SULL’ALTERITÀ
Rabbi Pinhàs, al discepolo che gli chiedeva – “Perché nessun viso è uguale all’altro? -, rispose: “Perché l’uomo è fatto a immagine di Dio. Ciascuno sugge la divina forza vitale da un luogo diverso, e tutti insieme essi sono l’uomo. Per questo i loro visi sono diversi”.
La diversità tra gli uomini, in questa storiella chassidica, viene fatta risalire ad un progetto divino: ogni uomo assume la ‘divina forza vitale’ a partire dal luogo che gli è proprio e, l’armoniz zazione delle diversità, costituisce l’uomo. La diversità dei visi è alla base delle differenze tra gli uomini, ma la matrice che li forgia è unica: Dio! Una suggestiva ipotesi, certo; ma, a ben guardare, ci illumina un concetto che, meditando sull’alterità, non dovrebbe essere lasciato indiscusso: la diversità non coincide, toto coelo, con estraneità; l’alterità, lungi dall’essere causa di incomunicabilità, derivante la diversità dei volti umani dalla diversità di luogo dal quale gli uomini suggono la ‘divina forza vitale’, è la conditio sine qua non delle relazioni interpersonali. Ma non pare più possibile, oggi, proporre discorsi simili; pare che si stia già finendo fuori binario perché si sta tentando di incardinare la nostra riflessione sull’alterità su fondamenti teologici. Perché dico questo?
Il filosofo del diritto, della politica e delle scienze sociali Giuseppe Limone, di recente, ha detto che viviamo nei tempi della post – ideologia; anzi, precisa, ormai egemone è una sola ideologia “invisibile perché unica: quella del mercato globale delle informazioni e delle merci, a locomotiva tecnoscientifica e a dominante finanziaria” [1]. Appiattito tutto su parametri economico / efficientisti, la vita stessa, l’uomo, diventano merci e, come si sa, reificazione e disumanizzazione viaggiano assieme. Non interessa più stabilire ‘chi’, ‘che cosa’ un uomo deve essere, bensì, come; cioè, ‘come’ ci si deve costruire per poter essere ‘vendibili’ sul mercato del lavoro. La caratteristica dominante richiesta dal mercato è che tutti debbono costituirsi a partire da quell’unicum e, dunque, essere ‘altri’ è impossibile: ci si deve uniformare a quel tipo d’uomo richiesto dal mercato globale! Come ha scritto un sociologo contemporaneo, “mutano (…) gli imperativi sociali per l’individualità. L’interrogativo non è più: ‘cosa si deve essere?’, ma: ‘come si deve essere?’” [2].
C’è un economista che ha preso sul serio la categoria alterità e l’ha portata in primo piano in una materia che, come detto finora, sembra l’abbia disconosciuta senza remore. Tratteggiamone brevemente la figura.
Amartya Sen, Premio Nobel per l’economia, è nato a Santiniketan, nel Bengala, una regione dell’India. Tra i suoi numerosissimi meriti figura l’elaborazione dell’HDI, Human Development Index: un coefficiente per misurare il grado di sviluppo che guarda oltre quello occidentale ossessionato da numeri, cifre…
La ricchezza di un paese, per Sen, dipende anche dall’aspettativa di vita, dall’alfabetizzazione degli adulti, dalla distribuzione del reddito. Nei suoi scritti, accanto a teorie e temi di alta economia, compaiono molti riferimenti filosofici; questo, per dire che l’uomo non è rinchiudibile entro una sola ‘forma di conoscenza’. L’economista indiano, tuttavia, ha sperimentato personalmente cosa sia l’alterità. Lui stesso ha più volte ammesso quanto fosse stato importante, per la formazione della sua identità polifonica, aver sposato una italiana, Eva Colorni – scomparsa prematuramente – figlia di Eugenio, ucciso dai nazisti, in quanto filosofo ed eroe della Resistenza. Se iniziò a studiare economia, fu a causa della sua spiccata sensibilità per i mali patiti da ‘altri’; in particolare, dai suoi connazionali. Il suo popolo, infatti, nel 1943, venne colpito da una grave carestia ed il governo britannico, che allora governava l’India, si mosse in ritardo. Sen documenta che le cose migliorarono quando l’India divenne indipendente! L’economista aveva, allora, nove anni. Ad otto anni, invece, quando abitava a Dacca, fu testimone di furiosi scontri tra indù e musulmani. Un uomo, seriamente ferito, venne soccorso dal padre; quell’uomo confessò che era in strada non per combattere, ma per cercare lavoro. Da questi riferimenti autobiografici comprendiamo quanto sia intrisa di preoccupazioni per altri il pensiero economico di Sen; ben diverso, a dire il vero, da un pensiero dello stesso genere nato e sviluppato a tavolino. L’economista indiano tenne a preservare il valore alterità mostrando che il progresso, la civiltà ed i valori, come pure l’inciviltà, la repressione, non siano caratteristiche di un solo popolo, ma si tratta di atteggiamenti e posizioni comuni all’Occidente ed ai paesi asiatici. Ad esempio, dice il nostro autore, si commette già un grave errore quando si parla, con troppa enfasi, di ‘matematica occidentale’, come se fosse pacifico e facile obliare i contributi offerti a questa disciplina dagli ingegni indiani ed arabi. In un saggio ci ricorda, come accennavo sopra, che preferenze antidemocratiche sono presenti nel pensiero asiatico, ma giganteggiano pure nei pensatori europei:
“L’interpretazione ‘monolitica’ che ritiene i valori asiatici incompatibili con la democrazia e i diritti politici non regge a una esame critico (…) non è affatto difficile rintracciare scritti favorevoli all’autoritarismo nella tradizione culturale asiatica. Ma non lo è neppure nei classici del pensiero occidentale: basta soltanto pensare alle opere di Platone o Tommaso d’Aquino per accorgersi che la devozione alla disciplina non è una caratteristica peculiare dell’Asia. Scartare l’ipotesi del valore universale della democrazia a causa di qualche testo asiatico favorevole alla disciplina e all’ordine sarebbe come rifiutare la plausibilità del modello democratico come forma naturale di governo oggi in Europa e in America sulla base degli scritti di Tommaso d’Aquino o Platone (per non menzionare la vasta letteratura a sostegno dell’Inquisizione)” [3].
Una delle figure intellettuali contemporanee che pure incarnano potentemente il concetto autentico di alterità è quella di Raimon Panikkar.
Nacque nel 1918 a Barcellona, madre cattolica e padre indiano fedele all’induismo. Si laureò in fisica, filosofia e teologia e divenne, nel 1946, sacerdote cattolico. In un villaggio pirenaico, Tavertat, fondò il Centro studi Vivarium per consentire l’incontro tra esperti e personalità delle varie culture e religioni. In una intervista, mostrando cosa sia davvero l’alterità vissuta e pienamente sperimentata, dichiarò di essere al 100% indù ed al 100% cattolico e spagnolo! Malgrado la sua esperienza, non faticava ad ammettere che far convivere le culture è impresa ardua; infatti, il problema fondamentale è che l’uomo è ancora estraneo a se stesso. In più, questo eclettico intellettuale, a ragione affermava che, per passare da una cultura di guerra ad una cultura di pace, occorre cambiare il mythos e non solo il logos (i racconti mitici che un popolo si narra e non solo i suoi prodotti intellettuali più sofisticati).
Le culture, purtroppo, dice giustamente Panikkar, credono nei loro miti nel modo peggiore: li trasformano in assoluti. La questione, a mio avviso, sta nel riuscire a comprendere che, se si parla di valori universali tenendo fermo che sono quelli nati in una particolare cultura, diventa quasi impossibile incontrare davvero gli altri. Panikkar ha approfondito con la stessa intelligenza e serietà tutte le culture, i valori religiosi che sono entrati in contatto con la sua vita eclettica e versatile.
L’equivoco che induce a parlare di valori universali come assoluti da imporre ha interessato anche il sociologo Immanuel Wallerstein. Scrive:
“Se (…) si considera che questi valori universali sono la creazione sociale di un gruppo dominante in un particolare sistema – mondo, la questione va fondamentalmente riconsiderata. Ciò che utilizziamo come criterio non è l’universalismo globale ma l’universalismo europeo (…). I valori universali globali (…) sono creati da noi. L’impresa umana della loro creazione rappresenta il grande compito morale dell’umanità. Ma potremo sperare di conseguirli solo quando saremo in grado di andare oltre la prospettiva ideologica dei forti verso un riconoscimento davvero comune” [4].
Se ci si riflette bene, è una grande contraddizione ricorrere al termine universalismo e poi, invece di associarlo all’aggettivo globale, lo si restringe a quello di europeo. Sì, il nostro sociologo ha ragione: facendo tesoro di esperienze come quelle di Panikkar e Sen, la questione dei ‘valori universali’ va davvero fondamental mente considerata.
Un filosofo contemporaneo, nato a Londra ma originario del Ghana, Kwame Anthony Appiah, ha tenuto a sottolineare che in Occidente abbiamo sviluppato un sapere che aiuta a progredire nella comprensione dei fatti, ma non sicuramente ci ha condotti più lontano di dove eravamo riguardo ai valori. Appiah fa l’esempio dell’americano che ha la febbre: non crederebbe mai, a differenza di un uomo che vive in una cultura primitiva, che si tratti di stregoneria. Cosa accade?
Semplicemente sta applicando, per ragionare sulla malattia, i concetti fornitigli dalla sua cultura. Attraverso una ‘lettura’ scientifica, in fondo, trova una spiegazione migliore della sua malattia ma – avvisa il filosofo – non significa, automaticamente, che sia una persona migliore:
“Semplicemente, ha la fortuna di vivere in una società che ha speso una quantità enorme di impegno e intelligenza proprio perché non pensi che il suo malessere è una faccenda di stregoneria (…): i metodi delle scienze naturali ci hanno permesso di fare progressi nella comprensione dei fatti, ma non dei valori, o almeno nella stessa misura. E allora nulla ci vieta di trarre insegnamenti sui valori da società in cui la scienza non ha basi solide e profonde come la nostra” [5].
L’uomo dotato di una spiccata ‘mentalità scientifica’, dunque, non è, necessariamente, un uomo migliore all’interno di una valutazione assiologica ed etica. Superare il pregiudizio che ‘superiorità nel sapere’ equivalga a ‘superiorità morale’ aiuta senza dubbio a rapportarsi ad altri in maniera più umana.
Credo che, prima, però, occorra uscire da un gap che è stato sinteticamente, ma brillantemente, illustrato da Postman: la cultura si è arresa allo strapotere della tecnologia e si è avuto un sapere sempre più incapace di farci crescere eticamente, umanamente [6]. Questo, ancora prima che la cosa avesse effetti devastanti sulla questione dell’alterità, ha prodotto – più generalmente – quella che è stata definita la bancarotta dell’umanesimo (N. Berdjaev).
Non si patiscono difficoltà insormontabili soltanto nel comunicare con gli altri ‘lontani’ (geograficamente e culturalmente) da noi, ma anche con quanti vivono nel nostro stesso Paese, se non addirittura nella nostra stessa città. Giovanni Paolo II, nella Novo millennio ineunte (n. 43), affermò che gli ‘strumenti della comunicazione’ si convertono troppo spesso in “apparati senz’anima”, in “maschere di comunione” e non in “vie di espressione e di crescita”. Con internet comunicare diviene una questione di denaro: per essere sempre in contatto (il che non significa comunicare effettivamente con altri) si paga. Un tempo si poteva parlare di ‘solidarietà’ perché vi erano zone franche: non tutto diventava business.
Ormai, anche poter incontrare gli altri è un affare commerciale messo in piedi da esperti.
Ha scritto uno studioso lucido ed attento della società complessa:
“Provate a immaginare di svegliarvi, una mattina, e di scoprire che ogni cosa che vi riguarda è a pagamento: la vostra vita è diventata un’esperienza di natura esclusivamente commerciale (…). Reti commerciali di ogni dimensione e della più varia natura tessono una ragnatela che avvolge completamente l’esistenza umana, riducendone ogni momento a merce” [7].
Mercificato l’uomo, mercificata la comunicazione, in quali spazi calare, in maniera feconda, la questione alterità? Come circumnavigare il fenomeno della comunicazione (una delle aree privilegiate della realizzazione di una autentica vita all’insegna dell’alterità) in maniera non scorretta?
Insisto: prima di cancellare l’altro dai nostri orizzonti, si è provveduto a svilire il concetto cristiano di uomo. La sociologia moderna e contemporanea non ha mai smesso di tessere polemiche trame argomentative a tal proposito. Qualcuno ha scritto, non a torto, che l’uomo reale, vivo è stato spodestato da “un paio di astrazioni: ‘il guadagno’ e l’‘affare’. L’uomo ha cessato di essere quello che era rimasto sino alla fine dell’era paleocapitalistica, la ‘misura di tutte le cose’” [8]. Con la giusta misura di se stesso l’uomo generato dallo sviluppo dello spirito capitalistico (per riprendere il sottotitolo di un’opera di Sombart, qui nota 8) ha smarrito l’altro come misura e critica (necessaria) di se stesso. Non è facile sottoscrivere l’assioma di un filosofo ebreo contemporaneo: ogni vero vivere è incontrare (Buber).
In realtà, l’uomo non conosce più la propria misura proprio perché non ha, quale unità di misura, il metro dell’alterità! Pensa di valere in base a quanto produce ed a quanto accumula nei campi dei saperi specializzati. Si dimentica che si cresce e ci si personalizza sempre più unicamente nella capacità di relazionarsi ad altri. Sono molto vicino alla posizione di Karl Jaspers. Il filosofo tedesco, infatti, definiva non esistente quanto si realizza fuori dalla comunicazione. È a due – concludeva – che comincia la verità.
Se posso suggerire un ambito da frequentare per comprendere il valore dell’alterità, direi che molto ci può insegnare la letteratura. Il discorso, in verità, meriterebbe una trattazione molto più estesa di quella consentitami in uno spazio denominato ‘saggi/minimi’; ad ogni buon conto, mi basta, certo dell’intelligenza di quanti mi leggono, un esempio. In un noto romanzo, Dostoevskij, presenta la figura di Raskòl’nikov. Si tratta di un giovane che ha deciso di uccidere una vecchia usuraia.
Prima di dare atto al suo criminoso proposito, tuttavia, ammette di sentire un incoercibile desiderio di compagnia. Si reca, allora, in una bettola dove incontra l’ubriacone, ma saggio, Marmeladov. La forza della particolare soggettività dell’altro, talvolta, può investirci molto prima che ce ne rendiamo razionalmente consapevoli. Scrive il nostro autore:
“Capita di incontrare persone, anche a noi totalmente sconosciute, che ci cominciano ad interessare fin dal loro primo sguardo (…), prima che abbiano detto una parola”.
Potremmo dire che c’è un’empatia inspiegabile quando l’altro viene intuito in profondità. Questa pagina letteraria insegna che l’alterità è un valore che si può manifestare addirittura in una atmosfera misterica. L’ubriacone Marmeladov, al giovane Raskòl’nikov, ma anche al lettore attento, dona una grande lezione ‘pro’ alterità:
“Ma se non sapete più da chi (…) andare! Bisogna (…) che ogni uomo abbia la possibilità di andare da qualcuno! Arrivano (…) certi momenti in cui occorre assolutamente poter andare da qualcuno!” [9].
L’impatto emozionale che garantisce una simile pagina letteraria è sicuramente più efficace di un lungo trattato sulla relazione con l’altro. Alla lezione offerta dal personaggio russo, si oppone quella di uno scrittore praghese del Novecento: Franz Kafka. Nelle citazioni che riferirò tra breve, egli appare come l’avversario fiero ed irriducibile dell’alterità; a ben guardare, invece, proprio il suo rifiuto dell’altro intriso di inguaribile tristezza, ci impone di considerare se non sia preferibile imparare davvero a rivalutare il senso dell’alterità; se non sia il caso di riappropriarci della questione facendone un caso serio. In una lettera del 12 giugno 1913, confessa Franz alla fidanzata Felice che ritiene ‘penoso’, ‘inquietante’ l’idea di avere in camera un estraneo e perfino un amico; gli costerebbe, aggiunge, ‘grande fatica’, ‘dolore’ ricevere a casa amici e parenti. Vivere isolato, dirà in un’altra lettera, gli è necessario per scrivere; isolamento, precisa, non da eremita (“non sarebbe sufficiente”), ma addirittura da morto!
Scrive Franz:
“come non si estrarrà un morto dal sepolcro, così non si può togliere me, di notte, dalla scrivania” [10].
La posizione di Kafka e quella di Dostoevskij espressa attraverso la figura dell’ubriacone Marmeladov sembrano diametralmente opposte ma, ad una analisi più attenta, si comprende che entrambe inneggiano all’altro, al valore alterità (più che alla categoria alterità).
Se il personaggio dello scrittore russo invoca esplicitamente la necessaria presenza dell’altro, la disperazione kafkiana per una solitudine, pur definita necessaria, ci fa sentire come irrinunciabile il curvare l’esistenza entro atmosfere pro alterità.
Dobbiamo essere ospitali! Non è una scelta, ma il riconoscimento ad extra di una realtà che ci è propria in profondità. Che sto dicendo? In noi, quando sperimentiamo dubbi, conflitti, dilemmi etici, sentiamo che ci sono molte voci, molte idee che lasciano pensare che l’estraneo è dentro l’io, non solo fuori. A questo si salda perfettamente, credo, quanto scrive uno studioso di Sociologia della conoscenza, Franco Cassano. È lui ad invitarci, infatti, ad essere come un grande albergo; ad essere, cioè, capaci di ospitare in noi molte persone, tutte diverse tra loro. Come accade nella hall di un albergo, continua, dovremmo “abituarci a veder passare i tipi più diversi e non sempre una sola persona”. Cassano – come ho fatto io poco sopra – ci ricorda che l’io stesso è, potremmo dire, intrinsecamente polifonico! Continua lo studioso italiano: “noi stessi non siamo monolitici, ma composti di più persone” [11].
L’ospitalità, dunque, è una intrinseca ed insopprimibile necessità. Come altro definirla? Penso a quanto scritto, in forma di apologo, da un contemporaneo e suggestivo pensatore ebraico:
“Quale definizione potrebbe andare bene per l’ospitalità? – chiese il più giovane dei discepoli al maestro/ - Ogni definizione è, di per sé, una riduzione e l’ospitalità non sopporta nessuna limitazione – rispose il maestro” [12].
Potremmo dedurne che, a questo punto, l’ospitalità è l’etica ed essa, a sua volta, è l’ospitalità. Ci conforta, in questo caso, un pensatore francese che sul tema ha condotto studi di innegabile valore: “Coltivare l’etica dell’ospitalità, questo linguaggio non è, forse, tautologico?...L’ospitalità è la cultura in quanto tale e non è un’etica tra le altre…L’etica è ospitalità” [13]. Più chiari non sapremmo essere…
Un filosofo canadese contemporaneo ha sottolineato che l’io si costituisce entro reti di interlocuzione; cioè, esiste unicamente relazionandosi ad ‘altri’:
“la definizione completa dell’identità di una persona (…) comprende non solo la sua posizione sulle questioni morali o spirituali, ma anche un riferimento a una comunità” [14].
Edgar Morin, dal canto suo, ci ricorda che siamo tutti esseri poli – identitari, punti di accumulazione di molte identità. Sia ad intra, allora, che ad extra, dobbiamo fare i conti con l’altro! Un sociologo ha espresso la questione senza mezzi termini:
“La contiguità con gli estranei è (…) destino (…) occorre (…) trovare un modus vivendi per rendere la coabitazione gradevole e la vita vivibile” [15].
Si deve imparare a pensare la questione dell’alterità, cioè, in termini di comunità! Ma come la si costruisce? Se la politica sembra sempre più sottoposta ai dettami dell’economia, se si riduce alla pratica di amministrare, chi potrà offrire supporti autorevoli per animare comunità vive e pacifiche? Ha scritto qualcuno, di recente, per richiamare la politica a doveri di più alto prestigio:
“per avere comunità ci vuole condivisione di origini e comune impegno per il futuro (…). La politica si carica solo di funzioni amministrative e ancillari rispetto all’economia (…). Cresce il potere e tramonta la politica” [16].
La politica deve occuparsi maggiormente dell’urgenza di mutare le nostre società (colpite sempre più dall’anomia e dall’odio per i diversi) in comunità.
Condividere i nostri beni con altri è idea che trova una entusiasta accoglienza, almeno in un primo momento, presso tutti; ma, ci si deve domandare, quali beni siamo disposti davvero a condividere? Si ha una visione chiara del problema? Non credo. Ritengo utile, perciò, scomodare lo studioso di Dottrina sociale della Chiesa Stefano Fontana. È lui a sostenere che è sbagliato pensare che sia doveroso condividere con altri i ‘beni del creato’ in quanto doni, mentre si tengono per sé i ‘beni della cultura, della scienza, della tecnica’ perché, ci si giustifica, frutto di lavoro e sforzo personali. In realtà, anche questi beni, precisa lo studioso italiano, “sono frutto di quanto ereditato dalle generazioni passate (…) il frutto del mio lavoro è mio, ma la mia intelligenza o la mia salute, presupposti di quel lavoro, mi sono state donate”; perciò – conclude il nostro autore – “anche nel campo dei beni immateriali c’è un aspetto per cui essi sfuggono ad una semplice considerazione in termini di diritti: rivelano un dovere nella loro gestione a raggio universale in quanto anch’essi (…) hanno un aspetto di dono” [17].
Se non impariamo a donare sia i ‘beni del creato’ che quelli ‘intellettuali’, una reale comunione non si darà mai ed una pace vera e duratura sarà impossibile.
Il sociologo Giddens, quando ci dice che siamo nel runaway world (un mondo privo di vincoli), sta avvertendoci di un grave pericolo: se ognuno va per la propria strada, gli interessi in conflitto esploderanno, ineluttabilmente, in guerre, odi inguaribili. Non possiamo risolvere la questione semplicemente tollerando l’emigrazione, che gli altri vengano ad elemosinare a casa nostra perché, come qualcuno ha fatto giustamente notare, nella maggior parte dei casi “l’emigrazione (…) risolve conflitti nei paesi d’origine e ne crea di nuovi in quelli d’arrivo” [18]. Dobbiamo fare in modo che gli ‘altri’ possano esprimere le loro potenzialità dove sono e non limitarci semplicemente a lasciare che portino la loro rabbia, la loro impotenza da noi.
In questo libretto non posso che limitarmi, come si dice, che a grattare la pancia alla cicala! Semi di riflessione possiamo offrire, nulla più! Non posso mancare, però, di ricordare il contributo di M. Vidal al nostro tema. Egli parla di pluralismo dei progetti umani. La società, cioè, deve ammettere il ‘gioco democratico’. Il pluralismo morale, poi, esprime la maturità della libertà e, precisa lo studioso, la libertà può dirsi matura “qualora si realizzi nella ricerca del bene sociale”.
L’etica civile si realizza quando, continua il nostro autore, possono (devono) coesistere ‘credenti’ ed ‘atei’. Si tratta, cioè, di un’etica che ha origine “non dall’accettazione o dal rifiuto della religione, bensì dall’accettazione della razionalità condivisa e dal rifiuto dell’intransigenza esclusivista” [19]. Una etica sociale e civile accettabili non possono non favorire il ‘pluralismo dei progetti umani’, il ‘pluralismo morale’, la ‘coesistenza di credenti ed atei’; non può, infine, non favorire una ‘razionalità condivisa’ contra una ‘intransigenza esclusivista’. Il disastro è che oggi, nelle nostre metropoli, più che porsi seriamente la questione alterità nei termini giusti (come costruire una comunità in base al principio di inclusione, piuttosto che in base al principio di esclusione), si preferisce impiegare intelligenza e tempo per approntare, in definitiva, inutili, inefficaci sistemi di difesa che allontanino l’altro inquadrato acriticamente come ‘il male’. Valgano le parole di una studiosa di ‘Sociologia della metropoli’:
“Interi quartieri, abitati dalle classi più agiate, vengono messi sotto controllo (…) giorno e notte. Eppure anche al loro interno possono celarsi i nemici. Anzi proprio al loro interno (…): basti pensare al racconto di James Graham Ballard Super – Cannes, nel quale il centro residenziale di Eden – Olimpia che ospita i dirigenti delle più importanti multinazionali diventa l’imprevedibile teatro di una serie di omicidi il cui insospettabile autore è un medico che lavora all’interno del centro stesso, o al racconto Un gioco da bambini in cui il quartiere residenziale più che controllato viene sconvolto da trentadue omicidi di cui sono responsabili i figli delle vittime” [20].
Tragicamente vero: l’altro – nemico, assassino – non è necessariamente l’estraneo, qualcuno che viene da lontano!
Per la nostra Europa, così martoriata dalle crescenti minacce dell’immigrazione spesso incontrollata, dall’Islam inferocito con il nostro modello di vita, c’è speranza? Mi confortano molto, in certi momenti, le parole di una filosofa spagnola che, per molti anni, patì l’esilio e che, per questo, sa bene cosa voglia dire pensare in maniera altra, essere altri anche nel proprio Paese! Maria Zambrano, parlo di lei, preferisce parlare non di ‘morte dell’Europa’, bensì di agonia (L’agonia dell’Europa, Venezia 1999). Forse l’Europa, propone la filosofa, è l’unica cosa storica che può non morire completamente; anzi, forse è l’unica cosa che ha la possibilità di resuscitare.
Può essere, scrive in Persona e democrazia (Milano 2000), che stiamo vivendo un’alba: qualcosa è definitivamente tramontato ed ora si attende che rinasca l’uomo occidentale “in una luce pura e rivelatrice”. Sperare, però, è arduo. Recentemente sono tornato per la quarta volta in Canada dove il pluralismo si declina in ogni accezione e, durante un viaggio in treno di cinque ore per raggiungere Montreal, ho sfogliato qualche libro. Mi sono imbattuto in due frasi. La prima è di F. S. Fitzgerald: E se ne andarono a dormire felicemente sul dolore degli altri. Sentii un tonfo al cuore. Quante volte è proprio questo l’atteggiamento che l’opulenta Europa assume di fronte ai dolori che, dallo schermo televisivo, vede consumarsi nei paesi meno sviluppati? Lo scrittore americano che leggevo in treno mi aveva portato, senza che io avessi fatto alcuno sforzo, alla tematica ‘alterità’ spingendo mi, tra le suggestive nevicate di Montreal, a stendere queste considerazioni sull’alterità. Passai a leggere, poi, alcuni versi di D. H. Lawrence. Uno, mentre il treno si fermava per una lunga sosta, mi sembrò degno di figurare accanto alla frase di Fitzgerald; anzi, parve una soluzione all’indifferenza gelida che essa esprimeva. Scrive Lawrence: Ed è tempo di andare, di dire addio/al proprio sé,/di trovare un’uscita dal sé decaduto.
Dal 10 dicembre, arrivato a Montreal, non pensavo che a questi temi ed al fatto che ne ho trattato in un mio libro, Pensare l’altro: difficoltà e possibilità del nostro tempo, messo in circolazione il 29 luglio del 1996, dall’editore napoletano De Frede (consiglio di leggerlo o di rileggerlo). Qui, in queste briciole, pure riassaporo un tema che ritengo cruciale per entrare in maniera feconda in dialogo con il nostro tempo.
Credo che, riguardo al nostro modo di concepire i rapporti con gli ‘altri’ (stranieri o conterranei), valga quanto disse uno dei Padri del deserto: si abbandona un fardello leggero, l’autocritica, ma solo per caricarsi di uno più pesante: l’autogiustificazione. Ci si giustifica troppo e grossolanamente quando vogliamo dare fondamento ai nostri sentimenti ed atteggiamenti anti – alterità. Si vive di pregiudizi e si parla come se si fosse in grado di elargire fondati giudizi! Poco consola, in verità, che ciò accadesse anche a menti prodigiose. Cicerone, infatti, raccomandava ai ricchi di non acquistare schiavi britannici perché erano, diceva, tutti ‘fannulloni e stupidi’. Pregiudizio, certo! Ma quanto più pericoloso se fiorito sulle labbra di un uomo che gode stima e considerazione altissime? Ma io vorrei richiamare, brevemente, l’attenzione su di un aspetto finora taciuto della questione: gli altri sono anche quelli che costituiranno le generazioni future, i figli dei figli dei figli che non conosceremo. Verso di loro non abbiamo obblighi? Un filosofo ebreo contemporaneo, Hans Jonas, ha scritto pagine interessantissime proprio su questa spinosa questione. In una raccolta di saggi, però, va alla radice del problema: l’uomo, innanzitutto, deve fare il possibile per non scomparire. Se non si parte da questo dovere verso se stessi, non ha senso pensare alla questione alterità.
Gli altri che maggiormente dipendono da noi, infatti, sono quelli che verranno in futuro e che potranno abitare il mondo che siamo stati in grado di lasciare loro. Quello che conta per l’uomo, in fondo, è “che egli e ciò che egli ha fatto di se stesso non deve scomparire (…). Così come dobbiamo (…) guardarci da uno ‘scellerato ottimismo’, dobbiamo guardarci anche da uno scellerato pessimismo e fatalismo, che giustificano lo stare con le mani in mano. Noi dobbiamo sapere che l’uomo deve essere” e ciò deve divenire anche un ‘obbligo’ “verso un più lontano futuro della specie” [21].
Non dobbiamo, in definitiva, sentirci ‘obbligati’ soltanto verso quanti sono ‘lontani geograficamente o politicamente, ideologica mente’ da noi, ma anche verso quanti sono lontani da noi nel tempo; quelli, cioè, che attendono di venire al mondo e ne hanno il diritto e ci obbligano, pur se mai li conosceremo, a lavorare per loro.
Il dibattito sull’alterità si carica di toni drammatici quando si insiste nel sottolineare che l’Occidente, parlando di ‘valori universali’, in realtà, intende contrabbandare per tali, non disinteressatamente, posizioni e concezioni eminentemente eurocentriche. La questione, nel mio libricino, l’ho già accennata, ma merita una ripresa perché va segnalato che Sophie Bessis ha individuato quello che chiama il paradosso dell’Occidente nella sua capacità di elaborare ‘principi universali’ che promuove ad ‘assoluti’, ma che finisce per violare sentendo la necessità di approntare giustificazioni teoriche a sostegno di tali ‘violazioni’. Smentisce nei fatti quanto enuncia nei principi, dopo averli addirittura elevati ad assoluti! Davvero un paradosso. L’Europa moderna – prosegue la nostra autrice – inventa miti basati sul rifiuto degli altri e crea i suoi sistemi richiamandosi alla Ragione. La studiosa francese invita a rileggere i ‘filosofi medievali’ per riscoprire l’influenza che la Spagna ebraico – araba ha esercitato sul pensiero greco. Il medioevo europeo, poi, testimonia anche che, per due secoli quasi, il pensiero cristiano ha associato arabi ed ‘uomini della ragione’.Gli umanisti, dal canto loro, inventarono per l’Europa un passato facendo largo ricorso all’immaginazione. L’Europa, così, conclude la Bessis, “si inventa frontiere al di là delle quali viene ributtato tutto ciò che si suppone non essere né greco – romano né cristiano” [22].
La studiosa cita il britannico Francis Galton che, dal 1865, conferisce una base scientifica alla teoria sulla disuguaglianza delle razze giungendo alla nefasta conclusione che è insensato tentare di evitare l’estinzione graduale di una razza inferiore. La Bessis accenna all’antisemitismo reso ancora più truce dal fatto che il ‘genocidio’ è stato perpetrato nel cuore stesso della (presunta) civilissima Europa.
Una nota negativa spetta anche agli economisti liberali i quali, dagli anni Sessanta, non riescono ad immaginare il futuro per i paesi sottosviluppati se non nei termini del progresso che si è avuto nel mondo industriale. Si è finiti, così, col pensare che “lo sviluppo economico è (…) la sola immagine contemporanea del progresso disponibile sul mercato delle idee” (cit. p. 136).
La Bessis faceva riferimento alla Ragione inventata in Europa per creare sistemi per lo più dedicati all’espulsione dell’idea dell’altro dal recinto delle convinzioni profonde dell’uomo occidentale. In realtà, dovremmo smetterla di guardare alla ragione (preferisco la minuscola) come ad una sorta di uno sferico e chiuso da tutti i lati. Ci sono molte ‘forme della ragione’ nella filosofia moderna: quella di Cartesio, Kant, Spinoza ed Hegel, non sono la stessa cosa. La stessa teologia che pare, ad uno sguardo superficiale, tutta incardinata su categorie filosofiche metafisiche, esprimenti ordine ed unità intesi come chiusura al diverso, conta voci alternative: la teologia della liberazione parla in favore dei paesi poveri ed oppressi; la teologia politica (Metz) impone di uscire verso il mondo.
Emblematico, poi, è il caso di un teologo luterano impiccato dai nazisti, Dietrich Bonhoeffer. Mentre gli ebrei venivano presi di mira, ci tenne a ricordare che è proprio vero che ‘gli altri siamo noi’ e che la ‘radice ebraica’ del cristianesimo imponeva una presa di posizione forte e decisa contro quanti opprimevano i figli di Israele. Disse senza mezzi termini Bonhoeffer: “chi non alza la voce per gli ebrei non è degno di cantare il gregoriano” [23].
La ‘dignità’, il ‘senso’ di ciò che siamo e di ciò in cui crediamo si manifestano maggiormente nel modo in cui consideriamo la dignità degli altri ed il loro diritto a credere in quanto credono. Solo una mentalità ristretta, raccorciata ai propri interessi può pensare che quanto sta fuori della nostra cerchia esclusiva (Lewis) sia poco importante o, addirittura, inesistente.
Il semiologo Barthes diceva, a ragione, che l’impotenza ad immaginare l’Altro è una costante delle mitologie piccolo/borghe si e che al ‘buon senso’ l’alterità appare il concetto più ripugnante. Dovremmo andare a scuola dalle più alte autorità spirituali per imparare davvero cosa voglia dire ‘amare l’altro’.
In un antico testo indiano, si legge: In quell’uomo è la verità/che dia nel suo seno rifugio agli afflitti/. In un uomo siffatto/dimora in augusta maestà/la realtà stessa di Dio. Come si vede, sia ad Oriente che, in alcuni casi, in Occidente, il paradigma alterità viene considerato centrale nello scegliere non solo un modo di pensare, ma anche un modus vivendi. La ragione non sempre si sente solitaria; spesso sente pure una ‘implicita’ solidarietà con un Tu che la interpella, pur non avendo chiara l’identità dell’interpellante.
Ha scritto felicemente un filosofo francese contemporaneo: “Senza sapere né da chi, né da che cosa, io mi so fin dall’origine già interloquito” [24]. Come si vede, la ragione nella filosofia occidentale non è soltanto quella della quale si narra il mito dell’autosufficienza, dell’autoreferenzialità.
Uno scrittore giapponese, anni fa, ha parlato della ricerca incessante degli Occidentali di un chiarore più acceso che li ha condotti a passare dalla ‘candela’ alla ‘lampada a petrolio’ e, poi, attraverso altri progressi si è arrivati all’‘illuminazione elettrica’. Si sono dati da fare, conclude l’autore nipponico, per stanare, sino all’ultimo cantuccio, l’ultimo rifugio dell’ombra [25]. La filosofia, la psicologia occidentale, però, non hanno mai rimosso del tutto l’ombra, le zone non toccate dalla luce accecante della ratio.
C’è tanto esoterismo, tanta magia dietro alle elaborazioni più spregiudicatamente razionali del nostro pensiero…Certo è, però, che – in un preciso momento storico – si è optato in favore di una certa forma di ragione che ha condotto ad una forma mentale sempre più anti alterità. Ha rilevato il sociologo della conoscenza Franco Cassano in Modernizzare stanca (cit. p. 45) che, entrando nel “grande gioco della modernità” è stato commesso un errore: si è preferito Cartesio a Montaigne! Il primo sta a rappresentare il ‘controllo razionale e tecnologico del mondo’; il secondo, invece, la ‘saggezza’, “quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso”. Chiaro che il cogito evoca atmosfere pure, incontaminate, aliene all’intrusione di ‘altri’…In realtà, anche il ‘cogito’ nasce impuro. Cartesio, infatti, lo estrae dal previo rifiuto di tutto il sapere che lo precede; è figlio di un abbandono, di una – diremmo con il linguaggio della fenomenologia – epoché (messa tra parentesi). C’è voluto un sapere millenario da mettere in forse perché Cartesio giungesse ad inaugurare la modernità all’insegna della ragione, del calcolo. C’è un lato del pensiero occidentale che sconfessa quanto ci rimproverava lo scrittore giapponese: molto del nostro pensiero, lungi dallo ‘stanare l’ultimo cantuccio, rifugio dell’ombra’, l’ha addirittura preservato. A questo proposito, completiamo la citazione tratta dal saggio di Cassano:
“Non sarebbe male se la modernità incominciasse a far vincere quel suo lato che non contrappone drammaticamente la luce e il buio, ma apprezza le mille sfumature che li collegano, che conosce l’ambivalenza del mondo (…). Dobbiamo abituarci a vivere con le ombre, invece di stordirci di luce per poi tremare all’idea del buio che ci aspetta dietro l’angolo” (Ibidem).
Sì, se ci abituiamo all’idea che l’ombra, l’altro è già nella nostra ragione, in noi, ed usciamo dall’illusione di essere titolari di un io (o di un ego?) simile ad una scena sempre illuminata a giorno, quando troveremo l’altro, lo straniero, l’inquietante per eccellenza ‘dietro l’angolo’, forse, non tremeremo. Non accettare che la nostra stessa ragione contiene l’altro porta a risultati, sul piano pratico, disastrosi. Finiamo col pensarla come un personaggio femminile di un’opera letteraria del Novecento. Ad un agrimensore giunto in paese e chiamato da misteriosi ed invisibili dirigenti di un ancor più misterioso Castello, l’ostessa della locanda, dice: “Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero” [26]. La questione non è tanto nel tollerare l’altro, quanto nel riuscire a simpatizzare con lui; nel riuscire, diremmo, ad instaurare una relazione empatica. L’altruismo è molto più della pietà. Ce lo insegna, in un sermone sull’episodio evangelico del samaritano (capitolo 10 del Vangelo di Luca), il premio Nobel per la pace 1964, Martin Luther King.
Si tratta di uno dei più suadenti ed attendibili testimoni di cosa sia vivere e morire per mostrare l’importanza vitale di un tema come quello dell’alterità. Nel sermone che ci riguarda, spiegava:
“Il vero altruismo è più della capacità di essere pietosi: è la capacità di simpatizzare. La pietà può rappresentare poco più della premura che spinge ad inviare un assegno, ma la vera simpatia è l’interessamento personale che esige il dono della propria anima. La pietà può nascere dall’interesse per un’astrazione chiamata umanità, ma la simpatia nasce dalla premura per un particolare essere umano bisognoso (…). I nostri sforzi missionari falliscono quando sono fondati sulla pietà (…). Invece di cercare di fare qualcosa con le popolazioni africane e asiatiche, troppo spesso noi abbiamo cercato soltanto di fare qualcosa per loro” [27].
Un atteggiamento corretto, produttivo per rendere concretamente operante il paradigma alterità, dunque, consiste non nel fare qualcosa per gli altri, bensì nel fare qualcosa con gli altri: renderli partecipi della loro crescita!
Avviamoci ad una conclusione.
Nel saggio che scrissi nel 1996, Pensare l’altro (cit. pp. 48 – 49), mi richiamai a Paul Ricoeur, il quale si preoccupava di organizzare un nuovo ethos per l’Europa. Articolava la sua proposta in tre modelli. Credo che il richiamo qui sia imprescindibile per chiudere in maniera significativa il mio breve percorso all’interno della categoria alterità. Il ‘primo’ è il Modello della traduzione. Ricoeur stima ‘insuperabile’ il pluralismo linguistico; un patrimonio, scrive, che è “infinitamente augurabile preservare”. Con la traduzione si possono trasferire da una lingua all’altra carichi di senso. Si promuove, così, una sorta di ecumenismo linguistico e si rintraccia in questo anche una forte possibilità etica: che il testo passi da una lingua all’altra senza che nulla si perda, indica, se non fonda addirittura, la possibilità del dialogo. Si dà, qui, per Ricoeur, un ethos della traduzione e si accende una positiva ospitalità linguistica.
Il ‘secondo’ è il Modello dello scambio delle memorie. Etico è comprendere che – scrive il filosofo – “è possibile rivedere una storia raccontata, tenendo conto delle altrui peripezie”; si tratta, cioè, di riorganizzare in altro modo gli avvenimenti. La storia, se non si vogliono fomentare nuove inimicizie, rancori, nuovo odio, non deve essere raccontata unicamente dai vincitori. L’alterità è nel cuore stesso degli avvenimenti storici: una cosa è quanto possono raccontarci i vincitori, altra la versione che possono darci i vinti. Come dice saggiamente Ricoeur – “è possibile raccontare più storie sugli stessi avvenimenti”. Aggireremo la boa dell’odio solo se riusciremo a non “irrigidire la storia di ciascun gruppo culturale in una identità non solamente immutabile”.
Resta, infine, da meditare il Modello del perdono. Ricoeur, ora, invita a non partire, narrando la propria storia, sempre e soltanto dalle ferite subite; piuttosto, sforziamoci di mettere in scena anche le ferite inflitte. Perdonarsi reciprocamente, d’altro canto, ricorda il filosofo, non significa oblio. Non potrebbe esserci perdono laddove l’accaduto venisse dimenticato. Si deve dire ‘sì’ alla memoria che porta alla onesta consapevolezza di aver ferito, e non solo a quella che ci ricorda insistentemente di essere stati colpiti. Ricoeur non ci illude: il perdono, scrive, esige tempi lunghi e la carità non cancellerà la necessità della giustizia!
Si tratta, credo, di mettersi subito al lavoro per fare in modo che gli insegnamenti depositati, in maniera non sistematica ma non per questo infeconda, nelle mie considerazioni sull’alterità diventi no propositi quotidiani mossi dalla convinzione che incontrarsi con altri è sempre meglio che scontrarsi.
Iniziamo a santificare ogni ambito del nostro vivere, a gettare germi di valori immortali nel solco degli accadimenti temporali facendo ricorso a tutte le nostre esperienze spirituali (non sono passati invano, spero, millenni di cristianesimo) e iniziamo a tradurre le nostre capacità contemplative in azione per amore del prossimo. Questo, detto con altre parole, era anche l’augurio di un grande filosofo cattolico del Novecento ed intendo rubricarlo qui come saluto, augurio ed invito a vivere la sollecitudine per altri con gioia evangelica:
“Se una nuova era di civiltà, non di barbarie, deve schiudersi, l’esigenza più profonda di tale età sarà la santificazione della vita profana, una fecondazione dell’esistenza sociale – temporale operata dall’esperienza spirituale, dalle energie contemplative, dall’amore fraterno” [28]
[1] Cfr., id., ‘Oltre gli idoli, la persona’, in aa.vv., Nella società degli idoli. Famiglie e giovani in ricerca, Assisi 2007, pp. 13-36, p. 13.
[2] Cfr., n. luhmann, Osservazioni sul moderno, Roma 2006, p. 16.
[3] Cfr., a. sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Milano 2004, pp. 75 – 76.
[4] Cfr., id, La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo, Roma 2007, pp. 38 – 39.
[5] Cfr., k. a. appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, Roma – Bari 2007, p. 45.
[6] Cfr., n. postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Torino 1993.
[7] Cfr., j. rifkin, L’era dell’accesso, Milano 2000, p. 131.
[8] w. sombart, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano 1978, p. 133.
[9] f. dostoevskij, Delitto e castigo, Torino 1981, pp. 15 – 19.
[10] f. kafka, Lettere a Felice 1912 – 1917, Milano 1972, p. 412 e 419.
[11] id., Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, Bologna 2001, p. 33.
[12] Cfr., e. jabès, Il libro dell’ospitalità, Milano 1991, p. 62.
[13] Cfr., j. derrida, Cosmopolites de tous les pays encore un effort!, Paris 1997, p. 42.
[14] ch. tylor, Radici dell’io, Milano 1993, p. 54.
[15] z. bauman, Amore liquido, Roma – Bari 2004, p. 148.
[16] Cfr., m. veneziani, La sconfitta delle idee, Roma – Bari 2003, p. 18. Se la politica è in crisi, possiamo provare a scoprire ‘altre’ voci. Già nell’Ottocento, un poeta levava un lamento contro la politica del tempo: “Uomini e donne credevano nei profeti. Adesso si crede negli uomini di Stato” (arthur rimbaud, ‘Prose evangeliche’, in Opere, Milano 1975, p. 203).
[17] s. fontana, Per una politica dei doveri. Dopo il fallimento della stagione dei diritti, Siena 2006, p. 90.
[18] Cfr., r. dahrendorf, Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Roma – Bari 2003, p. 87.
[19] m. vidal, Etica civile e società democratica, Torino 1992, pp. 6 – 7. Una razionalità condivisa è già un buon inizio per garantire una ‘convivenza’ accettabile con gli ‘altri’ (stranieri o no che siano). L’intransigenza esclusivista è la morte del dialogo! Sono perfettamente d’accordo col filosofo Augusto Del Noce quando invita ad “essere tolleranti con ogni forma di pensiero, meno che con una, quella che si presenta come asserzione di una verità assoluta e definitiva” (id., Il problema dell’ateismo, Bologna 1990, p. 12).
[20] Cfr., valeria giordano, La metropoli e oltre. Percorsi nel tempo e nello spazio della modernità, Roma 2005, p. 145.
[21] Cfr., h. jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino 1997, pp. 52 – 53.
[22] Cfr., s. bessis, L’Occidente e gli altri. Storia di una supremazia, Torino 2002, pp. 14 – 23.
[23] Cit in e. bethge, Dietrich Bonhoeffer. Una biografia, Brescia 1975, p. 639.
[24] Cfr., j. – l. marion, Réduction et donation, Paris 1989, p. 302. La mentalità ebraica sente fortemente il richiamo dell’altro e, a differenza della concezione antropologica greca che si fonda sul razionale, la concezione ebraica dell’uomo si incardina sul relazionale. Scrive un filosofo ebreo del nostro tempo: “L’epifania dell’assolutamente altro è il viso in cui un Altro mi interpella e mi significa un ordine (…). La sua sola presenza è un’intimazione a rispondere (…). L’Io, dinanzi agli Altri, è infinitamente responsabile” (e. levinas, Umanesimo dell’altro uomo, Genova 1995, pp. 73 – 74).
[25] Cfr., j. tanizaki, Libro d’ombra, Milano 2000.
[26] Cfr., f. kafka, Il Castello, Milano 1976, p. 87.
[27] m. l. king, La forza di amare, Torino 2006, pp. 52 – 53.
[28] Cfr., j. maritain, Azione e contemplazione, Roma 1979, p. 30.
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