Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Dal fango – dallo Spirito

Riflessioni sull’uomo.

Il Creatore ha fatto l’uomo per avere un interlocutore a sua somiglianza, e dunque un artefice, capace di far fruttificare in modo originale e novo di doni ricevuti (Claude Tresmontant)
Premessa
Fin dal terzo millennio a.C., l’uomo è percepito nel Vicino Oriente come “immagine” della divinità. Verso il 2060 a. C., un re d’Egitto, facendo delle raccomandazioni al figlio, gli diceva: “Occupati degli uomini che sono il gregge di Dio, perché ha creato il cielo e la terra nel loro interesse… Egli ha procurato il soffio di vita alle loro narici, perché essi sono ritratto uscito dalla sua carne”. In Egitto, una tradizione più diffusa fa del re “la statua vivente di un dio” […]: il faraone è immagine perché generato dalla divinità […]. Uno dei suoi compiti è di controllare il Nilo i cui straripamenti potrebbero ricondurre una specie di caos iniziale. In Assiria […] alcuni testi del VII secolo presentano un re come “immagine del dio Marduk” […]. Sembra che il privilegio di essere immagine di dio fosse esclusivo dei re [1].
Per l’antropologia biblica non il re, ma l’uomo in quanto tale, è immagine di Dio. Adamo è “immagine” (selem, statua, scultura; 1Sam 6, 5; Nm 33, 52) non e, ma per la “somiglianza” (Demut) con Dio. Essere “immagine” è il “dato”; accrescere la somiglianza col Creatore, il “compito”. Ha ragione, dunque, Marchadour a scrivere – nel saggio citato in nota 1 – che, per l’uomo, «essere a immagine di Dio è […] un programma meno chiuso di quello affidato a tutte le creature che sono fin dal principio proclamate buone da Dio» (pp. 60 – 61). L’uomo deve “diventare buono”, partire dall’essere “immagine” per raggiungere, quanto più è possibile, la “somiglianza” col Creatore. Siamo essere inquieti perché, secondo le tradizioni riportate in Genesi, Dio ci ha plasmati come un vasaio con la creta: impastati con terra, fango, ma ci ha anche alitato il Suo Spirito. Esseri “terreni” e “spirituali” allo stesso tempo, realizziamo il progetto di Dio quando le due componenti, ben armonizzate, guardano verso l’unica direzione: Colui dal Quale veniamo.
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Della creazione la Torà inizia a parlare per mezzo della seconda lettera dell’alfabeto ebraico, la bet. Perché non con l’alef, che è la prima? La bet è la lettera iniziale di běrākah, che significa benedizione; Alef è l’iniziale, invece, della parola ărârāh, maledizione. La creazione è, dunque, fin dall’inizio, “benedetta da Dio” e riconosciuta “buona”. È questo il confortante cardine sul quale far girare, poi, l’antropologia biblica dalla Bibbia. La tradizione ebraica, racconta: Dio vide che, creando l’uomo, si sarebbero avuti “giusti” e “malvagi”. Ecco il dilemma: vero che creandolo ne sarebbero discesi malvagi, ma altrettanto indiscutibile è il fatto che, non creandolo, i giusti non sarebbero mai venuti alla luce! Un sapiente ebreo sostiene che Dio si consigliò con gli “angeli” e ne ricevette questa domanda: “Qual è la natura di questo uomo?”. Il Creatore, rispose: “ne verranno dei giusti” – riprendendo, qui, ciò che dice la Scrittura (Conosce il Signore la via dei giusti). La citazione completa del passo, però, recita: e la via dei malvagi smarrisce (Sal 1, 6).
Il Signore omette volontariamente la parte negativa del versetto del Salmo. Potremmo dire, non mi si giudichi blasfemo, “è l’astuzia del Creatore!”. Se avesse rivelato agli angeli – conclude il sapiente ebreo – «che ne sarebbero discesi i malvagi, l’attributo della giustizia non ne avrebbe permessa la creazione». Dio fa di tutto per “crearci”! Rabbi Hunah sostiene che, mentre gli angeli discutevano sulla bontà del progetto/Uomo, Dio ne approfittò e, poi, disse loro: Che cosa discutete? L’uomo è già creato. [Cfr., Bersit Rabba (Commento alla Genesi), UTET, Torino 2000). Il desiderio di relazione del Creatore con la creatura rappresenta la parte costruttiva dell’antropologia biblica; l’uomo, però, oltre a godere dello Spirito che il Creatore alita in lui, è costituito anche dal fango col quale, narra un’altra tradizione presente in Genesi, è stato plasmato. Non si tratta di scegliere: né spirituale, né terreno; l’uomo è commistione, vive tra “terra e cielo” ed è, per questo, in accezione positiva, uno squilibrato (M. F. Sciacca). Sfugge ad ogni determinazione e, perciò, hanno ragione i sapienti ebrei a definirlo una variabile incatturabile del creato. Ascoltando la parte terrena di sé – perché Dio lo ha creato “libero” – l’uomo pecca. Una antropologia che voglia prendere sul serio le “zone d’Ombra” dell’uomo non può disconoscere, per dirla con Giovanni Paolo II, l’altissimo valore ermeneutico che il peccato originale ha per comprendere la natura umana. In un volume redatto da autorevoli studiosi, Parlare di Dio. Possibilità, percorsi, fraintendimenti, curato da Giovanni Mazzillo, Claudio Ciancio fa un’affermazione significativa: «il peccato originale è stato possibile perché la somiglianza dell’uomo con Dio ha potuto facilmente far dimenticare l’assoluta differenza» (Paoline, Cinisello Balsamo 2002, p. 49). L’uomo dimentica che somiglia al Creatore, ma non è creatore. L’antropologia biblica illumina anche le menti e le coscienze di noi contemporanei mettendoci in guardia contro il più grave dei pericoli: la superbia! Nella postmodernità, specialmente pensatori non credenti, patrocinano un’etica del limite, dell’incertezza, della finitezza; ebbene, in questo, il dettato biblico è attuale. Ecco perché è possibile, oggi, fare “antropologia ed etica filosofica” anche guardando alla Rivelazione ebraico – cristiana.
La nostra identità, per la fede cristiana, è un progetto ben delineato. Gregorio Nazianzeno, infatti, amava ripetere un insegnamento di Basilio di Cesarea: «L’uomo è un animale che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio» [Discorso 34, in lode di Basilio il Grande, 48 (PG 36, 560)]. Se per i Greci l’uomo è un microcosmo, per Gregorio Nisseno è microtheós (un piccolo dio). Origene, nelle Omelie sul Levitico (5, 2) poi, giustifica la definizione di “microcosmo” fondando su un passo del Vangelo di Matteo: “Voi siete la luce del mondo” (5, 14); se illuminiamo, vuol dire che conteniamo “sole e luna”… proprio come un piccolo universo! Una feconda lezione è rintracciabile in un passo del Discorso 45 sulla Pasqua [8 (PG 36, 850)] di Gregorio Nazianzeno:
«Dio pose l’uomo nel paradiso […] gli diede la libertà affinché la felicità del beneficiato non fosse minore di quella del benefattore. Gli comandò di vegliare sulle piante immortali, forse i pensieri divini […]. Gli diede […] un comandamento: gli alberi di cui poteva cogliere i frutti e quello che non poteva toccare […] quello della conoscenza. Non per la perdizione dell’uomo Dio in origine lo aveva piantato, e non per gelosia gli aveva proibito di avvicinarvisi […], ma per bontà […]. Era […] l’albero della contemplazione, che soli potevano penetrare senza danno coloro la cui preparazione spirituale aveva raggiunto una sufficiente perfezione […]. Quando […] il primo uomo soccombette […] fu separato dall’albero della vita, dal paradiso e da Dio stesso, e vestì delle tuniche di pelle – ciò che può significare una carne più spessa, mortale e recalcitrante […]. Ma ci guadagnò anche la morte […] affinché il male non fosse immortale. Il castigo divenne così amore per l’umanità».
Questo il punto centrale: malgrado col peccato l’uomo sia stato costretto a dotarsi di una carne più spessa, mortale e recalcitrante (ad accrescere, cioè, il peso del suo essere terreno), la situazione di degrado si converte in una sorprendente opportunità. Per comprendere lo snodo che qui assume il discorso, dobbiamo andare a quanto dichiarò il filosofo ebreo Lévinas nel 1957 nell’Abbazia di Tioumlilin (Marocco) in una conferenza sul tema “Una religione da adulti”. Raccontò un apologo rabbinico dal quale si evince come proprio il nostro spessore terreno, se mai disgiunto dal polo spirituale, sia un vantaggio nel comprendere la “Parola di Dio”:
«Un apologo rabbinico rappresenta Dio che insegna agli angeli e ad Israele; in questa scuola divina gli angeli (intelletti senza debolezza, ma senza malizia), domandano a Israele, posto in prima fila, il senso della parola divina. L’esistenza umana, malgrado l’inferiorità del suo rango ontologico, a causa di questa inferiorità, di ciò che essa implica di tormentato, di inquieto e di critico, è il vero luogo in cui la parola divina incontra l’intelletto e perde il resto delle sue virtù che si pretendono mistiche. Ma l’apologo intende anche insegnarci che […] gli uomini hanno accesso alla parola divina senza che l’estasi debba strapparli alla loro essenza, alla loro natura umana. L’affermazione rigorosa dell’indipendenza umana, della sua presenza intelligente a una realtà intelligibile […], implicano il rischio di ateismo […] che bisogna correre» (Cfr., e. lévinas, Difficile libertà, Editrice La Scuola, Brescia 1986, pp. 69 – 70).
Dio ha creato l’uomo libero perché lo ama fino a rischiare l’ateismo, il non amore della creatura. L’antropologia cristiana deve fare i conti con questa ambigua, pericolosa situazione e, ispirandosi all’etica biblica, lavorare affinché, mai sconfessando la nostra natura terrena, possa risultare sempre più evidente che abbiamo in noi anche lo Spirito, il soffio vitale del Creatore.
* * *
Non si insisterà mai abbastanza nel dire che il Dio della Bibbia è il Dio che interroga l’uomo (“Adamo, dove sei?”, “Caino, dov’è tuo fratello?”), perché vuole che sia lui, con la sua coscienza e con la sua responsabilità a trovare le risposte [2].
Ad un primo impatto, si può interpretare l’interrogarci di Dio come l’assunzione di un atteggiamento inquisitorio o, se preferite, una minaccia. La citazione, però, ci dice che Dio invita a responsabilizzarci, a trovare le risposte. Un domandare, insisto, che nulla ha che vedere con gli interrogatori disseminati di trappole tipici di scaltri investigatori.
La “domanda di Dio”, piuttosto, vuole dissequestrarci da “meccanismi di nascondimento”. Come Adamo, ci nascondiamo tra i “cespugli” delle più assurde e risibili giustificazioni. Dio – più che interrogare – vuol dialogare: è il Suo modo di cercarci che, allo stesso tempo, è il solo modo autentico che abbiamo per ritrovarci. La questione è stata posta da un filosofo ebreo contemporaneo. A suo dire, va meditato un misterioso paradosso della fede biblica: Dio insegue l’uomo! Si tratta non di un inseguire che evoca il gesto della belva feroce, affamata, che terrorizza inesausta l’agognata preda. È in atto, piuttosto, un “inseguimento amoroso”. Il nostro autore afferma che la storia umana – per com’è narrata nella Bibbia – sta tutta in questa proposizione: Dio è alla ricerca dell’uomo:

«La fede in Dio è una risposta all’interrogativo di Dio. Quando Adamo ed Eva si nascosero alla sua Presenza, il Signore gridò: “Dove sei?” (Gen 3, 9) […]. È un appello […] nascosto e attenuato eppure è come se tutte le cose fossero l’eco completa dell’interrogativo “Dove sei?”» [3].

Più che interrogazione minacciosa, dunque, il grido del Signore è appello! L’interesse che il Creatore mostra per la creatura non è dettato dall’esigenza di punire una trasgressione, bensì dall’insopprimibile anelito a restaurare una relazione. Di fronte alla “caduta dell’uomo”, Dio resta dolorosamente perplesso. L’espressione di Genesi 3, 9 (Dove sei?), in ebraico, suona: ayyekka; vocalizzando diversamente, si ottiene: eykh hawet che significa “come è potuta accadere questa cosa?”. Si può leggere anche eykha: “ahimé!”. La prima parola del rotolo delle “Lamentazioni”,  infatti,  inizia così: megillat eykha. Dio, però, di certo sa dove si sia nascosto Adamo e cosa ha fatto Caino ad Abele; allora, perché domandare? Alle affermazioni di Borsato ed Heschel si affianca la voce del midrash: «Come nel caso di Adamo, i rabbini ritengono che Dio conoscesse bene la risposta alla sua domanda. Ma essi vogliono sapere come Caino si comporterà a proposito del crimine commesso: lo negherà, si assumerà la responsabilità, si pentirà? Orbene, Caino sfugge dalle proprie responsabilità» [4].
La domanda rivolta a Caino è: dov’è Abele, tuo fratello? (Gen 4, 9 – 10). Adamo si nasconde dietro cespugli e Caino tenta di occultare le proprie responsabilità dietro un’altra domanda: sono forse io il custode di mio fratello? Dio chiede ad Adamo come mai – ahimé – è arrivato a tanto! Adamo, dove sei?, a che punto sei del tuo cammino di umanizzazione se ti sei ridotto a nasconderti a me? Sei precipitato sempre più in basso fino ad essere, in Caino, incapace di custodire tuo fratello? Il ‘paradosso’ sta nel fatto che il fratricida affermi di non essere il “custode dell’altro” e, allo stesso tempo, lo riconosce pur sempre come “suo fratello”. Se Abele è, in ogni caso, mio fratello, è vero immediatamente che ne sono responsabile. Non era sufficiente chiedere a Caino dov’è Abele? Che bisogno c’era di aggiungere tuo fratello? L’omicidio era già avvenuto quando si è accesa la domanda; era necessario, perciò, ricordare all’omicida la vera identità dell’ucciso. Nella risposta di Caino mi spingo ad intercettare un’accusa a Dio: non sono io, ma Tu, il custode di Abele. Non devi Tu, Dio, chiedere a me dove sia perché sei Onnisciente; non hai bisogno della mia risposta e l’altro, anche se riconosco che è mio fratello, non necessita della mia protezione. Dio, però, non chiede una informazione, né il rispetto di una “regola formale” quando ci chiede di “nostro fratello”, ma esige dal peccatore un’assunzione di responsabilità che è, di per sé, liberante. Se non si fosse inceppato rispondendo ad una domanda con una domanda trasudante ‘malafede’, ma avesse ammesso il suo folle e cruento gesto, Caino avrebbe cominciato un cammino di conversione a partire da quello che si può definire un “autentico ritorno a se stessi”.
Si precipita in un meccanismo perverso quando, per «sfuggire alla responsabilità della vita che s’è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento» e «l’uomo scivola sempre […] più profondamente, nella falsità» [5]. Sono parole del pensatore ebreo Martin Buber. Continua: quando Adamo affronta la ‘voce’ confessa di ‘aver peccato’ e di ‘essersi nascosto’: «Qui inizia il cammino dell’uomo. Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo […] il sempre nuovo inizio del cammino umano» (p. 23). Questo “cammino”, però, inizia ‘davvero’ quando l’uomo non attua quello che Buber definisce un ritorno perverso a se stesso; lo si evita quando l’uomo sa che può ravvedersi ed aprirsi al futuro: non si «inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile» (p. 24).

Si noti: nel rivolgersi ad Adamo, come a Caino, Dio non emette giudizi nel rivelare immediatamente le colpe commesse. Egli parla in forma interrogativa non per ignoranza, ma per dare all’uomo la possibilità di confessare la colpa: una confessione è già una pur larvata intenzione di rivedere criticamente la propria vita. La domanda apre spazi nei quali autonomamente prendere coscienza di se stessi; il giudizio, invece, distrugge ogni energia utile per riprendere il dialogo con l’Altro. Chi condanna chiude la questione. Scrive un letterato ebreo che il Signore vuole «dimostrare a Caino la menzogna in cui vive». Uno smascherare non cinico e desideroso di mostrare chi è che comanda, ma una possibilità offerta alla creatura di togliersi la maschera da sola. Per il nostro autore, il senso di questa cruenta storia riposa non sul rapporto d’odio tra fratelli, bensì «nel dialogo drammatico tra Caino e Dio». In questo caso, Dio ha un ruolo ancora più marcato rispetto ad altre vicende bibliche: «è ancora coinvolto in un intenso dialogo con l’uomo a proposito dell’interiorità, della sua intima verità e menzogna, dei suoi disegni […]» [6].

L’antropologia biblica mette di fronte ad un dato indiscutibile: «La storia di Adamo ed Eva si concentra sul rapporto tra uomo e Dio; la storia di Caino e Abele sul rapporto tra uomo e uomo» [7]. Devo dire, però, che anche nella seconda storia ci si gioca il rapporto con Dio, ma passando per la mancata custodia del fratello. Si rompono relazioni, si inceneriscono rapporti vitali. Per iniziare ad essere “produttore di Storia”, l’uomo recide il cordone ombelicale con l’eternità; da allora, sarà sempre inquieto ed in ricerca. Ha detto un antico autore cristiano: «Una vita senza eternità è indegna del nome di vita. Vera è solo la vita eterna» [8]. L’uomo, evadendo domande che potevano aprire un dialogo autentico, franco (parresia) col Creatore, rafforza smisuratamente la propria “radice terrena” e lascia isterilire quella “celeste”. Se dimentichiamo di avere in noi il “soffio creatore di Dio”, finiamo con l’essere solo terreni e, da qui alla bestialità, il passo è breve. Il male – che corrompe ‘ontologicamente’ l’uomo – trova ricettacolo in una amnesia: dimentichiamo come eravamo, per dirla con uno scrittore russo, “nelle intenzioni di Dio”. Un Padre della Chiesa aiuta a comprendere chi siamo proprio facendo memoria delle intenzioni con le quali il Creatore ci aveva posti nel mondo:

«Il Verbo di Dio prese una particella di terra appena creata, foggiò con le sue mani immortali la nostra forma e le comunicò la vita: giacché lo spirito che ha alitato in essa è uno sprazzo dell’invisibile divinità. Così dal fango e dallo spirito fu creato l’uomo […]. Questa è la causa per cui io, nella mia qualità di terra, sono attaccato alla vita di quaggiù, ma poiché ho anche in me una particella della divinità, il desiderio del mondo avvenire travaglia il mio cuore» [9].

La sfida è questa: riuscire a liberare la scintilla divina dal fango. Il che, va detto, non equivale a negare il fango. Difficile trovare un libro che, più della Bibbia, parli realisticamente dell’uomo.

Attingendo da un testo di antropologia biblica, infatti, mettiamo subito in risalto il potente senso di realtà che informa la Scrittura:

«L’AT […] non è un manuale, ma un libro di vita. Racconta di persone concrete, della loro grettezza e grandezza […]. Accanto alla grandezza dell’uomo […] “fatto poco meno di un dio [CEI: degli angeli]” (Sal 8, 6), sta […] il “Ma io sono un verme” (Sal 22, 7). Il fatto che l’essere uomo sia […] progettato proprio in questa tensione, rende […] il discorso dell’uomo nella prima parte della Sacra Scrittura cristiana capace di connessione con la modernità, nella quale l’uomo cerca di comprendere se stesso nel dissidio tra onnipotenza e impotenza» [10].

Nella modernità l’uomo adulto, il cogito autoreferenziale, l’eroe dei Lumi ha mostrato un volto orrendo: sterminatore di Ebrei, padre di Totalitarismi, autore ed attore di due Guerre Mondiali! La Bibbia l’aveva profetizzato mostrandoci l’aspetto mostruoso del cuore umano. Questo giustifica il tentativo di proporre – tra i tanti modelli antropologici oggi in voga – anche quello biblico. I Padri della Chiesa si specchiavano nella Scrittura per capire “chi è l’uomo” e, se esaminiamo attentamente alcune loro affermazioni, scopriamo una visione antropologica assai vicina alla nostra. Vi propongo un esempio sul quale potete meditare. L’uomo, diceva un Padre della Chiesa, «ha voluto impossessarsi delle cose di Dio senza Dio, prima di Dio, e non secondo Dio» [11]. Echeggia in questa frase la condanna di quella che Nietzsche, con malriposto entusiamo, teorizzerà come “volontà di potenza”. L’uomo vuole essere Dio e, perciò, ne proclama la “morte”… propedeutica al proprio suicidio.

I Padri hanno realisticamente registrato l’abbrutimento della creatura umana dopo il peccato originale; allo stesso tempo, però, tengono accesa la speranza interpretando l’entrata della morte nella storia come argine al peccato che, altrimenti, sarebbe diventato immortale:

«Quando a causa dell’odio del demonio […] il primo uomo […] fu separato dall’albero della vita, dal paradiso e da Dio stesso, e vestì tuniche di pelle – ciò che può significare una carne più spessa, mortale e recalcitrante […]. Ma ci guadagnò anche la morte […] affinché il male non fosse immortale. Il castigo divenne, così, amore per l’umanità» [12].

Dopo il peccato – vestendo tuniche di pelle – si è ampliato lo strato di carne mortale; siamo di più poveri spiritualmente: in noi, più fango e meno scintille divine! La carne – indebolitosi notevolmente il nostro corredo spirituale – è diventata, dice questo Padre, più spessa, mortale e recalcitrante. La morte, a questo punto, è stata un castigo d’amore. Quello che il nostro autore definisce il divino modo di castigare (la morte), non è altro che il depotenziamento del peccato che, con la fine della vita fangosa, perisce. Un apologeta tocca lo stesso tema e conclude: l’uomo «Dio lo scacciò dal paradiso e lo trasportò lontano dall’albero della vita […] non […] per gelosia […], ma […] per compassione, affinché l’uomo non restasse trasgressore per sempre […], affinché il male non divenisse senza fine, e quindi senza rimedio, Dio lo fermò […] nella sua trasgressione interponendo la morte» [13].

Da queste due interpretazione patristiche della “caduta dell’uomo” emerge un dato confortante: Dio non è contro l’uomo, ma contro il peccato; non è per odio che ci rende mortali, ma introduce la morte nella storia affinché il male non fosse immortale. Siamo usciti dal Paradiso, ma – potremmo dire con Kafka – non lo si è distrutto: la speranza che vi si torni, dunque, non è vana. Dio non ci limita per gelosia, per punirci, quando ci allontana dall’albero della vita: vuole evitarci l’insostenibile pena di trasgredire in eterno.

Sarete come déi! Il serpente parla così e non va molto lontano dalla verità. L’uomo, ovvio, non è Dio, ma ha in sé una indelebile “traccia” divina. Se leggiamo in ebraico il nome Adamo, scopriamo che lo possiamo scomporre in Alef dam; ebbene, l’Alef è la prima lettera dell’alfabeto ebraico ed evoca Dio e dam significa sangue. Mettendo assieme i pezzi, si ottiene: AdamoAlef-dam – ha Dio nel sangue! Il Signore chiama “Adam” il Suo interlocutore perché lo riconosce come colui che Lo porta nel sangue: chiama per nome! Un filosofo ebreo del Novecento, scrive: «Con la chiamata mediante il nome la parola della rivelazione entra nello scambio dialogico reale, nel nome proprio è collocata la breccia che interrompe il rigido muro della cosalità. Ciò che ha un proprio nome non può essere cosa» [14].

Riprendiamo la lezione di un sacerdote canossiano: «la mia identità è dentro quella di Dio […] perché in quella stessa Parola che parla di Dio sono invitato a cogliere anche la mia vocazione, il mio modo di rassomigliargli, il mio progetto esistenziale, il mio nome nascosto nel suo» [15]. Cercare la “propria identità” lontano dalla fonte divina è bere a tutte le fontane col rischio di ingerire acqua non potabile bensì, immagine biblica, quella attinta a “cisterne screpolate”. Importante è non dimenticare che Dio ci ha creati dal nulla, ma non per il nulla (Joâo Mohana). Se c’è una filosofia che nega Dio, ne abbiamo anche una che nega il sole: si chiama cecità (V. Hugo). Non è il sole a non esistere: piuttosto, è il renderci ciechi ad impedire di affermarne l’esistenza! Un Padre della Chiesa scrisse qualcosa che richiama il pensiero di Victor Hugo: «Se quando la luce brilla di un puro splendore… qualcuno vela volontariamente la propria vista abbassando le palpebre il sole non è responsabile del fatto che quegli non ci vede» [16]. L’uomo, peccando, spiritualmente si acceca. Giovanni Paolo II, in un libro filosofico, affermò: l’uomo «è se stesso attraverso la verità. La relazione colla verità decide della sua umanità e costituisce la dignità della sua persona» [17] . Accecandosi, però, l’uomo non rende padrone del mondo il buio: le palpebre abbassate esprimono una rinuncia alla verità e non la sua cancellazione. Voler considerare in noi solo la forma plasmata col fango per una esasperata nietzschiana “fedeltà alla terra”, non può mai corrispondere al disconoscimento della pura, solare luce spirituale che Dio ha infuso in noi.

Il Libro della Genesi mostra una scena assai potente dal punto di vista simbolico: «L’immagine del serpente strisciante, opposta a quella dell’uomo in posizione eretta in dialogo con Dio» [18]. Il male striscia nella polvere ed è appiattito sull’orizzontale perché non ha legami con la Trascendenza; l’uomo, invece, è in posizione verticale perché volge lo sguardo a Dio. Per alitare in noi lo Spirito Dio ha dovuto guardarci in volto, accostare le nostre labbra alle Sue. Un “bocca a bocca” ricco di pathos è l’infusione dello Spirito (ruach). Da allora l’uomo non può più sentirsi solo; nel senso, cioè, di creatura “sciolta” (absoluta, assoluta) dal legame col Trascendente. A livello umano è lo stesso: «Per vivere bisogna essere stati guardati almeno una volta, essere stati amati almeno una volta, essere stati portati almeno una volta» [19]. Dio ha guardato ed alitato nel fango di cui siamo fatti e, con lo Spirito, è entrato in noi l’Altro, per sempre. Torniamo a Rupnik. Perché l’uomo sta eretto e dialoga con Dio? C’è “armonia” e questa, all’inizio - «è possibile proprio perché si vive nella verità in cui Dio è Dio, l’uomo è uomo e il creato è creato»; dunque, «fino a quando l’uomo tiene conto di ciò che Dio gli ha detto, la verità del rapportarsi è nella gerarchia giusta» [20]. Verità è la distinzione (che non equivale a non – relazione) tra Dio/uomo/creato. Se l’uomo non tiene conto dell’ordo amoris voluto da Dio, ma impone, con superbia, l’ordo rationis da lui progettato, dimentica che la verità che ci tiene in vita è il corretto rapportarsi al Creatore ed al creato; c’è una gerarchia che, come i binari impediscono al treno, pur frenandolo, di deragliare, conserva, custodisce nel limite che non offende, ma difende dal peccato di hybris.
La misura di Dio è bene; la dismisura della superbia umana è letale. L’uomo sta in piedi, certo; ma – in definitiva – per stare di fronte a Dio e non per inorgoglirsi a detrimento di quanto domina. Si finisce per volere le cose senza Dio. Spiega Rupnik:
«Nel racconto del peccato originale, la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla persona all’oggetto - […]. Dio stesso diventa oggetto dell’uomo» (Dire l’uomo, p. 200).
Il tentatore lascia credere che l’obiettivo sia la cosa, non la relazione vitale con l’Altro. Dio, però, sconvolge i piani del male e proprio sul legno fissa la nostra indistruttibile certezza che è il Cristo: «il legno […] diviene luogo della reale divinizzazione». Il Frutto dell’albero/Croce è Cristo, “vero uomo e vero Dio” che realizza, ma stavolta per com’è nelle “intenzioni di Dio”, il proclama del serpente: sarete come déi! Siamo come déi perché Dio si è fatto come noi restaurando quella parte spirituale che il peccato aveva lasciato sommergere dal fango. L’antropologia che si accompagna alla staurologia (stauros, ‘palo’, ‘Croce’) motiva la nostra Speranza: siamo eredi dello Spirito che Cristo rimette nelle mani del Padre morendo, per noi, in Croce. La cristologia che molto riflette dalla staurologia porta l’uomo ad una nuova relazione con Dio. Rupnik, chiude: «Dio stesso si lascerà inchiodare sull’oggetto del legno, dove l’uomo fissa lo sguardo, per farsi di nuovo vedere, contemplare e riconoscere» (p. 205).

Bonhoeffer sosteneva che ci irrita non poco che la Bibbia parli del “principio”: non è – infatti – un discorso alla nostra portata. Il pensiero, tuttavia, ammette il teologo protestante, fa del desiderio di interrogarsi sul principio la propria “passione”. Tutte le altre “autentiche domande” possono essere solo grazie a questa interrogazione [21]. Il problema è che l’uomo pensa l’origine, Dio, a partire esclusivamente dalle possibilità della ragione; quando l’uomo «si arma […] di un’idea di Dio, per aggredire la concreta parola di Dio […] diventa egli stesso il Signore Iddio» e passa, potremmo dire, dall’obbedienza all’arroganza [22]. La corruzione della “libertà di pensare” all’origine, al Signore, apre le cataratte del peccato. Il problema del male non è altro, in gran parte, che il problema della libertà. L’ha detto Berdjaev e, dal canto suo, Bonhoeffer corregge il tiro: «La libertà è qualcosa di cui io non posso senz’altro disporre come se si trattasse di una proprietà, è semplicemente qualcosa che avviene […], che accade […] a me per mezzo dell’altro» (cit. p. 54). Lo scopo della vita umana è questo:  malgrado la dissomiglianza rendere possibile e mantenere la relazione con l’Altro. Bonhoeffer, precisa: «La somiglianza […] dell’uomo a Dio, non è analogia entis, ma analogia relationis» (p. 56). Che vuol dire? Il soffio di Dio nella forma umana ricavata dal fango, cioè, mira a dare alla creatura, restando intatta la sua invincibile natura terrena, qualcosa che lo renda spirituale e, perciò, capace di trovare una striscia di terra comune con il Creatore sulla quale attendarsi per “dialogare”. La nostra superbia, proprio perché lo Spirito è “dono”, non “merito”, non è giustificata. Siamo fatti anche di terra per non insuperbire di essere spirituali. Terra è humus, da cui “umile”. La certezza di essere anche spirituali ci evita di cadere nella disperazione per essere stati plasmati dal fango. I Padri del Deserto, ad ogni modo, per formare uomini veramente cristiani ed autenticamente umani, predicavano l’umiltà. Lo certifica una storia: «Disse Abba Antonio: “Vidi tutte le reti del Nemico stese sulla terra e gemendo dissi: chi dunque potrà sfuggire? E udii una voce che mi disse: l’umiltà”» [23]. Va bene interrogarsi sull’origine, su Dio, ma sempre a partire dall’umiltà se non vogliamo incagliarci nelle reti del Nemico (Satana).

L’errore della modernità è sintetizzabile nella formula del fautore dell’anarchismo e del socialismo scientifico, Michail Bakunin: Se Dio c’è, l’uomo è schiavo. Ma l’uomo deve essere libero: dunque, Dio non esiste. Ecco un letale sillogismo dell’amarezza (Cioran). Il diavolo, prima che simili posizioni si ammantassero di ragioni (falsamente) scientifiche, assalì con l’inganno l’uomo convincendolo – dice un Padre della Chiesa – «a divenire assassino e uccisore di se stesso» [24]. Si rompe, dunque, la relazione con Dio, col creato, col fratello, con se stessi: l’uomo si spezza dentro! Ci si sente liberi da, non liberi con, né liberi per: una solitudine disperata ci avvolge, fa impazzire. Scrive, puntuale, una studiosa: «Il peccato è la morte della persona in quanto esercizio della libertà contro la relazione» [25]. Le cose – dicevamo con Rupnik – prendono il posto di Colui che ce le dà. La Tenace, seminando in questo solco, conclude: «Una volta separate dal vero Dio, tutte le cose create possono diventare dio per l’uomo» (p. 95). L’uomo si uccide ontologicamente perché, negando di ricevere l’essere da Dio, separa in se stesso lo spirituale dal fango. La scissione interiore è il vero dramma umano: «Dov’è il peccato, c’è molteplicità, fratture, insegnamenti mendaci, litigiosità. Ma dove domina la virtù, c’è concordia, unità» [26]. Ogni uomo che causa una simile catastrofe ontologica produce una ferita anche nei tessuti vitali della “vita comune”: ogni colpa personale è un peso che grava sull’intera comunità – dice Bonhoeffer. Il filosofo Robert Spaemann, a questo proposito, ci dice che non bisogna farsi illusioni: la dottrina del peccato originale è una di quelle verità che «non possono essere dimostrate»; tuttavia, ciò non significa che «il credervi sarebbe senza conseguenze» [27]. Conseguenze che, come vuole Bonhoeffer, incidono sulla vita comunitaria. Il filosofo plana, infatti, sulla stessa convinzione del teologo luterano: «l’umanità […] in base a un’originaria colpa ha cessato di essere una comunità solidale […] e il peccato originale […] è […] la perdita dell’appartenenza a una comunità di santi […]. Si potrebbe quindi interpretare il peccato originale come la condizione di iniziale non appartenenza al popolo di Dio» (pp. 51 – 52). Si è liberi da legami comunitari, ma non pare che ci si possa esaltare per tale autonomia.
La libertà, corrompendosi, porta a non più riconoscere il “progetto di Dio”; istiga a voltare le spalle a quanto il Signore vuole da noi. L’uomo può sempre dire: “Non sia fatta la tua volontà”. Questa libertà dà origine all’inferno, sosteneva il teologo ortodosso Paul Evdokimov. La verità dell’uomo è nella relazione con Dio e non nella liberazione da Dio; la nostra verità è nella comunione e non nella ribellione. È stato opportunamente detto che la comunione con Dio è la vita e la separazione da Dio è la morte (Ireneo di Lione). L’uomo deve essere non inventore di se stesso, ma capace di lasciare che Altri sia il suo Restauratore. Lasciar accadere questo è santità. Lo è il lasciare che Dio faccia riapparire nell’uomo la sua immagine (Gregorio di Nissa).

L’antropologia biblica offre la mappa che indica i percorsi per giungere alla piena umanizzazione. Una antropologia sganciata dalla teologia perde di vista qualcosa di fondamentale: «l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito» [28]. La relazione con Dio è assoluta; sciolta (ab – solutus), cioè, da legacci malefici perché è una relazione che possiamo sperimentare grazie al nostro essere spirituali. Dio non proibisce, né vieta alcunché se non per lasciare in piedi la possibilità di avere con Lui una relazione sana, ininterrotta: «Dio vieta l’empietà e prescrive la giustizia, in quanto a Dio stanno a cuore gli uomini che da tali comportamenti vengono aiutati oppure danneggiati» [29]. Si vuole “giustizia” non perché sia un “valore in sé”, ma per il fatto che “comportamenti giusti” aiutano gli uomini.
Ciò che è giusto, dunque, non è tale in quanto ossequia la volontà arbitraria (volontarismo) di Dio (bonum quia iussum); lo è, piuttosto, per il bene stesso della persona umana (iussum quia bonum). Chi cresce nella giustizia, nella bontà, alla luce del Volto di Dio, dunque, fa qualcosa di fondamentale anche per se stesso. Un autore cristiano assai acuto, rileva:
il fatto di non progredire nella vita cristiana è già di per sé il peccato (Yves de Montcheuil). Chi getta sempre “fango” sulla propria parte “spirituale” danneggia la relazione con il Creatore, col Creato, con gli altri e pesantemente pecca. Se bruciamo relazioni vitali in Verticale ed in orizzontale abitiamo il mondo in maniera non autentica: senza Dio e senza il fratello, l’uomo perde la terra (Bonhoeffer). La libertà intesa come rifiuto di legami è la brutta copia di quella che un grande poeta italiano ha magnificato: «lo maggior dono che Dio per sua larghezza/fesse creando, e a la sua bontade/più conformato, e quel ch’è più apprezza,/ fu de la volontà la libertate/di che le creature intelligenti/e tutte e sole furo e son dotate» [30]. Compreso che la giustizia è cara a Dio in quanto aiuta, salvaguarda noi, si torna all’inizio. Ho detto che le domande “Dove sei?”, “Dov’è tuo fratello?”, offrono l’occasione di abbandonare l’ipocrisia, la menzogna. Dio corregge, non condanna: la correzione è amara quando la si riceve, ma produce frutti dolcissimi (San Girolamo). In Cristo, poi, abbiamo la certezza che la “Giustizia” non si dà mai senza l’“Amore”: non temo il giudizio, perché il giudice è mio amico (Teresa d’Avila). Cristo è il Capolavoro di Dio che restaura il capolavoro/uomo: sei stato creato a immagine di Dio e […] questa immagine è stata ricostituita in Cristo (Leone Magno).
La Bibbia presenta un’antropologia completa, onesta, concreta… mostra senza falsi pudori che la “creatura di Dio” è davvero costituita di fango (peccato originale, omicidio…); tuttavia, il messaggio finale è che l’uomo compirà certo questo percorso: per aspera ad astraper crucem ad lucem! La Parola è inequivocabile:

«… la Bibbia ci apre gli orizzonti e guarda verso il futuro, verso una terra da ricevere in dono e da conquistare, verso una città da costruire o da ricostruire, verso la venuta o il ritorno di un salvatore che riconcilierà le fazioni opposte di questo mondo» [31].

È la venuta o il ritorno – in carne umana – del Salvatore che mostra, con evidenza, che Dio non è stanco dell’uomo! Ogni Domenica, nel recitare il Credo, si dice che Cristo verrà a “giudicare i vivi e i morti”; sì, ma che intendiamo dire? Torniamo ad una questione già toccata; stavolta, però, ci istruisce Bonhoeffer:
«‘Cristo giudica’ significa anche: chi giudica è […]vissuto tra pubblicani e peccatori […], è stato tentato come noi […], ha portato e provato le nostre sofferenze, la nostra paura, i nostri desideri sulla propria pelle […], ci conosce e […] ci ha chiamato per nome» [32].

L’antropologia cristiana, dunque, non ignora le nostre “zone d’ombra”, ma ci annuncia che esse sono in attesa del sicuro riscatto ad opera della Luce (Cristo)!

L’antropologia biblica ci mette davanti un uomo perennemente in tensione, vivo, ricco di desideri che esplodono verso il Trascendente. Nei testi sacri scopriamo l’uomo dell’et et, che sperimenta una vitale situazione dialettica: è preso da tutti i lati da Dio; eppure, spesso è costretto a soffrirne l’assenza. A volte sente di essere più Spirito; in altri momenti avverte la sensazione che prevalga il fango. Il Salmo 139 inneggia all’onnipresente Signore: “Alle spalle e di fronte mi circondi.. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti” (5 ss.). Il Libro di Giobbe, invece, mostra l’orizzonte vuoto, l’attesa vana, il nascondimento del Volto: “Se vado avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento, a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo” (23, 8 – 9).
Il primo caso è quello dell’uomo con Dio: c’è armonia ed il nostro posto nel creato è ordinato secondo la gerarchia divina: Dio è Dio, l’uomo è uomo, il creato è creato è tutto si relaziona secondo giusta misura. La seconda condizione è quella dell’uomo piegato e piagato dal dolore al quale, come appunto Giobbe in un primo momento, non sa dare senso. Alla luce del “peccato originale”, prendendo sul serio il “peccato”, il “Male”, si può meglio  comprendere chi siamo. La Scrittura è una affidabile ermeneutica dell’uomo, della humana conditio.
Al n. 25 dell’Enciclica “Centesimus annus”, Giovanni Paolo II, infatti, sostiene che la “dottrina del peccato originale” «ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana. L’uomo tende verso il bene, ma è pure capace di male […]. Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta» accade che la politica diventi una religione secolare «che si illude di costruire il paradiso in questo mondo. Ma qualsiasi società politica […], non potrà mai esser confusa col Regno di Dio» [33].
Nel primo segmento del passo dell’Enciclica si dice che il valore ermeneutico della dottrina del peccato originale si evince dal suo essere un aiuto a comprendere la natura umana; nel secondo, si mostra la possibilità di interpretare (criticare, giudicare) anche le forme di società inventate dalla politica e rivestite di vernice celestiale affinché ci si illuda di aver riprodotto in terra il Paradiso. Nessuna invenzione politica potrà mai coincidere con il Regno di Dio. È tale consapevolezza a renderci davvero liberi e refrattari ad ogni forma di idolatria verso le ideologie.

Se Giovanni Paolo II rintraccia una nota positiva nella dottrina del peccato originale, Martin Buber, invece, sosteneva che, l’essere stati cacciati dal Paradiso, costituisca una benedizione: a partire da quel momento, non viviamo più in un ambiente sicuro, garantito, ma siamo costretti a percorrere le strade del mondo ed a fare la Storia. L’uomo – argomenta il filosofo – è «inviato da un posto, che era per lui prestabilito, su una via, la sua, la via dell’uomo. Il narratore ha certo avuto il sentimento […] che il mondo possa avere una storia e una meta storica soltanto tramite l’uomo» [34]. Più che per castigo, Dio ci rimuove dal “posto prestabilito” perché ci ritiene “capaci di scrivere la storia del e nel mondo”. Buber aggiunge che siamo stati creati con “due istinti”: quello “buono” e quello “cattivo”, entrambi, a suo avviso, necessari [35]. Se avessimo ricevuto soltanto quello buono l’uomo «non si unirebbe alla donna e non genererebbe dei figli, non edificherebbe case e non farebbe traffici commerciali». L’istinto cattivo, perciò, è detto anche il lievito nella pasta! Se è fonte di male, può essere stato Dio a mettere in noi tale istinto? In un «midrash si dice […] che Caino a Dio che gli chiedeva conto, rispose che fu proprio lui, Dio, che gli impiantò l’impulso cattivo; ma questa risposta è falsa, poiché soltanto attraverso l’uomo […] divenne cattivo» (pp. 31 – 32). Credo non vi sia nulla di cattivo nell’unirsi ad una donna; ma, se tutto si aggruma nella concupiscenza, nel vizioso, l’istinto riproduttivo diventa del tutto negativo. Edificare case ed edifici non è cosa cattiva, ma se in mezzo vi passano tangenti, crimini… Conoscere questa complessa struttura dell’uomo porta dalla riva antropologica a quella etica camminando su questa domanda – ponte: qual è il nostro compito se l’istinto buono e quello cattivo sono entrambi necessari? Dice il filosofo ebreo: «il compito dell’uomo non è di annientare in sé l’impulso cattivo, bensì riunirlo con quello buono» (p. 32). Il fine supremo, tuttavia, è quello di giungere ad “amare Dio con tutto il cuore” (Dt 6, 5); lo si inizia a fare nel modo giusto soggiogando entrambi gli istinti al servizio di Dio. Si tratta di rinvenire una direzione verso la quale far tendere i due istinti: «Unire i due impulsi significa: dotare la potenza interminata della passione […] di quella direzione che rende possibile il grande amore e il grande servizio. Solamente in questo modo l’uomo può diventare completo» (p. 33). L’uomo diventa completo unificando tutte le sue facoltà e quando la sua passione non vaga nel buio, ma si orienta a vivere il grande amore per Dio, il grande servizio al Signore agli altri ed al creato.

Ha detto un teologo che Dio non ha iniziato un mondo finito, ma ha iniziato un’avventura! Che parte abbiamo in essa? Proprio quella suggeritaci da Buber:  dotare la potenza interminata della passione di quella direzione che rende possibile il grande amore e il grande servizio. Questo è il cammino dell’uomo. Il “grande amore e servizio” per Dio, gli altri ed il creato si realizzano facendo della vita lo sforzo di accogliere il Signore, di essere Sua dimora. Per prepararsi degnamente al cammino, occorrono due cose: essere vivace nell’affetto per l’Altro ed altri, ma non mettere fretta alla propria anima nel raggiungere gli obiettivi. Si rischia di fare come quelli che fanno pellegrinaggi spostandosi da un luogo all’altro, ma il cuore rimane statico, non si amplia per accogliere Dio ed i fratelli, le sorelle. I “luoghi santi” vanno visitati, ma è il nostro cuore il paese che Dio gradisce abitare. Gregorio di Nissa, nell’Epistola 81, parlando dei “pellegrinaggi” fa una affermazione che è preziosa per affrontare il tema del cammino dell’uomo verso Dio: «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio».  

I saggi ebrei dicevano che la via più breve tra l’uomo è la verità è una storia. Ne raccontiamo due per insistere sul fatto che l’uomo deve avventurarsi nel mondo con entusiasmo per costruire in se stesso la “dimora di Dio”, ma che lo zelo non va confuso con una dannosa fretta: potrebbe farci saltare tappe necessarie per imparare sempre più a far rilucere lo “spirituale” attraverso il “fango”. La prima storia, appartenente alla tradizione ebraica, potremmo intitolarla: Uomo, diventa casa di Dio.

«Quando Rabbi Baruch arrivava alle parole del salmo: “Non darò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre fino a che non abbia trovato una dimora a Dio” (Sal 132, 4 – 5), si fermava e diceva a se stesso: “Fino a che non trovo me stesso e faccio di me una dimora pronta ad accogliere la Shekinah”» [36].

La seconda storia potremmo intitolarla: Come seguire il cammino di Dio? La preleviamo dai racconti degli anacoreti egiziani del secolo IV – V d. C.

«L’abate Ammone si recò un giorno ad attraversare il fiume (Nilo) e trovò la barca pronta; e le si sedette vicino. Ma ecco che giunse un’altra imbarcazione e traghettò (sull’altra riva) gli uomini che si trovavano lì. E gli dissero: “Abate, viene anche tu con noi”. Aveva con sé un fascio di giunchi, si sedette e iniziò a fare e disfare una corda, finché la barca si apprestò a partire, e così attraversò il fiume. I fratelli gli fecero una riverenza e gli dissero: “Perché hai fatto ciò?”. Il vecchio disse loro: “Per non andare sempre con la fretta nell’anima”. E questo è un […] esempio di come dobbiamo seguire il cammino di Dio con calma» [37].   


[1] a. marchadour, Genesi. Commento teologico – pastorale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 62.
[2] Cfr., g. b. borsato, Dio è una minaccia alla libertà dell’uomo? Linee di antropologia teologica, Ed. Messaggero, Padova 2008, p. 57.
[3] a. j. heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969, pp. 156 – 157.
[4] La Bibbia raccontata con il midrash. Presentazione e commenti di josé costa, Paoline, Milano 2008, p. 32.
[5] Cfr., m. buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano 1990, p. 21.
[6] Cfr. abraham b. yehoshua, Il potere terribile di una piccola colpa. Etica e letteratura, Einaudi, Torino 2000, pp. 13 – 15.
[7] Cfr., d. taub, Luci dalla Torà. Una lettura ebraica dei prime cinque libri della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, p. 9.
[8] agostino, Discorsi, 346, 1 (PL 38, 1522).
[9] gregorio nazianzeno, Poemi dogmatici, 8 (PG 37, 452).
[10] c. frevelo. wischmeyer, Che cos’è l’uomo. Prospettive dell’ Antico e del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 2006, p. 8.
[11] massimo il confessore, Ambigua (PG 91, 1156).
[12] gregorio nazianzeno, Discorso 45 sulla Pasqua, 8 (PG 36, 850).
[13] ireneo di lione, Contro le eresie, III, 23, 6.
[14] Cfr., f. rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 199.
[15] Cfr., a. cencini, La vita al ritmo della Parola. Come lasciarsi plasmare dalla Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, p. 25.
[16] gregorio nisseno, Grande Catechesi, 7 (PG 45, 32).
[17] Cfr., k. wojtyla, Segno di contraddizione, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 133.
[18] Cfr., marko i. rupnik, Dire l’uomo. Vol. I: Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2005, p. 190.
[19] chr. bobin, Beata solitudo, Qiqajon, Magnano 2002, p. 4.
[20] marko i. rupnik, Dire l’uomo, cit. p. 186.
[21] d. bonhoeffer, Risposte alle nostre domande. Pensieri sulla Bibbia, Queriniana, Brescia 2003, pp. 29 – 30.
[22] id., Creazione e caduta. Interpretazione teologica di Gn 1 – 3, Queriniana, Brescia 1992, p. 91.
[23] antonio, Detti, n. 7, in atanasio di alessandria, Vita di Antonio – Antonio abate, Detti e Lettere, Paoline, Milano 1995, p. 225.
[24] gregorio di nissa, Discorso catechetico, 6.
[25] michelina tenace, Dire l’uomo, vol. II: Dall’immagine di Dio alla somiglianza. La salvezza come divinizzazione, Lipa, Roma 2005, p. 52.
[26] origene, Homilia in Ezech, 9, 1.
[27] Cfr., r. s. spaemann, “Alcuni problemi riguardanti la dottrina del peccato originale”, in aa. vv., Tutta colpa loro? Un filosofo, un teologo e uno psicanalista a confronto sul peccato originale, ESD, Bologna 2008, pp. 31 – 54; qui, p. 33.
[28] Cfr., g. f. w. hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari 1967, vol. 2, § 482, p. 443.
[29] tommaso d’aquino, Commento al libro di Giobbe, ESD, Bologna 1995, cap. 35, p. 404.
[30] dante alighieri, Divina Commedia. “Paradiso” V, 19 – 24.
[31] Cfr., j. – l. ska, “Sacra Scrittura e Parola di Dio”, Studia Patavina 49 (2002), p. 22.
[32] d. bonhoeffer, Risposte alle nostre domande, cit. p. 69.
[33] giovanni paolo II, Lett. Enc. Centesimus Annus, 1 maggio 1991, in Enchiridion Vaticanum 13, pp. 38 – 183.
[34] Cfr., m. buber, Immagini del bene e del male, Gribaudi, Milano 2006, p. 20.
[35] Ci sono due modi per scrivere la parola “cuore” in ebraico: leb (una sola b) e lebab (due b). Il Salmo 111 ricorre al secondo modo: vuol dirci, cioè, che nel nostro cuore vi è sia l’anelito al bene che quello al male.
[36] Cfr., m. buber, I racconti dei chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 57. La Shekinah è la presenza di Dio che accompagna il popolo in esilio e soffre con lui.
[37] Cit. in josé m. garcía, Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo, Rizzoli (BUR), Milano 2008, p. 76.

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