COMUNICARE E FEDE
Ciò che è importante conoscere lo si raggiunge in altro modo che attraverso le parole
- Inno del giovedì santo
Credo che molti di noi, sedicenti cristiani, per dirla con Bloy, se fossimo soldati, avremmo meritato da tempo di essere fucilati per diserzione. Troppo spesso, infatti, omettiamo di comunicare la nostra fede, accontentandoci di un minimo di contegno morale dimenticando che, forse, la vita è qualcosa di più che non far male a nessuno. Comunicare la fede è proporre un messaggio che non si limita ad informare su qualcuno o qualcosa, ma che ha la pretesa – se accolto – di salvarci e – se rifiutato – di perderci. Essere cristiani è assumersi una responsabilità (responso – abile); essere abili, capaci di rispondere alle istanze di senso che vengono dal mondo. Giovanni Crisostomo, avvisava: “Dovremmo rendere conto non solo della nostra salvezza, ma di quella del mondo intero”. È stando nel cuore del mondo che bisogna rinvigorire la nostra capacità di comunicare le ragioni della speranza della fede. Guardare alla nostra destinazione escatologica e comunicarla è capire che, dice Sullivan, c’è un solo modo di essere fedeli all’eternità: essere attuali! La Parola impone che si comunichi, in primo luogo, attraverso quello che il Concilio Vaticano II, ha chiamato ‘il dono di sé’! In questo libretto si tenta di far comprendere che comunicare il Dio che abita i cuori significa fare dell’esistenza un inattaccabile trattato di apologetica cristiana perché, per dirla con Green, alla fine c’è una sola cosa che conti veramente: essere un santo!
Quando San Gaetano era in procinto di trasferirsi a Napoli, gli fecero osservare che la disponibilità dei napoletani sarebbe stata assai diversa da quella dei veneziani. Rispose: Non credo che il Dio di Napoli sia molto diverso da quello di Venezia. L’aneddoto fa comprendere che comunicare la fede esige assoluta fiducia nell’Oggetto (Dio) ed assenza di pregiudizi riguardo ai destinatari. Cosa significa comunicare? Dobbiamo risalire al latino communis, composto da cum (con) e dal tema muni (doveri, vincoli). Il tema, la cui radice è ma (cingere) origina, in latino, parole che veicolano il concetto base di stringere insieme; ad esempio, moenia, le mura che proteggono la città, da cui moenire e poi munire: ‘fortificare’; si ha anche munus, il ‘dono’ che lega ricevente e donante. Purtroppo, si dice sempre più spesso comunicare a che comunicare con: il messaggio conta più del destinatario [1]. Annunciare i principi della fede cristiana è fondare sulla Parola; infatti, le religioni occidentali sono legate a filo doppio all’annuncio, alla predicazione, alla parola ‘scritta’ ed ‘orale’. Il credente, anche se prega nel silenzio del cuore, ricorre a parole: “È evidente, dunque, quanto la crisi della parola comporti una corrispondente crisi della religione” [2]. La crisi non deriva solo da attacchi esterni, ma anche da errori interni addirittura alla formazione dei pastori. L’oblato benedettino Maurice Zundel racconta che, da studente, soffriva molto per il metodo di insegnamento della teologia praticato nel suo Istituto: “la parola di Dio diventava materia d’esame. Mi ricordo ancora delle lezioni, nelle quali dovevo provare l’esistenza di Dio con delle argomentazioni che non provavano proprio nulla. Mi vergognavo di tutto questo, che non avrebbe potuto convertire nessuno” [3]. Per chi comunica i contenuti della fede cristiana in questo modo, vale il monito dell’Abate Violet: non parlate di Dio, lo sciupereste [4]
Nel parlare di Dio dobbiamo usare perizia e delicatezza. Non condivido, spesso, gli aggettivi a cui si ricorre. Tillich diceva che, se applichiamo a Dio i superlativi, si trasformano in diminutivi. Usava l’espressione Dio al di sopra di Dio per dire due che: 1) Egli è sempre oltre le immagini e le espressioni utilizzate per mostrarLo; 2) Sopra di Lui non c’è altro! Facciamo un ragionamento. Se il Dio personale, della fede individuale, non fosse in relazione con il cosmo, sarebbe un idolo, un parto della fantasia; se il Dio sovrapersonale non avesse legami con ognuno di noi, scadrebbe a livello delle realtà fredde ed astratte. Cosa ci dice tutto questo? Che per “parlare di Dio vi sono (…) da un lato (…) il linguaggio personale della pietà, della relazione individuale; dall’altro (…) il linguaggio sovrapersonale dell’ontologia e della struttura (…). Non bisogna scegliere tra i due, ma unirli” [5]. Il silenzio ha un peso notevole per la teologia, ma si deve distinguere l’uso positivo da quello negativo. Gounelle spiega: se vale a screditare i discorsi intorno al divino indicandone limiti e lacune ha un “valore enorme”. Dio l’avvertiamo oltre il dire solo perché il silenzio “segue una parola”. Il tacere totalmente, invece, tratta Dio “come assente o defunto (…). L’apparente rispetto dell’adorazione senza parole conduce all’indifferenza” (cit., p. 36). Da due musicisti arriva la conferma a questa tesi. Il vescovo di Cadice, verso il 1785, commissionò a Franz Joseph Haydin, per musica strumentale (senza voci), una Passione. Ne venne fuori un oratorio: Le sette ultime parole di Gesù in croce. Destano una grande impressione le trombe ed i timpani unicamente usati per evocare il terremoto che accompagnò la morte del Salvatore. Haydin dice che ogni Sonata di cui è composta l’opera vuole – ricorrendo con semplicità ai mezzi offerti dalla sola musica strumentale – commuovere anche l’ascoltatore più inesperto. L’ opera dura “poco più di un’ora”, ma la caratteristica più degna di attenzione è che “dopo ogni pezzo sarà osservato un breve silenzio, per permettere di contemplare la Parola successiva”. Si tende, in ogni Sonata, - scrive una studiosa – a mostrare “con grande evidenza lo stato d’animo di Gesù” e di quanti l’attorniano al momento della crocifissione. Impressiona il ricorso frequente alle “note battute, quasi a sottolineare i colpi ricevuti, lo stillare di lacrime, sudore e sangue, il continuo pulsare del dolore” [6]. Gustav Mahler intitolò la sua Seconda Sinfonia Risurrezione ed inserì, tra il primo ed il secondo tempo, circa cinque minuti d’intervallo e, nella partitura, lo indicò esplicitamente: voleva che si ascoltassero, a strumenti fermi, ancora gli accordi precedenti consentendone anche una risonanza interiore. Comunicare è ricorrere anche al silenzio, ma solo dopo aver donato parole significative, proprio come le note utilizzate da Haydin e da Mahler [7]
Ogni linguaggio, per significare, ha necessità “di essere la mancanza dell’oggetto che mostra” [8]. Dio non è evidente in maniera immediata ed occorre la mediazione del linguaggio. La nostra comunicazione, in questo caso, deve nutrirsi delle parole della Scrittura. Il rischio, qui, è doppio: 1) siamo in grado di usare al meglio le nostre possibilità espressive per metterle al servizio della Parola? 2) abbiamo compreso chiaramente le parole bibliche che inseriamo nei nostri discorsi? I Padri del deserto hanno riflettuto su questo. L’abate Ammon chiese a Pastore: ‘Se mai nascesse in me il bisogno di parlare con il vicino di cella, di cosa dovrò parlare con lui, dei detti dei padri o della sacra Scrittura?’. L’anziano rispose: ‘Se non puoi evitare di parlare, è meglio che tu discuta sulla parola dei padri che su quelle della sacra Scrittura. In esse è un non piccolo rischio’ [9]. Comunicando la Parola stiamo attenti alle immagini scelte: possono essere esplicative, ma anche nocive! Sigmund Freud ricordava che, durante un viaggio in treno, all’età di circa tre anni, nella stazione di Breslavia, per la prima volta osservò le fiammelle del gas. Il bambino, terrorizzato, istintivamente riandò alla terribile visione dell’inferno che la nutrice gli aveva trasmesso [10]. L’arte, spesso, dona una feconda fruizione estetica della Parola. A Venezia, dietro l’altare maggiore della Basilica di San Marco, si ammira la Pala d’oro: un’opera di oreficeria bizantino/ veneziana del XIV secolo. Di forma rettangolare (m 3, 48 X 1, 40) è fatta con ottanta smalti che illustrano temi religiosi. Sulla pala molte pietre preziose rilucono e, attorniato dagli evangelisti, Cristo/Maestro siede in cattedra nel riquadro centrale. Con un braccio levato benedice e con la mano sinistra regge e pare donare il Vangelo le cui pagine sono coperte di gemme e perle ad indicare la preziosità della Parola. Ecco un uso positivo dell’Immagine. Mircea Eliade sottolinea che il pensiero simbolico “non è il dominio esclusivo del bambino, del poeta o dello squilibrato, esso è connaturato all’essere umano: precede il linguaggio e il ragionamento discorsivo. Il simbolismo rileva (…) aspetti della realtà (…) più profondi – che sfuggono a qualsiasi altro mezzo di conoscenza. Le immagini, i simboli (…), non sono creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una necessità ed adempiono una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere” [11]. Il discorsivo è analitico e richiede sforzo intellettuale; il simbolico è intuitivo e fornisce delle cose da comunicare una visione simultanea. Quello che conta è che il flusso di immagini qui non sia caotico e destinato solo ad eccitare i sensi. Le Immagini sono strutturalmente polivalenti e mirano alla realtà ultima delle cose che si dà nella contraddittorietà ad essa intrinseca. L’Immagine è ‘vera’ solo in quanto fascio di significati; non siamo sulla strada giusta se consideriamo solo un significato di essa. Questo spiega perché sia un errore tradurre in “una terminologia concreta” una Immagine appiattendola su uno solo dei suoi piani di riferimento; se così facciamo, scrive Eliade, “è peggio che mutilarla” e la si ‘annienta, annulla’ “in quanto strumento di conoscenza” (cit., pp. 18 – 19). Chi comunica i contenuti della fede soltanto attraverso argomentazioni e spiegazioni – in maniera analitica – si atrofizza nello sforzo di significare precludendosi lo spazio nel quale si dispiega il senso. Conclude Eliade: “ciò che mantiene ‘aperte’ le culture è la presenza delle Immagini e dei simboli: a partire da qualsiasi cultura (…) le situazioni – limite dell’uomo sono perfettamente rivelate grazie ai simboli che le sostengono (…). Se le Immagini non fossero (…) un’‘apertura’ verso il trascendente, in qualsiasi cultura, per quanto grande e ammirevole la si ritenga, si finisce per soffocare” (cit., p. 154).
Disconoscendo l’importanza della parola viva, della comunicazione diretta, si privilegia l’esposizione analitica dei contenuti della fede alimentando la memoria dei credenti in maniera infeconda. Si rischia, cioè, di arredarla con contenuti gelati, stereotipati. Bisogna stimolare in chi parla ed in chi ascolta la fedeltà creativa alla Parola: non ripetere pedissequamente parole bibliche, ma inventarle, restando fedeli al senso originario, all’interno di una situazione di vita. Comunicare solo accademicamente forma una memoria teologica che tiene ben fissi i contenuti, mortificando lo slancio operativo che li deve attuare. In generale, valgono le considerazioni di uno studioso francese: “se è fatale che la memoria parlata trasformi ciò che vorrebbe solo dire e ridire, è perché essa non può essere confusa con l’attività mnemonica, valorizzata e sfruttata dalle nostre società e che consiste nell’immagazzinare e nel riprodurre con assoluta esattezza serie di enunciati o di informazioni (…). Per imparare a memoria nel modo che ci è familiare, è necessario un modello fisso che permetta di correggere le inesattezze. Il testo scritto è il sostegno indispensabile di una memoria fedele, di una macchina che subordina all’occhio, allo sguardo, la parola divenuta silenziosa” [12]. Per l’ebreo, il termine ‘memoria’ (zikkaron), non indica una funzione meramente riproduttiva, ma un modo di ricordare che rende attuali, vivi qui ed ora, gesti e parole bibliche. L’attività mnemonica concerne, invece, il possesso di nozioni utili proprio in quanto valgono, rimanendo immutate, nel presentarsi costante di ‘date situazioni’. Gli insegnamenti vitali, invece, richiedono una messa in discussione non del significato della Parola, ma della sua applicazione. Si tratta di comunicare sia come la Parola in un determinato contesto agiva, sia di mostrare come possa valere nella nostra vita: “Tutte le volte che un uomo dice qualcosa a un altro si ha un atto di parola (Sprechakt). L’atto di parola è sempre concreto, avviene in un determinato luogo e in un determinato momento (…): perché l’interpellato capisca colui che parla, bisogna che ambedue siano padroni dello stesso linguaggio e l’esistenza di un linguaggio vivo nella coscienza dei membri della comunità linguistica è la condizione preliminare di ogni atto di parola” [13].
La trasmissione orale del sapere consentiva all’uomo di porre al suo interno quanto imparava; ora, con le nuove tecnologie, l’informatica, tutto diviene estraneo al tempo vivo dell’elaborazione interiore e si congela in memorie artificiali, esterne all’uomo. Si congelano parole sui supporti metallici dell’hard disk, delle memorie di massa. La parola non ha più legami col tempo vissuto. In passato essa comunicava idee che formavano, educavano e andavano scritte sull’anima; ora, la parola diviene meramente informativa ed ha il solo scopo di aggiornare dando origine al fenomeno dell’indifferenziazione delle stagioni della semina: “Nel campo dell’informazione e della comunicazione, l’attività continua, giornaliera (e notturna!), senza soste, 24 ore su 24, con aggiornamenti ogni 7 minuti, e così via” rende impossibile relazionarsi alla Parola che si pretende definitiva perché incarnata nel Logos. Questi, insegna il Prologo del vangelo giovanneo, è l’Unico esegeta di Dio (Theòn udèis heoraken popone; monoghenes theòs…exeghesato); non si prevedono, per quanto riguarda la Rivelazione , nuove comunicazioni, aggiornamenti. Il comunicare informativo, invece, si assimila sempre più “all’attività dell’industria produttiva, caratterizzata dal massimo grado possibile di automatismo e di velocità della produzione nonché di omogeneità del prodotto” [14]. Assetati, affamati di parole che ‘aggiornino, informino’, abbiamo perso il gusto di parole che comunichino il senso. L’atto di parola è ‘concreto’ e si dà se condividiamo un linguaggio che – precisa Trubeckoj – sia vivo; che abiti la coscienza di chi partecipa alla comunità linguistica in maniera vitale. Non si tratta, cioè, solo di padroneggiare una lingua dal punto di vista tecnico. Riguardo alle questioni di fede, teniamo presente che: 1) non dobbiamo comunicare soltanto idee, concetti, ma anche il contenuto affettivo dei logoi biblici; 2) siamo uomini del sapere, ma anche capaci di desiderare il senso. Il primo punto merita un commento: “il linguaggio non ha soltanto lo scopo di rendere possibile la comunicazione delle idee indicate dalle parole (…). Vi sono altri scopi, come quello di suscitare qualche sentimento, di incitare a qualche atto o di distogliere da esso, di porre l’animo in una disposizione particolare” [15]. Riguardo al secondo punto, si può aggiungere: “Più che homo sapiens, l’uomo è homo quaerens: l’animale che chiede senza tregua e si affaccia ai confini del linguaggio (…) nella convinzione, eloquente o inarticolata, metafisicamente arcana o immediata come il grido di un bambino, che esiste ‘l’altro’, esiste il ‘là fuori’” [16]. Ai cognitivisti uno psicologo statunitense rimprovera di aver abbandonato la costruzione del significato per lasciare campo libero all’elaborazione dell’informazione ed alla computazione. In generale, la comunicazione si preoccupa soltanto di perfezionare i propri meccanismi per distribuire socialmente economia e tecnologia [17]. Credo, dunque, sia meritato il giudizio che un attento osservatore di questi fenomeni ha formulato sull’aria che si respira col sovraffollamento delle informazioni a scapito di tutto il resto: “In una società regolata da due istanze: l’economia globalizzata e internet che non sono in grado di farsi carico delle grandi implicazioni sostenute un tempo dalla filosofia e dalla religione, sta emergendo un vuoto intollerabile” [18]
Uno studioso americano del linguaggio incoraggiava l’ecumenismo nell’annuncio della Parola. Giudicava improponibile, nella comunicazione religiosa, il ricorso ad un modello chiuso tipico dei ‘tribunali ecclesiastici’. Riteneva significativo che la Chiesa Cattolica Romana, per lungo tempo accanita a difendere i sistemi chiusi, col Concilio Vaticano II, abbia conferito più spessore alla mentalità ecumenica anche se “il passaggio ad un modello aperto ha infastidito i molti che identificavano la verità e la certezza con un modello chiuso di qualunque tipo” [19]. La nostalgia del modello chiuso va rimossa del tutto! È questo il compito affidato a tutti i cattolici e non solo a chi occupa cariche ecclesiastiche di un certo rilevo; perché – ammoniva Congar – nella Chiesa facciamo tutti parte dell’equipaggio e nessuno è passeggero. In fondo, rileva Ong, “erano sistemi aperti anche gli insegnamenti di Gesù e dei suoi seguaci” (cit., p. 346). La buona novella doveva travalicare i confini di Israele (Mt 13, 31 – 33). Ong, poi, esamina il termine cattolico. Deriva da Katholikos, parola greca che il latino ecclesiastico incorporò. Contrariamente a quanto si sa, questo termine non significa universale in senso ‘inclusivo’ (che racchiude); piuttosto, indica qualcosa di ‘estroverso’, che si espande. Katholikos è formato da kata (attraverso) + hōlos (tutto). Cattolico è non chi ingloba tutto, ma chi attraversa tutto prendendone l’aroma, il sapore. Ong cita Frank E. Manuel che si occupò di stabilire in che cosa e quanto influirono le convinzioni religiose di Isaac Newton nei suoi lavori scientifici. Apprendiamo, così, che Newton, nella seconda metà della sua vita, si dedicò a sviluppare temi teologici; in particolare, intendeva spiegare – senza escluderne alcuno – i significati dei simboli profetici nella sacra Scrittura. Parole, immagini, tutto doveva farsi oggettivamente chiaro: “Newton credeva davvero che sarebbe riuscito a comprendere il significato del libro di Ezechiele e dell’Apocalisse in questo modo” (cit., p. 347). Lo studioso americano ricorda che Ioannes Piscator si proponeva addirittura “di tracciare un’‘analisi logica’ di ogni libro della Bibbia per stabilire in modo chiaro e definitivo cosa dicesse esattamente ogni libro”. Cosa più grave, “quello che la sua analisi non riusciva a includere, veniva ritenuto puro e semplice ornamento, atto a rendere attraente il contenuto” (p. 348).
Kant – ai propositi onnispieganti di teologi e scienziati – opponeva una storiella. Protagonista è il Signor Professore, studioso del Nuovo Testamento che promette, in soli quindici giorni, di offrire risposte certe e definitive a tutti gli interrogativi suscitati dalla lettura dei vangeli! Disgraziatamente, narra Kant con ironia, il Signor Professore muore prima dei quindici giorni…Non si può pensare di avere in tasca tutte le risposte a quanto è, innanzitutto, mistero. È comunicabile, ma non esaurientemente! In primo luogo, tra i fattori che rendono difficoltosa la comprensione della Parola, e di testi antichi non sacri, “vi sono: la distanza nel tempo tra autore ed interprete, la diversità di temperamento, di cultura, di ambiente, di convinzioni, di precedenti esperienze normali e patologiche, ecc. Chi non ha vissuto personalmente certe esperienze, in genere non riesce a capirle (…) se non in modo assai impreciso, nonostante tutti gli esempi con i quali l’altra persona cerca di farsi capire” [20]. Anche il teologo più convinto di quanto dice è davvero certo di aver comunicato il suo pensiero in maniera esaustiva? Blandino individua, infatti, una distanza problematica tra il pensare e la comunicazione scritta, argomentata: “Il pensiero è ‘puntuale’, invece la sua espressione linguistica richiede un certo tempo; io so simultaneamente ciò che significa una mia frase, invece le parole non sono simultaneamente presenti. Quando io dico ad un’altra persona una frase, io so ciò che voglio dire prima che esistano le parole che userò (…). La persona che mi ascolta, invece, sa ciò che voglio dire solo dopo che sono esistite le parole (…). In generale io so molto di più di quello che esprimo o posso esprimere a parole” (cit., p. 30). Non tutto quello che so riesco a comunicare. L’incompletezza è intrinseca al dire [21]. Nella comunicazione orale, si riscontrano analoghe difficoltà. Scrive Vygotskij: “Spesso un oratore impiega diversi minuti per sviluppare un unico pensiero (…) perché questo è contenuto nella sua mente come un tutto globale e unitario e non si costituisce un po’ per volta per singole unità, come si costituisce invece il linguaggio (…). Il passaggio dal pensiero al linguaggio è un processo molto complesso che presuppone un frazionamento del pensiero e una sua reintegrazione ed espressione in più parole” [22]. E, si sa, più parole, più confusione.
La teologia può eleggere a forma di comunicazione l’agire se questo è innervato di contenuti e orientamenti evangelici. Cito un aneddoto tratto dalla vita di don Carlo Gnocchi, cappellano militare che, poi, si dedicò a recuperare ed a curare i ‘mutilatini’: si trattava di ragazzi che, ignari di star giocando su un campo minato, o che, sprovveduti, toccavano qualche ordigno inesploso, ne restavano mutilati in maniera anche devastante. Per fare coraggio a quanti dovevano subire una operazione difficile, un’amputazione, don Gnocchi ebbe un’idea. Quelli che avrebbero sofferto con pazienza, pensando a Gesù crocifisso, avrebbero acquistato il diritto di mettere, in una cassettina, delle vere e preziose perline. La avrebbero portate in dono, promise il bravo sacerdote, al papa. Pio XII, infatti, ricevette in Vaticano i mutilatini e si vide recapitare uno strano dono: una piccola croce composta da due stampelle incrociate e su di esse erano incastonate le perle che i ragazzi – soffrendo cristianamente – avevano raccolto. Disse uno di loro: ‘Queste sono le nostre sofferenze, Santità’. Sì, molte parole a volte fanno solo confusione. Ho letto il saggio di Moltmann sulla teologia della croce, ma il mio cuore ha tremato di commozione solo quando ho appreso questo episodio della vita di don Gnocchi che, in quanto a capacità di comunicare il senso della Croce, non era secondo al teologo tedesco.
Comunicare significa sperimentare il trionfo dell’alterità! Uno studioso ha dimostrato che non si può separare, distinguere la funzione (non solo logica) del linguaggio dagli organi corporei. Si tengono stretti ‘linguaggio, voce, organi della fonazione e dell’ascolto’. La parte mediana dell’orecchio è fatta della cartilagine di Meckel che ritroviamo nella mascella inferiore; come a dire che la bocca (parola) e l’orecchio (ascolto), da un punto di vista organico, costituiscono un blocco unico [23]. Anche la fede presuppone una relazione strettissima ascolto/parola: Dio parla e noi diveniamo immediatamente responsabili, nel senso di essere abili a rispondere. Tra l’orecchio che ascolta la chiamata e la prontezza della bocca che deve pronunciare ‘eccomi’ c’è un legame; proprio come avviene – abbiamo visto – a livello organico. L’esistenza del suono stesso, poi, implica relazione. Esso, infatti, dal punto di vista fisico, è inesistente. Si ottiene soltanto grazie ad un apparato uditivo che riceve appena un movimento di onde che muovono l’aria. Un oggetto basta vederlo perché esista; un suono, invece, origina da una struttura complessa, l’ascolto. Una rivista medica, nel 1986, pubblicò una ricerca nella quale il dottor Moses – Foussier affermava che, a produrre i suoni, è lo stesso orecchio. A Bordeaux, in un convegno nazionale di neuroscienze, si parlò di esperimenti che dimostrano come dall’orecchio giungano suoni: “All’interno dell’orecchio – spiega de Smedt – che è l’organo dell’udito ma anche il centro dell’equilibrio, esiste un insieme di meccanismi attivi che generano vibrazioni interne”; dunque, “l’orecchio può produrre suoni: quando l’onda sonora raggiunge le ciglia delle cellule sensoriali, queste ultime si contraggono sotto l’azione delle proteine contrattili e danno origine ad una vibrazione sonora” (Elogio del silenzio, cit., p. 23). Tutto anela a comunicare!
Un tempo ci si prendeva cura dell’anima e si comunicavano cose sensate. Oggi, gli esperti si occupano del linguaggio solo in maniera tecnica. All’inizio del Novecento si verifica lo spostamento dell’attenzione – nelle arti moderne – dalla descrizione della realtà all’analisi dei linguaggi; si produsse un “avvitamento” dei segni su se stessi [24]. Si moltiplicano le riflessioni teoretiche degli artisti sulla loro arte, le riflessioni critiche e pare che analizzare i linguaggi artistici sia più importante che fare arte. Anche la teologia commette questo errore: spesso, le diatribe accademiche sono sganciate dal nucleo fondamentale (la Parola ) sul cui tronco sbocciano. Nessuna parola di teologo può rendere la freschezza evangelica che l’artista Gesù fissò sulla tela dell’eterno. Abbiamo parole per descrivere il Suo ‘gesto originario’ e, dunque, ne parliamo con un ritardo irrecuperabile. Comunicare idee teologiche richiede di tenere presente quanto anche la critica d’arte non deve dimenticare: “nel gesto dell’artista che mette sulla tela o incide nella materia il proprio sentire interno è contenuta tutta la ricchezza dell’esperienza e il suo senso, che non coinciderà mia con le parole usate a posteriori per descrivere il risultato dell’azione” [25]. Le parole che offriamo per comunicare una testimonianza di fede (più ampia della teologia), non potranno mai riprodurre fedelmente la ricchezza dell’esperienza cristiana delle origini almeno fino a quando il linguaggio teologico non assumerà anche quello poetico. Una lezione viene da un insospettabile. Nel Trattatello in laude di Dante, Boccaccio, scrisse: “la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire (…); anzi (…) la teologia niuna altra cosa è che una poesia di Dio” [26].
Interpretare è entrare nel testo senza toccarlo materialmente. Il testo sacro, il suo corpo fisico, è inviolabile. L’ermeneutica “ha contribuito a consolidare l’idea che il testo non si tocca materialmente, ma soltanto con la mente”. Nacque in Germania, inizio Ottocento, proprio per occuparsi di testi sacri [27]. Ma – nel comunicare – la materia, la corporeità sono imprescindibili! La sfiducia nei nostri mezzi espressivi, la convinzione che nel parlare non si esprime tutto il pensato, già negli autori cristiani antichi serpeggiava. Agostino, nel De magistro, scrive: melior est, quam verba, locutio. Il discorso mentale (locutio) è superiore, qualitativamente, alle parole che lo comunicano. Il vero sapere interessa un processo interiore. Non esprimono tutto il pensato, ma è anche vero che le parole senza pensieri non vanno mai in cielo (Shakespeare). Le parole, ormai, sono scadute a chiacchiera; servono, dicevamo, non a formare, educare, ma ad informare, aggiornare. Laddove i contenuti sono meramente informativi scomodare l’interiorità appare inutile! Tommaso d’Aquino affermava che comunicare avviene per grossitiem corporis, attraverso lo spessore del corpo. Fa un paragone tra l’uomo e l’angelo: il secondo, che non ha bisogno del corpo per tenere discorsi, non mente; il primo, invece, costretto a passare per un filtro tanto carente, comunica imperfettamente ciò che pensa. L’informatica ha risolto la questione proponendo (imponendo) un modo di comunicare non direttamente subordinato alla fisicità dei soggetti? Internet è simile ad una sconfinata mente o, meglio, ad un parco illimitato di menti intercomunicanti dove la corporeità è marginale. Alan Watts, avvisava: rischiamo di perdere la nostra mente sostituita da una mente vasta e complessa; una sorta di mente – comunità! Watts ipotizzava che il prossimo passo dell’evoluzione mostrerà un uomo mutato in un modello elettronico di se stesso. Per quanto disturbi la purezza del pensiero l’esprimerlo per grossitiem corporis, per quanto la locutio venga tradita nei verba, una comunicazione prossima all’immaterialità non è positiva. Mi commuove leggere nel Vangelo che Gesù, di fronte al giovane ricco, incapace di disfarsi dei suoi beni per seguirLo, lo fissa e lo ama. La fisicità dello sguardo di Gesù – quando comunicare interessa tutto l’uomo - mostra che si può per grossitiem corporis comunicare qualcosa di radicalmente e positivamente sconvolgente all’altro.
L’ossessione dell’uomo, che si è lasciato alle spalle una cultura orale da secoli, è quella di imprigionare, sottrarre all’usura del tempo anche le voci, ma a costo di spezzarne i legami col tempo vissuto. Come? Una risposta è stata ironicamente data in un passo di un romanzo del Novecento. Lì si accampa la pretesa di conservare, dopo la sua morte, la voce di un parente: “E poi, come si fa a ricordarsi di tutti? (…) la voce (…), sì: il grammofono. Mettere il grammofono in ogni tomba o tenerne uno in casa. La domenica dopo pranzo. Metti un po’ su il povero trisnonno. Craac! Prontoprontopronto sono felicissimo craac sono felicissimo di rivedervi (…). Ti ricorda la voce come una fotografia ti ricorda un viso” [28]. Joyce spera di ricordare una persona attraverso un medium meccanico; inoltre, crede di poter disporre della voce di chi non è più quando vuole; anche in un momento rilassato e refrattario alle emozioni com’è il tempo del dopo pranzo. Il disco gracchia ed impietosamente rivela che si tratta solo della misera e peritura copia di una voce cara! Anche una foto che, dice Joyce, ti ricorda un viso va soggetta a deterioramenti. I supporti riproduttivi sono migliorati di molto, ma resta illusione che qualcuno che non c’è più realmente comunichi con noi. Solo la voce di Cristo erompe dai vangeli fresca, intatta e pare che le Sue parole sorgano ora per noi. Questo, perché non comunicava in maniera banale, ma raggiungendo l’uomo in profondità: il Suo dire interessa l’ontologia e non si confina nel meramente acustico. L’ossessione di rendere perpetua la voce, di non perdere nemmeno la più insignificante delle parole non è amore per la comunicazione, ma lasciar proliferare insensatamente stimolazioni acustiche. Gesù era un gran comunicatore perché, soprattutto, sapeva collocare al posto giusto pause di silenzio affinché l’altro abiti il dialogo: “Il silenzio è inteso (…) come spazio offerto all’altro perché possa esprimere nei modi e nei tempi a lui congeniali la sua comunicazione” [29].
Quando Dio comunica con noi? Più saggio chiedersi: quando non lo fa? Un filosofo ha detto che Dio parla anche in quest’ora essendo la Sua misericordia come “i libri stampati questo anno; eternamente giovane” [30]. La comunicazione che interessa l’uomo di fede sta in tensione fra tempo ed eternità e la Parola deve a questo movimento incessante l’essere eternamente giovane. Siamo, dice Agostino, gli uomini dei due canti: qui cantiamo nella speranza; lassù, canteremo nel possesso. All’alleluia della strada corrisponderà l’alleluia della patria. Ed è proprio l’Alleluia il codice che consente di entrare in comunione con Dio e, di riflesso, con i fratelli. Comunicare in verticale cantando – con speranza – la lode a Dio è il solo modo di prepararci ad una comunicazione diretta con Dio lassù. Nel Talmud di Babilonia (Pesachim 117a), Rabbi Jehoshua ben Levi afferma che, ad introdurre la lode nel libro dei Salmi, vi sono ben ‘dieci formule’. La ‘più grande’ è la decima: HALLELU – JAH (Lodate – Jahwe, Dio, Sal 113; 135). Perché è la formula più grande? Lo è in quanto riunisce il nome del Signore (Jah, la prima metà del nome divino ineffabile) e la lode (Hallelu, ‘lodate’). La poesia, il linguaggio simbolico/allusivo sono accessi privilegiati per comunicare in verticale. Per comprendere come la comunicazione teologica debba privilegiare questi modi di esprimersi, accostiamo due testi rabbinici. Il primo, tratto da Genesi Rabbah 19, 13, dice che, peccando, Adamo fece allontanare Dio al primo cielo; Caino, con il fratricidio, Lo fece salire al secondo cielo; la generazione infame di Enoc, al terzo e l’evento del Diluvio, al quarto; l’episodio della Torre di Babele, Lo fece salire al quinto cielo. Con la schiavitù in Egitto, Dio salì al sesto ed al settimo cielo che è, per gli ebrei, l’ultimo ed il più lontano dalla terra. Come far ridiscendere il Signore? Un altro passo rabbinico, tratto dallo Zohar Terumah, afferma che Dio ritornò sulla terra quando ad Israele venne donato il Cantico dei Cantici, opera di alta poesia! Quando lasciamo fecondare le nostre parole dalla poesia biblica, da una sapienza venata di pathos, possiamo dire, per riprendere un’espressione di un filosofo francese, le mie parole sorprendono me stesso e mi insegnano il loro pensiero (Merleau – Ponty).
Il valore assoluto nel comunicare le cose della fede consiste nel fatto che rapporta autenticamente all’Altro e ad altri. Carlo I chiese al poeta Torquato Tasso: - Chi è l’essere più felice?. Rispose: - Dio, perché è Colui che è in comunione, non è solo! Replicò il re: - Sì, lo so! Ma chi è più felice tra gli uomini? E Tasso: - L’uomo che è reso somigliante a Dio, che non è mai solo. Tutti gli uomini sono importanti per chi sa comunicare. Come disse Lacroix, se non portassimo dentro di noi la storia dell’umanità saremmo unicamente delle bussole impazzite. Non conta soltanto la verità di quanto esprimiamo, ma soprattutto l’amore che portiamo ai riceventi. L’amore cristiano attua un doppio movimento. Nel De contemplando deo, Guillame de Saint – Thierry, scrive: Abducit enim nos a vobis caritas veritatis - “l’amore della verità effettivamente ci allontana da voi” (da quanti sono lontani dalla nostra fede); poi, però, presentava il ‘movimento inverso’: sed propter fratres abdicare et abiurare vos non patitur veritas caritatis – “ma e poiché siete nostri fratelli, la verità dell’amore non ci autorizza ad abbandonarvi o ripudiarvi”. Quando comunichiamo i principi della fede cristiana ai ‘lontani’, se l’amore per la verità ce ne allontana, soccorre la verità dell’amore. Serafino di Sarov lo testimoniò. Venne derubato e ferocemente percosso da due ladri nel suo eremo e, pur essendo uomo robusto e capace di difendersi, li lasciò fare. Quando i malfattori vennero arrestati, si adoperò affinché non venissero condannati a morte [31]. Serafino conosceva certo il comandamento ‘non rubare’, in quanto testimoniava l’amore per la verità, ma fece prevalere la verità dell’amore e comunicò – con due gesti pagati sulla propria pelle – cosa sia aver fede! Daniele Comboni, missionario in Africa, colpito da febbre nera, morì nel 1881. Durante uno dei suoi rientri in patria, per sessanta ore di fila, lavorò ad un progetto: ‘Piano per la rigenerazione dell’Africa’. L’idea centrale: ‘salvare l’Africa per mezzo dell’Africa’! I missionari europei avevano difficoltà a sopravvivere in quei posti. Era il caso, perciò, di attivare ‘fortini missionari’ per formare catechisti, sacerdoti, maestre prendendoli dal popolo africano. Una rivoluzione! L’evangelizzazione non doveva essere esclusivo appannaggio degli occidentali. Incontrò durissime opposizioni. Prima di morire (venne distrutta anche la sua tomba) subì l’onta di essere accusato di numerosi misfatti e finanche di aver avuto una relazione morbosa con una suora [32]. Ecco quanto coraggio occorre per avere a cuore più la verità dell’amore che l’amore per la verità.
Pablo Neruda disse che si avvia ad una lenta morte chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Se pensiamo di conoscere qualcosa della fede che professiamo e non impariamo a rispondere a chi ci interroga su di essa stiamo morendo (spiritualmente) assieme alla nostra credenza. L’attenzione all’altro, al suo diritto di non essere modellato sulla nostra identità, è la regola fondamentale per avviare una vera comunicazione. Nel dopoguerra la preoccupazione del ‘Consiglio Mondiale delle Chiese’ fu quella di capire quale dovesse essere il giusto atteggiamento verso altre fedi religiose da parte della Chiesa Cristiana; si avviò, dunque, uno studio sulla parola di Dio e sui modi di vivere, crede e pensare degli uomini testimoni di altre credenze religiose. Ne scaturì la consapevolezza di dover privilegiare il ‘dialogo’! Negli anni 70, il ‘World Council of Churches’ affermò che i cristiani non avrebbero dovuto snocciolare “giudizi sugli altri da una posizione di superiorità” [33]. Le scienze lontane dalla teologia, pure non negano – nei loro procedimenti - la centralità della parola. Il padre della psicoanalisi la elesse a pietra angolare del suo metodo: “nel trattamento analitico non si procede a nient’altro che ad uno scambio di parole tra l’analizzato e il medico (…). Originariamente le parole erano magie e, ancor oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico (…). Le parole suscitano affetti e sono il mezzo con il quale gli uomini si influenzano tra loro” [34]. Rivolgere a qualcuno una parola dolce, garbata cambia molte cose e questo deve essere presente al teologo. Un egiziano raccontò all’oblato benedettino Maurice Zundel che si era recato nel deserto per suicidarsi ma, un soldato inglese, gli chiese indicazioni per raggiungere un certo luogo. Lo fece con tanta e tale gentilezza che l’aspirante suicida tornò a casa rinunciando definitivamente allo scellerato proposito! Quanto più può agire beneficamente una parola comunicata nel modo giusto se passa attraverso la Parola.
Perché sia davvero efficace, la comunicazione verbale deve nutrirsi di parole legate al concreto, al tempo vissuto…non mi stancherei mai di ripeterlo. La Parola , pur interpretata entro i contesti in cui si formò, va continuamente attualizzata, il che non vale a snaturarla. Chagall, che dipinse temi biblici, pur dichiarando di non aver mai letto la Bibbia , decise di andare in Israele che considerava, in parte, la sua radice. Scelse, tuttavia, di tornare a Parigi a dipingere temi religiosi perché – spiegava – la Bibbia non può che vivere là dove c’è l’atmosfera di oggi, dove c’è il mondo continuamente vivo. Manca la capacità di radicarsi nel proprio humus culturale, quotidiano…si vive sempre più su scenari virtuali a causa del computer e della televisione. Questa, in particolare, minaccia l’amore per la Parola che richiede lentezza, riflessione, possibilità di tornare su di un passo, mentre la TV è velocità, consumo rapido di immagini e difficoltà a far durare l’attenzione sui particolari. Siamo nell’era informazionale e, dai nuovi media, aspettiamo informazioni che esigono comunicazioni brevi, efficaci e disposte a finire subito nel dimenticatoio. La Buona Novella pare troppo statica, ferma nel passato. L’uomo fa “indigestione di informazione” [35]. La comunicazione televisiva conduce ad una condizione senza movimento, azione. Le immagini televisive consentono ad una sola persona di partecipare ad un numero di eventi che supera di gran lunga quello che, tempo fa, cento persone in cento vite avrebbero potuto conoscere. Il male è che partecipare, in questo caso, non ci modifica in nulla; infatti, qui non si dà esperienza: “non sei partito veramente, non hai incontrato altre persone (…). Resti identico a te stesso” [36]. I mezzi di informazione tentano, per lo più, di persuadere forse proprio perché non si incontra veramente l’altro. La comunicazione per come ci viene insegnata dal Vangelo, ritiene imprescindibile stare realmente di fronte all’interlocutore. Chi comunica parole di fede sa bene che per l’anima, nessuna cognizione imposta a forza è durevole (platone, Repubblica, VII, 536 e). Nessuno, se comunica respirando nell’atmosfera della fede cristiana, deve rimanere identico a se stesso. Il problema è a monte. Già con l’avvento del telegrafo accadde che i messaggi superarono in velocità i messaggeri (rendendoli superflui). L’evangelizzazione, oggi, si serve dei media, di internet, ma vuoi mettere lo sguardo profondo ed innamorato di Dio di un annunciatore della Parola? Il cristianesimo antico (si pensi solo ai massacranti viaggi di Paolo) era, più che una religione del libro, una religione on the road. La Parola conosceva, per poter essere comunicata, la polvere delle strade, la fatica. La comunicazione elettronica interrompe il rapporto strada/parola, messaggio/messaggero. L’informazione “si è staccata da materie solide come la pietra e il papiro (…). Il termine comunicazione è stato ampiamente usato con riferimento alle strade, ai ponti, alle rotte navali, ai fiumi e ai canali, prima di trasformarsi con l’era elettronica in movimento d’informazione” [37]. Sostengono autorevoli studiosi che tutte “le applicazioni informatiche non sono mai state considerate come ‘linguaggio’ dagli studiosi delle varie discipline (…). Tutt’al più, si potrebbe far ricorso (…) all’intuizione di Wittgenstein che parla di strumenti dei linguaggi e dei loro modi di impiego” [38]-
Per comunicare in profondità occorre ridare fiducia e valore all’ascolto tentando, almeno, di averla vinta sulla tendenza a privilegiare codici iconici (supremazia del vedere sull’ascoltare). La motivazione di questo sforzo la potrei spiegare con le parole di un filosofo tedesco. A suo dire, fu l’udito a contribuire alla nascita del linguaggio: “fu del tutto conforme alla natura che l’orecchio diventasse il primo maestro di linguaggio” – scrive Herder in Saggio sull’origine del linguaggio (Parma 1995, p. 71). La vista, invece, è ‘invadente’ perché “presenta tutto davanti a noi di colpo, sgomentando l’apprendista con il quadro smisurato della successione spaziale”, mentre la lingua propone un suono per volta (p. 87). Siamo ‘invasi’ da immagini che scorrono a velocità nauseante e, vivendo nella simultaneità degli eventi, perdiamo la riflessività che li rende interpretabili. Se non siamo più in grado di allestire un’ermeneutica dei fatti non siamo nemmeno capaci di avere la pazienza necessaria per entrare nei testi biblici che richiedono ampio respiro riflessivo. Non è detto nemmeno, però, che per comunicare qualcosa di essenziale della nostra fede si debba prima aspettare di avere tutto chiaro. Se non possiamo trasmettere granché del sapere teologico, ci resta la strada dell’esempio di vita: lodare Dio, mostrare che fa parte della nostra vita…D’altra parte, il Nuovo Testamento insegna che ai cristiani non è richiesta una comunicazione dotta o ‘soltanto dotta’ ma, in primo luogo, si esorta ad aiutare l’altro nel suo desiderio di senso. Paolo approdò in Europa per la prima volta quando compì il secondo viaggio missionario (At 15, 36 – 18, 22). In sogno, a Troade, ebbe una visione profetica (una comunicazione divina): ‘Gli stava davanti un macedone e lo supplicava: ‘Passa in Macedonia e aiutaci!’. Subito si mise in viaggio verso la Macedonia , ‘ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad evangelizzarla’ (At 16, 9 – 10).
Riflettiamo: 1) La richiesta europea, la prima, di evangelizzazione avviene per comunicazione divina, in ‘sogno’; 2) Il Macedone invita Paolo a ‘passare’: si tratta di entrare in una realtà nuova che, in quanto tale, comporta opportunità ma anche rischi per la missione; 3) Non si chiede un insegnamento, si supplica per un aiuto! Giovanni Paolo II volle, dopo solo due anni dal crollo del sistema comunista, una riflessione sulla nuova evangelizzazione dell’Europa. In poco tempo, l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi per l’Europa diede alla luce una Dichiarazione: Testimoni della libertà di Cristo. Era l’anno 1990 quando da Velehrad venne dato il primo annuncio del Sinodo. A conclusione della Dichiarazione, si cita il passo dagli Atti degli Apostoli da me schematicamente commentato. Scriveva il Sinodo: “Avvenne così il passaggio all’Europa (…). È significativo che già in questo primo inizio della fede in Europa sia presente quella parola – evangelizzazione – che è diventata oggi per noi una parola chiave per la nostra vita e la nostra missione di cristiani. Nella persona del macedone l’Europa si è dichiarata disposta ad accogliere il vangelo. Sappiamo però anche quanto sia stato arduo per Paolo questo annuncio del vangelo”. Si prega “affinché gli uomini e le donne dell’Europa, avvertendo la loro più radicale indigenza, sappiano chiedere quell’aiuto che veramente salva e – come il macedone – invitino Gesù stesso e i suoi annunciatori con le parole: ‘Passa…e aiutaci!’” [39].
Bene si è fatto ad evidenziare che le difficoltà dell’evangelizzazione paolina. Se, tuttavia, alla richiesta accorata del macedone si fosse risposto che bisognava attendere di sapere tutto o quanto più possibile di teologia prima di rispondere al suo appello, non avremmo avuto la civiltà europea che conosciamo!
Il neopositivismo ritiene linguaggio sensato unicamente quello le cui proposizioni sono empiricamente verificabili. Il termine ‘Dio’, per Carnap, è senza significato; alla parola non corrisponde alcun referente empirico! Il teista, secondo Ayer, con le sue ‘verità religiose’, non fa che procurare materiale per lo psicanalista. La parola – per Wittgenstein – non ha ‘significato’, ma conta unicamente per l’uso che se ne fa nella lingua. Come degli attrezzi in una cassetta possono servire a più di un uso, così con le parole si possono fare varie cose. Da quando quel Macedone chiede a Paolo di passare in Europa per comunicare la Parola , non si può più svilire l’evangelizzazione con diatribe accademiche. Per parafrasare Wittgenstein: non di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere, ma, nel caso dell’annuncio cristiano, vale che quello che non si può comunicare con chiarezza, con logicità intorno a Dio, occorre tradurlo in lode. Non possiamo aspettare di sciogliere i nodi polemici intrecciati da linguisti, semiologi, ecc…Ci sono persone che chiedono l’aiuto della Parola! Fornendo questo aiuto lodiamo Dio, piuttosto che accanirci a decidere se è logico o no farlo. Impariamo dalla mistica ebraica secondo la quale l’inconoscibilità di Dio “in sé non comporta (…) una rinunzia conoscitiva, ma è soltanto uno stato di fatto (…). L’uomo (…), più che consumarsi nell’angoscia mistica dell’incomunicabilità, è soddisfatto di lodare il suo Dio per averlo portato dal non – essere all’essere”. Nella mistica ebraica, “il motivo della incomunicabilità fra uomo e realtà ultima e sostanziale di Dio (…) non si accompagna (…) ad un atteggiamento pessimistico nei confronti della capacità dell’uomo” [40]. Una studiosa di Psicolinguistica, in un saggio, ha ricordato un film di Derek Jarman nel quale viene raccontata una storia. Un giovane, dotato di intelligenza straordinaria, ha un sogno: ridurre il mondo a pura logica. Ci riuscirà e, quando lo vorrà attraversare per conoscerlo, farà un’amara scoperta: scivola senza poter fare un passo perché la purezza della logica si è materializzata in un mondo fatto di infiniti acri di ghiaccio! Il giovane scoppiò a piangere e si disperava. Solo in vecchiaia capì che, giudicare ‘imperfezioni e ruvidezza’ negativamente è un errore. Ma grado ciò, sebbene la terra avesse acquistato parzialmente il vecchio aspetto, sentiva nostalgia del ghiaccio, di una purezza perfetta, ma morta e non frequentabile. Era straziato nella tensione fra terra e ghiaccio, tra il desiderio struggente di una purezza logica assoluta e l’impossibilità di farne il proprio mondo. Non sapeva dove accasarsi. La studiosa che ha evocato questo splendido film, trova nell’episodio l’occasione di insegnarci qualcosa sul modo di comunicare col linguaggio e che si contrappone alle tesi neopositiviste: “Nella lingua, ambiguità, vaghezza, indeterminatezza, polisemia non sono una mancanza (…), ma le tante facce con cui si manifesta il sistema simbolico umano, capace di esprimere non solo le leggi più inflessibili della logica, pure come il ghiaccio, ma anche la materia ruvida del suolo” [41]
Più che comunicazione, il cristianesimo è comunicare. Si tratta di qualcosa di perenne; come la sorgente che, mentre senza soste dà, permane. La Parola comunica attraverso il Detto teologico che, per inesauribile ricchezza della Fonte, rimane un dire. Potrei ricorrere, per meglio farmi comprendere, ad una citazione: Molte parole di Cristo rimangono tuttora incomprensibili ai nostri orecchi. Se infatti la freccia dell’Evangelo ha come bersaglio l’eternità, noi siamo ancora dei neandertaliani dello spirito e dell’ethos (…). Gesù non ha mai smesso di interrogare gli uomini. Egli interpella ciascuno di noi. Gesù Cristo è il volto umano dell’Infinito (…). Ed ecco che all’improvviso possiamo chiamarlo per nome. Ed è un nome umano! (Aleksandr Men’). Se le parole più sensate e significative hanno perso il potere di giungere ai cuori, se comunicare diviene un business, non ci sarà più nessun interesse per i nomi umani. La triste situazione in cui versano le parole parlanti, mentre mietono allori le parole parlate (Merleau – Ponty) fa venire in mente un romanzo di François Rabelais nel quale, i due protagonisti, approdano al MARE GLACIALE. Lì il cielo è costellato di parole gelate, simili a “confetti perlati di diversi colori”. Si tratta di parole che, congelate dal freddo, non sono udibili. Il rimedio è gettarle nel fuoco: solo sciogliendosi comunicano il loro messaggio. Le parole della fede cristiana, in parte, si sono gelate perché troppo fredde, a volte, le modalità elette dagli specialisti per comunicarle. Solo se le si getta nel fuoco della prassi si sciolgono per rivelarci tutta la loro potenza e bellezza. Il miglior linguaggio per comunicare cosa significhi essere con Dio è l’esempio di vita dato fino al completo dono di sé! In un libretto pubblicato nel 1957 dalle edizioni ‘La Carovana ’ (Roma), Liliana Scalero ha tradotto le liriche di un prete, Père Leloir, belga, preso dalla Gestapo e sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald. Non c’era carta né inchiostro e nemmeno l’attività sacerdotale era permessa. Curvo assieme ai compagni su macerie, immondizie e fango da sgombrare, a bassa voce, celebrava la Santa Messa. Scrive: Per impedir ch’io tratti col Cielo, la proterva/schiera degli aguzzini m’ha preso i sacri Oggetti. Nulla aveva per comunicare la bellezza liturgica dei riti cristiani. Quando un prete immolato recita le preghiere/sopra il calice vuoto e sopra il pane assente,/nel dir: ‘Quest’è il mio sangue…e il mio corpo…/si sente/che allor come non mai le parole son vere. Laddove non resta che testimoniare il sacrificio di Cristo immolando se stessi, si comunica il senso pieno delle parole che accompagnarono l’istituzione della Eucaristia. Père Leloir diveniva lui stesso un’ostia che faceva comunione. Si chiedeva: essere sacerdote significa offrir, curvo all’altare,/fra paramenti d’oro e camici di lino,/il sacrificio augusto e il mistero divino/che, glorioso, il Cristo dal Ciel fa balenare? O forse significa avere tra le mani, ogni giorno, un ricco libro d’Ore? No! Essere prete a Buchenwald significa comunicare Dio condividendo con i compagni di sventura le piccole cose (il tabacco e un cantuccio di pane (… )/ essere un buon camerata, soffrire con esultanza). Solo nei gesti concreti si riesce, diceva Père Leloir, a mostrare (…)che sei prete di Cristo. Il segno che la Chiesa e tutti noi che la costituiamo siamo guidati dallo Spirito sta proprio nella capacità di testimoniare l’amore comunicandolo con l’esempio della nostra vita. Nel Discorso di apertura della 4° sessione del Concilio Vaticano II, il 14 settembre 1965, Paolo VI, disse: “se un giorno qualcuno si chiederà che cosa faceva la Chiesa a Concilio: ‘Amava! Sarà la risposta. Amava con cuore pastorale”, in quanto, la Chiesa “in questo mondo, non è fine a se stessa; essa è al servizio di tutti gli uomini; essa deve rendere Cristo presente a tutti”. E nella figura di quel prete coraggioso che fu Père Leloir, in uno dei suoi membri, l’intera Chiesa poté testimoniare alle vittime dei campi di sterminio che Dio se non è - come dicono taluni contestatori – onnipotente nel proteggerci da tutte le sofferenze, donando i Suoi servi, comunica il Suo essere onnipotente nel tenerci compagnia in ogni sofferenza. Dio non solo comunica l’amore, ma può comunicarsi solo perché è Amore!
Teresa di Lisieux, una sera di dicembre del 1894, in compagnia di madre Agnese e suor Maria del sacro Cuore raccontava episodi della sua vita. Suor Maria, alla priora, suggerì di ordinare alla santa di mettere per iscritto quelle perle biografiche. Dopo una settimana di riflessione, il consiglio venne messo in pratica e – sebbene molto occupata – Teresa riuscì a consegnare un manoscritto su carta che, dice una biografa, “anche un mendicante avrebbe sdegnato” [42]. Nel frattempo, madre Agnese non era più priora e non aveva l’autorità di pretendere altri appunti da Teresa che, d’altra parte, pativa una progressiva perdita di salute. Ad ogni modo, si riuscì a persuadere la nuova priora e, anche stavolta, malgrado difficoltà notevoli, la santa obbedì. Madre Agnese racconta: “Le avevo già preparato un quaderno, ma le parve troppo bello e temeva di mancare alla santa povertà adoperandolo. Mi domandò se almeno non dovesse scrivere fitto per consumare meno carta possibile. Le risposi che era troppo malata per stancarsi così e bisognava anzi che scrivesse rado e grande”. Testimoniare la povertà evangelica, in una santa di questo calibro, avviene anche nell’accorta gestione dei fogli di un quaderno. Dopo appena un mese che si era dedicata di nuovo allo scrivere, Teresa non riusciva più a reggere la penna. L’ultima parte del nuovo manoscritto, infatti, venne completata usando un leggerissimo lapis. Cristo si fece inchiodare sulla Croce e Teresa si crocifisse, per parafrasare un poeta russo del Novecento, sui fogli coi chiodi delle parole. Sforzo non dettato dalla voglia di mietere successi letterari, né per far sfoggio di erudizione; in quelle pagine che formeranno la nota opera Storia di un’anima c’è una teologia in ginocchio (la santa era su una poltrona a ruote già usata dal suo papà). Madre Agnese le domandò: “E se la madre priora gettasse sul fuoco il suo manoscritto?”. Lei, candidamente, rispose: “Ebbene, continuerei a non avere il più piccolo dubbio sulla mia missione. Penserei semplicemente che il buon Dio, con altro mezzo, esaudirebbe i miei desideri”. Teresa mostrò la differenza tra scrivere sulla spiritualità e comunicare verità spirituali. Mi impressiona, infine, che la santa di Lisieux abbia scritto – a forze quasi esaurite – con un lapis. Perché? Un’altra Teresa – a Calcutta – che faceva teologia raccogliendo lebbrosi per strada, disse di non essere stata altro che la matita di Dio! Lasciando a Dio la libertà di collaborare alla nostra piena umanizzazione, diveniamo passaggi attraverso i quali entra e si comunica – cristificandoci - ed opera attraverso noi, per citare il Vaticano II, con mani, occhi, cuore d’uomo!
Se il mondo è ‘sordo’ alla Parola, diventa ‘assurdo’ (ad – surdus). Sordità ed assurdità etimologicamente si appartengono! Il non ascolto, poi, non rovina solo l’udito, ma anche la vista spirituale. Non udire la Parola significa vedere mondo ed altri, in una luce sinistra. Entro la follia di un mondo che crede stolta la fede e sapiente la miscredenza, entro la sordità di un mondo che ode tutto tranne la Parola (troppo scomoda), dobbiamo resistere ed avere il coraggio di comunicare il punto centrale della nostra fede, la Buona Novella. C’è una storiella ebraica, hassidica. Volendo trarne indicazioni su come ben governare, un re ed il suo vicerè, interrogarono le stelle. Appresero che mangiare il raccolto di quell’anno avrebbe reso tutti folli, ma non mangiarne condannava a morire di fame. Che fare? Il vicerè, pensò: mangi pure il popolo, ma io ed il re ci arrangeremo con le scorte alimentari dell’anno precedente. Immuni dalla follia, avrebbero garantito l’ordine. Il re obiettò che, in un paese di folli, quelli fuori di testa sembrerebbero proprio loro. Avrebbero mangiato entrambi quel cibo pericoloso avendo cura, prima, di porre sulle fronti un segno per ricordare che la pazzia condivisa col popolo era distinta in loro dalla volontà di opporvisi. La storiella dice molto su come comportarci nel comunicare esperienze di fede in un mondo in cui siamo minoranza: non possiamo tirarci fuori dalla cecità e dalla sorda follia del mondo facendo affidamento sulle scorte di certezze rimasteci come relitto tradizionale. Se il cibo di oggi è letale, dobbiamo condividerlo con gli altri, ma portando il segno distintivo del nostro essere nel mondo, ma non del mondo. Saremo minoranza, ma siamo di Cristo e comunichiamo instancabilmente la Parola in quanto non si può andare a Dio se non portandosi il mondo ed i fratelli nel cuore. La storiella hassidica, da chi ce l’ha riportata, ha meritato questo commento: “Ecco – in parabola – la nostra condizione di uomini che vivono la speranza cristiana, sperduta minoranza in un mondo che a grande maggioranza non l’intende. Siamo chiamati ad affrontare in noi stessi la cecità degli altri (…), di tutti. E dall’interno di quella cecità sarà nostro compito elevare – a nome di tutti – l’invocazione al Signore perché si manifesti, soccorra i suoi figli, dia occhi a un’umanità non vedente. Intanto ci è dato – questo sì – di cogliere i segni della speranza che lo Spirito manda alla nostra epoca e di metterli in onore tra noi e di comunicarli per quanto possibile - ai nostri contemporanei” [43].
Questo messaggio deve giungere con forza soprattutto a noi laici. Una osservatrice della condizione laicale, ci ricorda che, un tempo, il contesto quotidiano bastava per insegnarci a vivere da cristiani. Frantumatasi l’antica unità cultura/etica, si presenta la necessità di reinterpretare la nostra identità. Tra le occasioni offerteci, l’autrice che ci sta guidando, individua le omelie; purtroppo, denuncia, “accanto a quelle che costituiscono vero alimento per il cammino di fede della settimana, ci sono quelle che prescindono dalla parola di Dio proclamato e che sono divagazioni su temi di attualità, quando non anche parole in caduta libera. Quasi sempre, una riflessione di grande astrattezza, che non fa vivere perché non tocca la vita” [44]. Si comunicano, cioè, ‘parole’ sganciate dalla ‘Parola’ e, dunque, i laici sentono predicozzi infarciti di moralismo o di riferimenti politici qualunquistici. La Chiesa , per la Bignardi , non può non fare i conti con la ‘civiltà dei media’; in fondo, per farsi capire, deve assorbirne (ma io direi con molta attenzione e criticità) linguaggi, strumenti, categorie comunicative. Su questo terreno minato, la Chiesa deve stare senza perdere la sua originalità; la sua parola, infatti, è profezia – giudizio – frutto di discernimento anche a rischio di apparire controcorrente. L’autrice rifiuta di pensare ad una Chiesa silente; piuttosto, proprio accettando le insidie dei modi di comunicare attuali, deve parlare “attraverso la propria profezia, che è al tempo stesso silenzio e parola forte” (p. 46) e lasciando ai laici la possibilità di esprimere opinioni autorevoli su questioni di interesse generale. Cosa devono fare i laici per restare uniti e svolgere la loro missione nei luoghi concreti della vita? La proposta della Bignardi non manca di far planare il cuore del proprio impianto sul valore della Parola: “Oggi è tempo per scoprire che la fede si alimenta di Parola e di sacramenti, soprattutto dell’Eucaristia (…). La Parola è la persona del Signore che ci parla, si fa compagno di viaggio, ci indica la strada. Il Concilio ha indicato proprio nella parola di Dio ascoltata, compresa, approfondita, resa personale il segreto per vivere da cristiani. Chi è assiduo all’ascolto della Parola, sente crescere la familiarità con la persona del Signore e si rende conto che a poco a poco questa lo trasforma. Ascoltare la Parola è esercitarsi a ricevere da Dio la vita; è stare in contatto con il mistero, senza pretendere di capirlo o di possederlo” (p. 50). Per l’autrice, a questo punto, appare inevitabile invitare la comunità cristiana ad allestire una nuova cultura della comunicazione che non si fermi a ‘luoghi formativi’, bensì si attui nel dialogo e nello scambio animando – in materia di fede – una “ricerca condivisa” (p. 67). Condividere significa passare dal monologo di chi pensa di potere e dovere solo guidare al dialogo di quelli che sanno, a prescindere dalla cultura teologica posseduta e dal grado gerarchico di cui godono nella Chiesa, che la Verità si cerca in un cammino comunitario. Problematico, per la Bignardi , è che si comunicano verità di fede prevalentemente nel rito, durante la Messa e ciò offre “scarsa possibilità per le persone di prendere la parola, di esprimersi con informalità, di sentirsi in relazione” (pp. 67 – 68). Da qui l’urgenza di aprire nella comunità spazi in cui i laici comunichino e si esprimano. Le comunità devono animare, perciò, il dialogo che, se manca, allontana molte persone dal sentiero di comune ricerca. Giunto è il tempo in cui una spiritualità di comunione riconosca – per mezzo di sforzi compiuto da pastori e laici – che la Chiesa deve accendere un dialogo al suo interno evitando di fuggire il confronto; si tratta di riconoscere come un male soltanto l’uniformità, il silenzio e l’omologazione! L’autrice auspica una Chiesa che sia palestra di confronti “ricchi ed aperti, e per questo fecondi” (pp. 76 – 77). Il futuro delle comunità cristiane è anche – per la Bignardi – legato alla capacità di portare a termine un impegno: si tratta di formare, al loro interno, un dialogo con precise caratteristiche; si deve, cioè, essere “disposti a testimoniare opportune et importune uno stile di dialogo, di comunicazione, fatto di chiarezza e di mitezza”. Si deve aver “fiducia nei dibattiti che possono aprirsi” e dare vita, nelle comunità, ad “occasioni, luoghi, momenti in cui l’esperienza della fede vissuta nel mondo possa dirsi anche in forme non convenzionali, con nuovi linguaggi e nuove categorie culturali” (p. 97). Che Dio lo voglia e faccia di noi i collaboratori convinti della Sua volontà perché il nostro tempo, tormentato ed impaurito, da molto chiede se il Dio che ‘tentiamo’ di comunicare sia il Padre misericordioso che diciamo, che si comunica come Amore, o un padre dispotico che agisce per mezzo di un cieco volontarismo che comunica autoritariamente. Nostra responsabilità è fare in modo che in chi ci ascolta si configuri la prima o la seconda idea di Dio che, se è comunicato come Amore, non si esprime né come un’Idea, né nel monologo autoritario, ma nel dialogo rispettoso ed amante dell’altro [45].
[1] Cfr., g. tinacci mannelli, Le grandi comunicazioni, Firenze 1969, pp. 2 – 3. Legge fondamentale del nostro tema è: “Non si può non comunicare” (p. watzlawick – j. helminck beavin – don d. jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma 1971, p. 42). Eppure, occorre agire con accortezza anche in ciò che si presenta come necessario; infatti, la comunicazione è “più fragile della bellezza: basta un nulla a fermarla o a spezzarla tra due soggetti” (e. mounier, Il personalismo, Roma 1974, p. 34).
[2] Cfr., f. gentiloni, Il silenzio della parola, Torino 2005, p. 24. Un errato modo di concepire la comunicazione uomo/Dio conduce alla corruzione del pregare. Afferma Gentiloni: “Colui che prega sembra voler raggiungere mediante quelle parole uno stato interiore, una situazione. Forse la calma, se non addirittura una sorta di felicità. La preghiera rischia così, di essere una cura psicologica: contro le paure, le angosce, le difficoltà della vita” (p. 34).
[3] id., Scintille. Dio, la vita e le persone in Maurice Zundel, Milano 1990, pp. 124 – 125.
[4] Quando posiamo lo sguardo sulla Bibbia, dobbiamo già aver compreso che “non si tratta tanto di leggere un libro, quanto di cercare Qualcuno” (m. magrassi, Bibbia e preghiera. La lectio divina, Milano 1988, p, 87).
[5] Cfr., a. gounelle, Parlare di Dio, Torino 2006, p. 152. Sul silenzio, ai cristiani di Efeso, Ignazio di Antiochia scriveva: “Al principe di questo mondo sono rimasti occulti la verginità di Maria e il suo parto, e così pure la morte del Signore. Tre alti ed eloquenti misteri che si sono attuati nel silenzio maestoso di Dio” (Le lettere, Roma 1980, p. 48). Ai cristiani di Magnesia invia una espressione: logos apò sighês proelthon ‘parola che proviene dal silenzio’ (p. 46).
[6] maria cecilia visentin, Bibbia e arte. I percorsi della cultura e della fede, Padova 2006, pp. 166 – 167.
[7] Necessario il silenzio in un mondo nel quale trionfa la chiacchiera che, diceva Ebner, è sì un’arte della parola, ma priva di cuore e di amore. Ormai l’uomo tende sempre più a divenire un’“appendice del rumore” (m. picard, Il mondo del silenzio, Milano 1951).
[8] Cfr., r. ronchi, Luogo comune. Verso un’etica della scrittura, Milano 1996, p. 82.
[9] Cit. in g. vannucci, Pellegrino dell’Assoluto, Troina (EN), 2005, p. 147. Chi fa i conti con la Parola sperimenta un doloroso corpo a corpo con le parole. La moglie di Maritain ce lo ricorda in versi: “Come avere accesso presso di te oltre i simboli/E conoscere senza alcun errore la verità della tua Parola/Tutto ciò che di te si dice è sacrilego/E ciò che tu stesso hai espresso con le nostre parole è protetto da un mistero infinito” (raïssa maritain, Poesie, Milano 1990, p. 48).
[10] Riferito da l. gonzalez – quevedo, Progetto di vita. Amare ed essere amato, Padova 2004, p. 10.
[11] Cfr., id., Immagini e simboli, Milano 1984, p. 16. Aggiungiamo che “nelle espressioni più profonde della credenza, della fede, o del modo di vivere qualsiasi tradizione religiosa, i limiti del linguaggio vengono spinti fino al punto del paradosso, vicino al nonsenso, e al silenzio” (paul van buren, Alle frontiere del linguaggio, Roma 1977, p. 127). Il rischio, però, è di mascherare, con un simile modo di esprimersi, ciò che non si vuol far comprendere.
[12] Cfr., m. detienne, L’invenzione della mitologia, Torino 1983, p. 54.
[13] nikolaj s. trubeckoj, Fondamenti di fonologia, Torino 1971, p. 5.
[14] Cfr., e. rossi di montelera, Linguaggio dello schermo e linguaggio della Fede, Lugano/Varese 2006, pp., 29 – 34. Un filosofo ebreo del Novecento, scrive che “se l’arte del narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva” (w. benjamin, Angelus novus, Torino 1962, p. 241). Il giornale al mattino “ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni (…). È già la metà dell’arte di narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazione”(ibidem). La Storia della Rivelazione non ammette, per questo conserverà una potente carica comunicativa, narrativa, una spiegazione definitiva. Un fatto di cronaca non è un Evento!
[15] g. berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Roma – Bari 1973, p. 27.
[16] Cfr., g. steiner, Grammatiche della creazione, Milano 2003, p. 23.
[17] j. bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino 1992, p. 130. Nel linguaggio “coordiniamo i nostri comportamenti e (…) generiamo insieme il nostro mondo” (f. capra, La rete della vita, Milano 1997, p. 319). Si noti quel generiamo insieme! Il linguaggio non è un fatto privato. La teologia, infatti, riconosce il valore della Parola nell’evento comunitario (liturgia).
[18] Cfr., m. bellet, Il pensiero che ascolta. Come uscire dalla crisi, Milano 2006, p. 141.
[19] Cfr., walter j. ong, Interfacce della parola, Bologna 1989, pp. 344 – 345.
[20] g. blandino, Immagini, linguaggio e conoscenza. Sensazioni e intelligenza, Roma 2002, p. 14. Comunicare i principi cristiani non è mai compito agevole perché “non c’è nessuna introduzione oggettiva al cristianesimo e fra ogni considerazione oggettiva e una professione di cristianesimo c’è un salto (…) qualitativo (…) ‘salto mortale’” perché, in fondo, “ogni scelta personale non si può fare se non a proprio rischio e pericolo” (l. pareyson, Kierkegaard e Pascal, Milano 1998, p. 127).
[21] Scrive Edward T. Hall: “dobbiamo arrivare a comprendere gli aspetti ‘fuori coscienza’ della comunicazione. È falso credere che siamo pienamente coscienti di ciò che trasmettiamo agli altri. Il messaggio che passa da un individuo all’altro viene facilmente alterato nel mondo in cui viviamo. Il fatto di cercare di capire veramente e di penetrare nei percorsi del pensiero altrui rappresenta un compito molto più difficile e una situazione molto più seria di quanto la maggior parte di noi sia disposta ad ammettere” (Cit. in m. de smedt, Elogio del silenzio, Milano 1992, p. 54).
[22] Cit. in l. mecacci, Identikit del cervello, Bari 1984, p. 120.
[23] Cfr., a. tomatis, L’orecchio e il linguaggio, Como – Pavia 1995. Si dice che siamo in una civiltà che privilegia la comunicazione iconica che privilegia, cioè, l’immagine e che ciò danneggia la comunicazione del Vangelo che si basa, prevalentemente, sull’ascolto. In realtà, si dimentica che non è proprio così. Riflettendo su alcune espressioni iniziali del Vangelo di Giovanni, un teologo ha giustamente rilevato: “Facendosi ‘carne’ la parola di Dio si è fatta visibile, Parola iconica, Parola che non solo si sente, ma si vede” (b. maggioni, ‘Gesù Cristo comunicazione di Dio con l’umanità’, in CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE (a cura), Comunicare la fede. La missione per il nuovo millennio. 50a Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, Bologna 2000, pp. 41 – 42).
[24] Cfr., h. lefebvre, La vita quotidiana nel mondo moderno, Milano 1978, in particolare pp. 112 – 134. Quanto detto conduce, secondo questo autore, a far sì che la ‘vita quotidiana’ patisca una perdita di sostanza.
[26] Cit. in g. steiner, Grammatiche della creazione, cit. p. 21.
[27] r. simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma – Bari 2002, pp. 103 – 104.
[28] Cfr., j. joyce, Ulisse, Milano 1960, pp. 158 – 159.
[29] h. franta – g. salonia, Comunicazione interpersonale, Roma 1979, p. 75. C’è anche un modo errato di intendere il silenzio di Dio: “L’uomo si lamenta spesso del silenzio di Dio; si esaspera (…), ne fa tema di libri (…) fino a farne una specie di luogo comune in letteratura. E non si accorge che Dio tace proprio perché lui parla (…) non è abbastanza umile da stare ad ascoltarlo. Dio parla all’uomo anche con il suo silenzio” (r. cantalamessa, Esulta figlia di Sion, Milano 1986, pp. 55 – 56). Le nostre chiacchiere sul silenzio di Dio allontanano da quanto Egli comunica. Uno studioso, già alcuni anni fa, denunciava che, oggi, “i mezzi di comunicazione hanno portato un attacco radicale alla dimensione del silenzio” (m. mcluhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma 1976, p. 328).
[30] Cfr., s. kierkegaard, Diario (4 maggio 1839), Brescia 1963, n. 342.
[31] In p. a. sorokin, Il potere dell’amore, Roma 2005, p. 74.
[32] Cfr., a. m. sicari, Il grande libro dei ritratti dei Santi. Dall’antichità ai nostri giorni, Milano 1997, pp. 491 – 502.
[33] cecilia lynch, ‘Dogma, prassi e prospettive religiose in tema di multiculturalismo’, in aa.vv., Ritorno dall’esilio. La religione nelle relazioni internazionali, Milano 2006, p. 86.
[34] Cfr., s. freud, ‘Introduzione alla psicoanalisi’, in id., Opere 1915 – 1917, vol. 8, Torino 1976, p. 201. Per comprendere l’importanza del dialogo medico – paziente, vedi g. lai, La conversazione felice, Milano 1985.
[35] Cfr., neil postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’Era dello spettacolo, Milano 1996, p. 71. Come dice il poeta Cristian Bobin, il XX secolo parla all’occhio.
[36] Cfr., d. del giudice, ‘Gli oggetti, la letteratura, la memoria’, in aa. vv., L’esperienza delle cose, a cura di a. borsari, Genova 1992, pp. 97 – 98.
[37] Cfr., m. mcluhan, Gli strumenti del comunicare, Milano 1967, pp. 44 – 45. Non passa più tempo, non c’è più spazio tra messaggio e destinatario e, dunque, aggiunge altrove McLuhan, si inaugura un “mondo nuovo di zecca fatto di subitaneità” (Il medium è il messaggio, Milano 1968, p. 63).
[38] Cfr., g. bettetini, L’Ulisse semiotico e le sirene informatiche, Milano 2006, p. 23.
[39] Cfr., Testimoni della libertà di Cristo. Dichiarazione dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi per l’Europa. Testo e commento, p. coda /ed/, Roma 1992, p. 42. La comunicazione totale della Parola coincide con la parusia (seconda venuta di Cristo)? Nel capitolo 24 di Matteo leggiamo: “Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo (…); e allora verrà la fine”; In Mc 13, 10: “Ma prima (che Gesù torni) è necessario che il Vangelo sia predicato a tutte le genti”. Cristo non entrerà nuovamente nella Storia senza la piena comunicazione della Parola a tutto il mondo!
[40] a. m di nola, Cabbala e mistica dell’uomo, Roma 1984, p. 8.
[41] Cfr., patrizia tabossi, Il linguaggio, Bologna, (2a edizione aggiornata 2002), 2005, pp. 120 – 121.
[42] suor gesualda, Santa Teresa di Lisieux, Cinisello Balsamo (MI) 1986, p. 190.
[43] Cfr., l. accattoli, ‘Gesù Cristo nostra speranza’, in aa.vv., In cammino verso Verona, Bologna 2006, pp. 34 – 35. È dal convegno ecclesiale di Verona su ‘Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo’ che è tratto l’intervento di Accattoli. Sono stati interpellati gli Istituti missionari che hanno il precipuo compito di ‘comunicare il Vangelo’. Va precisato è che, va bene la prassi, l’aiuto ai bisognosi, ma non basta! La fede non deve esaurirsi tutta nel supplire le carenze assistenziali delle Istituzioni; occorre che al gesto il missionario associ la parola che fa trasparire la Parola. Praticando l’amore, annunciare l’Amore! Scrive Gentiloni: “Perfino nell’attività dei missionari pian piano il ‘fare’ ha prevalso sul ‘dire’. L’attività missionaria è sempre più stata assimilata a una sorte di ‘croce rossa’ piuttosto che all’annuncio e alla predicazione di una religione più ‘vera’ delle altre” (Il silenzio della parola, cit. p. 46). Come comunicare, dunque, il sapore dei dolci frutti cristiani nati dall’albero amaro della Croce. Si legge al n. 8 della Lumen gentium: “…come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la Chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza”. Questo è possibile se comunichiamo innanzitutto le ragioni della nostra speranza. Essa, ricordò durante una catechesi del suo breve pontificato Papa Luciani (Giovanni Paolo I), il 20 settembre del 1978, è virtù obbligatoria del credente.
[44] Cfr., paola bignardi, Esiste ancora il laicato? Una riflessione a 40 anni dal Concilio, Roma 2006, p. 39.
[45] Un pensatore che ha fatto del confronto con Dio un corpo a corpo appassionato, doloroso e ricco di positive provocazioni per noi, si domandava ciò che, credo, serpeggi nel cuore di ogni uomo, in ogni tempo, desideroso di credere, eppur dubbioso: “Dovrei chiamare ‘padre’ questo terribile mistero che sta dietro al fluire del mondo? Che mai e in nessun luogo si lascia incontrare (visto che è al di là del tempo e dello spazio) e tanto meno lassù? Dov’è, infatti, l’alto, dove il basso, visto che ci troviamo su una sfera in rotazione? Lui si è sottratto a ogni concetto, a ogni parola, a ogni invocazione. In caso estremo posso ancora dire: spero che ci sia! Nient’altro” (f. nietzsche, La gaia scienza, Milano 1965, p. 130).
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