Idee per un dibattito
Per la Chiesa essere “missionaria” è dire ad altre generazioni, a culture diverse, a nuove ambizioni umane: “Tu mi manchi”; non come il proprietario terriero parla del campo del vicino, ma come l’amante
(Michel de Certeau)
È mia convinzione che non vi sia modo migliore per introdurre il dibattito sul rapporto che intercorre tra “fede e cultura/e: partire da due definizioni di “cultura” che mostrino – immediatamente – cosa voglia dire il prenderla in considerazione prescindendo da riferimenti religiosi. Lo studioso Edward Burnett Tylor, nel 1871, diede una definizione che è un po’ la matrice di quelle che sono state registrare in seguito: «La cultura […] è quell’insieme complesso che include la conoscenza, la credenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dell’uomo come membro di una società» [1].
La seconda citazione, invece, la dobbiamo ad un filosofo polacco, Stanislaw Grygiel, cattolico cristiano, amico carissimo di Giovanni Paolo II: «La cultura avviene nel saper ricevere e nel saper donare, cioè nell’esistere secondo la logica del proprio essere dono» [2]. Si noterà, senza fatica, che la prima definizione di cultura è, potrei dire, algida perché asettica dal punto di vista affettivo: un elenco è quello di Tylor privo, però, del soffio vivificante della partecipazione appassionata dell’uomo. Nella proposta di Grygiel, invece, prevale – per ogni uomo – la logica del proprio essere dono. Cultura, qui, è termine ravvivato dalla fiamma della fede! Qual è, però, l’argomento che giustifica il mettere assieme ‘fede’ e ‘cultura’? La domanda aprirebbe percorsi numerosi e variegati ma, avendo io soltanto il compito di accendere l’interesse per la questione che altri approfondiranno in quanto specialisti, mi limito ad attingere da un autore attendibile e capace di sintesi; a suo dire, infatti, la fede «si esprime spesso anche esternamente in documenti letterari, formule di preghiera, opere d’arte, costumi tradizionali […]: in tutti quei modi e con tutti quei mezzi con cui si trasmette un fatto vitale realmente vissuto» [3].
Ecco il punto essenziale: non c’è solo la Bibbia, il Magistero, i documenti conciliari o i testi redatti dalla Conferenza Episcopale. La fede si articola in opere letterarie, musicali, pittoriche, sculture…
Scendendo già fin d’ora nello specifico, va subito detto che, uno dei tratti di strada minati che attraverseremo durante il dibattito, è costituito dalla spinosa questione dell’inculturazione del Vangelo. Consapevole del poco tempo a mia disposizione, vi dico subito che accetto la lezione di quanti affermano che il Vangelo può e deve esprimersi nelle varie culture perché è ontologicamente inesauribile e dotato, strutturalmente, di energia comunicativa all’ennesima potenza. Mi appoggio, per verniciare la mia tesi di autorità, a quanto scrive Arrupe in un articolo dall’eloquente titolo – “Inculturazione della fede”:
«Il Vangelo, al pari di un seme, può e deve trovare nelle culture un terreno fertile in cui essere piantato, al fine di una riespressione della fede secondo le modalità proprie delle diverse culture, segno dell’inesauribilità del messaggio evangelico e della multiforme fecondità di cui sono capaci gli insegnamenti e le energie dello stesso vangelo […] il vangelo […] trasforma e ricrea quelle culture dando origine a “una nuova creazione”» [4].
Il Vangelo non “distrugge”, né “sostituisce” ciò che incontra ma “trasforma e ricrea” perché – come già insegnava il Profeta Isaia – la Parola di Dio non resta mai senza effetto. La CEI, nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, sente di dover rendere complementari l’ascolto della parola di Dio – contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione – e l’ascolto della cultura del nostro mondo perché in essa sono i semi del Verbo che fanno, in più, registrare la loro presenza «anche al di là dei confini visibili della Chiesa». Il problema, però, va affrontato, a mio avviso, con una apertura di compasso molto ampia: si tratta di rivedere “fondamenti” ed “obiettivi” dell’atto educativo. Questo terreno è stato già sapientemente arato da un Cardinale italiano dallo sguardo davvero profetico:
«Nel contesto culturale odierno è urgente chiedersi come attivare le migliori condizioni per garantire l’unità dell’atto educativo che, nella coscienza delle persone e nelle istituzioni, permetta di porre in rapporto di continuità dinamica e critica le dimensioni della fede, quelle della cultura, e quelle della vita» [5].
Ecco il percorso: dimensioni della fede – della cultura – della vita; un trinomio che vede ogni proprio elemento in stretta interdipendenza dall’altro. Qual è, per noi cristiani, se non il Vangelo il detonatore che fa esplodere verso positivo esito la “sfida dell’educazione”? La carica creativa, innovativa del Vangelo deve entrare, lievito nella pasta, nel mondo, nelle culture e, di ciò, la Chiesa diventa sempre più consapevole. Si mediti questa dichiarazione di Giovanni Paolo II: «Fin dall’inizio del mio pontificato ho ritenuto che il dialogo della chiesa con le culture del nostro tempo fosse un campo vitale, nel quale è in gioco il destino del mondo in questo scorcio del XX secolo». È stato il papa polacco, infatti, che istituì il Consiglio Pontificio della Cultura, nel 1982. Si badi: è una anomalia non da poco il fatto che oggi si debba discutere delle possibilità (opportunità?) di mettere in dialogo fede e cultura. Perché?
Benedetto XVI, da cardinale, in un Suo penetrante studio, scrisse: «solo l’Europa dell’epoca moderna ha sviluppato un concetto di cultura che fa apparire questa come un’area a se stante diversa dalla religione o addirittura ad essa contrapposta. In tutte le culture storiche conosciute la religione è elemento essenziale della cultura, anzi è il suo centro determinante» [6].
Lo scollamento denunciato da Papa – Ratzinger, ad ogni buon conto, mai viene sottovalutato dalle personalità più autorevoli della Chiesa. La Presidenza della CEI, infatti, nel 1997, in “Progetto culturale orientato in senso cristiano” (Una prima proposta di lavoro), richiama la necessità, l’urgenza di rendere anche la pastorale consapevole del legame stretto tra “fede e cultura”; il fine, qui, è – dice la Presidenza della CEI – quello di «poter proporre la fede mediante esperienze e linguaggi significati vi nell’odierno contesto culturale».
Il contesto culturale odierno pullula di linguaggi, esperienze (forme di cultura) irriducibili ad un paradigma di riferimento. La preoccupazione della CEI va oltre una definizione tecnica di cultura e si indirizza verso il concreto vivere:
«Il termine “cultura” viene inteso qui nel senso più ampio e “antropologico”, che abbraccia non soltanto le idee, ma il vissuto quotidiano delle persone e della collettività, le strutture che lo reggono e i valori che gli danno forma» [7].
La questione si accende ancor più se si considera che il cristianesimo deve interagire con problemi, questioni di ogni ordine e grado che, tempo fa, erano impensabili: gli scenari della “società complessa” sono lastricati di istanze che richiedono una creatività nel ricorrere al Vangelo difficile da mantenere viva in quanto occorre anche essere ad esso fedeli. Ecco il problema: se fede e cultura oggi vivono separate, come legittimare una lettura delle realtà del nostro tempo attraverso categorie ermeneutiche cristiane? Nel documento preparatorio del convegno di Verona è stato sottolineato che «dai mutati scenari sociali e culturali» e «dalle profonde trasformazioni riguardanti la condizione e la realtà dell’uomo», risulta «un quadro culturale e antropologico inedito (CEI, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, 2005, n. 1).
Il quadro antropologico è inedito? Sì, non sappiamo più con certezza quale definizione dare dell’uomo. I Vescovi italiani, però, non si fanno ingannare da perplessità che sanno molto di mera accademia e dicono con forza che si deve mettere la persona al centro (CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1, 3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo). Sta tutta qui la forza della proposta cristiana a fronte dei numerosi tentativi di acuti intellettuali che tendono a smantellare impianti filosofico/teologici che conferivano valore e spessore alla persona: essa è al centro perché è vestendosi di carne umana che Dio ha detto “sì” all’uomo in Cristo! Fondando su di una antropologia “forte” perché “cristocentrica”, la Chiesa può gridare in favore della persona fin dall’inizio del suo concepimento voltando le spalle ad una “cultura della morte” (necrofilìa). La cultura e l’uomo si appartengono per mezzo di legami inscindibili.
Diceva Giovanni Paolo II: «L’uomo, che nel mondo visibile, è l’unico soggetto ontico della cultura, è anche il suo unico oggetto e il suo termine. La cultura è ciò per cui l’uomo, in quanto uomo, diventa più uomo […], accede di più all’essere» [8]. Nell’ottica cristiana, dunque, la cultura non può mai essere, nemmeno larvatamente, mortifera per l’uomo; anzi, essa ne è l’insostituibile occasione di accrescimento. La voce dei grandi ingegni cristiani ha sempre legato il progredire in termini di umanità alla crescita spirituale, alla purificazione.
Scriveva un Padre della Chiesa: «Chi ha purificato il suo cuore può contemplare l’immagine della divina natura nella bellezza della sua stessa anima» [9]. La cultura umanistica e quella teologica hanno sempre mirato ad elevare l’uomo; ormai, non solo dal Vangelo la cultura si è sganciata, ma anche da una visione antropologica capace di pensare in grande.
Plotino, pensatore neoplatonico, diceva cose che potrebbero stare come nota a piè di pagina a tanti passi biblici nei quali si invita la creatura umana a rendersi bella perché, in fondo, è pur sempre il “capolavoro di Dio”.
Scriveva l’antico filosofo: «Se non ti vedi bello, opera come fa lo scultore con una statua ancora informe: da una parte elimina, dall’altra assottiglia, qui leviga, lì ripulisce finché sulla statua non appare un bel volto. Così anche tu elimina ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica e rendi luminoso ciò che è oscuro e non cessare di scolpire la tua statua finché il divino splendore della virtù non brillerà in te» (Enneadi, VI, 9. 9).
Il sapere oggi tende sempre più a voler accrescere l’uomo a livello della potenza, ma trascura quelle dimensioni spirituali della persona che sole possono arginare la follia che potrebbe erompere dall’esaltazione dell’homo tecnologicus. Incontrare Cristo è una occasione straordinaria anche perché consente di fare una riflessione “sapienziale” sulla “condizione umana” per come è e per come, invece, potrebbe – anzi – dovrebbe essere! Bisogna – questo insegna la Chiesa – proporre una «rinnovata pastorale della cultura come luogo di incontro privilegiato con il messaggio di Cristo» [10]. Il “messaggio”, come sappiamo, non è altro da Cristo e, dunque, chi accoglie le parole del Vangelo è accolto dalla Parola che incarna la Buona Notizia. Ecco, per la Chiesa «la sfida per la pastorale della cultura: portare l’uomo alla trascendenza […] per arrivare a conoscere il Creatore, utilizzando saggiamente le migliori acquisizioni delle scienze moderne, alla luce della retta ragione» (n. 11, EV 18/1067).
Si noti: la Chiesa non rigetta le migliori acquisizioni delle scienze moderne, ma solo invita ad utilizzarle saggiamente. A questa preziosa precisazione vanno affiancate, facendole risuonare forte in ogni coscienza autenticamente cristiana, le parole che Giovanni Paolo II pronunciò proprio al “Pontificio Consiglio della Cultura”: il ‘dialogo Chiesa/Cultura’ (culture) ha una «importanza vitale per l’avvenire della Chiesa e del mondo». Sic stantibus rebus, la Chiesa deve muoversi – a detta del papa polacco – a due livelli: 1) evangelizzazione delle culture; 2) difesa dell’uomo e sua promozione culturale.
Da questi due compiti discende, inevitabile corollario, la necessità di definire «le nuove vie del dialogo della Chiesa con le culture della nostra epoca». Ci si deve anche lasciar spiazzare dalle istanze provenienti dalle “culture altre”, non solo predisporsi ad incontrarle premunendosi di scudi ed armi dialettiche che costituiscono, non di rado, frammenti impenetrabili; non si tratta, inoltre, di accendersi di entusiasmo perché si mantengono alcuni appuntamenti con le culture, ma si deve lavorare per un permanente incontro tra Vangelo e culture [11]. La Chiesa deve entrare nelle trame culturali più variegate mantenendo inalterato il proprio “patrimonio genetico” per farlo interagire – come novità rigenerante – coi tessuti culturali nei quali si innesta. Mai avere paura di mostrare la bellezza del volto multiforme della Chiesa. I numerosi carismi che la vivificano, gli stili laicali di vita, non testimoniano del fatto che essa è plurale, composita (pur se ontologicamente unita) tanto quanto le società sempre più scristianizzate? Le voci sono tante! La differenza è che si è membra di un solo Corpo, quello di Cristo; la frammentazione che attanaglia il mondo contemporaneo, invece, si consuma girando su se stessa e non trova punti di riferimento che volgano al bene la pluralità. Unità in una vivificante e non ribelle diversità: ecco il modello di convivenza che la Chiesa può mostrare alle culture odierne sempre più in crisi.
Siamo d’accordo fin qui; tuttavia, va anche onestamente detto che, proporre il ‘modello di convivenza’ che ho appena esaltato, impone di trovare una ‘striscia di terra comune’ con il linguaggio di un mondo che non fa più riferimento, in molti aspetti essenziali dell’umano vivere, a Dio [12]. Come arrivano, nel mondo dell’ informazione (che sempre più forma la cultura o incultura degli uomini del nostro tempo), ad esempio, le proposte cristiane riguardo ai temi essenziali della società complessa? Non sono gli insegnamenti cristiani – a mio avviso – ad essere oscuri, poco comprensibili; il fatto è che l’informazione non ammette che si spenda tempo anche per la formazione. La cultura odierna è sotto l’imperativo del sii veloce e sotto la dittatura della novità ad ogni costo e nel tempo più breve. Le posizioni della Chiesa, invece, nascono sul tronco – sempre vivo – di una Tradizione millenaria e non si possono comprendere senza conoscere certi percorsi. Il gap è tutto qui: la cultura corre sul filo dell’informazione e quanto richiede riflessione e tempo suscita irritazione.
Ha scritto – seguendo la nostra stessa pista – Avery Dulles: «Gli insegnamenti della Chiesa sono spesso complicati e sottili. Come risultato di centinaia d’anni di ricerche teologiche, non possono esprimersi senza l’uso di termini tecnici. I mass media hanno bisogno di storie corte, semplici e sorprendenti. Perciò, nell’informare dei documenti dottrinali, possono trascurare gli aspetti cruciali e sottolineare altri nuovi ma molto secondari» [13].
E fosse solo il mondo dell’informazione a danneggiare la diffusione di una parola cristiana in grado di beneficare la cultura contemporanea. Quanti si dicono cristiani, ma non hanno mai letto una Enciclica, un testo del Vaticano II o un libro (di media difficoltà) di teologia? Noi “cristiani” abbiamo consapevolezza dei contenuti “culturali” della nostra fede? Impariamo a parlare “cristiano” avendo – per dirla con Paolo – gli “stessi sentimenti di Cristo” perché, altrimenti, non sapremo come andare incontro agli altri che vivono con mentalità e culture lontane da Dio; infatti, sottolinea un acuto autore cristiano, «la sfida più difficile per noi sarà il modo in cui parliamo degli estranei»; occorre fare di tutto affinché «il nostro linguaggio rimanga aperto e si avvicini alla vastità e all’ospitalità della parola di Dio» [14].
Dobbiamo tradurre il lessico cristiano senza tradire né il Vangelo, né il linguaggio del mondo secolare piegandolo, con infruttuose insistenze, nella Parola: incontro, non sostituzione; traduzione che rispetti entrambi i linguaggi per far meglio notare le differenze, non omologazione a danno di uno dei due [15].
Il compito cristiano si chiama “missione” (R. Spaemann)
Il filosofo Robert Spaemann sostiene che le ‘religioni universali’ rimangono naturalmente missionarie fino a quando sono ‘vitali’. Si rivela fruttuoso – a suo dire – solo quel confronto fra religioni che si svolge dove la religione è praticata seriamente ed in un clima di pacifica coesistenza.
Il nostro autore ritiene di poter affermare che il cristianesimo è missionario per natura; esso, infatti, ha una strutturale pretesa universale: «La verità sul mondo creduta implica una via salvifica per tutti gli uomini e una pretesa di Dio su tutti gli uomini» [16]. La “missionarietà”, ad ogni modo, va impostata nel rispetto per la libertà. La dottrina cristiana, spiega il filosofo, ritiene che è una grazia la fede che ci consente di vedere il Cristo in Gesù: «Chi ritiene che la fede sia una grazia non può credere di poter essere lui a rendere gli uomini cristiani. Persino Gesù diceva: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre” (Gv 6, 44). La missione non è nient’altro che il tentativo di far conoscere agli uomini il messaggio del Vangelo in modo che siano portati a prendere una decisione in relazione alla pretesa da esso contenuta» (p. 134). La fede in Cristo è “grazia” e, dunque, non sta nelle corde di nessuno rendere cristiani – magari forzatamente – qualcuno!
Ci tocca, allora, solo il compito (tentativo) di presentare il Vangelo lasciando che siano gli “altri”, poi, come dice Spaemann, a prendere una decisione in relazione alla pretesa da esso contenuta. Staccandosi da molti altri autori, il filosofo invita ad usare con “cautela” la parola dialogo in quanto, con essa, si può lasciar intendere che si discute, nell’ambito della fede, come di argomenti scientifici disposti a lasciare, ad ogni interlocutore, una soluzione di principio aperta: «Ma un cristiano – precisa ed obietta il nostro autore – non entra in dialogo con un musulmano con la disponibilità magari a lasciarsi convincere che Gesù non sia il Figlio di Dio». Ci sono, cioè, questioni non negoziabili; altrimenti, si rischia di snaturare – per un irenismo utile a nessuno – la propria fede. Certi dell’identità divina del Logos, piuttosto, si accoglie «tutto ciò che, a livello di intuizioni autentiche, positive e vivo nelle altre religioni […], per principio, è integrabile nelle proprie convinzioni e può contribuire al loro approfondimento» (p. 137). Tale disponibilità, per Spaemann, conduce ad un reciproco e progressivo arricchimento delle religioni avendo messo in salvo il convincimento che «in Cristo sia già anticipato l’insieme di tutte le possibili concezioni di Dio» (Ibidem). In estrema sintesi: solo la piena consapevolezza riguardo al proprio credo religioso ci apre, sicuri e non impauriti, a conoscere e riconoscere quanto di buono vive nelle altre religioni; il dialogo religioso non è assimilabile a quello utile in altri contesti poiché, senza alcuni punti fermi e non negoziabili, la nostra fede crolla. A qualcuno potrebbe sembrare una posizione dura, rigidamente dogmatica? Qui volevo condurvi!
Concordo pienamente con Spaemann quando scrive che il relativismo antidogmatico non si rivela meno ‘missionario’ del dogmatismo; anzi, «si può considerare come l’ultima forma di universalismo europeo […] non […] molto tollerante. Infatti, esso ritiene pericolose tutte quelle convinzioni che non si sia disposti a discutere all’infinito» (p. 132). La Chiesa deve incontrare le culture e, dunque, non può tradurre la propria missione in un discorso infinito, inconcluso poiché parte muovendo da fondamento certo: Cristo. Ci ha detto, come agli Apostoli, di andare in tutto il mondo a predicare (non imporre) il Vangelo per come ci è stato rivelato e non una versione edulcorata o manipolata di esso.
Lo scrittore italiano – che tutta la vita dibatté argomenti di fede pur dichiarandosi non credente – Giuseppe Prezzolini, disse: «ci troviamo dentro la cultura, senza accorgercene» [17]. Le cose, però, stanno diversamente oggi poiché nessuno ignora che viviamo, respiriamo nel tempo della globalizzazione. Stare a parlarne diffusamente non è nostro compito [18], ma sfioriamo l’argomento perché investe decisamente anche i territori del religioso. Uno studioso italiano di ecumenismo ed attento ai problemi di etica e politica ambientale mette in evidenza come la globalizzazione renda compresenti vari credo religiosi e non di rado all’incontro si sostituisce lo scontro:
«proprio mentre le religioni ritrovano visibilità sulla scena globale, esse scoprono accanto a sé anche altre fedi […]. La pluralità […] le costringe, così, a motivare le proprie opzioni, rendendo insufficiente l’appello a una tradizione che non può più essere […] condivisa. È facile, allora, cercare scorciatoie fondamentaliste […]. È […] una prospettiva che colloca le comunità religiose in una posizione strutturalmente “opposizioni sta”, pronte a reagire contro tutto ciò che esse percepiscono come minaccioso» [19].
Se non c’è “tradizione” che giustifichi le “opzioni” in materia di religione - e si ossequia, così, l’antidogmatsimo -, non resta che farle risuonare con voce minacciosa. Chi rinuncia ai dogmi, cioè, evita il dogmatismo che pone basi incrollabili al proprio credo religioso, ma resta scoperto sotto i colpi del relativismo antidogmatico. Relativismo che, venendo a capo di nulla, alienandosi in discorso infinito, visto che bisogna pur approdare ad una soluzione, sfocia nella necessità di irrigidire posizioni (si ricade nel dogmatismo ma, stavolta, è frutto della paura generata da incertezze, confusione) [20].
Un cristiano convinto non è necessariamente un fanatico; lo è se fa di quanto costituisce la propria certezza di fede un’arma per imporsi, una strategia di potere. La teologia contemporanea, d’altro canto, sente che la “pluralità culturale” deve essere un argomento da affrontare con urgenza, serietà e merita uno dei primi posti nell’agenda delle questioni ecclesiali. Nel 1987, in collaborazione con un sociologo, uno dei massimi esponenti della cosiddetta “Teologia politica”, affrontò questo tema: “Capacità di futuro del cristianesimo”. Si parlò di Chiesa policentrica: si vive, cioè, il “passaggio” da «una realtà ecclesiale occidentale europea, nella quale la chiesa mondiale potrebbe invero essere solo simulata», ad una Chiesa «mondiale a carattere culturalmente policentrico» [21].
La Chiesa incontra le culture del mondo per diffondere semi di Speranza per il futuro [22]; la Chiesa si pone – consapevole di ciò che autenticamente la costituisce – di fronte alle culture per mostrare l’altissimo grado di umanizzazione che il cristianesimo produce quando si diffonde fin nelle più riposte trame di una cultura [23]; il tutto, culmine del percorso, per comprendere quali vie possibili restano alla “questione dell’uomo e della verità” [24].
Istituire un confronto franco, fecondo con gli altri è animare una vita ed un ambiente (non solo intellettuale) conviviali. Il modello lo potremmo rintracciare in un brano di Agostino tratto da Le Confessioni. Ecco come espone il vivere in comune con amici, studenti:
«i colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture […], i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore […], e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni […] fondevano insieme le nostre anime e, di molte, ne faceva una sola» (IV, 8, 13).
Estrapolando alcune espressioni da questo passo autobiografico, ricaveremo indicazioni utili per metterci proficuamente a confronto con culture e religioni diverse:
- i colloqui: termine meno altisonante di “dialogo” ma che presenta una connotazione maggiormente “affettiva”;
- dissensi occasionali, senza rancore: mettere in comune le letture, condividere spazi di gioia e di gioco può comunque procurare “dissensi” ma, in atmosfera convivia le, essi sono “occasionali” e certo non generano “rancore”;
- essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo: per incontrare l’“altro” bisogna, scrutando attentamente le occasioni celate nei momenti di conviviale colloquio, comprendere quando dobbiamo “insegnare” e quando è il tempo opportuno di mettersi alla “scuola dell’altro”.
- fondevano le nostre anime e, di molte, ne faceva una sola: non si tratta di annullare le differenze ma – leggendo più in profondità l’espressione di Agostino – il successo dello stare con gli altri sta nel portare le differenze ad una più alta unità consapevoli che la si è raggiunta proprio grazie al fatto che ognuno aveva tesori inestimabili da mettere in comune.
Nel brano si fa riferimento anche alle “comuni letture”; la cultura si forma e si umanizza soprattutto quando c’è scambio di testi che veicolano le memorie di persone diverse tra loro. Si possono rinvenire somiglianze o differenze: quello che conta è muoversi sulla strada del riconoscimento reciproco! Conoscere la storia degli altri aiuta a capire la nostra; conoscere le altrui ferite aiuta a non starsene, con narcisismo e rancore, attaccati alle proprie in atteggiamento perennemente bellicoso contro quanti consideriamo nostri nemici: abbiamo dimenticato, enfatizzando torti ricevuti, le angherie fatte subire ad altri. Chi vuole sviluppare una sensibilità attenta agli altri, imparare a cogliere le differenze di mentalità, di cultura, può trovare un valido sostegno proprio nel fatto che la teologia, ormai, si apre alla Storia ed alle storie. Sto pensando, cioè, alle varie teologie che, frequentate almeno nei loro generali presupposti, possono darci una visione cristiana degli ambiti di vita maggiormente minacciati dai pericoli di quello che uno scrittore, giornalista ed uomo politico cattolico italiano del Novecento chiamava disumanesimo [25].
Dei nuovi nodi e snodi teologici è stato opportunamente detto: «L’approccio positivo specifico di queste teologie (politica, della liberazione, femminista) è proprio quello di essere ritornate alla storia […] di coloro che […] le elaborazioni teologiche cristiane, hanno rinnegato come non – persone, non – gruppi, non - storie» [26]. La teologia ha ancora da dire qualcosa in questo mondo, solo se lavora per rimettere al centro dell’interesse storico le non – persone, i non – gruppi; quelli, insomma, che qualcuno definì i dannati della terra (Fanon).
Oggi la fede è necessariamente “eretica”. Cosa dico? Eresia, etimologicamente, significa scegliere. Siamo nel “supermarket delle religioni” e, pare, ognuno sceglie secondo le proprie esigenze psicologiche.
La cultura del nostro tempo si laicizza sempre più, ad esempio, nel trasferire tutte le preoccupazioni umane dall’ambito escatologico a quello dell’immanenza; nel sostituire il campione della fede con il consulente che sa come risolvere i nostri “problemi pratici”! Ha scritto un sociologo contemporaneo: «Gli uomini e le donne postmoderni, volenti o nolenti, sono condannati a una continua scelta, e l’arte dello scegliere si basa soprattutto sull’evitare un pericolo: quello di lasciarsi sfuggire l’occasione buona […]. Per evitare questo pericolo, gli uomini e le donne postmoderni hanno bisogno di consulenze. La variante postmoderna dell’incertezza non genera il bisogno delle visioni escatologiche nelle quali si è specializzata la religione, ma genera piuttosto una crescente richiesta di consulenze esistenziali impartite da esperti nel sopire o curare i problemi di identità» [27]. Il fatto è che si è trasformata la “Storia della Salvezza cristiana” nell’idea di Progresso – sostiene un autorevole pensatore; ormai, il futuro non è altro che una «somma di terrore e di paure». L’autore al quale sto pensando esplicita il concetto di delusione escatologica: l’uomo postmoderno, cioè, è convinto del fatto che il “futuro” «non porta più il radicalmente nuovo», bensì, angosce, inquietudini [28]. Cambiano “mentalità”, attese, riferimenti ed ancoraggi e, dunque, su questi scenari culturali si sta molto attenti a non far cadere la “candela accesa” del cristianesimo che potrebbe appiccare il fuoco (non distruttore, ma purificatore) al teatrino di carta della postmodernità. Ansiolitici e consulenze servono a coprire (ma ci riescono?) il vuoto lasciato dopo che ci siamo meritati (non è un destino) la delusione escatologica. Se l’uomo ha smesso di credere in Dio ha commesso l’errore di trasformarsi da credente in credulone perché dice sì a tutto: farmaci che promettono soluzioni rapide a problemi esistenziali; cartomanti, maghe ed altra paccottiglia del cattivo gusto morale ed intellettuale. Il disastro è che, anche quanti paiono dotati di una almeno sommaria cultura cristiana, non si sottraggono alle seduzioni ora denunciate (sincretismo o non, piuttosto, sin – cretinismo?).
Più che i mutati scenari della cultura occidentale, però, deve essere la sempre più evidente presenza dei popoli del Terzo Mondo a spingerci verso una revisione (che non coincida mai con un tradimento) delle nostre “opzioni di fede”. Sia chiaro: a declinare può essere, semmai, la cristianità, non il cristianesimo. Uno studioso della storia del pensiero politico cattolico dell’ Ottocento e del Novecento, scrive: «Se il tempo della cristianità appare ormai consumato […] non è finito il tempo del cristianesimo. A un cristianesimo divenuto troppo a lungo bisognoso […] della non disinteressata stampella del “braccio secolare” si va lentamente e faticosamente sostituendo una Chiesa che, per aver rinunziato alla guida politica della società, non per questo abdica alla sua responsabilità di essere coscienza critica e ispirazione morale di questa stessa società: non a proprio nome, ma in nome di Colui il quale rappresenta, ieri oggi e sempre, la via della Chiesa. La cristianità sta dietro di noi,ma il Vangelo sta dinanzi a noi, ora e sempre» [29]. Ci si può ritenere “gli ultimi cristiani”; sì, ma – come sottolinea un teologo canadese – soprattutto nel senso che siamo gli ultimi ad incarnare una certa forma di cristianesimo (cristianità): «Siamo […] gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non […] gli ultimi cristiani» [30]. Siamo cristiani che devono accettare che, nella forma, il loro modo di credere viene messo in discussione dall’emergenza di nuovi contesti culturali nello stesso Occidente e da istanze che vengono da mondi che non possiamo più tenere a distanza. Sarebbe bene, nel mentre matura la consapevolezza di tutto questo, tenere presente che, più che di “dialogo tra religioni e culture”, occorre parlare di sforzo per dar luogo a civiltà conviviali fondate sul modello colloquiale [31].
La Chiesa ha – con il Concilio Vaticano II – spalancato le braccia per accogliere non più soltanto “singole anime”, ma per incontrare, con intento di redimerla e non di colonizzarla, la Storia: dal “soggetto” al “mondo” senza che il primo dei due termini subisca un letale disconoscimento. L’iter al quale alludo e che giustifica la preoccupazione di ogni cristiano per “le culture del e nel mondo”, si può esporre con chiarezza attingendo ad un saggio di un teologo morale:
«La missione della Chiesa era mirata alla salvezza delle singole anime […]. Le condizioni storiche in cui gli esseri umani vivevano non erano direttamente rilevanti per la Chiesa e per la teologia […]. La prospettiva della Gaudium et Spes rovescia la situazione. Già il titolo “La Chiesa nel mondo del nostro tempo” non propone la separazione tradizionale fra Chiesa e mondo, ma propone una Chiesa che vive nel mondo […]. Non solo la Chiesa è la destinataria della salvezza escatologica, ma l’umanità intera […]: non vi sono due storie, quella umana e quella della salvezza, ma la storia della famiglia umana è la storia stessa della salvezza» [32].
Se la storia della famiglia umana coincide con quella della salvezza, a maggiora ragione, “evangelizzare” diviene impegno urgente e da assumere con coscienza perfettamente cristiana, con disposizione assoluta a servire l’altro presentando i valori evangelici alle culture del e nel mondo senza contraffazioni e cedimenti.
Paolo VI, perciò, nella Evangelii Nuntiandi del 1975, al § 20, sostiene che si deve evangelizzare non in maniera decorativa («a somiglianza di vernice superficiale»), bensì si tratta di giungere in “profondità”, alle “radici” della cultura e delle culture umane. Si deve partire – precisava Paolo VI – dalla persona. A queste precisazioni il Pontefice faceva seguire una dichiarazione che è rimasta famosa: «La rottura tra Vangelo e culture è senza dubbio il dramma della nostra epoca». Dobbiamo ricucire! Iniziamo dall’indicazione che viene dal “Comitato Scientifico” che organizzò la XLI Settimana sociale dei cattolici italiani (Roma 2 – 5 aprile 1991): ricominciare a produrre pensiero e cultura. Si torni a proporre coraggiosamente un modus pensandi cristiano e si parli – senza sentimenti di sudditanza di fronte alla paccottiglia del cattivo gusto imperante – di una cultura innervata di nutrimenti evangelici. La fermezza, tuttavia, non cada mai in acritico disprezzo dell’altro. Se missione culturale deve essere, la si svolga secondo le direttive offerte da Giovanni Paolo II al n. 12 della Redemptor hominis: «l’atteggiamento missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che “c’è in ogni uomo” (Gv 2m 25)».
Sono non pochi gli studiosi che denunciano il tramonto dei “valori religiosi” in Occidente; essi conoscono, perciò, una collocazione periferica, al Sud del mondo: Africa, Asia, America Latina rappresentano la fioritura di quei valori rinsecchiti nel terreno occidentale e si rivelano essere l’«ironico rovesciamento di gran parte delle visioni occidentali sul futuro della religione» [33].
Un missiologo cattolico ha portato materiale di qualità a sostegno del punto di vista di Jenkins e lo elargisce con invidiabile chiarezza: «dal momento che ormai tutti parlano di Terzo Mondo, perché non dovremmo introdurre anche il neologismo di Terza Chiesa? La Prima […], quella orientale […], possiede il privilegio della primogenitura […]; la Seconda […] quella occidentale […] è divenuta sempre più la Chiesa per antonomasia […]; la Terza […] quella dei nuovi paesi, che entrano ora come nuovo elemento nella storia mondiale e ecclesiale e che costituiscono le sorprese del nuovo futuro» [34].
Per troppi secoli la filosofia, la teologia hanno ritenuto possibile ignorare quella parte di umanità che gli autori ora citati mettono al centro della scena. Significativo, se non mortificante, che tocchi ad un filosofo argentino ricordarci quanto in Occidente avremmo dovuto comprendere da tempo:
«L’unico modo […] di poter crescere nella propria tradizione consiste nell’effettuare una critica dei presupposti della propria cultura. È necessario trovare in essa i momenti originari di un’autocritica» [35].
Una cultura cresce non tanto quando viene criticata dall’esterno, ma quando procede ad una “critica interna” (autocritica). Prendiamo sul serio le lezioni che vengono dalla filosofia, dalla teologia e dal sentimento religioso latino-americano. Perché? Due autori (che in questo intervento hanno già acceso luci), uno studioso di Etnologia ed uno di Linguistica, ce lo spiegano con parole dirette e capaci di incidere:
«il continente latino-americano può essere considerato un continente di grande tolleranza religiosa»; infatti, «si assiste a fenomeni di doppia, tripla e a volta anche quadrupla appartenenza religiosa […] è possibile partecipare a un culto afro-americano pur essendo cattolici […]. L’immenso pellegrinaggio alla Vergine di Guadalupe in Messico è sicuramente una cerimonia cristiana, ma è anche un omaggio reso a divinità precoloniali. Certo, di cristianesimo si tratta, ma di cristianesimo indianizzato o, se si preferisce, di religione pagano-cristiana. Questo potrebbe apparire come una contraddizione, ma non lo è affatto per i fedeli messicani, i quali, non essendo formati nel dualismo degli occidentali, evidentemente non distinguono fra una “componente” azteca e una “componente” cristiana nella loro devozione, dove la “componente” cristiana non è comunque quella dell’Europa latina ma quella del cattolicesimo messicano» [36].
Non stiamo dicendo (mi contraddirei) che il Vangelo deve diventare “messicano”; si tratta di precisare solo che le “forme religiose” nelle quali in Messico Lo si vive possono essere diverse da quelle adottate in Europa; le culture devono esprimere il solo, unico Vangelo secondo modi loro consoni non per nostra gentile concessione, ma perché, piuttosto, non si può pretendere che – assieme al Vangelo – gli “altri” debbano accettare tutto il corredo concettuale, esperienziale occidentale che, spesso, solo Lo zavorra e ne oscura il “senso”.
C’è un’attenzione alla “vita”, alle esigenze del povero, una sete di giustizia economico-politica nella Terza Chiesa che, se non si ammanta di colori ideologico-politici, si intende assai bene con il fulcro dell’insegnamento evangelico.
Le istanze di liberazione, laddove non si scada in violenza o nel sostenere una forza politica in particolare, vanno prese sul serio perché la Teologia della Liberazione (che pure ha guasti da farsi perdonare) riconsidera il Vangelo come opzione privilegiata dei poveri, degli esclusi. Uno studioso di teologie sudamericane, scrive:
«Ogni popolo è chiamato ad inculturare la fede cristiana per celebrare la vita […]. L’opera dello Spirito è realmente universale, senza steccati. Quando si celebra la vita, nessuna cultura e nessuna religione è svilita» [37].
La vita diventa la categoria universale che apre le porte di tutte le culture, di tutte le religioni all’universale opera dello Spirito. Il nostro autore denuncia un fatto gravissimo, ma che è sotto gli occhi di tutti noi: le grandi religioni iniziano a funzionare e ad essere trattate in termini mercantili! Più che proporre una vera cultura religiosa (che sia cristiana o no), si “vendono” terapie pseudo/religiose illusorie. Scrive apertis verbis Irarrazaval: «Qualsiasi attività di inculturazione è colpita dalla macro cultura del mercato […]. L’implacabile mercato […] offre a tutti i gruppi sociali dei calmanti spirituali» (p. 114). Lo “strapotere del mercato”, il “ridurre tutto a merce” colpisce anche le religioni e rende ancora più difficile il processo di inculturazione. Ci viene presentata, qui, una difficoltà oggettiva ma estrinseca al messag gio cristiano; tuttavia, il nostro autore rintraccia anche un impedimento interno all’inculturazione del Vangelo quando enuncia di volersi opporre decisamente ad un cristianesimo androcentrico.
Cosa intende dire?
«La cristianizzazione ha consolidato un uomo onnipotente ([…] ha anche mascolinizzato Dio) e una donna subordinata e sacrificata»; per questo, dunque «nella fede cristiana si devono eliminare dalla cultura simboli patriarcali che frappongono ostacoli al nostro avvicendamento al Dio della vita» (p. 119) [38] . Chi denuncia si esprime in maniera corretta: non il Cristianesimo, bensì la cristianizzazione ha prodotto simili guasti. Un’idea che mi pare interessante registrare, in quanto capace di allargare il dibattito sulla questione che ci tiene impegnati, è quella che rileva un nesso inscindibile tra due momenti: «Oggi […] l’interculturale […] va a braccetto con l’interreligioso» (p. 121). C’è urgenza, necessità di animare una Teologia Interculturale che – dice Collet citato dal nostro autore – può fondare unicamente sull’empatia e la simpatia. Da prelevare anche un altro dato nel saggio dal quale stiamo, con metodo rapsodico, saccheggiando: a paradigma dell’evangelizzazione viene eletta la Pentecoste (Cfr., At 2, 4 e 8). In questo luogo del Nuovo Testamento si parla della pluralità delle lingue e, malgrado essa, si verifica l’intesa fra i parlanti. Il dono delle lingue, come quello della comprensione, cioè, viene dallo Spirito che – come abbiamo riferito sopra – per Irarrazaval compie un’opera realmente universale, senza steccati. L’inculturazione universale del Vangelo – allora – è “compito umano”; ma è possibile avere successo solo se si lascia comunque operare lo Spirito.
Un bel bagno di umiltà per quanti, da comode cattedre o in corposi volumi, parlano della questione. Il nostro autore ci segnala il programma stilato dal Congresso Missionario Latinoamericano che si tenne, nel 1999, a Paranà. Il testo base, nello specifico, offre due indicazioni sulle quali è bene meditare:
ogni chiesa locale assume la storia e le esperienze vitali del popolo in cui essa è posta.
si deve prolungare l’Incarnazione di Gesù nella cultura di ogni popolo, entrando in dialogo con essa, arricchendola con il lievito del Vangelo.
La vita concreta di un popolo è ricchezza per la Chiesa che arricchisce, a Sua volta, forme di vita (cultura); Cristo, che si è incarnato in un popolo, in un tempo, in un territorio particolari, è “vivo” quando rinasce nella cultura dei popoli.
Il Vangelo è un lievito, ma la pasta la prende dal luogo in cui si ferma. Stiamo attenti anche a non presentare il Vangelo con una teologia fatta a tavolino, in accademia o, comunque, ammantata di esplicitazioni che vengono da una mentalità eurocentrica, da dominatori. La denuncia del nostro autore giunge puntuale: «si è soliti realizzare l’inculturazione secondo i parametri delle élites» (p. 131). Nessuna cultura egemone deve vantare il diritto di presentare il Vangelo, il credo cristiano secondo il proprio linguaggio, imponendo circoscritte categorie di pensiero. Non ha torto Irarrazaval quando precisa che «nessuna forma inculturata della fede rappresenta tutta la Rivelazione, ma ogni buona inculturazione conduce all’inesauribile mistero divino» (p. 133).
In sintesi: il nostro autore ritiene che l’inculturazione deve partire dalla concretezza di Gesù andando, così, dal “particolare” all’ “universale”; solo una mentalità teoretica come quella occidentale può ritenere esclusivo un punto di partenza contrario. Si deve, allora, universalizzare la concretezza di Dio in Gesù Cristo.
La conclusione dell’intervento del teologo latino-americano possiamo intenderla e come un programma da sviluppare e, allo stesso tempo, come un augurio:
«È bello dare vita a delle identità e a dei progetti di vita come risposta al Vangelo. Lo facciamo come creature dell’universo mediante differenti culture e percorsi umani, forme religiose e di fede. Tutto questo si intreccia e viene articolato per lodare Dio» (p. 138).
Congedandomi dalle idee rubricate come “momento incoativo” di un dibattito tra “Cristianesimo, cultura e culture”, sento di dover consigliare umiltà quando ci si trova di fronte a chi non conosce il Vangelo o ha bisogno di rituffarsi in esso; siamo lavoratori inutili e vanamente costruiamo la casa se non fondiamo sulla Roccia, che è Dio.
Lui solo può convertire; a noi non resta che l’annuncio e la testimonianza.
Si può concludere, allora, ricordando Padre Crysostom McVery, un domenicano del New Jersey, che ha conosciuto le fatiche della missione e dell’evangelizzazione in Pakistan per… quarant’anni! Un amico gli chiese:
“quante persone hai convertito?”.
Rispose: “Una sola, me stesso!” [39].
[1] id., «La scienza della cultura», cap. I di Primitive Culture (1871), tr. it. di d. pianciola, in aa. vv., Il concetto di cultura, p. rossi (a cura di), Einaudi, Torino 1970, pp. 3 – 29; qui, p. 17. Trasuda tecnicismo anche la definizione di cultura data da un noto antropologo: «Essa denota un modello storicamente trasmesso di significati incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate, espresse in forme simboliche mediante le quali gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano le loro conoscen ze sulla vita e i loro atteggiamenti verso di essa» (c. geertz, The Interpretation of Cultures, New York 1973, p. 89).
[2] Esergo al saggio di livio melina, «Epifania dell’amore: la natura e il mondo nella prospettiva dell’agire», in L’esperienza sorgiva. Persona – Comunione – Società (Studi in onore del Prof. Stanislaw Grygiel), g. grandis – j. merecki (a cura di), Cantagalli, Siena 2007, pp. 23 – 36; qui, p. 23.
[3] Cfr., c. colombo, Il compito della teologia, Jaca Book, Milano 1983, p. 166.
[4] In g. tonini, La mediazione culturale. L’idea, le fonti, il dibattito, AVE, Roma 1985, pp. 175 – 176.
[5] Cfr., c. ruini, Sfide e compiti della Chiesa alla luce dell’antropologia cristiana. Prolusione al Convegno Nazionale “Le sfide dell’educazione”, 12 -14 febbraio 2004, in «Quaderni della Segreteria Generale CEI», Anno X n. 20, Luglio 2006, pp. 29 – 38.
[6] Cfr., j. ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni nel mondo, Cantagalli, Siena 2005, p. 61.
[7] conferenza episcopale italiana, Progetto culturale orientato in senso cristiano: una prima proposta di lavoro, Paoline, Milano 1997, p. 5.
[8] Cfr., giovanni paolo ii, Allocuzione all’Unesco, 2 giugno 1980, in «La Traccia» 1/6 (1980), pp. 472 – 480.
[9] san gregorio di nissa, Omelie, PG 44, 1270 – 1271.
[10] pontificio consiglio della cultura, Per una pastorale della cultura, n.1, Enchiridion Vaticanum 18/1037.
[11] Il suggerimento mi viene da due studiosi: «Il modello dell’incontro non ha nulla a che spartire con l’arte dell’appuntamento. L’incontro non si annuncia più di quanto non si prepari […]. Non si arriva mai a un incontro, è sempre l’incontro che arriva» (f. laplantine – a. nouss, Il pensiero meticcio, elèuthera, 2006, p. 93).
[12] Si può utilmente attraversare, riguardo ai guasti di una cultura scristianizzata, l’analisi svolta da e. poulat, L’era postcristiana. Un mondo uscito da Dio, SEI, Torino 1996.
[13] Cit. da f. a. grana, Come comunicare la Chiesa. Come la Chiesa comunica, L’Orientale Editrice, Napoli 2008, p. 26.
[14]Cfr., t. radcliffe, Il punto focale del cristianesimo. Che cosa significa essere cristiani?, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, p. 254. Ospitare nel linguaggio (e non solo in esso) gli altri significa non tradire Cristo, ma anche mostrare con indiscutibili argomenti cosa voglia dire davvero che la Chiesa è Cattolica, universale. Molti mali vengono dal non avere la capacità di far comprendere alla cultura odierna la reale portata di una tale denominazione. Ci aiutano le parole di un poeta inglese che venne al mondo nel lontano 1572: «La Chiesa è cattolica, universale; così sono anche tutte le sue azioni; tutto ciò che essa fa appartiene a tutti. Quando essa battezza un bambino la cosa mi riguarda, perché con tale azione quel bambino è connesso a quel Capo che è pure il mio, e innestato in quel corpo di cui io sono un membro […]. Tutta l’umanità ha un solo autore, e forma un solo volume» (j. donne, Devotions upon Emergent Occasion, Oxford University Press, New York – Oxford 1987, Meditazione XVII).
[15] Due studiosi, già citati, spiegano esaustivamente il concetto di “corretta traduzione” assai utile al nostro argomento: «La traduzione potrebbe e dovrebbe […] segnare la distanza fra le lingue, mostrare che esistono lingue differenti […]. Il suo ruolo quindi è di ricordare a chi parla una data lingua che è possibile dire il mondo in un altro modo, con un altro accento, con altri colori. Far […] entrare un’estraneità che arricchirà le possibilità d’espressione e l’identità del soggetto. L’io esiste solamente quando riconosce l’altro, sia fuori sia dentro di sé […]. La relazione fra due lingue non è un trasporto, bensì un rapporto […]. La traduzione è dialogo fra le lingue. Il dialogo si valuta come l’incontro e il viaggio: il suo valore dipende dalla distanza percorsa» (f. laplantine – a. nouss, Il pensiero meticcio, cit. pp. 34 – 35).
[16] Cfr., r. spaemann, «Le religioni universali devono rinunciare alla missione?», in id., La diceria immortale.La questione di Dio o l’inganno della modernità, Cantagalli, Siena 2008, pp. 129 – 140; qui, p. 131.
[17] id., Saper leggere, Garzanti, Milano 1956, p. 19.
[18] Ci permettiamo di rimandare, perciò, ad almeno due scritti affidabili: u. beck., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999; j. oesterhammel – n. p. petersson, Storia della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2005.
[19] Cfr., s. morandini, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, EDB, Bologna 2008, p. 46; cfr., e. bein ricco (a cura di), La sfida di Babele. Incontri e scontri nelle società multiculturali, Claudiana, Torino 2001.
[20] Oggi si pensa che la verità sia di natura procedurale: la fa una comunità in discussione nella quale ognuno ha il diritto di portare il proprio contributo. È – lo ammetto – una maniera grossolana di spiegare cosa sia l’etica del discorso. Spero che una citazione possa aiutare a comprendere più chiaramente il mio pensiero, visto che non è questo il luogo per approfondire la questione alla quale pur è necessario dedicare almeno un richiamo: «L’etica del discorso afferma che i valori generali e le regole morali in una società pluralistica e democratica non sono supposte con validità universale, perché questo significherebbe una subordinazione paternalistica dei destinatari, e inoltre tali regole non reggono di fronte alla complessità dei casi concreti. Il moralmente corretto deve essere dato in procedure controllate del discorso, attraverso il consenso finale di quelli che prendono parte alla discussione. Ma i discorsi che sono stati condotti intorno a problemi controversi non hanno portato a soddisfacenti risultati. Di qui la critica che le condizioni ideali per un discorso costruttivo non possono essere realizzate nelle situazioni sociali reali» (g. manzone, La tecnologia dal volto umano, Queriniana, Brescia 2004, p. 126).
[21] j. b. metz, «In cammino verso una Chiesa policentrica e autenticamen te capace di futuro», in f. x. Kaufmann – j. b. metz, Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988, p. 93.
[22] Cfr., servizio nazionale per il progetto culturale della cei, Di generazione in generazione. La difficile costruzione del futuro. Quinto Forum del Progetto Culturale, EDB, Bologna 2004.
[23] Cfr., v. cesareo (a cura di), Per un dialogo interculturale, Vita e Pensiero, Milano 2001; j. dupuis, Per una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997.
[24] servizio nazionale per il progetto culturale della cei, Fare progetto culturale. Temi e percorsi sulla questione dell’uomo e della verità, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008; È utile far ricorso, dato il taglio anche, se non soprattutto, etico che la questione assume, ad un volume ricco di riferimenti: f. capelli (a cura di), Per una geografia della morale. Dalla Cina all’Islam, dall’Europa all’America, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006.
[25] Cfr., i. giordani, Disumanesimo, Città Nuova (centro igino giorda ni), Roma 2007.
[26] d. tracy, On Naming the Present. God, Hermeneutics and Church, Orbis Books, Maryknall/New York 1994, p. 64. In realtà, già col Vaticano II si ha un superamento dell’etnocentrismo di marca europea: «Il Concilio riconoscendo la “pluralità delle culture” ha vanificato […] l’illusione […] secondo la quale esisteva una cultura perfetta […], quella occidentale dotta […] la Chiesa si rendeva disponibile a riconoscere la legittimità e ad accettare la molteplicità delle esperienze culturali, senza volerle monopolizzare e, allo stesso tempo, senza rimanerne prigioniera» (p. poupard, Il Vangelo nel cuore delle culture. Nuove frontiere dell’inculturazione, Città Nuova, Roma 1988, p. 13).
[27] Cfr., z. bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 216.
[28] h. blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, p. 37 e p. 49.
[29] g. campanini, Il tempo della fede. Le nuove vie della testimonianza cristiana, San Paolo, Milano 2007, pp. 10 – 11. Si comprende la portata “teologica” dell’inculturazione della fede e su quali scenari si apre il cristianesimo, in un momento di crisi della cristianità, leggendo m. defrança miranda, Inculturazione della fede. Un approccio teologico, Queriniana, Brescia 2002. Perché incoraggiare una mentalità esclusiva piuttosto che inclusiva? Si chiedeva una grande personalità religiosa indiana: «Perché un uomo […], nel caso diventi cristiano […], deve rompere con il suo ambiente? Quand’ero ragazzo, sentivo dire che diventare cristiano consisteva nel tenere una bottiglia di brandy in una mano e una bistecca di vitello nell’altra. Le cose ora vanno meglio, ma non è difficile trovare cristianesimo che sia sinonimo di de – nazionalizzazione e di europeizzazione» (mahatma gandhi, cit. da a. t. queiruga, Dialogo delle religioni e autocomprensione cristiana, EDB, Bologna 2007, p. 114).
[30] Cfr., j. – m. tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, p. 33.
[31] È stato detto con espressione lapidaria: «non c’è dialogo fra due religioni, ma solo tra persone che praticano e vivono la propria religione» (j. dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Cittadella Editrice, Assisi 1991, p. 352). Sulla necessità di intendere bene il valore del dialogo, del colloquio tra gli uomini ha parole penetranti la Costituzione Pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo donataci dal Concilio Ecumenico Vaticano II il 7 dicembre 1965: la Gaudium et Spes. Al n. 23, leggiamo: «tra gli aspetti più importanti del mondo d’oggi va annoverato il moltiplicarsi delle mutue relazioni tra gli uomini, al cui sviluppo molto contribuiscono i progressi tecnici contemporanei». La Chiesa non rigetta a priori le conquiste tecnologiche che favoriscono i contatti tra persone, ma ne espone anche i limiti. Continua il Concilio: «Tuttavia il fraterno colloquio tra gli uomini (fraternum hominum colloquium) non si realizza in questi progressi, ma più profondamente nella comunità delle persone, che esige un reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale» (Ibidem.). Il fraternum hominum colloquium auspicato nella Gaudium et Spes nei rapporti interpersonali è, a mio avviso, pure il fondo sul quale si rendono possibili e massimamente umani ed umanizzanti i colloqui – non tra culture e religioni – ma tra uomini di culture e religioni diverse.
[32] Cfr., e. chiavacci, «Gaudium et Spes. La novità teologica e le teologia della pace», in La primavera della Chiesa. A quarant’anni dal Concilio Vaticano II, piero ciardella (a cura di), San Paolo, Milano 2005, pp. 85 – 98; qui, pp. 87 – 88.
[33] p. jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004, p. 14.
[34] w. bühlmann, La terza Chiesa alle porte, Edizioni Paoline, Roma 1976, pp. 19 – 20.
[35] Cfr., e. dussel «Transmodernità e interculturalità (Interpretazione a partire dalla filosofia della liberazione), in Interculturalità come sfida. Filosofi e teologi a confronto, Dehoniane Libri e Pardes Edizioni, Bologna 2088, pp. 29 – 76; qui, p. 67.
[36] Cfr., f. laplantine – a. nouss, Il pensiero meticcio, cit. pp. 23 – 24.
[37] diego irarrazaval, «Inculturazione universale del Vangelo», in Interculturalità come sfida, cit. pp. 103 – 138; qui, p. 104.
[38] Quando Giovanni Paolo I, Pontefice per brevissimo tempo, disse che “Dio è Madre, donna”, suscitò stupore, se non addirittura, in qualcuno, scandalo. In realtà, non è così: aveva inventato nulla! Nella teologia cristiana delle origini, infatti, non si è taciuto l’aspetto materno di Dio (Nel Libro del profeta Osea, d’altra parte, ed in molti altri luoghi dell’Antico Testamento, l’immagine “materna di Dio” non è assente). Citiamo solo un caso rifacendoci ai Padri della Chiesa: «Dio è Padre, ma la tenerezza con cui ci ama lo fa diventare madre. Il Padre si femminizza amando» [clemente alessandrino, Qui dives salvetur?, 37, PG 9 (su Mc 10, 17 – 31) qui col. 642]. Non il cristianesimo dimentica questa lezione, ma la cristianizzazione lasciata in mano a chi ignora l’anima profonda della Tradizione cristiana.
[39] Riferito da d. pezzini, L’Altro e gli altri. Verso una spiritualità dell’ incontro, Ancora, Milano 2008, pp. 113 – 114.
Nessun commento:
Posta un commento