle proprie consolidate categorie di pensiero, per migrare verso un senso promesso?
Credetemi: a forza di adorare e mangiare la Bellezza , la Bontà e la Purezza (…), diventerete belli, buoni e puri (Francesco di Sales)
14. Commentando il miracolo di Gesù alle nozze di Cana riportato dall’evangelista Giovanni, Origene dipingeva una bella immagine: come dopo il Suo intervento l’acqua è mutata in vino, così la Scrittura , prima solo acqua, per mezzo del Logos sarx “è diventata per noi quel vino nel quale egli l’ha tramutata”. L’Antico Testamento non veniva smentito, ma assumeva un sapore nuovo: il gusto delle parole si accresce e completa come gusto della Parola. San Cirillo d’Alessandria, riferendosi a Matteo 5, 17 – 18, dove Gesù dice di essere venuto non ad abolire Leggi e Profeti, ma a completarli, elabora una interessante metafora: “Chi trasforma le immagini in realtà non le distrugge, ma le perfeziona”. Cirillo invita a pensare ai pittori: usano non cancellare i tocchi originari che servono a disporre i colori ma, stendendoli, fanno sì che si dia una immagine più chiara, visibile di quanto intendono rappresentare; ebbene, lo stesso fece Cristo che precisò le “rozze immagini” dell’AT “fino alla perfezione della verità”. Se con l’Antico Testamento, che non va rigettato, abbiamo gustato la Verità con rozze immagini, con l’intervento di Cristo ora gustiamo la Verità stessa che, nel sapore della Legge, riuscivamo soltanto ad intuire.
Dopo una buona comunione sentiamo il gusto di Dio e una nuova forza per mettersi al suo servizio (L. Lallemant)
15. Ugo Vanni ricorda che ad originare i libri delle Sacre Scritture è l’esperienza di vita di una comunità. In special modo gli scritti neotestamentari, continua, sono destinati ad una comunità e sono animati da una tensione interna che li riconduce al vivo della liturgia che ne è la fonte. La comunità che vive la liturgia è visitata dallo Spirito Santo che è uno dei sapori immancabili per formare il gusto della Parola. Origene invitava, perciò, a non fermarsi “al significato tutto esteriore della parola”; sarebbe, potrei dire, come mangiare la dura ed amara scorza di un frutto e gettarne l’interno, più dolce e nutriente! Origene invitava a volare più alto perché il senso divino riceve dallo Spirito Santo le ali. Chi non le utilizza per innalzarsi “al di sopra della lettera” – concludeva – vive una “vita di menzogna”. Nutrirsi male della Parola guasta il sapore della vita. Quando accostiamo la Bibbia , lo Spirito Santo è Presenza necessaria! Giovanni Cassiano insegna che la scienza umana non fa penetrare fino al cuore e al midollo delle parole celesti ma vi riesce la “purezza dell’anima, con l’illuminazio ne dello Spirito Santo”. Chi rumina il rivestimento della Parola e non ne trae i succhi vitali dal cuore e dal midollo, sta nutrendosi delle parole celesti senza lasciarvi entrare quel sapore veritativo che solo lo Spirito dona.
Quando Dio decise di dare alla nostra anima un alimento che la sostenesse nel pellegrinaggio della vita, volse lo sguardo alla creazione e non trovò nulla che fosse degno di lei. Allora posò lo sguardo su di sé e decise di donare la propria persona (Jean – Marie Vianney)
Il piacere che si prova in Dio è tale che non riusciamo a saziarci di lui. Quanto più lo gustiamo tanto più siamo in comunione con lui ed abbiamo fame di lui (Macario il Grande)
17. Se la Parola deve essere la nostra compagnia, se le parole bibliche devono scandire i momenti della giornata, è chiaro che non si può pensare di accostare i testi sacri unicamente come materia di lavoro ermeneutico, esegetico. Le Società Bibliche Internazionali assumono a loro motto una regola da registrare fedelmente: non basta possedere una Bibbia, bisogna leggerla e studiarla; non basta leggere e studiare la Bibbia , bisogna crederla; non basta credere la Bibbia , bisogna viverla. Da questo crescendo di applicazioni, si comprende che la Parola ‘genera’ ed ‘alimenta’ il gusto intellettuale (leggere– studiare), il gusto della fede autentica (credere), il gusto della vita (viverla). Pur insistendo su termini quali ‘parole, Parola’, è bene ricordare che occorre anche formare ed affinare il gusto del silenzio. Carlo Maria Martini parla di annuncio profetico e coraggioso del Vangelo. Impresa che necessita di ‘grandi silenzi’ e di ‘una parola chiara’. Anche il silenzio, tuttavia, deve essere imbevuto, dice Martini, di eloquenza profetica. Ciò, però, è chiaro solo in teoria perché, spesso, questa missione viene svolta ricorrendo a “parole che non stanno nello spazio della profezia”. Una parola che non susciti il desiderio di camminare verso il compimento escatologico della storia non è chiara e fa perdere, appunto, anche il gusto del futuro.
Prima di parlarci Dio parla attraverso la nostra sete per lui (G. Thibon)
18. La Chiesa prende sul serio la denuncia di Martini perché, gran parte dei mali dell’uomo contemporaneo, derivano dalla sua fame di senso. Nella Ecclesiam Suam, Paolo VI fu chiarissimo: “La chiesa entra in dialogo con il mondo in cui vive (…), si fa parola (…), messaggio, la chiesa si fa conversazione”(67). Affinché la parola che dona sia nutrimento di senso, occorre che sappia ascoltare il mondo e parli ad esso con un linguaggio nuovo, profetico; che sia capace di alimentare il gusto per il futuro (escatologico). E cosa è, per il linguaggio e la mentalità secolare, il senso? Bonhoeffer illumina quando afferma che il “concetto non biblico di ‘senso’ è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama ‘promessa’”. Qualsiasi cosa faccia, l’uomo vuole che qualcuno lo salvi: dalla morte, dall’angoscia…La Chiesa , suscitando nell’uomo contemporaneo il gusto della Parola, per mezzo di ‘grandi silenzi’ che ascoltano e di ‘parole profetiche’ che lo animino, deve mostrare che la fame di senso può saziarsi aderendo alla Promessa che Dio ha fatto all’uomo fin dalle origini.
L’anima cerca Dio, ma Dio la cerca ancora di più (Giovanni della Croce)
19. Bisogna mettere in stretta e dinamica relazione prassi e studio della Parola. San Basilio ci propone una riflessione: Cosa costituisce la fede? L’aderire pienamente e senza dubbi “alla verità delle parole ispirate da Dio”; Cosa caratterizza il credente? L’agire in conformità alla parola biblica, aderendo pienamente al suo significato senza manipolazioni: “Se (…) tutto ciò che non è della fede è peccato (…), ma la fede nasce dall’ascolto e l’ascolto dalla Parola di Dio, allora tutto ciò che è estraneo alla Scrittura ispirata, non derivando dalla fede, è peccato”. Si perde il gusto della vita cristiana quando l’ascolto non viene dalla Parola di Dio perché, ciò che non riceviamo da questa fonte, è peccato. Quanto ha esposto Basilio non è il cammino di un solitario. I nutrimenti della Scrittura vanno assunti nella comunità. Massimo il Confessore rilevava che la Parola va intesa nel senso interiore, spirituale. Questo, se si vuole evitare la deriva individualistica dell’approccio alla Scrittura, merita una precisazione che Massimo non omette: il senso interiore/spirituale della Parola è “spiegato dalla Chiesa stessa”. Chi si nutre in solitudine della Parola, rischia di condirla coi sapori delle proprie esigenze interiori e la trasforma, snaturandola, in manuale di psicologia, ricettario di consigli pratici…Origene rafforza il ragionamento: la lettura personale, interiore, consegue da una precomprensione ecclesiale della Scrittura. “Come hai imparato nella chiesa, insegna, tenta anche tu, dopo, di attingere alla fonte del tuo spirito”. Entrano nel gusto della Parola intuizioni personali solo dopo che abbiamo imparato nella chiesa il modo di confrontarci con i testi sacri; inoltre, nel momento in cui attingi alla fonte del tuo spirito, non deve prevalere il sapore intellettuale su quello spirituale. Agostino, nel De doctrina christiana, depositò una perla di saggezza che un esegeta deve incastonare nella corona delle proprie convinzioni: “Non si devono solo esortare gli studiosi della Bibbia perché conoscano il significato delle espressioni bibliche, ma anche – ed è la cosa principale e più necessaria – perché preghino al fine di comprendere”.
Il pane del cielo in Cristo Gesù (Ippolito di Roma)
20. Un equivoco assolutamente da evitare nel nutrirsi della Parola di Dio è considerarla l’equivalente della parola sacra. Francesca Brezzi spiega che la Parola di Dio è evento che instaura una relazione. Evento è quanto viene da ‘fuori’(ex); dunque, nulla che possa provocare il soggetto o un gruppo, una cultura. Mentre la parola sacra, spiega la Brezzi , è espressiva, quella di Dio è rivelativa! Quella sacra “si fonda sul valore magico, emotivo, onirico di certe espressioni, laddove la Parola di Dio rivendica (…)un’intenzionalità non coincidente con evidenza, e rifiuta la strumentalità espressiva, pur dando l’avvio al discorso umano”. La parola sacra fiorisce sulla bocca dell’uomo religioso, non dell’uomo di fede; mentre il primo tende, per mezzo di formule e rituali ad ingraziarsi il divino, a modellarlo ad usum Delphini, il secondo considera Dio Alterità assoluta, Amore assoluto che si dona nella libertà. Gustare la Parola di Dio significa lasciarLa accadere in noi, farcene lavorare senza condizioni o richieste interessate. Per questo non ne è possibile solo una degustazione intellettuale: non interessa esplorarla perché conferisce potere o rende magici, ma perché nel mentre La leggiamo ci legge invitando a rivedere la nostra vita. Schillebeeckx consiglia di non accostare la Parola unicamente nell’impresa ermeneutica; il cristianesimo, precisa, provoca il “rinnovamento dell’esistenza” e, dunque, la teoria rappresenta per esso solo un “momento implicito”.
Egli è il pane di vita. Chi mangia la vita non può morire (…). Andate a lui e saziatevi, perché egli è il pane di vita. Andate a lui e bevete, perché egli è la fonte (Ambrogio di Milano)
21. Che la Parola doni il gusto della vita rendendola pienamente vissuta si evince soprattutto dai precetti evangelici che San Cipriano definì “fondamenti su cui si edifica la speranza, sostegni che rafforzano la fede, alimenti che ristorano il cuore, timoni che dirigono il cammino, aiuti per ottenere la salvezza”. La mia sottolineatura mostra che, anche per Cipriano, la Parola nutre. I precetti evangelici non solo hanno potere nutritivo, ma anche sapore e, dunque, meritano di essere gustati. Le parole tra Dio e l’uomo, oltre a cementare la comunità, riempiono di gioia anche una relazione intima. Un Targum rilegge l’episodio del sonno di Giacobbe: questi ‘partì da Bersabea e si diresse verso Carran’(Gen 28, 10). Il Targum riferisce che ben cinque prodigi avvennero durante il percorso. A noi, però, interessa richiamare il primo: “le ore del giorno furono abbreviate e il sole si coricò prima del tempo, perché memra (in aramaico vuol dire la Parola di Dio), ardeva dal desiderio di parlare con lui”. La Parola vuole incontrare l’uomo e provoca un cambiamento naturale prodigioso! Questa voglia di dialogo inaugura la storia della salvezza. Un midrash, poi, riflette su Genesi 28, 11: ‘Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato’. “‘Perché il sole era tramontato [ki ba]. I nostri maestri hanno detto: ‘Egli spense [kiba]il sole’. Questo ci insegna che il Santo, sia egli benedetto, fece coricare il disco del sole prima del tempo, per conversare nell’intimità con Giacobbe, nostro padre”. Si muta (ki ba in kiba)senso al testo con un cambiamento vocalico che non danneggia il substrato consonantico. Gustare la Parola , stando a questa riflessione, non è solo, come nell’episodio di Esdra, evento comunitario, ma anche personale.
L’Eucaristia trasforma i fedeli in se stessa (Massimo il Confessore)
22. Prima di magnificare la relazione patica con la Scrittura , c’è da dire che una base di conoscenze tecniche è necessaria. Il gusto pieno della Parola è costituito anche da una esegesi irrobustita da cognizioni di linguistica, di storia, di estetica. Andrea di San Vittore, forse uno dei più importanti esegeti del Medio Evo, dà queste indicazioni a chi si impegna in un corpo a corpo con la Scrittura : “Sei scrupoloso e temi il rischio? Non ardire di insegnare! Accontentati di ascoltare. Sei fiacco, senza nervi e sopporti male il lavoro? Posa tavoletta e stilo: accontentati di leggere!”. Anche quelli meno dotati per le fatiche esegetiche non sono costretti a privarsi della Parola, ma ne fanno una esperienza, come dire, derivata. Ad ogni modo, Andrea, ai pavidi dà, con una metafora militare, un consiglio: “Ma ricordati che un soldato non deve fuggire il pericolo, né un uomo deve paventare la fatica”. L’esegesi non deve apparire, solo perché necessaria, arida in quanto, rilevava Massimo il Confessore, se tu non conosci le parole, non potrai risalire alla Parola. Tuttavia, non occorre affrontare il lavoro esegetico con accanimento intellettuale ma, suggeriva un autore medievale, alla Parola si deve muovere un dolce assedio! Mettere dolcezza nella meditazione è ritrovarla raddoppiata nell’alimento che ne ricaviamo perché la Parola di Dio è cibo dell’anima (Dei Verbum, 21). Non si può avere una teologia corretta, una comprensione del nostro credo autentica, senza aver compreso le parole che incontriamo nella Bibbia. Ricordo, a quanti pensano che si legge il testo sacro e si intende immediatamente il senso teologico dell’esistenza, una regola di Melantone: Scriptura non potest intelligi teologica nisi antea intellecta sit grammatice; cioè: La Scrittura non può essere intesa teologicamente se prima non è stata compresa dal punto di vista grammaticale.
[Il Corpo di Cristo]si dona a tutti i credenti come una semenza; in questa carne composta di pane e di vino, si mescola al loro corpo per far sì che l’uomo, mercé l’unione col corpo immortale, partecipi del modo di essere che non conosce ormai la corruzione (Gregorio Nisseno)
23. Goffredo, abate del monastero benedettino di Admont, in Stiria, nel Medio Evo, scrisse: “Chi comprende il mistero delle Scritture, vi troverà il Verbo di Dio”. Non si acquisiscono nozioni, ma la certezza di incontrare una Persona. Non leggere la Bibbia per incontrare Cristo ne polverizza il fine per il quale ci è rivelata. Insegnava Guglielmo di Saint Thierry, le Scritture vogliono essere lette con lo stesso spirito con cui sono state scritte! Per centrare l’obiettivo, occorrono molta fede ed un grande sforzo intellettuale. Agostino ricordava che è tale la profondità della Parola di Dio che non può non stimolare lo studio, né impedire l’intelligenza. Nelle Confessioni, poi, pregava Dio affinché lui stesso non si ingannasse sulle Scritture, né confondesse gli altri sugli argomenti di fede. In ogni epoca, esegeti, commentatori, devono salvaguardarci da quelli che Basilio Magno definiva i “falsificatori della verità” che operano “introducendo nella Scrittura le proprie idee sotto il pretesto dell’esegesi”. Senza questa vigilanza, si rischia di gustare cibo avariato e di nutrire gli altri con alimenti nocivi. Nella retta intelligenza dei logoi biblici ne va della vita. Scrisse San Benedetto: “Non c’è pagina, non una parola di cui Dio è l’autore, dell’Antico e del Nuovo Testamento, che non sia norma perfettamente retta per la vita umana”.
Il pane della comunione non è semplice pane, ma pane unito alla divinità (Giovanni Damasceno)
24. Il filosofo Carlo Sini racconta che venne chiesto allo studioso di logica Charles Sander Peirce cosa stesse a fondamento della sua disciplina: “fede, speranza e carità” fu l’inattesa risposta. Principi, è innegabile, desunti dal linguaggio teologico! Come possono avere diritto di cittadinanza nella Logica? Eppure sono le disposizioni fondamentali che rendono coerente e razionale il nostro agire. Peirce voleva far risaltare, scrive Sini, la “relazione tra il significato logico delle parole e la reale ‘vita’ dei discorsi” che si animano tra persone. Sini analizza i tre vocaboli richiamati dal logico americano: 1) fede: necessaria per credere “che c’è qualcuno là, che ci potrà rispondere”; 2) speranza: se qualcuno ci ascolta, forte è la speranza di ricevere una risposta; 3) carità: è imprescindibile per sentirci accolti ed “insegnarci la via della buona risposta”. Tutto questo non può trapiantarsi sul terreno teologico? Che si cerchi il significato o si aneli al senso, ‘fede, speranza e carità’ sono elementi necessari per procedere in certe ricerche.
I nostri corpi che partecipano all’Eucaristia non sono più corruttibili, perché hanno la speranza della risurrezione (Ireneo di Lione)
25. Tutto per mezzo della Parola! Già questa convinzione ci fa comprendere quanto sia necessario imparare a gustarLa. Giovanni Crisostomo, commentando la Lettera agli Ebrei di Paolo, si ferma su questo passo: Cristo ‘sostiene tutto con la potenza della sua parola’(Eb1,3); tutto, cioè, viene governato e custodito per mezzo di essa. Se creare è trarre le cose dal nulla, tenerle in vita, visto che tendono a rituffarsi nel nulla, coordinarle malgrado si pongano in contrasto con la sola parola, non è cosa da poco. Sostiene, spiega il Crisostomo, significa pure che le cose vengono portate e non si tratta di un peso lieve! Se stupisce che questo compito Cristo lo svolga con la sua parola, va precisato che, se “a noi la parola sembra qualcosa di piccolo e debole, (…)Dio mostrò che in lui non è tale”. Questo acuto Padre della Chiesa, poi, commenta il resto della frase di Paolo: la mirabile opera di Cristo si realizza “dopo aver compiuto la purificazione dei peccati”. Prima di occuparsi a salvaguardare le cose Cristo, conclude il Crisosto mo, mostra la “sua sollecitudine verso gli uomini. Grande cosa era che egli conservasse e governasse tutto il creato; ma questa è ancora più grande e universale”. L’uomo, dunque, è sempre il primo pensiero di Dio!
Il pane diventa il pane del cielo perché su di esso viene a posarsi lo Spirito (Giovanni Crisostomo)
26. Nelle Fonti francescane troviamo un episodio che mostra come il Poverello di Assisi avesse a cuore prima l’indigenza dell’uomo, i suoi bisogni primari e poi tentasse di far nascere in lui il desiderio di gustare la Parola. In un eremitaggio situato sopra Borgo Sepolcro, venivano di tanto in tanto certi ladroni a domandare del pane. Costoro stavano appiattati nelle folte selve di quella contrada e talora ne uscivano, e si appostavano lungo le strade per derubare i passanti. Per questo motivo, alcuni frati dell’eremo dicevano: ‘Non è bene dare l’elemosina a costoro, che sono dei ladroni e fanno del male alla gente’. Altri, considerando che i briganti venivano a elemosinare umilmente, sospinti da grave necessità, davano loro qualche volta del pane, sempre esortandoli a cambiare vita e a fare penitenza. Ed ecco giungere in quel romitorio Francesco. I frati gli esposero il loro dilemma: dovevano, oppure no, donare il pane a quei malviventi? Rispose il santo: ‘Andate, acquistate del buon pane e del buon vino, portate le provviste ai briganti nella selva dove stanno rintanati, e gridate: ‘Fratelli ladroni, venite da noi! Siamo frati, e vi portiamo del buon pane e del buon vino’. Quelli accorreranno all’istante. Voi allora stendete una tovaglia per terra, disponete sopra i pani e il vino, e serviteli con rispetto e buon umore. Finito che abbiano di mangiare, proporrete loro le parole del Signore’.
Estraiamo, da questo brano, alcuni elementi: dare o non dare il necessario a chi non ha un comportamento irreprensibile è dilemma etico solo per chi istituisce il rapportarsi ad altri fuori dalle categorie etiche del Vangelo.
A quei frati, più confusi dal moralismo che infusi di morale cristiana, San Francesco risponde senza indugio: sì, i ladroni meritano assistenza! Nel pane e nel vino che ordina ai frati di portar loro, mi piace leggere un richiamo all’Eucaristia che si riceve in dono e non primariamente per merito. Francesco non si limita a dire ‘portate il cibo’, ma invita anche a servirlo e, precisa, stendendo una tovaglia per terra: anche questo possiamo leggere come un richiamo alla Santa Mensa. Dopo che hanno mangiato, occorre nutrirli ancora: aver gustato pane e vino li predisporrà certo alla degustazione della Parola.
Come precisa Paolo, Cristo si occupa innanzitutto di purificare l’uomo dal peccato. Francesco, dal canto suo, si occupa prima di togliere la fame e la sete di cibo materiale (evitando ai briganti, almeno per un po’, di delinquere), poi di suscitare il gusto per l’Alimento celeste.
Quando il Signore chiama suo corpo il pane fatto con l’insieme di un gran numero di granelli, rileva l’unità del nostro popolo. E quando chiama suo sangue il vino, spremuto da un gran numero di grappoli e di chicchi che formano un unico liquore, rileva che il nostro gregge è fatto di una moltitudine raccolta in unità (Cipriano di Cartagine)
27. Il ‘gusto della Parola’ costituisce un aspetto fondamentale dell’uomo e, come il latte un neonato, la Parola , alimentandoci, ci fa crescere. La Prima Lettera di Pietro, contiene questa esortazione: “desiderate, come neonati, il latte spirituale e puro, affinché vi faccia crescere per la salvezza, se avete gustato davvero quanto è buono il Signore”(2, 2 – 3).
La bontà di Dio ha sapore e, nutrendoci, ci fa crescere in umanità per salvarci. Cristo ci ha lasciato una Nutrice che ci somministri lo spirituale alimento. Scrive Gregorio di Nissa che l’uomo che “ha come madre la Chiesa succhia il latte della sua dottrina e delle sue istituzioni. Ha poi come cibo il pane celeste”. Il pane celeste è Cristo – pane vivo disceso dal cielo – che si dona nell’Eucaristia. Tommaso d’Aquino sostiene che “si gusta la dolcezza spirituale nella sua stessa fonte” quando ci si alimenta dell’Ostia consacrata!
Il tutto avviene grazie allo Spirito Santo che, per usare una espressione della sequenza della solennità di Pentecoste, diviene dulcis hospes animae, ‘dolce ospite dell’anima’. Quanto detto potremmo pregarlo con le parole dell’Inno liturgico alle Lodi del Lunedì: Sia Cristo il nostro cibo, sia Cristo l’acqua viva: in lui gustiamo sobri l’ebrezza dello Spirito.
Il festino mistico è preparato dal digiuno…Si compra a prezzo della fame, e la coppa della sobria ebrezza si acquista con la sete dei sacramenti celesti (Ambrogio di Milano)
28. Kierkegaard conosceva bene quante difficoltà impone la degustazione della Parola in quanto, di là di ciò che leggiamo, ascoltiamo, Dio continua a parlare. Come? Dice il filosofo danese: Tu parli anche quando sembri tacere. Si comprende più tardi ciò che si legge ed è come dopo una bufera quando “si gusta di più quel sole” che è tornato a scaldarci e ad illuminarci (corsivo mio). Kierkegaard invita a benedire sia il silenzio, sia la Parola ! In questo silenzio, apprendendo cosa davvero Dio voglia comunicarci, impariamo anche a trovare, col massimo senso di responsabilità, la risposta. Quando comprendere avviene con fretta, capita di dover dare ragione a Paul Claudel: Dio parla, ma per sfortuna è l’uomo a rispondere. Coltivare l’ ascolto è condizione previa per sviluppare un vero gusto della Parola. Prega Salomone nel Primo Libro dei Re (3, 9): wenatattà le‘avdekà lev šomee‘ a; di solito si traduce donami un cuore docile. In realtà, sarebbe corretto leggere donami un cuore d’ascolto! Il cuore che sa ascoltare è dono di Dio. Ma il nutrimento della Parola non è cibo che gonfia, che appaga l’intelligenza; è, in primo luogo, un dono/compito. Quale? Rispose Giovanni Paolo II che chiuse il Grande Giubileo del 2000 invitandoci a nutrirci della Parola ma per essere Suoi servi. Un servizio che rivoluziona il mondo e, sconvolgendo lo status quo, getta semi per sviluppare la civiltà dell’amore. Una riflessione etimologica: il Monte Horeb, sul quale Mosé ricevette le Dieci Parole, in ebraico deriva dalla radice h’arav,‘distruzione’. Attuando la Parola ricevuta si distrugge l’ordine malvagio del mondo. Quando nella Bibbia si dice che Dio si vendica dei malvagi, affrettatamente, si pensa ad una divinità crudele. In realtà, come mostra il Libro del Profeta Giona, quando si legge che Dio si vuole vendicare della pagana Ninive, in ebraico si ha naqam; ora, oltre a significare ‘vendetta’, il termine ebraico indica la ‘restaurazione del diritto’ o la ‘conversione’. Si distrugge il malvagio per farlo rinascere fedele a Dio. Dalla Bibbia dobbiamo saper trarre quanto dovrebbe dire al nostro tempo anche se, letteralmente, dice nulla. Neher pensava che il merito di Wiesel, lo scrittore ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, fosse quello di essersi disperatamente sforzato di far dire alla Scrittura ciò che non poteva dire perché è sorta quando Auschwitz non c’era.
Si cerca Dio per trovarlo più dolcemente, e lo si trova per cercarlo ancora più avidamente (Sant’Agostino)
29. La relazione Cristo/fame/sete è, per noi, strettissima. Lo provo con segmenti riflessivi saccheggiati dal repertorio di tre teologi. Comincio da Giovanni Cesare Pagazzi:
“Agli occhi del Figlio fame e sete parlano del Padre e della Sua attenzione perché egli ‘sa’ ciò di cui si ‘ha bisogno’ (cf. Mt 6, 32). Gesù riesce a vivere il bisogno come una rivelazione del Padre perché, pur nella fatica del tentativo e della tentazione, lo ospita, affidandosi a Colui che unicamente può nutrire (…). Il ricorso alla ‘fame’ per indicare la propria relazione con Dio – ‘Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato’(Gv 4, 34) – non rappresenta allora per Gesù un espediente retorico per imprimere forza di convinzione al Suo discorso, o una semplice allegoria, ma consiste in una vera e propria rivelazione. Come il Tesoro del Regno, s - coperto nella ferialità del campo, Gesù ri – vela, anche e perfino nella ‘quotidianità’ di fame e sete, il mistero della Sua nascita, il proprio legame di Figlio con il Padre. Fame e sete diventano vocabolario di carne e sangue per dire il mistero del proprio essere il Figlio”.
Il vero cibo per il credente è nutrirsi della volontà di Dio. Commentando le Beatitudini, Serenthà, scrive:
“Il mio nutrimento, ciò su cui faccio crescere la mia vita, così come il corpo cresce sul pane e sull’acqua, non è la mia volontà, ma la volontà di Dio. Io ho fame di Dio, ho sete di Dio; la volontà di Dio è il punto di riferimento per la mia esistenza. Mi affido a Dio…ciò che egli mi rivela lo mangio e lo bevo con quell’avidità con cui l’assetato e l’affamato bevono l’acqua e mangiano il pane”.
Resta sempre, velato o expressis verbis, il riferimento all’Eucaristia. Raccolgo l’ultima perla dalla bocca di un grande predicatore spagnolo, Luis de Granada che, nel XVI secolo, così diceva di Cristo:
“restando sotto forma di pane, è restato per essere mangiato (…). E viene chiamato pane di vita, poiché è la vita stessa, è la vita sotto forma di pane; perciò quest’altro pane a poco a poco dà la vita a chi lo mangia (…); ma chi mangia questo pane con dignità, riceve la vita all’istante, perché mangia la vita stessa. Cosicché, se questo cibo ti ripugna perché è vivo, avvicinati a lui perché è pane; e se lo rispetti poco perché è pane, stimalo molto perché è vivo”.
Potrebbe essere un fecondo esercizio spirituale meditare questi tre momenti e farne esperienza.
Nessun altro fascio di parole è comparabile a questi quattro covoni di celestiale frumento – i quattro libri del Vangelo – che da settecentomila giorni sfamano milioni di anime (G. Papini)
30. La tradizione ebraica invita a fare della propria casa un luogo nel quale si incontrano saggi e ordina: “bevi con sete la loro parola”. La Parola disseta. In primo luogo, però, occorre comprendere di che genere sia la nostra sete: è davvero tanto grande da potersi ritenere vinta soltanto dall’acqua spirituale? I sapienti di Israele, dicono: “Come l’acqua non è piacevole al corpo se l’uomo non ha sete; così la Torah non è piacevole all’uomo se questi non anela ad essa”. Nel Salmo 41, si legge: Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così ti cerca, Signore, l’anima mia. Sembra solo una bella metafora! In ebraico, però, per dire anima e gola si ha nefesh; possiamo concluderne, che sia la sete fisica che quella spirituale si placano in Dio! La Parola è anche vino: se questo migliora invecchiando, argomentano i rabbini, altrettanto le parole della Torah “migliorano invecchiando nel corpo dell’uomo”.
I Maestri di Israele definiscono la Torah un elisir di vita! La tradizione talmudica insegna che, se tre persone si mettono a tavola senza condividere parole di Torah, si comportano come se si cibassero di “sacrifici offerti a idoli morti” e, dice Isaia, le loro mense sono piene di vomito e di sterco. Se, invece, le parole della Torah vengono pronunciate, è come se i commensali “avessero mangiato alla tavola” di Dio e si può dire, con Ezechiele, questa è la tavola che è davanti al Signore. Una particolare condotta di vita, anche alimentare, è consigliata per mettersi alla scuola della Parola: occorre munirsi di un pezzo di pane con sale e bere con moderazione acqua. I sapienti ebrei meditavano su un passo dei Proverbi: chi cura il fico ne mangerà il frutto. La Torah , spiegavano, è come un fico. C’è, poi, qualcosa che non è commestibile in ogni frutto: i noccioli nei datteri, gli acini nell’uva e le bucce nelle melegrane. Solo il fico, concludevano, “è tutto mangiabile. Similmente nelle parole della Torah non c’è niente da scartare”.
Conclusione
Amerai come la pupilla dei tuoi occhi chiunque ti dirà la parola del Signore (Lettera di Barnaba)
Rabbi Nachman di Breslav disse che c’è una parola che genera luce ed una che si limita a trasmetterla. Si appoggiava a Genesi 6, 16: farai una finestra nell’Arca (tzohar taaséh latévah). Il termine tzohar significa ‘lucerna, finestra’. Questo passo interessò anche il grande commentatore ebraico Rashi che fece notare come la parola ‘finestra’ si potesse anche tradurre ‘pietra preziosa’. Mentre la finestra non ha luce propria, ma se ne lascia solo attraversare, una pietra preziosa prescinde dalla luce esterna. Tornando a Rabbi Nachman, se ne conclude: “ci sono uomini la cui parola è una finestra che non possiede il potere di far luce in se stessi. Essi parlano e le loro parole sono una finestra. Vi sono altri uomini la cui parola è una pietra preziosa illuminante. Sappi che tutto avviene secondo l’ordine di grandezza della verità, poiché l’origine della luce è” Dio che è “l’essenza stessa della verità”; ed è attraverso questa che Dio “sta accanto all’uomo”.
Prima, però, di operare la metamorfosi da finestra a pietra preziosa occorre a lungo farsi attraversare da Dio che è l’origine della luce che illumina il cuore (per l’ebreo sede del pensiero)ed è l’essenza stessa della Verità per mezzo della quale si colloca vicino a noi. Frequentare la Parola ininterrottamente affinché la luce, alimento spirituale, venga emanata da noi.
Da quanto detto, anche se poco, dobbiamo partire per riflettere su come nutrirci della sola Parola che sazi. Quando sperimentiamo l’aridità affettiva, spirituale, come Pietro ci rivolgiamo a Cristo: Signore, da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna (Gv 6, 68). Solo la Parola appaga il nostro desiderio di comprendere, con e nelle parole, il senso della vita. Da chi andremo? Da chi è venuto! Più che muovere verso il Verbo è il Verbo che, per riprendere ancora il vangelo di Giovanni, ha piantato la tenda in mezzo a noi. La tenda indica che si dà la Presenza , ma anche la possibilità che vada oltre; ma lascia lo Spirito che erompe dalle parole della Scrittura quando le leggiamo nello spirito con cui sono state scritte.
Consiglio, prima di tentare un corpo a corpo con la Parola , di pregare come Agostino nelle Confessioni (XI, 2, 3 – 4):
Siano le tue Scritture le mie caste delizie,
ch’io non mi inganni su di esse
né inganni gli altri con esse.
Concedimi tempo per meditare sui segreti della tua legge,
non chiudere la porta a chi bussa.
Non senza uno scopo
facesti scrivere tante pagine fitte di mistero.
O Signore, compi la tua opera in me
e svelami quelle pagine.
Ecco: la tua voce è la mia gioia (…).
Fa che (…)mi si aprano, quando busso,
gli intimi segreti della tua Parola.
Ti scongiuro per il Signore nostro Gesù Cristo,
in cui sono nascosti tutti i tesori
della sapienza e della scienza.
Questi tesori sono, Signore, nei tuoi libri.
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