«La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia: i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito […] sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino […] lo Spirito, che ‘soffia dove vuole’ […] ci induce ad allargare lo sguardo per considerare la sua azione presente in ogni tempo e in ogni luogo»
(Giovanni Paolo II)
L’autonomia della sfera temporale non esclude un’intima armonia con le esigenze superiori e complesse derivanti da una visione integrale dell’ uomo e del suo destino» (Benedetto XVI)
Pio XII nella enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, al n. 13, istituisce un paragone illuminante: le parole di Dio, giungendo attraverso quelle umane, ne assumono la somiglianza; allo stesso modo, il Verbo, assumendo la debole carne umana, si fece simile a noi. Detto altrimenti: sia la Parola rivelata nelle Scritture, sia Dio rivelatosi in Gesù, entrano nel tempo. Basterebbe questa riflessione per rendere evidente come la fede cristiana non possa mai inclinare verso posizioni gnostiche, svalutando il mondo, la carne, la temporalità. Per noi cristiani, poi, tutti gli eventi dell’Antico Testamento sono significativi e non perché ci tocchi renderli fecondi per l’oggi, ma perché lo stesso Cristo lo ha fatto. De Lubac, a ragione, disse che non il cristiano deve attualizzare le scritture ebraiche; esse, piuttosto, sono state attualizzate da Cristo stesso. In una parola:
si ha sempre a che fare col tempo! Siamo di fronte ad eventi che non conoscono le minacce dell’obsolescenza anche se occorre precisare che, nei confronti del dettato biblico, non va mai confusa la fedeltà con la ripetitività. Si tratta, in più, di evitare di impantanarsi anche nel fondamentalismo: la storia della Rivelazione, insomma, non è interamente racchiusa nella Bibbia. Un cenno storico.
Negli Stati Uniti, circa nel 1920, alcuni protestanti si affidavano a testi detti I fondamentali sorti tra il 1910 ed il 1915. Erano uomini avversi alla modernità:
teorie evoluzionistiche, emancipazione femminile e lettura critica della Bibbia. Volevano tornare ai fondamenti della fede restando volti ad un passato per lo più idealizzato. Questo è un esempio di cosa voglia dire non prendere sul serio il tempo e, vittime di una sindrome del torcicollo, confondere la fedeltà con la ripetitività.
«Le visioni del mondo sono realizzabili, sperimentabi li e confutabili solo praticamente» [1].
Questo perché il rapporto col tempo è vivo, patico e sempre aperto all’imprevedibile. È stato detto: ognuno di noi in ogni istante può iniziare un nuovo avvenire [Garaudy]. Dalla Risurrezione in poi, nessuno che voglia dirsi autentico cristiano può concepire il tempo come chiusura, né può accettare come definitiva alcuna parola. Lutero diceva che la promessa della Risurrezione Dio l’ha scritta nei libri, ma anche in ogni foglia della primavera. Il tempo va preso sul serio perché in ogni istante vi è la possibilità reale di intercettare un seme di Risurrezione; l’escatologia circola nelle maglie della cronologia e trasforma il tempo cronologico in kairologico. La spiritualità cristiana, dunque, mai può valere come giustificazione di fronte alla diserzione dalla contingenza:
«La situazione concreta in cui un uomo deve saper affrontare la sua vita cristiana è senz’altro un aspetto necessario della stessa spiritualità» [2].
Vivere in maniera pienamente cristiana il tempo significa non rinunciare mai a considerare Dio una Presenza costante in tutte le dimensioni temporali. Un teologo olandese contemporaneo ha mirabilmente sintetizzato la lezione:
«Dio non è soltanto ‘sopra’ la storia, egli è anche ‘in’ essa e contemporaneamente sempre ‘davanti’ ad essa come suo futuro libero e mai asservibile» [3].
Una Presenza incatturabile da interessi meschini. La libertà di Dio ci preserva dalle catture tentate dalle ideologie e dalle seduzioni di pasque laiche. Che la storia sia aperta, che il tempo venga fecondato dal mistero rimane la sola possibilità di non vivere «senza altro progetto che l’immediato» [4]. Mi viene in mente un personaggio dello scrittore israeliano Amos Oz, Efraim Nisan, detto Fima, che vagabonda per le strade di Gerusalemme e suscita sospetti in un poliziotto che gli chiede cosa stesse cercando. Risposta: sto cercando il domani. Il cristiano sa che non lo si può trovare riducendosi a vagabondare per i sentieri della storia, come se non avesse riferimento alcuno; per noi il riferimento è Cristo che, come dice l’Apocalisse, sta alla porta, bussa ed attende che gli si apra. Dio bussa alla porta del nostro futuro e sta a noi aprire. Sento di dover precisare che non si tratta solo di ascoltare la bussata divina sul portone della Storia, ma anche alla porta delle nostre vite. Il rischio è di prendere sul serio il tempo della storia e pensare che il quotidiano sia il parente povero del tempo autentico; anzi, da qualche parte risuona spettrale il campanello d’allarme in tal senso:
«Mi pare che […] lo scoglio decisivo dell’attuale mondo occidentale è che non riusciamo più a far funzionare la trasmissione tra fede e quotidiano […]: cos’è successo nella nostra economia dell’anima, nelle nostre chiese, nella nostra stessa intima mentalità?» [5].
Ci si deve seriamente interrogare sullo stato del cristianesimo nel tempo della propria vita interiore, spirituale, in quello della vita ecclesiale.
Uno dei motivi – a mio avviso – della difficoltà di mettere in dialogo fede e quotidiano va intercettato nell’aver espulso il mistero dalla nostra vita. Il tempo interessa soltanto se speso per produrre, per realizzarsi sul piano economico e sociale; il tempo è desemantizzato dal punto di vista spirituale e viene caricato eccessivamente di significati inerenti a quanto più ci disumanizza. Un teologo luterano che visse pienamente il periodo del Novecento funestato dal nazifascismo (venne impiccato, infatti, dalle SS), già rilevò come la nostra vita fosse in preda alla decadenza in quanto il tempo lasciato al mistero è nullo; il mondo assume senso a seconda delle cose alle quali ci dedichiamo di più. Seguiamo il nostro autore:
«L’assenza del mistero nella nostra vita moderna è la nostra decadenza e la nostra povertà […]. Vivere senza mistero significa non sapere niente del […] mistero dell’uomo […], del mondo […] prendere sul serio il mondo solo quel tanto che può essere assoggettato al calcolo e sfruttato […]. Non vogliamo sapere che le radici dell’albero stanno nell’oscurità della terra» [6].
Siamo nel tempo dell’apparire, del trionfo e dell’esaltazione dell’immagine, del personaggio a scapito della persona; quanto è nascosto – magari si ponga molta enfasi nel parlare di privacy – genera sospetto e fastidio. Siamo nell’era nella quale tutti debbono essere raggiungibili e chi non appare è come non esistesse. Come assicurare, allora, al soggetto quel tempo dedito all’auscultazione del mistero nel cuore delle cose e della persona che solo rende sensato il vivere ed apre all’accoglienza dell’Altro che viene solo nel e come mistero?
Il rapporto con Cristo è guastato anche dall’aver scollegato il tempo della quotidianità dalle sollecitazioni provenienti dal mistero. Falsa è l’alternativa tempo cronologico o tempo kairologico; Cristo, infatti, pur essendo decisamente radicato nella storia del Suo tempo e di tutti i tempi, non è mai risolvibile in una dimensione storica. Come l’uomo, Egli vive nel tempo, ma non sfugge alle inquietudini che il mistero immette nelle questioni che sono degne di interrogazione. Ha ben messo in risalto il doppio aspetto del Cristo – non del tutto dissimile la questione ‘uomo’ – un teologo e filosofo svizzero del Novecento:
«Certo egli si trova in un contesto cronologico determinato, e la conoscenza delle forze che vi agiscono contribuiscono a comprenderne meglio lui stesso; tuttavia non si possono derivare né la sua essenza né il suo operato da dati storici, poiché egli viene dal mistero di Dio e vi ritorna» [7].
Comprendere l’uomo è lo stesso: ognuno di noi vive in un contesto cronologico determinato; siamo, come abitualmente si dice, ‘figli del nostro tempo’; tuttavia, siamo anche creature che vengono dal mistero di Dio ed a Lui torneremo e, pertanto, non chiarificabili unicamente alla luce dei riferimenti storici, temporali. Il nostro tempo, però, non va mai vissuto come se la nostra destinazione escatologica lo svilisse. Il tempo è stato, infatti, addirittura definito come il pensiero attivo di Dio (Oken); per qualcuno, poi, esso è quanto di più prezioso vi sia perché è il prezzo dell’eternità (Bourdalone). Un poeta insegna molto ai cristiani quando scrive che gli anni non vanno calpestati in quanto in ogni sguardo spumeggia una stella/ad ogni passo lo spazio s’allarga (Tichonov). Abbiamo valorizzato soltanto il tempo speso nella devozione a Dio. I cristiani sono talmente convinti di questa verità che, per bocca di Giovanni Eudes, dicono che, per sapere quanti hanni abbiamo davanti a Dio, dobbiamo stabilire il tempo impiegato a servirlo e ad amarlo. Il tempo, per il cristiano, in fondo, è anche quanto ci preserva e non soltanto ciò che ci porta via; se non ne avessimo non potremmo compiere un percorso di crescita umana che ci avvicinasse quanto più è possibile al Signore: «Dio ha creato il tempo per noi, affinché avessimo tempo di ravvederci, invece di giocare in un sol colpo il nostro destino» (Valensin).
Cristo non solo ha valorizzato il tempo ma, soprattutto, lo ha portato alla pienezza. Nella Tertio millennio adveniente, al n. 10, Giovanni Paolo II ha puntualizzato: «Grazie alla venuta di Dio sulla terra il tempo umano, iniziato nella creazione, ha raggiunto la sua pienezza. “La pienezza del tempo”, infatti, è solo l’eternità, anzi Colui che è eterno, cioè Dio. Entrare nella “pienezza del tempo” significa, dunque, raggiungere il termine del tempo e uscire dai suoi confini, per trovare “il compimento nell’eternità di Dio”».
Mezzi illusori, deludenti, si rivelano le fughe in paradisi artificiali (ad esempio, le droghe) per non sentire il pungolo del tempo; né servono a molto a noi occidentali le raffazzonate tecniche di meditazione orientale che, appunto, riusciamo appena a scimmiottare. Si raggiunge il termine del tempo e si esce dai suoi confini solo per il compimento del tempo nell’eternità di Dio. Significa questo, forse, che la storia per il cristiano deve svolgersi significativamente soltanto o soprattutto su registri metafisici? Non lo crediamo! Il fatto è che il cristiano «non fa storia a parte, ma scava più a fondo nella stessa ‘profondissima valle della storia’» - come si esprimeva Abramo Levi. Da Cristo in poi, ad ogni modo, dobbiamo iniziare a considerare il tempo in una ottica nuova, sconvolgente. Perché? Un testimone della contemporaneità – teologo e uomo di elevata spiritualità – ha portato un notevole contributo alla questione:
«Con la venuta di Gesù ha inizio un Kairòs, un tempo particolare che qualifica tutto il resto del tempo […]. Il primo atteggiamento del cristiano è […] quello di cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona […]. La vita del cristiano appare allora come un oggi davanti a Dio […]. Il cristiano vive il tempo così: è sempre oggi è sempre il tempo favorevole […] tempo di lotta, di prova, di sofferenza […] per questo occorre essere desti e vigilanti nella preghiera» [8].
Non si vive autenticamente il tempo da cristiani se non si sperimenta – direi con linguaggio kierkegaardiano – la contemporaneità a Cristo! Nelle cose della fede nulla di quanto è evangelico appartiene esclusivamente ad ieri; nulla è stato definitivamente congelato nel passato o deviato su di un binario morto. Oggi è il tempo favorevole per lottare, soffrire e vigilare nella preghiera perché i tempi di Dio non sono quelli dell’uomo. Si tratta di vegliare perché non sappiamo quando verrà il Signore. In ogni momento della storia – questa la speranza cristiana che resiste ai profeti di sventura del nostro tempo – può irrompere la Trascendenza :
«Il cristianesimo, con l’evento dell’incarnazione al suo cuore, valorizza oltremodo la storia e il tempo […]». Una valorizzazione che tiene aperto il tempo: «per il cristiano non c’è cielo chiuso, né tempo chiuso […] sempre ci si può rialzare dopo una caduta […] non c’è peccato o disperazione o situazione infernale che non possa essere assunto o integrato nella vita» [9].
Il tempo, per il cristiano, non è soltanto l’occasione per fare delle cose, per sviluppare progetti di vita, ma innanzitutto la sola possibilità di preparasi alla vita con Dio che già e non ancora incontra nella storia grazie a Cristo: «il tempo – aggiunge Manicardi – appare soprattutto come possibilità di un incontro» [10]. Dalla tradizione ebraica, poi, impariamo che l’incontro è sempre imprevedibile. Secondo Maimonide, «in certi tempi Dio viene visto e in certi altri no; […] in certi tempi può essere raffigurato, e poi non più; […] può essere trovato, e altre volte no; […] talvolta è vicino, e talvolta no» (Mischne Tora, Hilchot Tescuba II, 6).
Il futuro – dicevamo – è di Dio. Un altro riferimento alla cultura ebraica va fatto. Nei periodi bui, quando Israele, più che ‘fare’ storia subiva quella delle altre nazioni, diminuiva il peso degli accadimenti contemporanei e primeggiava l’attesa del regno messianico di Dio. Rabbi Eleasar di Modiin (II sec.), diceva:
«Quando tramonterà il nome di questi (degli Amaleciti = Romani)? Nell’ora in cui verrà sradicata l’idolatria, esso stesso e i suoi servi; allora nel mondo resterà solo Dio e il suo regno per l’eternità» (Melchita a Es 17, 14).
Sì, ma il momento non è mai determinabile con precisione! Citavamo Metz (infra, p. 3): Dio è anche sempre davanti alla storia come suo futuro libero e mai asservibile. Nella libertà deve avvenire, perciò, l’incontro tra Creatore e creatura. Dio ci viene incontro non solo dal passato e nel presente, ma anche dall’avvenire! Ciò sta ad indicare che le certezze ereditate non vanno assunte, anche qui ci ripetiamo, con una fedeltà che rasenta la ripetitività; si deve essere sempre pronti ad accogliere un Dio che ci spiazza e che non asseconda la mentalità del tempo, ma può venire ancora una volta per sconvolgerla.
Ha scritto un filosofo ebreo del Novecento che l’avvenire «è ciò di cui non è possibile appropriarsi, ciò che cade su di noi e si impadronisce di noi. L’avvenire è l’altro» [11]. Che si sia cristiani o no, va detto, occorre che si instauri un rapporto fecondo, autentico con il tempo: non è soltanto da intendersi come un ‘particolare periodo storico’; piuttosto, la temporalità – la storicità sono dimensioni costitutive della persona. Diceva uno studioso del XX secolo:
«io non mi sento soltanto figlio del mio tempo, ma mi sento anche prima di tutto figlio del tempo» [12].
L’uomo oggi, però, fa di tutto per abradere la patina di storicità che costituisce la immancabile base di lancio per riconoscersi più che un essere storico. Sequestrate dai miraggi del virtuale, dell’informatica ridotta a spettacolo, dei media che fanno dell’apparire qualcosa più ricco di sostanza che l’essere, le persone «si sentono sempre più a proprio agio nel sostituire le rappresentazioni alla realtà» [13]. Sempre più fluide le nostre identità e sempre più ci registriamo sulla rete, per conversare, con nomi di fantasia; si può far credere di essere chiunque e si sfrutta al massimo – spesso per delinquere – quello che gli esperti definiscono opportunismo elettronico (Rocco – Wargën). Non si prende sul serio il tempo se si declina tutta la vita nei tempi del ludico, del non vero: «La vita stessa è come una recita» - rilevava già qualche tempo fa un autorevole sociologo [14]. Si diviene ‘spettatori’ della storia e senza nemmeno troppi rimpianti: non si ha interesse più ad essere ‘attori’, a combattere nel mondo; non si è più convinti nemmeno come cristiani che – come dicevamo sopra con Enzo Bianchi – esserlo significhi cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi. Siamo – dicono gli esperti – telepresenti alla realtà e, perciò, io «non devo essere fisicamente presente in un determinato luogo per incidere sulla realtà che lo circonda» [15]. L’incarnazione propone l’esatto contrario: ci si deve radicare nella storia, animati dallo Spirito, per superarla e trovarne la piena realizzazione (escatologica) in Dio! Mettendoci davanti a certe narrazioni poco edificanti dell’Antico Testamento, prima di scandalizzarci, riflettiamo: lì incontriamo uomini veri, alle prese con sentimenti forti, ambigui, interessi e brama di potere. Molti concludono da questo che non si può trattare di nulla di divino; in realtà, ha ragione chi, riflettendo sul fatto che nei testi sacri non si omette la violenza, ne conclude che la Bibbia preferisce il reale all’ideale (Van Meenen). La preferenza è una nuova sottolineatura del fatto che la nostra fede non può non prendere sul serio il tempo che è il tessuto sul quale il reale si ritaglia.
Siamo in un mondo nel quale si può stare consapevolmente soltanto accettando di fare i conti con questa difficile aporia, lumeggiata da un teologo tedesco contemporaneo: non possiamo portare più avanti, pena catastrofi planetarie, il ‘progetto della civiltà tecnico – scientifica’, né sottrarci ad esso. Si deve tentare, allora, di travasare nel nostro tempo la fiducia escatologica cristiana: né il cielo – dicevamo con Manicardi -, né il tempo è chiuso. Scrive, perciò, il teologo luterano Moltmann:
«L’unica strada percorribile è quella di una ristrut turazione di fondo dello stesso mondo moderno. E allora reinventiamolo questo mondo» [16].
Una ‘reinvenzione’ ha bisogno, a mio avviso, dell’apporto della fede perché le intenzioni del Creatore, come documenta la Bibbia , sono di immensa benevolenza verso la realtà; attingendo al progetto divino del creato possiamo trovare stimoli per ridisegnare in positivo quanto ci circonda. Intendere e costruire il mondo senza Dio implica una ‘povertà progettuale’ che inquina alla radice la creatività umana. Nel cuore della modernità, non a caso, Hölderlin, nell’Empedocle, affermò senza mezzi termini: essere solo e senza déi è la morte; aggiungerei: morte per insignificanza. Il Brand di Ibsen si chiude col protagonista che, udendo il rumore di una valanga che sta precipitando e vedendo la morte imminente, così si rivolge a Dio: può tutta la volontà di un uomo trattenere un filo solo di salvezza? La superbia antropologica, facendoci credere padroni del tempo, ci ha condotti a questa parabola involutiva: dal solo uomo all’uomo solo! Tutto quanto vive nel tempo si ritiene non più inserito in un progetto divino che lo salvi dalla caducità; è il caso, piuttosto, si dice, a fare ogni cosa. Un filosofo che certo fu un acceso patrocinatore della ragione adulta, non tralasciò di affermare:
«è umanamente assurdo anche soltanto concepire […] o […] sperare che un giorno possa sorgere un Newton, che faccia comprendere sia pure la produzione di un filo d’erba per via di leggi naturali non ordinate da alcun intento: assolutamente bisog na negare agli uomini queste vedute» [17].
Vivere nel tempo privi di una concezione teleologica o, meglio, escatologica della storia è, a dir poco, frustrante; essere soli, come diceva sopra il poeta, senza déi è morire! Il tempo disabitato da Dio non sarà mai autenticamente abitato dall’uomo.
Si deve ammettere che, per lo più, si tende a svalutare il concetto di eternità, la dimensione escatologica perché si ha una comprensione errata dei termini in questione. Dobbiamo ad un filosofo tedesco del Novecento l’aver fatto chiarezza in merito. Vale la pena seguire pedissequamente il suo adamantino argomentare:
«Avrebbe un cattivo concetto dell’eterno chi, vedendovi solo l’opposto del fluire temporale, non sapesse ascoltare la libera voce dell’eternità anche nelle più individuali richieste volte all’individuo. La vera eternità non esclude il tempo […] ne abbraccia e penetra in ogni istante il contenuto e la pienezza […]. Sarebbero dei pessimi eternisti coloro che si abbandonassero all’idea dell’eterno solo per fuggire la storia […]. È più conveniente intendere la storia nella sua dura realtà, nutrendola alla fonte dell’ eterno» [18].
La storia può, dunque, essere benissimo intesa nella sua dura realtà senza impedire che la si nutra alla fonte dell’eterno. La voce dell’eternità non disdegna di abitare anche nelle più individuali richieste volte all’individuo. Ignorare questa lezione di Scheler equivale ad abbandonare il concetto di eternità alle ortiche del fraintendimento causando guasti anche alla temporalità. Da quando il tempo è diventato significativo solo se riferito alla produzione si è avuta una povertà di senso riguardo alla vita; in fondo, come ha sostenuto un grande studioso del Medioevo, gli orologi hanno laicizzato il tempo.
Al tempo della Chiesa – spiega lo storico francese Jacques Le Goff - «segnato dalle campane», si sostituisce quello del lavoro «regolato nelle città dalle classi dominanti». Dai più deboli il tempo, in questo caso, viene percepito con terrore, come una gabbia d’acciaio dalla quale, schiavi dei tempi di produzione dettati dai dominatori, non si riesce più ad uscire. Credo che, per riappropriarci di una modalità spirituale, più umana di esperire il tempo, occorra comprendere che l’uomo non può abitare il tempo, il mondo, solo per assicurarsi una felicità fatta di cose. Una delle voci più autorevoli del pensiero filosofico del Novecento ci lascia una traccia da sviluppare:
«Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ ingannevole convinzione che, attraverso la produzio ne, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana» [19].
Umanizzare il tempo significa abbandonare l’esaltazione prometeica e non certo un sano slancio verso il progresso anche di natura tecnico – scientifico. I cristiani devono essere protagonisti nella storia, evitando le secche del protagonismo; fare la propria parte, ma con umiltà che non significa tendenza – quasi masochista – a farsi umiliare. Il cristiano è sempre homo viator che non dispera della meta né, certo di essa, prende il tempo, il mondo e la storia come cose di scarso valore. Riguardo alla ‘morale personale’, poi, (comprendere il tempo come una scuola di crescita nella fede e nella piena umanizzazione di sé), il cristiano sa che deve sempre lavorare mosso dall’esortazione del Maestro: imparate da me (come si legge nel Vangelo di Matteo). Mai credersi giusto, mai disperare di non esserlo ancora. Rabbi Elimeleh, nel Talmud, diceva: se ti dicono che sei giusto non crederci. Se anche Dio ti dice che sei giusto, credilo solo per un attimo.
Chi crede prende sul serio il tempo perché sa che il compimento di esso è nelle mani di Dio ma la custodia di quanto è nel tempo è stata affidata a lui. Ecco cosa, nel senso di spossatezza morale e non soltanto morale rintracciabile nell’uomo postmoderno, viene dimenticato. Si è davvero stanchi di fare la storia nutrendola – come sopra dicevamo con Scheler – alla ‘fonte dell’eterno’ ?
Benedetto XVI, nel Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 – 12 – 2006: «quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia».
Il tempo per i greci era ciclico: tutto torna uguale! Che senso hanno, allora, la fatica, l’etica? Il tempo ebraico – cristiano, invece, si apre al futuro escatologico: è novità, irruzione imprevedibile e non gestibile dell’Altro. Una concezione ciclica del tempo inquina l’idea di eternità che diviene, così, monotona, ripetitiva, infeconda. Per cogliere come si senta l’uomo titolare di una simile equivoca idea di eterno, possiamo scomodare una opera teatrale di un autore romantico che fa dire al protagonista:
«Mi prende una gran paura per il mondo, quando penso all’eternità […] mi vengono i brividi, a pensare che il mondo in un giorno si gira su se stesso! Che sciupio di tempo! […] non posso più vedere girare una ruota di mulino che divento malinconico» [22].
L’eterno ridotto a monotono ripetersi delle cose, al girare insensato ed interminabile del mondo su se stesso genera malinconia, disgusto… Non solo l’eterno, ciò che non ha limite e misura, ma la misura stessa, però, il limite patiscono dolorose svalutazioni da quando sono divenute dimensioni sequestrate dalla tecnica mentre, un tempo, appartenevano all’etica:
«le idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta della vita non hanno più che un impiego servile nella tecnica – sentenzia una filosofa ebrea del Novecento. Noi siamo geometri – insiste – solo di fronte alla materia; i greci furono prima di tutto geometri nell’apprendi mento delle virtù» [23].
Dalla teologia ebraico – cristiana possiamo apprendere, opponendoci ai greci, una idea non nauseante, non monotona dell’eternità; dai greci possiamo imparare, opponendoci alla mentalità tecnocratica corrente, che misura, limite, equilibrio non sono vocaboli spendibili unicamente nel ristretto perimetro della materialità, della produzione, ma anche e soprattutto nei domini umanizzanti dell’etica.
Riguardo a Cristo, il credente che si configura sempre (lo ricordavo sopra) come homo viator, dovrebbe fare proprie le parole del poeta argentino Borges: non lo vedo/ma insisterò a cercarlo/fino al giorno/dei miei ultimi passi sulla terra. Il tempo va speso in questa ricerca. Ne va non della fine, ma del fine del tempo. La questione è spiccatamente teologica. In un suo saggio il filosofo tedesco Josef Pieper opportunamente sottolineava che la domanda sulla fine dei tempi è non filosofica, ma teologica. Si tratta solo di comprendere, però, se la Teologia della storia debba disegnare la bozza del futuro o preparare il cristiano a ben vivere il presente. Se lo è chiesto, in questi termini, un teologo spagnolo: necessita
«determinare se la finalità di una teologia della storia consiste nell’abbozzare una visione che anticipa il futuro e quindi pretende rivelare il senso degli avvenimenti; o se, al contrario, il suo obiettivo debba essere quello di situare il cristiano davanti al tempo e alle diverse situazioni che l’accadere prepara in modo che assuma in ogni momento l’atteggiamento consono alla sua vocazione e missione divina» [24].
Mi sento vicino alla seconda proposta. Il cristiano deve stare davanti al proprio tempo, affrontare le situazioni che in esso accadono e scegliere il proprio atteggiamento fedele alla propria adesione a Cristo. Chi più è accosto al Cristo eterno, meglio avvicina le questioni temporali. Questo è, a mio avviso, ciò che dovrebbe promuovere una teologia della storia. Nel 410 d. C., quando si verificò lo scacco di Roma ad opera di Alarico, Agostino così rispose ai cristiani che avevano idealizzato l’impero ritenendolo indispensabile per la diffusione del loro credo:
«Per quel che riguarda questa vita mortale, che si sviluppa e si esaurisce nel giro di pochi giorni, che importa sotto quale regime viva l’uomo, che è destinato a morire?» [25].
Vero che nessun sistema politico, nessuna potenza mondana può proteggere o assumere come proprio esclusivo lascito la rivelazione, ma non è affatto indifferente il regime nel quale vive l’uomo; soprattutto il cristiano, infatti, non può tollerare che si offenda nell’eternità Dio ferendo la dignità umana nel tempo. Nessun regime è necessario alla Parola per essere viva ed operare nella storia, ma non c’è da essere indifferenti verso quei regimi che attentano alla libertà ed alla dignità dell’uomo. Nella posizione di Agostino – tenuta ancora da molti cattolici pseudospirituali – c’è del vero e del falso; insomma, la migliore lezione resta sempre quella dell’A Diogneto: il cristiano è nel mondo, ma non del mondo!
In definitiva, il cristiano non può non fare a meno di prendere sul serio la questione del tempo malato. Come intendere, tuttavia, questa espressione? Uno studioso del fenomeno, alcuni anni fa, in un documentato studio sulla percezione del tempo fra Otto e Novecento, ha – facendo riferimento all’opera di un pittore – spiegato felicemente la cosa:
«Salvator Dalì dipinse tre orologi che si liquefano in La persistenza della memoria (1931): uno è sospeso ad un albero, per ricordare che la durata di un evento può essere dilatato nella memoria; un altro, con una mosca su di sé, suggerisce che l’oggetto della memoria è una qualche specie di carogna, che imputridisce nella stessa maniera in cui si liquefa; il terzo orologio deformato si avvolge a spirale intorno ad un’ibrida forma embrionale – simbolo del modo in cui la vita distorce la forma geometrica e l’esattezza matematica del tempo meccanico. L’unico orologio non liquefatto è ricoperto di formiche, che sembrano divorarlo mentre esso divora il tempo delle nostre vite» [26].
Queste le patologie di Cronos! Il Cristianesimo può essere una terapia se immette energie capaci di pensare davvero il futuro come compimento della storia. La fugacità, la liquidità di sentimenti e cose (Baumann) tipiche del nostro tempo, a differenza di quanto avveniva nelle civiltà premoderne, non vengono avvertite più come anticamera dell’escatologico, ma fine a se stesse. Ne deriva, così, o uno shock nel quale il futuro viene avvertito come un sopraggiungere inarrestabile di onde che non danno modo di difendersi e sommergono o come incapacità a pensare ad esso (defuturizzazione). Per comprendere come le giovani generazioni non sappiano più credere a qualcosa di duraturo, di non mobile, si può riportare l’esperienza che fece un sociologo americano del XX secolo grazie alla figlia dodicenne.
La moglie di Toffler mandò la ragazza ad un supermarket, a pochi isolati dal loro appartamento di Manhattan. La dodicenne, però, non seppe trovarlo anche perché vi era stata appena un paio di volte. Tornata a casa, perplessa, disse: - Deve essere stato demolito. In realtà, spiega il sociologo, la figlia Karen aveva cercato, nuova del quartiere, nell’isolato sbagliato. Toffler tira questa conclusione: «ma è una bambina figlia della ‘era del transeunte’» e non poteva pensare al supermarket non trovato se non come struttura ormai abbattuta.
«Un’idea di questo genere probabilmente non sarebbe mai venuta a una bambina in una situazione analoga soltanto mezzo secolo fa. L’ambiente fisico era molto più duraturo, il nostro legame con l’ambiente meno transeunte» [27].
Spostando l’esperienza di Toffler sul piano teologico, potremmo concluderne che gli uomini postmoderni spesso si comportano come la giovane Karen: cercano Dio nel posto sbagliato e pensano subito che sia stato abbattuto per collocare al Suo posto l’ultima novità. La mentalità consumistica ha imposto che ciò che dura non giova. Come il supermercato nell’episodio citato, Dio non viene trovato nel nostro tempo per un errore nostro e, invece di verificare i percorsi che abbiamo fatto, da buoni figli dell’era del transeunte, preferiamo credere che non sia più qui. Forse è giunto il momento di farci la domanda giusta se vogliamo che la Chiesa continui ad essere la testimone di Dio nel tempo: che genere di relazione intercorre fra il nostro agire e la salvezza che la Chiesa annuncia? Nell’opulenta civiltà occidentale questa domanda, in verità, appare quantomeno addormentata; è stato un teologo della liberazione, invece, testimone della povertà e della mancanza di libertà dei popoli latinoamericani a scottarsi con il quesito. Seguiamo lo:
«Qual è la relazione tra l’azione storica dell’uomo e la salvezza annunciata dalla Chiesa? È una relazione puramente estrinseca o al contrario, la relazione fra le due è intrinseca? Per la vita della Chiesa queste sono domande fondamentali, perché dalla risposta che si dà dipende il senso stesso della presenza della Chiesa nella storia» [28].
Se decidiamo di rispondere che il nostro agire nel tempo inaugura una relazione intrinseca alla salvezza annunciata dalla Chiesa, il futuro di essa non potrà essere preoccupante; troppo spesso, infatti, si tengono debolmente o non si tengono affatto l’azione storica e la proposta soteriologia – escatologica della Chiesa. Dobbiamo essere nella Chiesa senza disertare il mondo (prendendo, dunque, sul serio il tempo) e nel mondo senza tenere una relazione estrinseca con la Chiesa che è davvero presenza di Dio nel tempo.
K. Weber, occupandosi della voce ‘Storia (Cristiano)’ in un volume a più voci, spiegava che la Chiesa è la barca di Pietro, ma può divenire una moderna imbarcazione perché il cristiano è teso tra un passato di certezze ed un futuro che rinviene le proprie premesse da realizzare nel presente:
«Se la Chiesa – per restare in una metafora tanto nota quanto amata – rappresenta l’imbarcazione che Gesù ha consegnato fatta e finita agli apostoli, imbarcazio ne alla quale si rinnova al massimo l’incatramatura dopo un lungo viaggio o una vela lacerata dopo una tempesta, allora questa Chiesa non ha una storia autentica. Della sua natura di grandezza storica fa parte anche e proprio la sua mutevolezza. In altre parole […]: la barca di Pietro, il pescatore di anime, nel caso lo richiedano le circostanze, può benissimo essere trasformata in una buona nave a tre alberi o in un moderno piroscafo a vapore; perché anche la Chiesa partecipa della storicità e ha quindi un passato che i Cristiani trovano già dato ed un futuro le cui premesse vanno realizzate nel presente» [29].
Si deve entrare nella storia del mondo ponendo nella riflessione su di essa la stessa attenzione che merita la nostra storia personale. Un filosofo cattolico francese contemporaneo ha giustamente ricordato che tra la nascita di un essere vivente e l’origine del mondo intercorre lo stesso mistero metafisico! Se c’è – continua – un pensatore che riflette a tavolino e che non si attarda a meditare sull’ universo basta che ponga mente ad un fatto elementare: ho cominciato ad esistere:
«Questo basta a porre il problema dell’Assoluto in tutta la sua estensione. Io non mi sono creato» [30].
La riflessione sul mistero di Dio nel tempo inizia dal cogliere me stesso come una meraviglia incarnata in questo tempo e non necessaria. La storia di Dio con l’uomo, dunque, non può che pensarsi nelle figure concrete della Rivelazione:
Gesù e Maria.
Questo il punto conclusivo della nostra breve riflessione. Se si considera che il Verbo di Dio è figlio di un falegname e che la Sapienza ha preso la carne di Maria, una semplice madre di famiglia, va pensato in termini positivi l’intreccio divino umano che anima e guida la storia. L’ha detto in bella forma poetica una grande testimone del nostro tempo ormai, purtroppo, scomparsa:
Chiara Lubich.
Per commemorarla. non trovo di meglio che lasciarle la parola:
[1] Cfr., k. jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950, p. 364.
[2] Cfr., k. rahner, Confessare la fede nel tempo dell’attesa. Interviste, a cura di p. imhof – h. biallowons, Città Nuova, Roma 1994, p. 97. Un altro autore si salda a questa lezione: «La vita religiosa non è una fuga, è un’immersione totale nella Realtà presente…Immersione nella storia» (d. barsotti, Parole e silenzio. Diario 1995 – 1957, Vallecchi editore, Firenze, pp. 28 – 29).
[3] j. b. metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1968, p. 20.
[4] Cfr., a. camus, Il primo uomo, Bompiani, Milano 1994, p. 163.
[5] e. salmann, Presenza di Spirito. Il Cristianesimo come gesto e pensiero, Messaggero, Padova 2000, pp. 473 – 474.
[6] Cfr., d. bonhoeffer, Gli Scritti (1928 – 1944), Queriniana, Brescia 1979, pp. 400 – 401.
[7] r. guardini, Il Signore, Vita e Pensiero, Morcelliana, Brescia 2005, p. 18.
[8] Cfr., e. bianchi, Non siamo migliori, Qiqajon, Magnano 2002, pp. 195 – 197.
[9] l. manicardi, Il tempo e il cristiano, Qiqajon, Magnano 2000, p. 24.
[10] ivi., p. 7.
[11] Cfr., e. lévinas, Il Tempo e l’Altro, il melangolo, Genova 1987, p. 46.
[12] e. minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino 1971, p. 50.
[13] Cfr., s. turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano 1997, p. XXIX.
[14] Cfr., e. goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969, p. 86.
[15] l. manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002, p. 213.
[16] Cfr., j. moltmann, Dio nel progetto moderno, Queriniana, Brescia 1999, p. 26.
[17] Cfr., i. kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1984, § 75.
[18] m. scheler, L’eterno dell’uomo, Fabbri, Milano 1972, p. 306 sgg.
[19] Cfr., m. heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia , Firenze 1977, p. 271.
[20] k. lehmann, Il quarto tempo, in «Il Regno Attualità» 47 (2002/189, p. 634).
[21] «La verità della salvezza o della rivelazione cristiana non è staccata dalla storia in cui ha preso corpo e si è incarnata. Ma la rivelazione deve superare ciò che la particolarità storica può avere di costringente, perché deve trovare le modalità che permettano di esprimere l’universale attraverso il particolare» (c. focant, Verità storica e verità narrativa. Il racconto della Passione in Marco, in aa. vv., Bibbia e Storia. Scrittura, interpretazione e azione nel tempo, a cura di m. hermans – p. sauvage, Edizioni Dehoniane, Bologna 2004, pp. 81 – 100, pp. 89 – 90).
[22] Cfr., g. büchner, Woyzeck, in id., Opere e lettere, Utet, Torino 1981, p. 117.
[23] s. weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967, p. 21.
[24] Cfr., j l illanes, Historia y sentido. Escritos de teologia de la historia, Riolp, Madrid 1997, p. 41.
[25] agostino di ippona, De civitate Dei, V, 17, 1.
[26] Cfr., s. kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 1995, p. 32.
[27] Cit. da r. rolheiser, Il cuore inquieto. Alla ricerca di una casa spirituale in un tempo di solitudine, Queriniana, Brescia 2008, p. 90.
[28] gustavo gutiérrez, cit. da p. sauvage, Vivere la Bibbia oggi. La teologia della liberazione di Gustavo Gutiérrez, in aa. vv., Bibbia e Storia, op. cit. pp. 101 – 146, p. 101.
[29] In aa. vv., Islam, Cristianesimo, Ebraismo a confronto. Conoscere per una cultura di pace, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1991, pp. 709 – 712, p. 712.
[30] Cfr., c. tresmontant, L’intelligenza di fronte a Dio, Jaca Book, Milano 1981, pp. 68 – 69.
[31] Cfr., c. lubich, Scritti spirituali, I, Città Nuova, Roma 1978, p. 27.
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