Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Esperienza della Fede

L’esperienza della fede e l’umiltà della domanda

Fede è esperienza: ‘uscire dall’ego’ (ex), ‘attraversare’ (per) il    mondo ed ‘andare’ (iri) verso la realizzazione piena di esso nell’aderenza più prossima a Cristo. Esperire, ‘fare esperienza’ di Dio imparando la contemplazione per le strade (Maritain). Da Nietzsche in poi pare non si esca dal dilemma: Città di Dio o città dell’uomo? Amore di sé fino al disprezzo di Dio o amore per Dio fino al disprezzo di sé? (Agostino). Intendendo il cammino di fede come attraversamento responsabile del mondo aderendo a Cristo, si supera l’aspetto dicotomico della questione. Il manifesto del credente impegnato è in una lettera di Bonhoeffer del 23 gennaio 1944: “Credo che onoriamo meglio Dio se conosciamo, sfruttiamo e amiamo la vita che egli ci ha dato in tutti i suoi valori e perciò anche avvertiamo acutamente e con franchezza il dolore per quei valori della vita che sono stati compromessi o perduti (…), piuttosto che restando insensibili ai valori della vita, in modo tale da poter essere insensibili anche nei confronti del dolore”. La teologia non è solo una scienza tra le altre, ma progetto di vita che salva e rinnova il mondo. Essa, per convertirsi in esperienza, deveconservando l’afflato eterno che la caratterizzafarsi compagna di strada dell’uomo contemporaneo. Il teologo compie un lavoro i cui frutti devono essere visibili in quanto, rileva Moltmann, nel suo caso “non si tratta semplicemente di interpretare in modo diverso il mondo, la storia e la natura umana, bensì di trasformarli nell’attesa di una trasformazione divina”. Per Bouilard, una teologia che non sa essere contemporanea è una falsa teologia e, aggiunge von Balthasar, teologia autentica si dà solo come la più grande irradiazione possibile nel mondo in virtù della sequela più vicina possibile di Cristo. Sequela indica viaggiare, andare, esperienza. In tedesco abbiamo Erfahrung che significa sia esperienza che viaggio: accettare il rischio di andare per vie nuove. Il dramma è aver fatto della fede Erlebnis che traduciamo ‘esperienza’, ma intendendola in accezione psicologica, privata: uno stato d’animo. Metz riflette: ad essere in crisi non è il messaggio contenuto nella proposta cristiana, bensì, noi che lo custodiamo e lo proponiamo. I credenti, polemizza, spesso si sottraggono al senso inevitabilmente pratico del messaggio infrangendo così la forza della sua intelligibilità. Sull’asse Bonhoeffer, von Balthasar e Metz si delinea la sfida di quella che sarà, per citare Mounier la futura cristianità.

Nessuno vive realmente, per dirla con Ungaretti, soltanto chiuso tra cose mortali e chi pensa di riuscirci, come il poeta, finisce col chiedere: perché bramo Dio? L’humana conditio è questa: “L’uomo incessantemente sporge querela contro Ignoto” (Valéry). Querela nel senso di ‘quaerere’, chiedere. Si interroga anche se l’interlocutore resta Ignoto! Il dramma è che all’indebolimento delle domande autentiche corrisponde – soprattutto nell’universo giovanile – una svalorizzazione generale della cultura; e, diceva Lonergan, la crisi che viviamo non riguarda la fede, ma la cultura. Credere che operino in campi eteronomi è uno dei mali del nostro tempo prigioniero di un pensiero dicotomico. Lavorare di cesoia è proprio delle anime rattrappite sia che si mettano al centro le realtà terrestri, sia che primeggi il celeste. I grandi teologi non ragionano così. Tommaso d’Aquino, scrive: “È cosa naturale per l’uomo di giungere alle cose intelligibili attraverso quelle sensibili, perché ogni nostra conoscenza prende inizio dai sensi. Pertanto, con molta convenienza nella sacra scrittura ci vengono  offerte cose spirituali sotto metafore tratte dai corpi”. L’esperien za della fede impone una mentalità ermeneutica: interagire col testo sacro per scoprire come ci legge e non solo per capire cosa vi leggiamo. Si cresce mentre cresce la conoscenza delle Scritture. Ma in esse si fa riferimento al mistero, mai svelato del tutto! Pareyson propone una ontologia dell’inesauribile perché, è stato detto, quanto più si naviga, tanto più in Dio si scoprono mari nuovi. Crescere nella fede è un percorso che coincide con la vita perché, come dice Guardini, l’Eterno ha urgenza di realizzarsi. Dalla Parola che si comunica comincia la pro – vocazione e l’uomo di fede è l’ermeneuta che si fa scolaro per sempre dell’ Ermeneuta per eccellenza, Cristo, perché di Lui trattano le Scritture. La teologia ermeneutica non è una delle tante procedure teologiche, ma il destino della teologia (Geffré). Fare esperienza della fede, tuttavia, non significa stare di fronte all’inesauribile impaludandosi in una giostra di infiniti rimandi tra segni: durante il percorso si trovano tesori e, per segmenti, si accresce la nostra esperienza di credenti. Munendosi di scorte lungo il viaggio si evita che una ontologia dell’inesauribile da avventura si trasformi in maledizione.

Si pensa che ‘fare esperienza’ sia o ‘avere stati d’animo’ o ‘aver fatto qualcosa di definitivo e di irreversibile’. Nel primo caso, si tratta di Erlebnis: stati d’animo che non durano abbastanza da inserirsi in qualcosa di coerente; invece, è la Erfahrung che consente di accumulare tesori. Questo termine indica il ‘viaggiare’, dicevamo. Chi viaggia si apre all’imprevisto. I fuggevoli stati d’animo li sperimentiamo, ma non costituiscono qualcosa che possa essere richiamato e valere in occasioni nuove. Ne deriva un sapere senza continuità, che non ammette applicazioni future. L’uomo esperto, inoltre, non pensa che in quanto ha conosciuto possa fermarsi a lungo: “uomo esperto – scrive Gadamer - non è solo chi è diventato tale attraverso delle esperienze fatte, ma chi è anche aperto ad altre esperienze” e perciò “appare (…)non dogmatico” in quanto “avendo fatto tante esperienze e avendo tanto imparato (…)è appunto particolarmente capace di fare nuove esperienze e di imparare da esse”. Fare esperienza della Parola significa consegnarsi smarriti all’ inesauribile, attaccarsi a quanto trovato: occorre sviluppare una fedeltà creativa. In sede ermeneutica, quando il viaggio avviene leggendo la Bibbia, si tratta di capire cosa il testo ci dice inquadrandolo nella sua realtà storica e poi attualizzarlo. In ogni caso, il conosciuto ha valore solo se non blocca il desiderio di conoscere; quanto “realmente si trova ‘all’interno’ dell’esperienza ha un’estensione molto più ampia di ciò che viene conosciuto” (Dewey).

L’uomo, dall’Illuminismo in poi, si ritiene sempre più adulto e considera la Legge divina opprimente eteronomia trascendentale (Ferry). Il nomos che informa e regola la nostra vita è eteros, proviene da ‘fuori’, si impone! In realtà, la Parola – quando la fede si fa viaggio rischioso, ci legge dal di dentro. Si è trasformata una scelta culturale (fare come se il Trascendente non fosse o intenderLo quale forza eteronoma)in destino: il “destino – scrive Weber – ci impone di vivere in un’epoca senza Dio e senza profeti”. Scelta, invece, non destino è ritenere esperienza solo quanto attiene alla conoscenza scientifica. I nostri dubbi nascono, frutti malati, su due tronchi teoretici innestati nel cuore dalla modernità da Marx e Nietzsche; per il primo, tutto si risolve all’interno della Storia; per il secondo, il cristianesimo è una menzogna che tutela i deboli. Eppure, Weber confessò a Baumgarten che si è onesti solo ammettendo che il “mondo nel quale noi spiritualmente viviamo è (…)profondamente segnato da Marx e da Nietzsche”. Ma nei due filosofi non agiva il lascito ebraico – cristiano? Nietzsche poté definirsi l’Anticristo perché c’è un Cristo al quale contrapporsi. Marx convertì il messianismo ebraico e l’escatologia cristiana in progetto storico. Cosa accadde quando un progetto esclusivamente umano soppiantò quello cristiano? Si verificò quanto sostenne Barth: quando il Cielo si vuota di Dio, la terra si popola di idoli. Bisognerebbe in primo luogo non aggredire il lascito cristiano con strumenti critici ad esso totalmente estranei. Maurice Bellet situa nel religioso stesso la criticità ed intitola la sua tesi di filosofia La funzione critica nella certezza religiosa. La critica deve agire internamente alla certezza di fede. È sbagliato ritenere che il teologico sia la patria delle certezze; la vera esperienza teologica è Erfahrung, ‘viaggio, un attraversare’ che, a quanto acquista, accompagna seri rischi. Camus invitò a pensare con chiarezza e a non sperare più. Si fa autentica esperienza del pensare rinunciando alla speranza? Seguendo Bellet, dobbiamo, piuttosto, imparare a pensare criticamente nella certezza religiosa.

Intrappolarsi in una visione meramente cronologica della storia spegne lo slancio vitale che permette di sperimentare se nel presente vi sono segni di Redenzione: “Il tempo come tale non ci permette di venire a capo di alcunché fino a quando non ci porremo di fronte al suo mistero, all’eschaton in esso nascosto” (Schütz). Le vicende storiche, soprattutto quelle contemporanee, hanno dimostrato che pasque laiche e soteriologie orizzontali non mantengono quanto promettono. Il credente vede in Cristo la ricapitolazione ed il senso di quanto accade. Non trovare coerenza in quanto accade è la prima causa della non comprensione di sé: “Senza unità, che abbracci tutta la molteplicità della realtà, il mondo sarebbe solo un mucchio di rifiuti sparsi senza ordine e senza senso” (Kasper). Dice Horkheimer che voler salvare un senso incondizionato senza Dio è presuntuoso. Se ci si ritrova soli di fronte al mondo, quanto esiste appare sovrabbondanza ingiustificata di enti; le cose sembrano fini a se stesse e questo, dice Sartre, dà nausea, tedio. Kierkegaard afferma che nulla “di finito (…)nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno”, di un TU Uno e Trino che, assunto a modello dei rapporti umani, inaugura una antropologia relazionale. La teologia cristiana, pensando la Trini, mostra come sia possibile salvare Identità e Relazione.

La vita cristiana è ecclesiale, comunitaria in ossequio alla concezione trinitaria di Dio. Bonhoeffer affermò che il credente riceve gioia e fortificazione abbondanti dalla presenza fisica dei fratelli. Gregorio Nazianzeno propose una teologia breve e semplice della Trinità: “Partendo dalla luce, che è il Padre, comprendiamo il Figlio nella luce, cioè, nello Spirito”. Ad essa corrisponde un’antropologia teologica la cui proposizione centra le, recita: siamo aperti all’altro/Altro. La comunità cristiana, la Chiesa, fondandosi sul mistero della Trinità – fa esperienza della fede viaggiando verso la piena umanizzazione degli uomini. Scrive Turoldo: “Realizzare un uomo è una delle cose più difficili della terra. Tant’è vero che quando ritroviamo un santo diciamo: Ah, questo sì (…)è un uomo di Dio! Dove c’è pienezza di umanità, lì c’è Dio. Dove non c’è umanità, non c’è Dio. Là dove c’è questa umanità, lì c’è chiesa (…)perché la chiesa è il sogno di Dio, che è l’umanità composta nell’amore”. L’esperienza della fede è autentica quando muove verso l’umanizzazione di ogni uomo, di ogni comunità “mantenendo sempre aperta la Chiesa alla ri – forma, ossia al superamento di ogni sua forma storica, nella costante ricerca della maggior fedeltà possibile verso la forma originaria, che altro non è se non lo stesso Cristo”(Xeres). Giovanni Paolo II, profetizzava: “Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarci”(Nuovo millennio ineunte, 58).

La Chiesa deve perseguire la propria ri–forma mantenendo, nel contempo, la maggior fedeltà possibile a Cristo che ne è la forma originaria. Questo è fedeltà creativa. Col cristianesimo, spiega Regina Ammicht - Quinn, la religione si dà come rischio poiché pone la ‘questione della verità’ che non è possesso certo ed immutabile. Il rischio si accompagna ad una promessa: a prescindere da qualsiasi prestazione intellettuale, culturale, morale siano in grado di offrire le persone vengono accettate. Da questa apertura all’altro parte il cristianesimo per “sottoporre a verifica ciò che è abituale e” per riuscire a “schiudere a se stesso e al mondo un futuro”. Non è del tutto vero, poi, che Chiesa e mondo moderno siano drasticamente contrapposte: può aprirsi alla realtà odierna perché molte delle istanze che essa avanza sono la riscrittura di insegnamenti cristiani. La Rivoluzione francese mise a fondamento del suo credo valori cristiani anche se pensò di metterli al riparo dalle critiche ricorrendo alla ghigliottina. Vattimo, mai tenero con la gerarchia ecclesiastica, scrive che “gran parte delle conquiste teoriche e pratiche, fino all’organiz zazione razionale della società, al liberalismo e alla democrazia – della ragione moderna sono radicate nella tradizione ebraico – cristiana, e non sono pensabili al di fuori di essa”.

Oggi si ricercano nuove forme di religiosità. Se nella ‘fede’ primeggia il dio rivelatoci, nella religiosità postmoderna prevale la ricerca di elementi che possano garantire una vivibilità migliore. Marco Gallizioli parte dall’assunto che il mondo dello spirito, nella contemporaneità, ottiene diritto di cittadinanza nelle nostre esistenze solo se soddisfa il ‘bisogno religioso’ che si configura come necessità del ‘palpito, del sentimento, dell’emozi one’. Non che nell’esperienza della fede ciò debba mancare, ma non ne è la componente primaria. L’uomo postmoderno reagisce  alla tecnocrazia, ad una vita stressante cercando nel religioso di  ravvivare desiderio, immaginazione, divenendo “un moltiplicatore di emotività”. Un ruolo importante, ora, svolge il corpo e salvezza equivale a rintracciare nel religioso anche   elementi terapeutici (si pensi al successo in Occidente dello yoga). La disarmonia tra sog getto e cosmo richiede una rivisitazione del concetto di conversio ne: salvare il corpo è il solo modo di salvare mente e spirito. Si fugge verso Oriente, spiega Gallizioli, perché l’esigenza del credente occidentale è di “provare nuovamente emozione per il sacro, lontano dalla polvere dei trattati di teologia”. I rituali devono svolgersi con la massima spontaneità perché si avversano gli schemi nei quali “è immobilizzata certa liturgia”. Il ritorno allo spirituale non significa affatto, perciò, “un revival della  teologia”; si privilegia ciò che consente di “sperimentare (…)un senso di intuitiva appartenenza a Dio e alla Totalità”. La nuova spiritualità è cosmobiologica: dobbiamo sentirci inseriti in un macrosistema come una delle sue componenti. Salvezza personale ed universale coincidono! La nuova religiosità non è priva di etica, bensì – precisa Gallizioli – “fonda un discorso etico proprio a partire dalla radicale sacralizzazione di ogni realtà, che va rispettata e non traviata”. Capita, nelle nuove tendenze religiose, di essere più animalisti, ecologisti che umanisti.

Il gap che rende improponibile la fede tradizionale sta in un atteggiamento denunciato da Ringlet: “I nostri contemporanei vogliono senso sì, ma rifiutano il pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme”. Il normativo viene svalutato se lo si coglie come eteronomia trascendentale. Se la morale cristiana risulta estranea al nostro status ontologico la si rifiuta; tuttavia, le proposte orizzontali non riescono a produrre senso laddove sono state dichiarate fallite quelle verticali. Ringlet suggerisce alla Chiesa una straordinaria conversione: “proporre senso senza rinchiuderlo. Un senso che dia respiro”. Non dimentichiamo, però, che possiamo dirci cristiani perché c’è la Chiesa ed essa c’è solo se la testimoniamo: “Io predico perché esiste la Chiesa e predico perché nasca la Chiesa” (Bonhoeffer). Dobbiamo proporre un senso arrischiandolo nelle travagliate microstorie e macrostorie del mondo contemporaneo. In realtà, “il luogo originario della fruttificazione dello spirito è il quotidiano” (Rizzi). Avere come guida e riferimento il Dio Uno e Trino incardina l’esperienza della fede sul valore alterità ed essendo l’ Altro il Padre, si evita l’individualismo liberticida in favore di una antropologia filiale: “Essere figli di Dio significa procedere mano nella mano con Dio”(Edith Stein). Qualsiasi cosa facciamo bisogna che significhi e non si esaurisca nell’ora e facendosi segno che rimanda ad altro/Altro. A contare, qui, è il Referente (non empirico)al quale rimandano i segni e non i segni in se stessi. È il Totalmente Altro che dona senso ai segni. Ha scritto De Saint – Exupéry che “per il marinaio Dio dà un significato al mare (…)per lo sposo dà un significato all’amore. Però ci sono ore in cui il marinaio si chiede: ‘Perché il mare?’. E lo sposo: ‘Perché l’amore?’. E lavorano nella noia. Nulla manca loro, fuorché il nodo divino che lega le cose. E tutto manca”. Cioran, al contrario, afferma che chi va troppo oltre nella ricerca del senso “alla fine (…)si trova innanzi a profondità vuote. Rimpiangerà invano il manto delle apparenze”. Pessoa oppone che avere un dio equivale a non provare mai tedio; tuttavia, avverte che talvolta si crede in una religione come se si indossasse una maschera che, mano a mano, si dimentica di essersi messa sul volto. Qui, il dio che si ha (ma il Dio vero si dona)genera ugualmente noia perché credere è consapevolezza e non abitudine!

Barbara Kingsolver è l’autrice del romanzo Gli occhi negli alberi. Racconta l’esperienza fallimentare di un predicatore fondamental ista di fede battista missionario in Congo. Le voci narranti sono la moglie e le quattro figlie vittime del capofamiglia che non accetta le usanze del luogo. In quel villaggio del Congo il predicatore vede anime dannate e che solo Gesù Cristo può salvare. Talmente grande è lo scollamento che patisce nei confronti della cultura indigena che pretende di coltivare un giardino con semi della Georgia che, ovvio, lì non sono produttivi. Battezza immergendo i neonati in un fiume e non tiene conto che i coccodrilli vi abbondano e non è facile per i genitori accettare questo rito. Il predicatore resta legato al modello di vita occidentale anche quando – per operazioni finanziare poco chiare – perde tutti i suoi soldi. Saranno le figlie a stancarsi di questa  rigidità mentale ed inclineranno all’agnosticismo, all’ateismo. Il suo predecessore, cattolico, agiva nella maniera opposta: in parte conciliò modi di vivere e credenze autoctone con il contenuto della sua evangeliz zazione. Il risultato, però, frustrò lo sforzo: venne radiato dalle istituzioni religiose occidentali! A volte, doloroso ammetterlo, la Chiesa ha agito bocciando una fede inclusiva! Essa, dunque, prima di convertire deve convertirsi, sosteneva Turoldo, da una religione sbagliata alla fede: “Il Dio della religione è quando tu pensi che il tuo Dio sia migliore del mio, e io (…)che il mio (…)sia migliore del tuo e perciò ci facciamo le guerre in nome di Dio”. Il Dio della fede si rivela mettendo in crisi le nostre categorie di pensiero. Era presente Dio in mezzo ai soldati nazisti che avevano fatto incidere sui cinturoni ‘Dio è con noi?’. In questi casi è l’uomo a creare Dio a sua immagine somiglianza ed i frutti si vedono. Affinché non si cada in certe aberrazioni, si accolga il monito di Turoldo: “Bisogna modellare gli uomini sul vangelo, non il vangelo sugli uomini”.

Quello che conta è non svolgere un ufficio ermeneutico fine a se stesso nel rapportarci ai testi sacri; non conferire autorevolezza asfissiante alle norme che guidano alla ricerca del senso; non essere religiosi per abitudine. Il Dio Uno e Trino è il Fondamento sul quale fondare criticamente il dialogo col mondo; essere fedeli in maniera creativa significa guardare non al Dio Motore Immobile, ma al Dio pathos, l’Altro che vuole esserci per altri e con altri. Solo così polverizziamo il deprezzamento del modello trinitario come alimento dell’ethos umano operato da Kant: “Dalla dottrina della Trinità presa alla lettera, non è assolutamente possibile trarre nulla per la pratica anche se si credesse di comprenderla, tanto meno poi se ci si accorge che essa supera ogni nostro concetto”. In realtà, pensare il Dio Uno e Trino entro categorie etico – antropologiche significa superare una filosofia del soggetto impantanata nell’egologico ed aprirsi alla fruttuosa avventura dell’alterità. La questione dell’Altro impregna di Trascendente l’ethos del mondo. Non si tratta di riflettere sul rapporto etica/religione, ma di comprendere che la sfida etica coincide con le provocazioni teologiche: “Il problema etico – scrisse Bonhoeffer – è identico al problema di Dio. Non aspetta che noi ce lo poniamo, ma è esso che all’inizio si pone, stabilmente ed incondizionatamente, a priori”. La categoria centrale è l’Amore non inteso come sentimentalismo vago: Qualcuno, attraverso il dono di Sé, configura il vivere in una dimensione agapica. L’amore cristiano si apprende restando esposti a Dio ininterrottamente. Si legge nella Imitazione di Cristo: Tacciano tutti i maestri, tacciano tutte le creature, dinanzi a te: tu solo parlami. Lo studio della Parola suscita la consapevole zza di trovarsi tra le mani, per dirla con Kierkegaard, una lettera d’amore che Dio scrive all’umanità. L’amore è la questione centrale per il cristiano. Fare teologia, ermeneutica biblica senza nutrirsi della Parola per sostituire un cuore di carne ad un cuore di pietra è un fallimento. Di fronte alla Bibbia ripeti quello che Goethe diceva dei libri profani: Ciò che in mille libri ti appare/ come favola o verità/tutto è torre di Babele/se non c’è l’amore che unisce.

La fede “non va compresa sulla falsariga di un qualsiasi rapporto umano, bensì a partire dal rapporto tra Gesù Cristo e il Padre (…). Come criterio ermeneutico decisivo va assunto l’evento cristologi co, ed in particolare la fides Jesu che deve valere come riferimento normativo”(Ardusso). Gesù non mostrò esteriormente o in maniera meramente cultuale di essere fedele al Padre, ma giunse a consegnare se stesso nelle mani dei suoi persecutori per obbedienza amorevole. Trasformare in ‘virtù borghesi’ tutto questo è un tradimento inaccettabile. Mounier non gradiva che in Occidente il cristianesimo eleggesse a proprio riferimento una tavola di valori avente, quale componente sociologica, la realtà borghese e piccolo borghese. Se un tempo le eresie minacciavano il cristianesimo, oggi il pericolo è l’indifferenza. Se la fine del cristianesimo è vicina si tratta, in realtà, della morte della cristianità occidentale. Per Mounier, la futura cristianità prenderà forma grazie a strati sociali nuovi o a causa di nuovi innesti extraeuropei. Fu buon profeta: le teologie sorte in America latina, nel Terzo Mondo confermano la sua tesi. Si darà, ad ogni buon conto, una nuova cristianità che, concludeva Mounier, non va soffocata con il cadavere dell’altra. Leggere senza odio il nuovo e non commettere infedeltà verso il deposito della fede è la sfida del presente alla teologia!

Pascal annota che, senza darcene pensiero, corriamo verso l’abisso, ma prima abbiamo provveduto a porre davanti ai nostri occhi qualcosa che ce lo nasconda. La fede non sarà mai qualcosa che occulti la catastrofe. L’uomo di fede è un realista che non smette di sperare. Credere è ammettere un di più circa il senso delle cose, non un procedere per eliminazione. La verità cristiana non è esclusiva, bensì, inclusiva. Non mortifica e non esalta Storia e realtà terrestri, ma sta in esse non come prigioniera: “la verità cristiana è nella storia, ma allo stesso tempo supera la storia. È, infatti, un’apertura sulla trascendenza: nella luce del Cristo, ci apre una via d’accesso alla comunione con Dio” (I. De La Potterie). La mistica riguarda l’hic et nunc e l’eschaton. Bergson passò in rassegna varie forme di misticismo: ellenico, indiano e cristiano; quest’ultimo, poi,  venne definito completo. Ai primi due, invece, mancò il rapporto con l’azione. È l’azione, dice Bergson, che rende completo il misticismo. I mistici cristiani furono passivi verso Dio, ma attivi nei confronti dell’uomo. Nell’azione ogni uomo si fa partner di Dio partecipando all’emozione creatrice che innerva il processo dello slancio vitale. L’uomo partecipa alla creazione di Dio in maniera responsabile. Mondo e uomo sono sempre in fieri quando crescono col lievito della verità cristiana.

Maria Zambrano ritiene che ipotizzare un’apparizione dell’uomo nel mondo come umanità pienamente realizzata svuoterebbe di senso, rendendola incomprensibile, la Storia che è, piuttosto, rivelazione progressiva dell’uomo. Pur non coincidendo la sua idea di persona con il personalismo religioso, né con quello umanistico o pragmatico – sociale, rileva nell’umano una eccedenza, una tensione che caratterizza il tempo, la storia. Può sembrare paradossale, conclude, ma la storia esiste proprio perché l’uomo, non esaurendosi in essa, oltrepassandola, la determina. In questo viaggio patiamo crisi di senso? Zambrano, risponde: “è proprio (…)quando il mondo è in crisi e l’orizzonte che l’ intelligenza esplora appare oscurato da imminenti pericoli, quando la ragione sterile si ritira, rinsecchita dalla lotta senza risultato, e la sensibilità spezzata raccoglie solo il frammento, il dettaglio, che ci resta solo una via di speranza: il sentimento, l’amore, che, ripetendo il miracolo, torni a creare il mondo”. L’esperienza autentica della fede si nutre di amore che è l’unica forza – avente per Fondamento Dio – che ripete il miracolo delle origini continuando a creare il mondo. L’uomo si scopre teomorfo dopo che Dio si è rivelato, in Cristo, come antropomorfo. Si può giungere anche a fondersi in Dio come sperimentò il santo Padre Pio da Pietralcina: Finita la messa, mi trattenni con Gesù nel rendimento di grazie. Oh quanto fu soave il colloquio tenuto col paradiso in questa mattina! Fu tale che pur volendomi provare a voler dir tutto non lo potrei;vi furono cose che non possono tradursi in un linguaggio umano, senza perdere il loro senso profondo e celeste. Il cuore di Gesù e il mio (…)si fusero. Non erano più due cuori che battevano, ma uno solo. Il mio cuore era scomparso, come una goccia d’acqua che si smarrisce in un mare.

Da studente, Romano Guardini patì una crisi religiosa. La sera tentava di pregare, ma non sapeva a chi rivolgersi! Riesaminava le prove filosofiche dell’esistenza di Dio, ma invano…Quando espose questi argomenti ad uno studente di storia dell’arte di fede kantiana, vide andare in fumo anche i miseri ancoraggi teoretici. Kant, sappiamo, li aveva impietosamente demoliti. Guardini, appena ventenne, concluse: “tutta la fede mi si dissolse; più esattamente, notai che non avevo più fede”. Il dio che viene con la filosofia con la filosofia se ne va. Una via d’uscita si materializzò nelle settimane seguenti quando Romano si lasciò interrogare dal Vangelo. In una piccola mansarda, a casa dei genitori, commenta con un amico, studente di teologia, un passo di Matteo (10,39): chi vuol conservare la sua anima, la perderà; chi la dona, la salverà. Comprese cosa davvero gli importasse: “Mi era divenuto a grado a grado chiaro che v’è una legge secondo la quale l’uomo, quando (…)rimane in se stesso e accetta come valido soltanto ciò che gli appare immediatamente evidente, perde la realtà essenziale”. Sedette al suo tavolino e si domandò: a chi dare davvero la mia anima? Chi è veramente il destinatario del mio cercare? Di che (o di Chi)deve informarsi la mia esperienza? Non si trattava di rispondere semplicemente ‘Dio’ perché, dicendolo con leggerezza, l’uomo intende sempre e solo riferirsi a se stesso! Quello che il giovane cercava era “una istanza oggettiva, che possa trar fuori la mia risposta da ogni nascondiglio dell’affermazione di sé”. Concluse che quella istanza oggettiva è la Chiesa.

Parlando di un Padre della Chiesa, Kierkegaard disse che si esprimeva con tutta la sua esistenza. Tale pienezza non è titanismo; si tratta, piuttosto, di formarsi con il giusto nutrimento spirituale. Agostino comunicò ai fedeli: “Vi nutro con quello che mi nutre; vi offro quello di cui vivo io stesso”. Dispensava i doni ricevuti! Con la capacità di ricevere si sviluppa quella di donare. Essere ricettivi è fondamentale per chi fa teologia perché, così, riconosce il primato dell’Oggetto (Dio)sull’Io. Si fanno domande sapendo che la risposta è altrove. Ne Il Pastore di Erma, antico scritto cristiano attribuito ad Erma (un liberto romano convertito)una vecchia – che simboleggia la Chiesa popolata da credenti di scarso fervore – dice: Ogni domanda ha bisogno di umiltà. ‘Umiltà’, humus,  evoca ‘terra’; l’uomo si pone domande solo da un angolo di mondo ben delimitato, nel tempo esiguo della vita terrena. Se si pretende di andare dall’Io a Dio si fanno circolare, incautamente entusiasti, quelli che Heschel chiama i moderni vangeli della disperazione. Il farsi domande, le idee, divengono fumo cerebrale, teoretica sganciata dall’humus! Sartre, uno degli evangelisti disperati, sostenne che assurdo è sia essere nati che il dover morire. Schopenhauer si arrovellava, invano, sul quesito: se la vita è un male, perché ci viene data? Se un bene, perché ci viene tolta? Quando le grandi domande vengono poste senza umiltà, originano ‘circoli viziosi’ che mandano in cortocircuito il pensiero! Sarebbe bene, piuttosto, seguire il consiglio di Cristina Campo: afferriamo un’idea come se fosse un pezzo di pane. In accezione teologica l’invito è ancora più sensato perché, a queste latitudini, la Verità è Qualcuno che si è donato come pezzo di pane (Eucaristia). Cristo è pane vivo disceso dal cielo (Cfr., Gv 6, 21 – 71; 6, 35; 6, 51). De Unamuno, diceva: Dio non è un’idea, è un Essere con cui si vive in rapporto. Il credente è, innanzitutto, consapevole di poter avere e dare solo ciò che ha ricevuto. Penso con qualche perplessità, perciò, alla simpatia con la quale molti guardano alle credenze orientali o alle cosiddette religioni fai da te affidandosi a discutibili forme di sincretismo religioso. Si vogliono individuare vie di fuga da un cristianesimo zavorrato di dogmi ed imposizioni. Claudel, però, notava: se per gli indù tutto è illusione, per i cristiani tutto è allusione; nel primo caso, si tende a svalutare il concreto, l’io; nel secondo, si assegna al mondo ed all’io il giusto valore. Nel fenomenico ci sono tracce di Dio, semi di Dio. Il cristiano non deve svalutare la realtà, né ritenerla illusoria, bensì, allusiva: rimanda a Dio. Se quanto mi sta davanti è opera di Altri ed a Lui rimanda, nulla è mio, ma ne sono il custode. Kierkegaard, acutamente, sottolineava: “Mio non è ciò che appartiene a me, ma ciò a cui io appartengo”.

Ogni uomo, in particolari momenti, pone una domanda: di chi sono, a chi appartengo? Questo quesito, purtroppo, per lo più è minacciato da un’amnesia. Nel Libro del Profeta Baruc, capitolo 4, v. 8, si legge: avete dimenticato chi vi ha allevati, il Dio eterno. Chi cerca il senso deve ritrovare la memoria della propria origine. Per Guardini i modi per arrivare a credere sono tanti quanti gli uomini che popolano la terra! In questi ambiti il domandare ci investe, talvolta, a prescindere da noi. Se penso che la risposta appartenga a me, fallirò nella ricerca; se, invece, come insegna Kierkegaard, so che è mio ciò a cui appartengo, imparo che la verità è una relazione reale con Qualcuno. Solo l’Io elefantiaco intralcia il cercarci di Dio. Rabbi Michal citava Deuteronomio 5, 5: ‘Io sto tra il Signore e voi’ e spiegava: l’io è un ingombro tra Dio e noi. Accettare che la risposta alla domanda sul senso venga da altrove, genera sofferenza e richiedere un lungo esercizio della pazienza.

Saper attendere, aver pazienza, è modus agendi divino! Rabbi Mendel ricordava Deuteronomio 6, 6: ‘e queste parole che oggi ti do per comandamento ti staranno sul cuore’; perché non è scritto nel cuore? Perché, spiegava, a volte il cuore è chiuso alla Parola ma questa soggiorna su di esso attendendo che si apra. Anche Dio, quando si fa domanda, si comporta in maniera umile: attende sul cuore che, spera, si apra a Lui. Questo, ovvio, se è richiesto a noi, genera sofferenza. In ebraico, sofferenza è sebel da cui deriva sablanùt ‘essere paziente’ e soblanùt ‘tolleranza’. Pazienza e tolleranza danno sofferenza, ma nel domandare con umiltà ciò si rende inevitabile. Dobbiamo uscire dalle secche dell’ego come Israele uscì dall’Egitto che, non a caso, in ebraico si dice Mitzraym ‘luogo angusto’. Un midrash sostiene che far uscire Israele dall’Egitto è stato più facile che far uscire l’Egitto dal cuore degli Ebrei. Nel deserto, infatti, rimpiangevano i miseri pasti della schiavitù. Nella Mishna il rabbino Gamaliele scrive che ogni uomo, in ogni generazione, viene personalmente liberato dalla schiavitù in Egitto. Non solo dato storico, bensì esperienza personale: l’uomo è una creatura che cade. Lo si incontra più spesso in terra che in piedi (Don Mazzolari). In terra, sull’humus (da cui umile). Terrei a precisare che, più che farsi domande, la vita cristiana consiste nell’animare una sequela. Come disse agli abitanti di Filadelfia Ignazio di Antiochia, apprestiamoci “a imitare Gesù come egli imitò il Padre”. L’unica risposta concessaci è il all’appello di Dio. Il vescovo Vincenzo Paglia, in dialogo con Giuliano Amato, precisa: “Spesso quando parliamo di fede ci si ferma unicamente al bagaglio delle ‘verità di fede’, dimenticando che la fede è anche il coinvolgimento totale della persona umana con Dio (…)il credente non è semplicemente colui che aderisce a verità di fede, bensì chi si lascia coinvolgere esistenzialmente da esse (…). Non a caso nel Credo diciamo credo ‘in’ Dio e non credo ‘che c’è’ un Dio; la fede implica l’affidarsi a Dio e non semplicemente ammetterne l’esistenza”. Affidarsi è un atto affettivo oltre che intellettivo. Nel linguaggio teologico Logos – che in filosofia significa ‘ragionare, parola’ – si dà come pezzo di pane da afferrare e non come idea da pensare. Il Cristo/Logos dà visibilità a Dio facendosi afferrare come pezzo di pane (Eucaristia). Giustino Martire, che conosceva il pensiero greco, scrisse che la Ragione divenne uomo e si chiamò Gesù Cristo. Per il credente il logos non suscita investigazione teoretica perché, incarnandosi in Cristo, diviene Logos che ci fa comprend ere mentre ci comprende. Se nel pensiero filosofico il logos è psicologico (l’anima di fronte a se stessa), nella Rivelazione il Logos è ontologico, l’Altro di fronte a noi (siamo esposti alla radicale alterità, Dio, ma non alla radicale estraneità).

La mentalità ebraica incentra il Mistero sulla lettera, sul Nome, ma ciò non significa che il linguaggio venga idolatrato. Se tutto è stato creato con le lettere della Torah Dio risponde alle nostre domande se umilmente ci confrontiamo con la Parola. Il libro dello Zohar afferma che il corpo umano e quello terrestre sono l’immagine della Torah. La creazione di Dio non può non essere cosa buona; per la Ghematria (che assegna valore numerico alle lettere), infatti, YHWH (Sacro Tetragramma)ha per cifra 17: lo stesso valore numerico di tov ‘ciò che è bene, buono’. La creazione inizia con la seconda lettera dell’alfabeto, bet, perché la si trova nella parola Berakah ‘Benedizione’; anche se Alef è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, viene esclusa perché contenuta nella parola ‘arur, ‘maledetto’. Una certezza, dopo queste precisazioni, abbiamo: Dio opera solo il Bene! Noi, diceva Hugo, non possiamo agire sull’insieme, ma solo sul dettaglio perché ciò che sta in alto sta in alto; tuttavia, quei ‘dettagli’ costituiti dalla Storia e dalle nostre vicende biografiche sono i luoghi nei quale si concretizza o fallisce il progetto di Dio. Se lasciamo cadere – per finta umiltà, per indifferenza – la domanda espelliamo il Trascendente dalla Storia, dalle storie e faremo i conti con il dubbio di Malraux: “In un mondo in cui Dio è morto, l’uomo potrà sopravvivere?”. Sarà bene, ad ogni modo, ricordare con Schillebeeckx che l’autorivelazione di Dio viene non dalle ma  nelle nostre esperienze.

Del Dio che si rivela nella fede ebraico – cristiana si possono cogliere anche la caratteristiche affettive. Secondo la tradizione hassidica Dio ha dei luoghi segreti nei quali si ritira per non farsi vedere piangere e si trovano nelle profondità dell’anima umana. Per la Cabala l’acqua è simbolo dell’hesed ‘bontà’, misericordia divina. La Torah viene paragonata ad acqua che scorre dall’alto verso il basso e sta a noi aprire spazi per raccoglierla. La pressione che l’acqua esercita deve far crollare le nostre resistenze e liberare l’emotività. Il Salmo 39, v. 13, recita: non essere sordo alle mie lacrime. Non è più logico dire ‘guarda le mie lacrime’? I sapienti di Israele, spiegano: Dio percepisce le lacrime anche non vedendole. Parlare con Dio più che parlare di Dio esige un logos patico, affettivo. Nel primo trattato del Talmud si legge: lammed leshonkà lomar: enì jodea’ ‘insegna a dire alla tua lingua ‘non so’’ affinché “non ti tocchi di essere preso per mentitore”. Non bisogna presumere troppo dai propri logoi. C’è un versetto, il 19, del Salmo 119: gher anokhì ba – arez ‘io sono straniero sulla terra’; ebbene, un midrash lo attribuisce a Dio che si considera straniero sulla terra perché, sebbene ci venga a cercare, non ci facciamo trovare. Quando lasciamo che si accenda in noi la domanda l’umiltà consiste nel riconoscere che chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato (Kafka).

I profeti sanno leggere nel presente indicazioni di pregnanza escatologica e, proprio per questo, quasi sempre vengono attaccati, derisi e volontariamente fraintesi. Don Mazzolari, a causa del suo sguardo profetico, non trovò comprensione presso Montini, arcivescovo di Milano; ma quando divenne Paolo VI, rivalutò le idee del sacerdote spiegando che “i profeti corrono troppo e a noi manca il fiato per stargli dietro; per questo si capiscono solo dopo”. Quando ci si pone in ‘certe domande’ bisogna vigilare attentamente per comprendere da dove giungano risposte. L’attenzione è, secondo Malebranche, la preghiera naturale dell’anima. Interroghiamo chi è sul retto cammino e la Scrittura. Il domandare del credente deve, infatti, anche essere umile interrogazione della Bibbia (che pure ci interroga)perché, insegna San Girolamo, ignoratis scripturarum, ignoratio Christi est ‘l’ignoranza delle Scritture è ignoranza intorno a Cristo’. Deve esserci, in chi si interroga e si fa interrogare dal mistero della fede, un atteggiamento vigile; occorre cercare con desiderio intenso. Anche questo significa imitare Gesù. In Luca 12, 50 incontriamo un termine greco synékhomai, ‘ansioso’. Così definisce il suo stato d’animo Gesù in attesa che il Battista Lo battezzi. In Luca 22, 15, poi, il Maestro afferma di avere epithymìai epethymesa ‘intenso desiderio’ di mangiare la pasqua con i discepoli. Atteggiamenti affettivi non sono corpi estranei nell’esperienza della fede.

Partendo dalla nostra situazione concreta possiamo tornare ai contenuti evangelici e rinvenire atteggiamenti di Gesù condivisibi li. Secondo Schillebeeckx, il teologo deve muovere dal contesto di oggi verso le fonti della fede. Rinunciare a questo ‘movimento’, aggiunge, equivale a parlare nel deserto. Se le fonti della fede tacciono nel nostro vissuto o se questo si sgancia da esse, il danno è irreparabile! La domanda del credente nasce perché una traccia, un seme divino è nel cuore umano e occorre farne memoria. Agostino disse, rivolgendosi a Dio, neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te. Chi, in Occidente, può affermare che non ha in sé la traccia di Dio? In fondo, i grandi atei sono, quasi sempre, quelli che combattono con le deformazioni di questa traccia. L’uomo ha il peso ontologico, di ciò che lo muove e lo inquieta nel profondo. Di cosa viviamo e cosa costituisce il senso della nostra vita? Tommaso d’Aquino non ha dubbi: “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. Chi è abitato dalla Parola muta finanche l’aspetto esteriore. Un rabbi giunse a Tiberiade ed i discepoli di un suo collega notarono che aveva un volto straordinariamente radio so. Perché? Aveva trovato un nuovo insegnamento! Il rabbi locale citò ai suoi discepoli Qoèlet 8,1: ‘La sapienza dell’uomo ne rischiara il volto e mitiga l’asprezza del suo aspetto’.

Abbandonare pregiudizi, rinunciare a convinzioni di comodo, liberare spazio per la domanda fondamentale è un sacrificio? Quando traduciamo l’ebraico Korban ‘sacrificio’ dimentichiamo che deriva dalla radice karev, ‘avvicinarsi di più a Dio’. Il sacrificio va inteso come possibilità di stare più vicini a Dio. Qui è in gioco una questione fondamentale: in che direzione vogliamo andare per realizzare la nostra vita? Quando si può dire, si chiedono i sapienti ebrei, che una vita è riuscita? Quando si restituisce la propria anima pura – la casa senza macchia – e si conduce una vita dedicata a Dio. Con l’espressione casa senza macchia si intende lo stare in modo giusto nel mondo. La spiritualità non è una via di fuga dalle responsabilità. Canetti, scrive: “Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano (…). Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, poiché non siamo all’altezza di affrontarlo”. La realtà, per il credente, va trasfigurata nell’elevarla a Dio, non sfigurata nel disconoscerla per mancanza di coraggio. Cosa si intende per trasfigurazione? Turoldo spiega che ognuno di noi ha la vocazione ad essere figlio della luce. Trasfigurazione è ‘immergersi’ sempre di più in Dio, che è Luce! Tutta la vita religiosa, conclude Turoldo, tende ad essa in quanto siamo nel mondo “per vedere se (…) diventiamo un po’ luminosi”, oppure, “segno di qualcosa”.

Umiltà è sapere che le cose grandi non si possono fare se l’anima non si espone a Dio. Il costruttore dell’Arca, apprendiamo dal Vecchio Testamento, è un artigiano di nome Bezaleel che signifi ca colui che dimora all’ombra di Dio. Come la costruzione dell’Arca, ogni opera che intenda glorificare il Signore, può essere compiuta solo da chi dimora alla Sua ombra. Quando ci si pone domande sul fine e non meramente sulla fine della Storia, la speranza colloca la questione in una prospettiva. del tutto diversa. In un passo de Il dottor Zivago di Pasternak, un personaggio chiede: ‘Cos’è la Storia?’: Il cantiere che ospita i lavori destinati a chiarire a poco a poco il mistero della morte e un giorno persino a vincerla. Non è il porsi umilmente domande circa il senso della vita alla luce della fede il lavoro che può, a poco a poco, farci credere che il limite per eccellenza, la morte, verrà superato? Il domandare del credente è ben altra cosa rispetto al soliloquio amletico del pensatore intento a decapitare lo sforzo teoretico della Trascendenza. La verità che riguarda chi si fa provocare dai temi della fede non è un idolo della mente: è il Tu vivente, Logos incarnato, che si contrappone, ma per elevarlo, al logos teoretico. In un dialogo filosofico, a contraddire è lo stesso padre della tesi che si vuole dimostrare: non c’è reale contrap posizione. Di fronte ad un Tu reale (La Parola), i logoi restano spiazzati dalla imprevedibilità dei contro – logoi. Laddove si arrischia comunicazione autentica c’è massimo rischio, ma anche una bella opportunità. Il latino communicatio è composto da cum (‘con’, mettere insieme) – munus (dono): comunicare è condividere un dono! Ed il dono della verità offerto dalla fede non è semplicemente qualcosa, ma Qualcuno. Nel 1939, dopo l’inizio della guerra, Guardini tenne delle prediche – conferenze per uomini bisognosi di certezze. Da quegli incontri serali, il teologo ricavò la sensazione, confessa, che “la verità stesse dinanzi a noi come un essere concreto”.

Anton Houtepen ha definito l’idea di Dio la chiave epistemologi ca in grado di aprire il pensiero verso il ‘possibile’, la ‘libertà’, il ‘bene’, l’‘infinito’. L’idea di Dio impone al pensiero l’umiltà del domandare, ma anche di non rattrappirsi in una conoscenza orizzontale. Chi crede è certamente più libero nel pensare perché ammette tutte le possibilità. Ma quando l’idea di Dio diventa una sfida reale per il pensiero, una questione seria? Houtepen, riflettendo su Giobbe, sostiene che quando “l’esistenza reale del male” si impone come “questione a cui ci atteniamo, un profondo abisso di irritazione, di preoccupazione, una profonda domanda ‘Perché?’, solo allora sussiste la possibilità che Dio torni ad essere una domanda reale, aperta, permanente”. Non è nei paradisi asettici della teoretica che ci si pone la domanda su Dio; il credente, piuttosto, sperimenta la realtà di questa domanda nel cuore della vita quotidiana. È una domanda, dice Houtepen, aperta e permanente. Ciò che si ‘apre’, qui, ‘permane’; è come una sorgente: l’acqua donata non è che il preludio di quella che incessantemente donerà. È una immagine cara a Gregorio di Nissa che invitava a pensare alla meraviglia che proviamo quando, presso una sorgente, vediamo l’inesauribile scorrere dell’acqua; non vediamo, però, quella che è ancora “nel ventre della terra”. Per quanto si sosti presso la sorgente “sarà sempre come se l’acqua tu avessi appena cominciato a guardarla”. Chi si volge all’infinita bellezza di Dio la scopre sempre di nuovo! C’è sempre del ‘nuovo’, qualcosa di ‘strano’, prosegue Gregorio, “in confronto a quello che la mente ha già compreso”. Più Dio si rivela, più cresce la nostra meraviglia e il desiderio di vedere ancora non conosce fine “perché quello che egli aspetta è sempre più magnifico, più divino di tutto quello che ha già visto”. Una analoga metafora usa anche l’ebrea Hetty Hillesum morta in un campo di sterminio nazista. Ritrovava Dio in una sorgente molto profonda dentro di lei che solo in alcuni casi  raggiungeva perché, per lo più, appariva ostruita da ‘pietra e sabbia’; Dio vi era sepolto e bisognava dissotterrarlo. La liberazione di Dio dalle secche interiori è uno degli scopi della nostra esperienza di fede.  

La domanda di fede, umile eppur coraggiosa, è richiesta di senso, appello a Qualcuno che ci riscatti dalla miseria morale ed ontologica! La domanda di fede presuppone il non affidarsi a soluzioni mondane. È bene agganciarsi alla cristologia sempre implicata nella soteriologia e nell’ escatologia. Per Pannenberg “tutte le rappresentazioni del pensiero cristologico hanno avuto delle motivazioni soteriologiche. I cambiamenti che la cristologia ha subito nel corso dei tempi si spiegano, almeno in parte, per il (…)modo (…) di concepire la salvezza”. Se l’uomo pensa di trovare salvezza in proposte politico – filosofico – culturali, ovvio che il modo di considerare il Cristo ne risenta. Qui si innesta la necessità, secondo Pannenberg, di operare un capovolgimento di termini: va chiarita l’identità di Gesù perché “è la soteriologia che deve derivare dalla cristologia, e non viceversa. Altrimenti perde ogni base addirittura la fede stessa nella salvezza”. Deve essere quella sulla vera identità di Gesù la umile domanda fondamentale per chi vuole fare autentica esperienza della fede come sola via di salvezza. Il percorso è tracciato da Paolo: per me, il vivere è Cristo (Fil 1, 21)perché abbiamo il modo di pensare di Cristo(1Cor 2,16)e persino siamo inabitati dagli stessi sentimenti di Cristo (Fil 2,5). Emerge, raggiunta una certa maturità spirituale, ho kryptos tês kardías ánthropos: l’uomo nascosto nel profondo del cuore (1Pt 3,4); ho kainòs ánthropos ho katà theòn: l’uomo nuovo, quello secondo Dio (Ef 4,24); ho éso ánthropos: l’uomo interiore (Rm 7,22); infine, ho pneumatikòs ánthropos: l’uomo spirituale (1Cor 7,14-15). Fare esperienza di Dio significa abbandonare una fede abitudinaria, tradizionale e, come la samaritana di fronte ai suoi concittadini, proclamare: “Non è più per le vostre parole che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo!”(Gv 4,42). Personalizzare domanda e risposta è un percorso inevitabile sui sentieri della fede. Rabbi Akiba morì martire, ma da giovane era privo di fede e di cultura. Sua moglie, ricca di fede, lo invitò a percorrere la strada della santificazione ed a conoscere accuratamente la Legge e, così, la saggia sposa lo condusse ad un pozzo il cui orlo mostrava una profonda scanalatura perché consumato dalla corda che faceva salire e scendere il secchio per attingere acqua. L’incavo nella pietra, gli spiegò, era stato causato dal sali e scendi della corda, certo meno dura della pietra! La corda aveva potuto consumarla perché, per anni, aveva compiuto lo stesso movimento. Il marito, allo stesso modo, doveva andare, senza tregua, dalle Scritture alla preghiera e dalla preghiera alle Scritture. “Anche se il cuore e l’intelligenza sono duri come la pietra – concluse la moglie – finiranno per essere penetrati dalla parola di Dio”. La nostra ricerca, se inesausta, scaverà dentro uno spazio per Dio. Houtepen ha intitolato un suo saggio Dio, una domanda aperta. Pensare Dio nell’era della dimenticanza. Laddove si invita, da più parti, a distogliersi da questa domanda (Rosa Alberoni ha parlato della cacciata di Cristo dalla cultura occidentale)occorre ribattere con le parole di Houtepen: “La domanda su Dio non può essere privata della sua forza né da parte della costrizione di sistema del dogma rigidamente definito, né dalla vaga dimenticanza di Dio dell’ideologia occidentale del benessere. La questione è così forte perché dirige il nostro pensare: pensando, noi veniamo presi in ostaggio da essa. Noi dobbiamo però anche investirvi, per vedere che cosa ci può rendere ammettere di nuovo Dio come un ambito del nostro pensare, aprendo un paio di finestre sull’infinito: questo è ciò che la teologia ha di mira”. Il credente deve comunicare l’esperienza della propria fede dando anche le ragioni della speranza che l’ha spinto al viaggio: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi della speranza che è in voi”(1Pt 3,15).

La ragione teologica deve procedere tenendo presente una precisazione di Massimo Cacciari. Questi ricorda che i latini distinguevano versus e contra; con il primo termine intendevano un conflitto animato da inimicizia; col secondo, invece, un dibattere che mette ‘in relazione’ la “capacità di ascoltare contraddicendosi (…)ascoltare mantenendo la propria identità ma mantenendola anche sempre in dubbio”. L’affermazione di Cacciari lascia intendere che ci si muove, nel contra, in un tra; si sta in tensione: c’è consapevolezza della propria identità pur mettendola in discussione. Ci si muove tra le istanze indiscutibili della Rivelazione e le istanze discutibili dell’ethos nel quale si traducono. Eterno e Tempo si intersecano! Simone Weil offriva una lettura teologica della formula di Archimede ‘dammi un punto d’appoggio e sposterò il mondo’. In questa massima di natura scientifica, vide una profezia: “Il punto d’appoggio è la Croce, intersezione del tempo e dell’eterno”. Si danno due modi di intendere l’oggi. Rosenzweig distingue l’oggi passerella verso il domani dall’oggi trampolino verso l’eternità. Il primo procede come il principio di causa – effetto e si riferisce alla mera sequela di giorni, (tempo cronologico); il secondo, a quella che definiremmo l’irruzione non prevista dell’eterno nel tempo. Qui si ha la rottura della continuità omogenea del divenire; si dà das andere Heute, l’altro oggi dove ogni istante è unico. Commenta Stéphan Moses: “certi momenti della vita (sia personale che stori ca)sembrano effettivamente fatti di stoffa diversa: costellazioni favorevoli che improvvisamente portano nuove promesse (…) istanti messianici”. Il teologo deve esercitare la ragione a non sopravvalutare nessuna delle due forme di ‘oggi’, ma a metterle in tensione.

Va tenuto presente che quanto è evidente a chi crede, non necessariamente lo è a chi non crede! Per non impantanarsi in un conflitto insanabile, accogliamo la lezione di Kolakowski: “anche coloro che ascoltano e sono in grado di riconoscere la chiamata di Dio, devono ammettere che essa è percepita in modo diverso da, poniamo, la luce del sole, e la differenza consiste nel fatto che la luce del sole non è materia di disputa fra gli uomini”. Quando un discorso, un ragionamento verte su di un referente empirico è più semplice trovare una intesa; ma, trattandosi di Dio – che nessuno ha mai visto – le cose stanno diversamente: ci si deve fidare della testimonianza di uomini che raccontano la loro esperienza col Trascendente. Una esperienza unica, personale, che non vale quelle scientifiche replicabili a piacimento in laboratorio. La ragione teologica si muove tra racconti circa il suo Oggetto e deve essere narrativa più che assertiva! Dio è una esperienza possibile, non proponibile a tutti con identiche modalità. Anche se – lasciandosi provocare dal Trascendente – la ragione tornasse a mani vuote da questo esercizio extraterritoriale – resterebbe la consapevolezza di fin dove può spingersi. Quando si parla di ‘esperienza possibile’, di ‘possibile verità’, spiega Musil, non si parla di esperienza e verità reali “meno la loro realtà”; piuttosto, si dà un consapevole utopismo che, di fronte alla realtà, invece di sgomentarci, ce la fa leggere come “un compito e un’invenzione”. La realtà si dà anche come invenzione e, modificandola mentre la si narra, la si rinnova. La ragione teologica, essenzialmente narrativa inventa, con il linguaggio simbolico, una nuova realtà.

Quando il teologo dialoga con chi non crede non deve mai perdere di vista che il fine non è vincere, né convincere né imporre un cammino. Maalouf afferma che seguiamo innumerevoli cammini per giungere a Dio, ma Lui viene alla fine dimenticato perché si finisce con l’adorare il nostro stesso cammino. Bisogna prendersi cura dell’altro fino a compromettere le parole teologiche, senza snaturarle, con quelle profane; fedele al Dio incarnato, la teologia non può svilire il terreno. Bonhoeffer confessò che gli sarebbe piaciuto leggere il Cantico dei Cantici “come un canto d’amore terreno. Questa è forse la migliore interpretazione cristologia”. Da quando Dio si è calato nella storia non c’è realtà terrestre che sia sprezzantemente etichettabile come profana! Tuttavia, il teologo deve avere una atmosfera particolare nella quale far respirare la ragione spalancata. Non ogni luogo è buono. Il Veggente di Lublino, un sapiente hassidico, a tre anni scappava di casa e si rifugiava nella foresta. Il maestro, stanco di punirlo, lo seguì per scoprirne la motivazione. Il piccolo si recava nella foresta per dire a gran voce: ‘Ascolta, ascolta, Israele: Dio è il tuo Dio’. Il papà volle capire perché facesse questo. E lui: ‘Cerco Dio!’. Il papà, ribatté: ‘Ma Dio non è dappertutto?’ - ‘Certo che è dappertutto, ma io non sono lo stesso dappertutto’. Il teologo deve cercare Dio in ogni luogo, ma non alla stessa maniera.

Il modo di ragionare si traduce sempre in modo di vivere. La ragione teologica configura soggetto e mondo riferendosi al Fondamento che la nutre e la provoca; altrettanto fa quella laica. Se, per questa, l’ultima parola spetta al soggetto, al mondo, il teologo deve narrare chi è l’uomo con e senza Dio facendo risaltare la differenza. L’ateo Gide scrisse che la sua morale era condensata nella formula appagare delle forze. Nella frase successiva diventa iperbolico il suo rifiuto di ogni direttiva morale: “non volevo più morali, volevo vivere potentemente”. Ciò lo condurrà, aprendo il quarto libro de I nutrimenti terrestri, a ritenere odiosa l’opzione: scegliere significa perdere il non scelto. Nulla scegliere affinché a nulla si rinunci! La volontà di potenza vince sulla ragione che è esercizio di opzioni fondamentali. Qui il contra si cristallizza in un paralizzante versus. Se l’errore sta ora dalla parte del non credente si ripete, amplificato, quando simile atteggiamento adotta il teologo di fronte a chi lo contesta. Eppure, anche in questa posa altezzosa ed egocentrica, Gide crede di avvicinarsi a Cristo! Marcel, dal quale citiamo, sostiene che lo scrittore francese non evidenzia insoddisfazione, ma si impone il “rifiuto di soddisfazione”. Ciò consegue dalla “volontà di non esercitare alcuna opzione” e questo lo fece ritenere discepolo di Cristo. La confusione deriva dal fatto che non “seppe vedere, o non volle comprendere, che quella che fu per lungo tempo la sua etica dell’istante, si collegava all’edonismo voluttuoso di Omar Kaïam piuttosto che alla morale del Vangelo”. Mancò a Gide la capacità di esercitare la propria ragione entro sane categorie teologiche. Pensava che Gesù fosse l’uomo che, invitando a non attaccarsi a nulla ed a nessuno, consigliasse una etica dell’istante. In realtà, l’invito a non legarsi morbosamente a niente ed a nessuno era finalizzato alla ricerca del Regno di Dio, alla sequela del Maestro, libera e totale! Non una libertà da, ma una libertà per.

Il teologo deve portare, come si legge nella Prima Lettera di Pietro (3, 15), le ragioni della sua speranza. Fermo nella sua speranza, il teologo porta ragioni. Per farlo, la ragione teologica, che si manifesta narrando come Dio si sia rivelato in Parole ed Azioni, si fa discorsiva, dialogica, attenta all’altro perché questi è, in ogni caso, amato dall’Altro. La ragione non può mai ritenersi autoreferenziale. Dare ragioni della propria fede significa testimoniare e non irrigidire in concetti il contenuto della fede. Se l’Oggetto è il Dio vivente, non si può dire di Lui adoperando strumenti logici inficiati dal riduzionismo. Jaspers, scrive: “Ogni sistema è (…)soltanto una realizzazione frammentaria, una oggettivazione storta del ‘genuino’”. Nella fede è genuino è il rapporto Dio/uomo! L’ordo idearum teologico è meno dell’ordo amoris divino. L’esistenza, insiste Jaspers, non coincide con alcun sistema o teoria e se ci fosse un rapporto, non sarebbe quello d’ identità. La ragione teologica viene superata infinitamente dall’ Oggetto che medita e, facendo memoria ed ermeneutica delle Scritture, dovrebbe innanzitutto narrare, testimoniare con     linguaggio e modalità comprensibili all’uomo contemporaneo    cos’è fede.  Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del Vaticano II, affermò: “lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insiste re con pazienza nella sua elaborazione”(Enchiridion Vaticanum, 1, n. 55).

Il Mahatma Gandhi riteneva la fede un sesto senso che si attiva quando la ragione manifesta la propria insufficienza. Ma che tipo di ragione è quella che non rifugge la sfida del credere? Per Giussani è una ragione aperta, “una finestra spalancata su una realtà nella quale” l’uomo “non ha mai finito di entrare”. In questo spazio si attende che la fede, sesto senso, irrompa. Heidegger affermava che, col pensiero, Dio è inavvicinabile; pensando si può solo “risvegliare la disponibilità ad attendere”. Non la scienza, la filosofia o l’estetica possono farci riconoscere Dio: la questione interessa la libertà. Nella fede, conclude Giussani, “l’opzione è decisiva”. In assenza di chiarezza cartesiana è la scelta di credere a dire l’ultima parola. Vale la pena di porci questioni così intricate? Anche un non credente come Bobbio sostenne che l’uomo, a dispetto delle demitizzazioni del dettato teologico, della secolarizzazione, non può non rimanere un “essere religioso” in quanto le “grandi risposte non sono alla portata della nostra mente”. Si aderisce alla Rivelazione per scelta, con un atto libero e ciò lo assimila all’amore. Hesse vedeva fede ed amore coincidere perché, sia l’uno che l’altra, non passano attraverso la ragione. Come chi ama veramente non pone condizioni nel donarsi, così il credente aderisce, senza contropartita, all’Oggetto di cui si fida. Jaspers ricordava che voler credere è un atto che si può compiere solo senza pretendere garanzie. Per Kierkegaard, dell’Assoluto “si possono dare ragioni che non ci sono ragioni”. Marcel afferma che chi ha fede non si può limitare ad aderire ad un formulario dogmatico perché deve innanzitutto manifestare fedeltà ad una persona; tuttavia, non si può lasciare la ragione da sola senza il supporto dei dogmi e di una eredità teologica consolidata.  Edward Herbert di Cherbury (1583 – 1648), pur dichiarandosi non appartenente ad alcuna chiesa, a nessuna religione organizzata e nemmeno alla tradizione cristiana, quando pensava non poteva ignorare che, strutturalmente, l’uomo è homo religiosus. In una opera giovanile mise a fondamento della sua ricerca filosofica un assioma: la verità esiste. Senza questa fiducia di base che senso avrebbe spingere la ragione allo sforzo zetetico? Il logos non si attiverebbe senza un telos a cui anelare. Pur non ritenendosi impegnato con nessuna istituzione ecclesiastica, Herbert non tralasciò di affermare: “ciò che, se la Chiesa tacesse, non sarei mai riuscito a sapere, non lo avrei mai creduto senza la sua testimonianza”. Non bastano elaborazioni razionali per tessere apologie inattaccabili. Come precisa Hamerlin, quando si difende la propria fede con argomenti, proprio da altri argomenti si viene confutati. Nelle questioni di fede il logos si consegna al Logos. La ragione è come l’occhio: vede, ma non prende da se stessa la luce che glielo consente! Castelli sosteneva che la ragione è riconoscente e non donativa; riconosce il senso che le preesiste, non lo genera. Duquoc ritiene che l’errore dell’uomo moderno non interessa la fede o la rivelazione, bensì, la ragione; infatti, si permette che venga confiscata “da discipline particolari” che la rendono incapace di aprirsi alla trascendenza e “la defraudano del suo potere di unificare il reale nel rispetto dei metodi diversificati con cui viene studiato”.

Nel XVIII secolo, Rabbi Nahman di Bratislava sosteneva che è proprio in quell’ostacolo che ti impedisce di scoprire Dio che Dio aspetta di essere scoperto. L’esercizio della teologia richiede, proprio perché vi è impegnata la debole ragione, una cautela che possiamo illustrare con riflessioni tratte da Il Maestro di Agostino d’Ippona. Prima di affrontare un dialogo con l’allievo, precisa: “Mi scuserai se eseguo esercizi preliminari non per dilettarmi nell’esercizio, ma per temprare le forze e la penetrazione della   mente”.  Un confronto vero esige una preparazione, il rinvigorim ento delle facoltà intellettive. Non esercizi preliminari svolti per diletto, ma per necessità in quanto si affronta una materia difficilmente padroneggiabile. Il problema sta nell’ Oggetto del discorso, in quanto, un argomento teologico/ filosofico, per quanto sviscerato, lascia zone d’ombra. Il discepolo, ammette: “La difficoltà stessa dell’argomento non mi consente di vedere nell’insieme e di rispondere sicuro per timore che fra tante pieghe si celi qualche cosa che la penetrazione della mia mente non può raggiungere”. Il discepolo, fa riferimento alle tante pieghe nelle quali si avviluppa la cosa; ebbene, la ragione, anche in teologia, vorrebbe s – piegare: eliminare le pieghe e distendere, rendere liscia la superficie increspata della questione per camminare agevolmente verso una soluzione. Qui si arresta il nostro lavoro e si configura la necessità di compiere il salto. Il cammino della s – spiegazione di fronte alla Parola si articola, leggiamo nel Talmud babilonese, in “quattro strade che percorriamo contemporaneame nte”: esperienza letterale – allusione a qualcosa di là del letterale – ricerca di significato – strada del puro mistero. Le iniziali, in ebraico, di queste strade “formano l’acronimo che si legge PRDS”, lettere che compongono la parola Paradiso! (Chaggigah 14v). Passando dalla lettera a ciò che sta oltre la lettera si apre la via verso la ricerca del significato, ma il punto d’arrivo è il salto nel puro mistero; e, assumendo le iniziali delle quattro vie, si ottiene il paradiso. La ricerca è, più che una dannazione della ratio, il suo paradiso.

Agostino approda alla convinzione che, nelle cose del pensiero e della fede, l’esitazione è positiva. All’allievo che manifesta perplessità, dice: “Accolgo con piacere la tua esitazione”. La cautela, l’incertezza, l’esitare sono – opportunamente accolte – dimensioni essenziali alla ragione teologica affinché questa non semplifichi troppo nel ricercare e non insuperbisca se trova qualche indicazione incoraggiante. L’incertezza può – scrive Veca – sia fare deserto, sia seminare bellezza “nelle nostre vite mortali”. Se non sapessimo di poter inciampare, nemmeno ci preoccuperemmo di sapere dove poggiamo i piedi. Rabbi Nahman giustificava la sua certezza (Dio si nasconde proprio nell’ostacolo che ce ne allontana)citando Esodo 20, 21: “Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio”. Chi esercita la ragione teologica deve muovere direttamente contro l’ostacolo, contro le nebulose delle questioni problematiche per mezzo degli strumenti teoretici di cui dispone; la fede, poi, dal fondo, gli grida: Dio è proprio nell’ostacolo che ti sta di fronte! I Cabalisti ammettevano le difficoltà che si frappongono tra noi e Dio ma, fiduciosi, insegnavano: Non vi è luce brillante come quella che riesce a emergere dall’oscurità. Ci vogliono lo sforzo mentale, l’esercizio della ragione teologica e la convinzione che è Dio a trovarci anche se noi non Lo cerchiamo. Si tratta di operare una intersezione di ‘cielo e terra’. Come scrisse nel XVIII secolo Rabbi Mordecai Joseph di Izbica: “La mente è il cielo, il cuore è la terra. Ci è stato insegnato a pensare con entrambi, mente e cuore, e così facendo a unificare le forze di cielo e terra”. La ragione, più che essere teologica (come se ci fossero due ragioni!)deve essere teologicamente orientata: accoglie – accanto alla mente che elabora pensieri – il cielo, la rivelazione dall’alto.

Il teologo che elabora pensieri intorno a Dio deve stare attento a non assumere i suoi logoi come se valessero Ciò che esprimono. Husserl avvisava: sopravvalutando le nostre ricerche intellettuali finiamo col prendere “per vero essere quello che invece è soltanto un metodo”. Freud scrisse in L’avvenire di un’illusione che, af frontando ‘problemi religiosi’, spesso ci impaludiamo in molte    “insincerità e scorrettezze intellettuali”. Si filosofa portando la Parola verso nuovi significati che ne corrompono quello originario. Chi con un filosofare disonesto viene chiamato ‘Dio’, rimprovera Freud, non è che “un’astrazione vaghissima” costruita con la ragione e, con questo fantasma, ci si presenta al mondo addirittura come  deisti e credenti! Si giunge anche, incalza, a sostenere che questo concetto di Dio ha una purezza maggiore. In realtà, conclude, non si propone che un Dio ridotto ad umbratile parvenza che nulla più ha in comune con “la possente personalità della dottrina religiosa”. Questo si rivela un avvertimento utile: pretendere di condurre l’idea di Dio nella purezza e nell’altezza del pensiero non sempre si rivela un servizio ben reso all’umanità. Torna a farsi valere la lezione di Agostino: esitare, quando la ragione interroga la fede(o la fede interroga la ragione?)non è un male, ma una tutela per entrambe.

Stiamo attenti a non confondere l’umiltà della ragione con l’umiliazione della ragione. Se si svaluta oltre il consentito il compito della ratio subentra quello che Russell definiva uno dei peggiori aspetti del cristianesimo ortodosso: la santificazione della paura. Non solo bisogna evitare di classificare come nobili sentimenti la paura dell’inferno, della morte, il timore che l’universo non abbia significato, ma anche di ritenere che ragionare sul senso della vita sia una offesa alla fede: “colui che, dopo un esame spassionato delle prove, decide che esiste una vita futura non manca di amore per la verità; tale mancanza esiste solo per il credente che si rifiuta di esaminare le prove per paura che gli dimostrino che ha torto. Una persona del genere si comporta come chi rifiuta di aprire una lettera per paura che contenga brutte notizie”. Esitare, ma pensare; credere, ma esaminare. La Trascendenza impedisce che esistere si riduca ad ostinato esserci – nel – mondo come se fossimo gettati in esso (Heidegger); ma è la ragione inquieta che ha l’esigenza di andare oltre l’heideggeriano Dasein. Se decapitiamo la ricerca del senso della Trascendenza – scrive Jaspers – l’esistenza diviene inutile ostinazione. La ragione, dal canto suo, impedisce all’esistenza di essere inattiva, sonnecchiante, come non esistente. Si mediti la lezione di Aristotele: “mentre gli altri animali vivono con immagi ni sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti” e gli uomini “acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza”. Dei ragionamenti viviamo e servono per acquisire scienza, ma ciò avviene facendo esperienza. Chi fa teologia deve sapere che non può fare a meno dei ragionamenti perché di essi si vive, in quanto solo gli altri animali si appagano di immagini sensibili. Se di Dio non si dà immagine, restano i ragionamenti, ma soprattutto l’esperienza. In altre parole, l’esercizio teologico deve tradursi in condotta di vita conforme alla Parola. Natoli, da non credente, afferma che dire Gesù è il Signore equivale sì ad esplicitare il “nucleo essenziale della rivelazione cristiana” ma, in primo luogo, occorre instaurare “una vita conforme” a questo enunciato. Possia mo pensare quanto vogliamo le provocazioni della fede, ma la ragione orientata teologicamente alla ricerca del senso fallisce se il cristianesimo non diventa esperienza di vita.

La riflessione teologica deve tradursi in ortoprassi. Una indicazione viene dagli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il primo decennio del Duemila rubricati in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: “Oggi più che mai i cristiani sono chiamati ad essere partecipi della vita della città, senza esenzioni, portando in essa una testimonianza ispirata al Vangelo e costruendo con gli altri uomini un mondo più abitabile”. Non sarà mai sufficientemente meditato il consiglio di Paolo VI: “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni”. Il teologo, oltre che ad operare accademicamente, deve avvertire il peso di questo impegno. Se la ragione teologica si esercita entro il ristretto perimetro di competenze scolastiche, rischia di non   tradursi in parole comprensibili all’uomo contemporaneo. Agostino invitava quanti si assumevano il compito di formare le coscienze ad agire in modo tale che il destinatario della proposta cristiana “ascoltando creda, credendo speri, sperando ami”. Speranza ed amore non sono vaghi stati d’animo, ma input per entrare nella storia contribuendo alla piena umanizzazione dell’ uomo. I maestri formano testimoni solo se il loro insegnamento è innanzitutto testimonianza.

Anche la scienza – in particolare la neurologia – è interessata a dimostrare l’importanza di pensare teologicamente. Si parla di neuroteologia! Alcuni neurologi Usa hanno rintracciato un collegamento fra il lobo temporale del cervello, l’epilessia, l’attenzione verso il religioso ed il pensiero di Dio. Jaynes dice, supportato da autorevoli studiosi, che, essendo il linguaggio localizzato in un solo emisfero cerebrale, lascia che nell’altro agisca il linguaggio degli Dei e questo emisfero, in epoche passate, era la parte più sviluppata; di conseguenza, l’uomo arcaico aveva un rapporto più intenso con il Trascendente. Alcuni studiosi, capeggiati dal dottor McCullough, sono giunti alla conclusione che le persone impegnate in gruppi religiosi soprav vivono il 29 per cento in più rispetto a quelli che se ne tengono fuori. Questa equipe di scienziati revisionò 42 ricerche svolte su oltre 125.OOO persone. Danilo di Diodoro, infine, ha riferito di uno studio secondo il quale, in alcuni malati di Aids per i quali si era attivato un gruppo di preghiera, la patologia evolveva con più lentezza. Anche la scienza, dunque, non disconosce l’importanza di indagare le conseguenza del pensiero compromesso col religioso. Chiaro che a noi questo preme sottolinearlo per amore del sapere e non certo per rintracciare motivazioni a favore dell’aver fede.

Quando la ragione si esercita sulla Parola si dilata e si conosce proprio nel tentare di andare oltre i propri mezzi. Cesare Pavese, che ebbe un rapporto tormentato con Dio e finì col suicidarsi, non poté fare a meno di confessare di aver vissuto momenti di particolare gioia ed intensità quando i suoi pensieri si erano tinti di Trascendente: “quando riesci a scrivere di Dio (…), ti senti sorpreso e felice come chi giunge in un paese nuovo”. Fare teologia è andare in paesi nuovi, in quanto induce il pensiero a non appagarsi del fenomenico. Ma il pensiero, qui, può gioire non della certezza, ma della possibilità perché si pensa soltanto, come dice Vitiello, il Dio possibile. Con questo filosofo dialoga Bruno Forte che chiarisce: “Approssimarsi al Dio possibi le come possibile, senza violarne l’abissale indicibilità nella pretesa dei nostri discorsi. Abbandonare la pretesa di un dire definitorio e di un ragionare assertivo, per passare all’approssimarsi discreto della narrazione e dell’invocazione, dove all’‘altro’ ci si avvicini nella metafora del ‘tu’. Ma anche questa è e resta soglia: pregare non sarà mai catturare Dio negli schemi delle nostre pretese”.

Il filosofo Michael Dummett, domanda: “Come deve (…) comportarsi lo scienziato, lo storico o il filosofo credente?”. Detto sì per fede ad alcune asserzioni le si proteggerà, per evitare che vengano revocate in dubbio, rifiutandosi di proseguire le ricerche? Dummett pensa che il comportamento giusto sia quello di farsi portare, fin dove arrivano, dalle ricerche, dalle prove, dalle argomentazioni. Evitare questo rischioso percorso significherebbe sottrarsi al proprio compito fino ad occultare cose che Dio vuole ci diventino chiare. Quando ciò che troviamo si allontana dal nostro “impegno di fede”, scatta la convinzione “che le conclusioni scientifiche storiche e filosofiche” possono risultare false, ma spesso conducono verso il vero. L’incertezza ed il rischio non possono preventivamente venir poste ai margini, se non fuori, dalle fatiche della teologia. Sempre e comunque faremo i conti con il Dio possibile perché, quello che si crede di aver catturato, è un idolo. Se l’uomo religioso pensa, con rituali, formule ed argomentazioni, di tirare Dio dalla sua parte, l’uomo di fede sa che, qualsiasi logos, non è che una soglia. Solo Dio, rivelandosi, la può superare; a noi resta il compito di coltivare l’attesa. Rabbi Shlomo Yizhaki (XI secolo), argomentava: “Perché Mosè era considerato il più grande di tutti i profeti e delle profetesse fra gli israeliti (Deuteronomio 34,10)? Perché quando tutti gli altri profeti d’Israele guardarono oltre il velo, pensarono di aver scorto Dio. Mosè invece era un profeta così grande che quando guardò oltre il velo, seppe per certo di non aver scorto Dio”. Il teologo deve avere lo sguardo di Mosè: non si creda che ragionando di fronte al velo della realtà (fenomenico), si veda Dio (noumenico). Il teologo, nell’esercizio della sua ragione, vigila sulla soglia in attesa che Dio si chini su di lui.

Dobbiamo solo testimoniare ed argomentare sulla nostra scelta di fede con atti concreti ed umili! Un pio ebreo disse: “Non sono andato dal Magghid (Predicatore) di Maseritz per apprendere da lui la Toràh, ma per vedere come annoda le stringhe delle sue scarpe”. Come dicevamo con Paolo VI: gli uomini vogliono testimoni, non maestri. Se a qualcuno pare blasfemo, insensato quanto quell’uomo desiderò imparare da un Maestro, si tenga conto che anche allacciarsi le scarpe può essere, anzi è, un gesto carico di valore teologico. Nel XVI secolo, infatti, Rabbi Moses Cordovero, affermò׃ “Quando indossi i tuoi calzari, abbassa prima il piede per infilarlo nel calzare, e immagina che il cielo si unisca alla terra. Poi afferra i lacci e tirali verso l’alto per annodarli e immagina che la terra incontri il cielo e si leghi ad esso”.  Questi percorsi sono proponibili ad un uomo che crede di poter vivere come se Dio non esistesse o non è più necessario? In un momento in cui la filosofia inneggia ad un pensiero debole credo possibile elaborare in teologia un pensiero della soglia, della traccia in attesa che il Dio possibile della ragione teologica venga sostituito dal Dio che si rivela. Siamo cresciuti aumentando il nostro sapere, ma ancora angosciano le domande di senso; dunque, come scrisse Italo Mancini, l’uomo adulto “sta con il suo Dio in agonia, drizzandosi sui piedi per spiare, sulle creste dei monti, se ci sono già i segni dell’albeggiare del nuovo giorno”.        
                         
Giona e la fede immatura

Giona è nome femminile e significa ‘colomba’ ed è figlio di Amittai, cioè, ‘fedele’. Il suo nome evoca quel passo del profeta Osea (7, 11)nel quale si paragona Efraim ad una ingenua colomba priva di intelligenza.  Anche se non è una figura eroica, è l’unico tra i profeti che nel Corano viene ricordato col suo nome e Maometto lo colloca tra gli apostoli di Dio. L’ostinazione con la quale Giona si oppone alla missione che Dio gli affida non è dissimile alla riluttanza che patiamo quando ci rifiutiamo – come disse una santa – di fiorire dove Dio ci ha seminati! Nessuno può avere ragione di fronte a Dio e veder in frantumi le nostre resistenze è, direi con una espressione di Giorgio Manganelli, una savia sconfitta: “Vi sono savie sconfitte che nessun sapiente potrà mai distinguere dalle più luminose vittorie”. Solo dopo un tortuoso percorso Giona apprende che l’amore di Dio non può tenere in considerazione categorie nazionalistiche o egologiche. Un uomo in lui deve morire perché nasca quello nuovo, aperto all’idea che la salvezza non è prerogativa dei credenti, ma dono per tutti. Due premesse: 1) Giona sente una voce intimargli di ‘alzarsi ed andare a Ninive’, potente città pagana. Ma di chi è la voce? Noi e l’autore lo sappiamo; lui come poteva saperlo?; 2) Non gli viene detto che deve operare per la ‘salvezza’ di quei pagani, ma solo di predicare contro di loro. E perché mai correre questo rischio? Quale il senso? Siamo di fronte ad un uomo ‘seduto’ e che, per fuggire il proprio compito, si rintana nella stiva di una nave, finirà nel ventre di un pesce; insomma, scenderà sempre più in basso e ciò è metafora di una vita profondamente depressa. Alla fine, tuttavia, si impara dalle sue vicissitudini che la disgregazione interiore può essere positiva, savia sconfitta che si configurerà come una delle più luminose vittorie.

Kazimierz Dabrowski parla di disintegrazione positiva: si matura col dissolversi di funzioni e strutture di livello inferiore. Giona deve portare alla luce quello che Agostino definiva il terzo uomo: una nuova identità (matura)deve stare tra ‘vecchio e nuovo uomo’. Seguiamo Agostino: “In che modo mi spoglierò del vecchio, o in qual modo indosserò il nuovo? Sono forse io stesso un terzo uomo, per deporre il vecchio uomo, che ho avuto sinora, e assumere il nuovo, che non avevo, in modo che si intenda che esistono tre uomini, e stia in mezzo quello che depone il vecchio e accoglie il nuovo?”. Lasciar disintegrare le strutture di livello inferiore significa ergersi tra due tipi di uomo, quello vecchio e quello nuovo, lasciar morire il primo e dare accoglienza al secondo. Si tratta di un movimento e Giona, come ogni credente apatico, egoisticamente beato nelle sue certezze sta seduto. Inizia a nascere davvero solo quando – pur per fuggire lontano dal luogo di missione – si muove, inizia a camminare. Quando i discepoli di Emmaus nel Vangelo di Luca si apprestano a tornare a Gerusalemme (sapevano, ormai, che l’anonimo compagno di viaggio era il Maestro)per dire che si rialzarono viene adoperato anastantes un verbo che indica pure la risurrezione di Gesù! Chi si ‘alza’, nel linguaggio biblico, è quasi sempre colui che ‘risorge’ per inaugurare un percorso esistenziale all’insegna della fede autentica.

Ricevere una missione è sempre una fatica assai dura. In Luca 5, 5a, quando Gesù dice ai discepoli pescatori di gettare le reti di giorno (momento non propizio per la pesca), si sente replicare: abbiamo faticato tutta la notte. Il verbo è kopiasantes (participio aoristo di kopiao)che, negli Atti, indica la fatica di evangelizzare. Anche Giona deve gettare le reti in un momento ed in un luogo non propizi a questa fatica (a suo dire). Sta seduto, ha le sue certezze: Dio non può mandarlo a predicare contro Ninive: primo, perché non ne spiega la ragione e, secondo, i pagani non meritano la salvezza! Ma lui non si fa domande, fugge! Cerca – come Adamo dopo aver peccato – di nascondersi a Dio. Vuole andare a Tarsis che, secondo le carte geografiche dell’epoca, è situato presso le Colonne d’Ercole, cioè, dove – secondo le credenze del tempo -  finiva il mondo. Ma c’è un luogo che non sia di Dio? Prende una nave che dovrebbe condurlo lontano dal confronto con i pagani ed invece, proprio lì, se ne vede circondato. Quando Dio scatena la tempesta, infatti, i marinai invocano ognuno il proprio dio. Giona dorme nella stiva: un sonno che indica depressione, prigionia in un meccanismo di nascondimento che non può durare. Viene costretto a denunciare la propria identità e, questa, è già una implicita presa di coscienza. Tutti noi, almeno per un periodo della nostra vita, saliamo sulla nave del profeta ribelle. Metodio, vescovo e martire del III secolo, scrisse che la nave sulla quale il nostro personaggio salì “e che fu avvolta dalla tempesta, è questa vita breve e difficile nel tempo presente”. Rabbi Abba, nello Zoar, dice che, nella storia di Giona si rinviene la raffigurazione di tutto il percorso che un uomo compie nel mondo: vi stiamo come in una nave che sta attraversando il grande oceano e sta per essere spezzata. La stessa Chiesa è come la barca in questione quando devia dal proprio percorso e, invece di confrontarsi con chi è fuori di essa, preferisce rifugiarsi in altre pratiche.

Mosé chiedeva ‘Chi sono io per andare da Faraone?’(Es 3, 11); Chi mi manda ‘come si chiama?’(Es 3, 13). Paolo, sbattuto in terra sulla via di Damasco, ‘Che devo fare, Signore?’(At 22, 10). Giona non fugge perché si riconosce incapace di condurre in porto la missione, ma perché non vuole condividere la salvezza con chi, a suo dire, non la merita. Si assoggetta all’egoismo. Giona, come molti credenti ‘seduti’, avverte nell’amore, nella bontà divina una minaccia. Nella Scrittura troviamo: eppure bontà e amore mi perseguitano (Sal 23, 6). Possibile che si preghi così? Spiega Mello che dell’amore, della bontà, viene qui sottolineata “la sua gratuità, il suo non essere dovuto, il suo poter contravvenire persino alla nostra volontà (…)l’amore di Dio non dà tregua, persegue e insegue, al di là di quanto è umanamente prevedibile”; in ogni caso, “è lui a prendere l’iniziativa”. Quanto più Giona crede di fare a modo suo, tanto più si approssima a fare ciò che Dio vuole e così si spiega l’inanellarsi di rovesciamenti nel libro evidenziati da Drewermann: “per pura angoscia, con la sua fuga sperava di trovare finalmente un solido terreno sotto i piedi, lui si va a mettere proprio su ciò che ondeggia ! Lui, che voleva sbarazzarsi di tutta la zavorra e il peso della vita, proprio lui diventa per tutti gli altri un peso tale da portare al naufragio (…). Un individuo che è disperato cerca alla fine la privatezza, anela al totale isolamento, ma in realtà resta legato alle persone al suo fianco”.

Giona cerca stabilità e, paradossalmente, si vede costretto ad inseguirla sul mobile mare; vorrebbe gettare, come una zavorra, il peso della sua missione e viene gettato in mare come una zavorra che può salvare – alleggerendo il carico della nave – dal naufragio che lui stesso ha causato. Nell’episodio del naufragio viene alla luce il tema della libertà di Dio. In 1, 6, il capo dei marinai, infatti, accostatosi al profeta, dice forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo; in 3, 9, poi, sarà il re di Ninive ad affermare chi sa che Dio non si impietosisca. Erompe da questi passi quel forse che mostra come anche i pagani sappiano che Dio non è manipolabile. Giona, nel suo sonno di depresso in fondo alla stiva, deve finire in mare per alleggerire il carico ma anche perché, tolta la sua pesantezza psichica e morale, torni la gioia che dà il sedarsi di una tempesta. Il credente depresso, chiuso nella stiva di esecrabili egoismi, è un peso per la comunità e per chi dovrebbe entrarvi. La gioia è, al contrario, un potente volano per testimoniare la fede. Nel Vangelo di Luca cháiro ‘gioire, rallegrarsi’, charà ‘gioia’ si trovano venti volte! Per ben quattro volte si incontra ‘esultare’ (agalliáo)ed il sostantivo agalliasis (Lc 10, 21 – 22). Giona all’inizio del libro è già stanco e senza gioia. Il suo corpo traduce il suo stato d’animo. Anche nel Nuovo Testamento la gioia conosce una espressione fisica per comunicarsi. Tra i testi neotestamentari solo in Luca c’è un verbo che denota l’allegria espressa col corpo: il greco skirtao. Il bimbo nel grembo di Elisabetta (Giovanni)esegue una sorta di ‘danza della gioia’ alla presenza di Maria. Giona, come tutti quelli che non sono maturi nella fede, non danza, non esulta quando avverte segni della Trascendenza; anzi, si intristisce ancora di più e fugge.

Barth sosteneva che l’essere nient’altro che pellegrini messi in movimento dalla fede è una condizione della quale non si ha il diritto di lamentarsi. Ma ogni cammino ha la sua difficoltà più grande nel muovere i primi passi. La saggezza cinese, infatti, sottolinea che anche un viaggio di mille miglia inizia con un piccolo passo. Non biasimerei Giona per le sue perplessità iniziali; infatti, ho già fatto notare che solo noi e l’autore del libro possiamo sapere con certezza di chi è la voce che lo invita ad alzarsi ed andare a Ninive. Tuttavia, come scrive Ambrogio di Milano, della fede non “se ne richiede la perfezione fin dall’inizio, ma dall’inizio si arriva alle cose che sono perfette”. L’errore di Giona, e di tanti altri, non è quello di non essere immediatamente pronti quando arriva la chiamata; anche Abramo, Mosé, Geremia sono perplessi; ma qui si ha un inizio non autentico di percorso di fede. Alzarsi per fuggire non è camminare, ma inconcludente agitarsi. Scrive Agostino: “Considerate che siete viandanti. Voi dite: Che senso ha camminare? (…): progredire (…). Ti dispiaccia sempre ciò che sei, se vuoi guadagnare ciò che non sei ancora (…). Uno zoppo che cammina sulla strada, va più avanti di chi corre fuori strada”. Abramo, Mosé, Geremia espongono i loro limiti fisici, psicologici, ma appellandosi a Dio e non fuggono, non si illudono che ci sia un luogo nel quale essere al sicuro dall’amore travolgente del Signore. Zoppicano sulla strada giusta, mentre Giona va subito fuori strada.

Ireneo dice che l’uomo ha la sua gloria nel perseverare nel servizio di Dio . Possiamo intendere ‘gloria’ come ‘compimento autentico della nostra umanità’. Chiesero a Mauriac: Chi vorresti essere? Rispose: Io, ma riuscito!  Siamo ‘noi stessi riusciti’ quando ci indirizziamo al nostro autentico Telos. Giona non riconosce nella missione affidatagli la ‘grazia’ di Dio (né per lui, né per i niniviti)e, dunque, rischia il fallimento sul piano esistenziale e storico. Ha ricordato Rahner che chi si priva della grazia non realizza neppure la natura. Perché andare a Ninive a predicare visto che si tratta di una metropoli potente? Perché mettere a rischio la vita per gente condannata a perire? Giona non si lascia, per riprendere le parole del salmo, perseguitare dall’amore e dalla bontà. A lui manca la capacità di penetrazione che fu di Agostino: “Dio onnipotente essendo sommamente buono, non lascerebbe assolutamente sussistere alcunché di male nelle sue opere, se non fosse onnipotente e buono fino al punto di ricavare il bene persino dal male”. Come sappiamo, Ninive sarà salvata perché si convertirà e questo, invece di dare gioia a Giona, lo renderà ancora più triste. Il suo annuncio, dunque, era andato a vuoto? Avrebbero detto di lui che aveva profetato quanto non era accaduto? Quando si pensa al proprio prestigio non si ama né il prossimo, né Dio, né se stessi. Il concetto di giustizia divina, qui, è inquinato da pregiudizi; in realtà, scrive Tommaso, il rigore della giustizia divina è sempre subordinato alla sua carità, da cui procede.

Giona vuole solo gettare lontano da sé il peso delle sue responsabilità e non è, per dirla con Paolo, disposto a portare i pesi degli altri. Pensa che la libertà da Dio e dagli altri sia la scelta migliore. Dostoevskij immagina, ne I fratelli Karamazov, che Gesù torni nel mondo e, alla fine, viene nuovamente processato e condannato. Il cardinale inquisitore dice all’accusato: “Avevi forse dimenticato che la tranquillità è agli uomini più cara della libera scelta tra il bene e il male?”. Giona vuole la tranquillità e non sa che farsene di una fede responsabile, che ci vuole capaci (abile)di rispondere (responso). Si aspetta solo che Dio faccia giustizia a danno dei niniviti. Precisiamo che, in primo luogo, la mentalità orientale tende a pensare a tinte forti e, dunque, esaspera sentimenti umani e divini; in secondo luogo, l’ebraico naqam oltre a ‘vendicare’ significa pure ‘ristabilire il diritto’. Per Ninive ‘vendetta’ (naqam)significa conversione, non distruzione. È un errore pensare che ‘potenza’ e ‘misericordia’ non debbano coesistere. Dio è Onnipotente anche perché sceglie di non servirsi della Sua Onnipotenza in quanto è onnipotente nell’amore. Come faceva rilevare  Lacroix, amare significa promettere a se stessi di non usare mai nei confronti dell’essere amato i mezzi della potenza.

Giona è sulla nave che dovrebbe metterlo al sicuro rintanato in una stiva; poi, finisce nel ventre di un pesce…è sempre al buio. Una metafora della sua cecità? Certo. Si tratta pure, però, di pensare che stare al chiuso, starsene rintanati in un angolo buio serva a non ‘alzarsi’, a non ‘andare’. Gregorio di Nissa afferma che la legge della vita consiste nell’essere spinti verso l’uscita appena nati. Per essere nel mondo dobbiamo lasciare il tranquillo e paradisiaco utero materno; d’altronde, nessuno può rifiutarsi di farlo. Uscire è legge di vita. Chi non esce per andare verso gli altri, non è mai nato davvero del tutto. E che senso ha che Giona si proclami – interrogato durante la tempesta dai marinai pagani – ebreo, credente in Dio se non ama i niniviti? L’ebreo prega innanzitutto per e con l’amore. Amore ‘chesed’ costituisce la ‘parola chiave’ dei salmi. Se il termine ricorre complessivamente nella Bibbia ebraica 245 volte, ben 127 attestazioni di esso – più della metà – ricorrono nel Salterio. Il derivato chasid ‘amico’ (che i LXX traducono anche ‘santo’)nei salmi si trova – rispetto ad altri testi biblici – 25 volte su 32. Giona tradisce il lascito teologico anche quando mostra tutta la sua tristezza di fronte alla richiesta di Dio. L’ebreo, nel pregare, fa della ‘gioia’ una categoria centrale del proprio vivere: troviamo, ancora nei salmi, samach (gioire), ranan (giubilare), ghil (esultare),‘alaz (allietarsi). Sono atteggiamenti sconosciuti a questa figura biblica.

In questo libretto si dice che occorrono tre giorni di cammino per attraversare Ninive e Giona, invece, cammina e predica un solo giorno. Perché una missione così repentina, breve? Inoltre, il profeta non dice né a nome di chi parla, né il perché (ma lo conosce)della minaccia. Questo è un profeta che non vuole avere a che fare con i pagani e che esegue di malavoglia l’incarico. Ninive è la capitale del regno assiro che distrusse il regno del Nord nel 722. Ben tre volte viene sottolineata la grandezza della città anche se, studi archeologici, ritengono che fosse lunga circa cinque Km ed occorrevano meno dei tre giorni riferiti dal testo biblico per attraversarla. L’esagerazione, forse, è dovuta al fatto che Ninive viene eletta a simbolo di tutte le metropoli che necessitano di conversione. Universalizzarla equivale ad universa lizzare anche la missione di Giona: non si possono lasciare migliaia di persone, di popoli, di nazioni senza annuncio. In altri passi biblici pure troviamo oracoli terribili contro l’Assiria e, dunque, nella salvezza dei niniviti risalta ancora di più la volontà salvifica a favore di tutti del Dio biblico. Non si tratta di portare un annuncio generico, vago. All’inizio del primo capitolo si legge che al profeta fu rivolta questa parola; all’inizio del terzo capitolo si legge che gli fu rivolta una seconda volta questa parola del Signore. Che significa? “La Parola di Dio quando ci raggiunge – spiega Walter Magni - non è mai generica, è precisa e chiara, se la vogliamo sentire”.

La libertà per l’uomo di fede non equivale mai a ‘fuga da Dio’ (semmai fosse possibile). Per chi ha fede, piuttosto, essa è accordare – per riprendere la lezione di san Massimo – thélema gnomikon (volontà gnomica), la disposizione del volere personale e thélema physikon, la volontà naturale che tende al Bene, a Dio nel quale, principio e fine, si compie la natura. Giona, invece, scinde ciò che vuole, ciò che ‘crede’ sia il suo bene, da quello che è il vero bene: rispondere alla vocazione profetica. Dio non è mai vago e non si limita a scomodarlo ed a mandarlo in giro senza meta. Il disubbidiente, invece, si alza ma per muoversi in maniera scomposta, agitata e pretendendo di fissare da solo la meta. Non è Tarsis il telos al quale tendere, ma Ninive. I progetti di Dio non assecondano la nostra idea di comodità. L’uomo sostituisce la volontà gnomica, la disposizione del volere personale al fine inscritto nella sua natura. Si può fare come si vuole, ma non è detto che si faccia quanto è lecito. Atanasio di Alessandria dice che, purtroppo, l’anima “non sa che essa non è stata creata semplicemente per muoversi, ma per muoversi verso il termine che gli occorre; ed è da questo che siamo avvertiti dalla parola dell’Apostolo: ‘Tutto mi è lecito, ma non tutto giova’(1Cor 6, 12)”. Se è lecito (per una non corretta comprensione della libertà) andare a Tarsis piuttosto che a Ninive, non è detto che da questa scelta si tragga giovamento.

Nessuno di noi, se davvero ha fede, deve pretendere che Dio salvi in ossequio ai nostri parametri di giudizio spesso intrisi di bieco moralismo. Nella Bibbia leggiamo che Dio indica ai peccatori la via (Sal 25, 8), indica la via da scegliere (Sal 25, 12). Nel Salmo 6 troviamo: salva la mia vita, soccorrimi in grazia della tua bontà! (5 – 6). In ebraico, ‘in grazia’ è le – ma‘an che si forma sulla radice ‘- n – h di rispondere. Il versetto, dunque, potremmo tradurlo ‘salvami in risposta al tuo amore’. Dio salva rispondendo non tanto alle nostre invocazioni, quanto per rimanere fedele al Suo amore per noi. Giona, interpretando come una distorsione nei piani divini la salvezza di Ninive, pretende che il Signore sia fedele alle minacce e non al Suo amore. Nella mentalità biblica, però, la minaccia divina presuppone il ravvedimento del peccatore. Ma la bontà di Dio deve tradursi in una ortoprassi del profeta, del credente. Agostino, commentando la Prima Lettera di Giovanni, scrive: “La carità è un dono talmente esclusivo di Dio da essere chiamata Dio stesso”. Carità e Dio sono sinonimi. La fede che non si traduce in azione a che serve? Agostino, in La Trinità, aggiunge: “solo la carità può fare in modo che la fede sia utile”. Nei Discorsi arriva a sostenere che è con l’ampiezza della carità che Dio cammina in noi. Giona non ha voglia di essere caritatevole con i niniviti perché, s - ragiona, non è giusto salvare chi non ha la mia stessa fede; perché rischiare di predicare contro i pagani quando ormai Dio ha già espresso una condanna? Argomenta e non si abbandona. La ragione, pur avendo con essa qualche relazione, non è la fonte della carità. Scrive Tommaso d’Aquino: “La carità è nella volontà, non è però estranea alla ragione. Tuttavia la ragione non è la regola della carità (…). La carità è regolata dalla sapienza di Dio, e supera la regola della natura umana”. Giona è apatico, vuole una tranquillità piatta e vuota e non può avere una volontà orientata alla carità; la natura umana – argomenta Tommaso - viene superata dalla sapienza di Dio che regola la carità. Eppure, siamo chiamati ad incarnare in gesti concreti la sapienza di Dio perché, recita un antico assioma teologico, Dio non opera da se stesso ciò che può operare attraverso le creature.

Giona pensa che una volta peccato non si torni indietro. Per questo vuole andare quanto più lontano da chi è diverso da lui; invece, Dio – proprio mentre fugge – lo fa trovare a contatto con chi non ha la sua stessa fede. Mentre lui non si preoccupa di lasciar perire milioni di niniviti, i marinai pagani si fanno scrupolo di gettarlo in mare (azione da Giona stesso richiesta). Non osano toccarlo ma avvertono il dramma: non vogliono suscitare, uccidendolo, le ire del suo dio; ma perché salvarlo se egli lo fugge? I mariani lo interrogano, lo fanno parlare e non lo condannano direttamente, pur avendo chiaro che la tempesta è stata scatenata a causa sua. Secondo i Padri questo fu predisposto da Dio per educare Giona alla misericordia. San Giovanni Crisostomo gli parla direttamente: “Imita i naviganti! Essi che, pagani, non si curano della salvezza dell’anima, vogliono risparmiare il tuo corpo; tu, per quanto sta in te, non esiteresti a mettere a repentaglio un’intera città. Tu, invitato a predicare la conversione, hai disobbedito; essi, pur sapendoti colpevole, cercano in ogni modo di salvarti”. Un commentatore ebraico sottolinea che, paradossalmente, proprio l’amore lo spinge a voler evitare di predicare a Ninive. Già, ma quale amore? Rashi, ragiona: “Che cosa pensò (…)così da non voler andare a Ninive? Disse: ‘I pagani sono vicini al pentimento; se porto loro l’annunzio ed essi faranno penitenza, io finirò per condannare Israele, che non presta ascolto alle parole dei profeti”.

La fede come amore esclusivo per il proprio popolo, comunità, famiglia rattrappisce in egoismo che offende Dio e nuoce al prossimo. Laddove non si è col cuore pieno d’amore non vi si giungerà nemmeno fisicamente. Il rifiuto dell’altro, del pagano, è traduzione di un rigetto costruito mentalmente. Ricordo una leggenda indiana. Un vecchio pellegrino, in pieno inverno, voleva raggiungere le montagne dell’Himalaya, ma sopraggiunse una pioggia pericolosissima. Nella locanda presso la quale si fermò, si sentì chiedere: Come farai, buon uomo, ad arrivare lassù con questo tempo pessimo? Risposta: Il mio cuore è già arrivato, l’altra parte di me non avrà difficoltà a seguirlo. Ecco il dramma: il cuore di Giona non era mai stato sfiorato dal terrore che una intera metropoli potesse scomparire; non si è attivata in lui la volontà che accende la carità, ma solo la ragione che pretende di stabilire le regole della carità: la salvezza degli altri non merita di mettere in gioco la propria tranquillità.

Dio, però, sa scrivere dritto su righe storte e, alla fine, Giona predica contro Ninive che si ravvede e si salva. Questo, tuttavia, irrita ancora di più il profeta. Quando era nel ventre del pesce aveva detto: ‘con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto’(2, 11). Sì, ma lo farà a malincuore visto che, come il fratello del figlio prodigo del Vangelo (Lc 15, 25 – 30), si rattrista per la riammissione presso il Padre di chi se ne era allontanato. Giona possiamo considerarlo come il figlio maggiore che resta vicino al Padre e non accetta che il fratello, dissipata la sua parte di ricchezza, venga riammesso in casa. Ma Dio sa che la fedeltà a Lui è già un premio e non può non gioire se un Suo figlio era perduto ed è stato ritrovato. Ninive è come il figlio prodigo: torna a casa e questa conversione è la gioia del Padre. Leggiamo che Ninive sarà distrutta ma, esaminando il verbo in ebraico, hapak, scopriamo che oltre a ‘distruggere’, si può leggere Ninive sarà capovolta, si convertirà. Paradossale: non sono i pagani ad essere testardi, ma chi ha ricevuto la missione di far loro cambiare condotta e mentalità! Non dimentichiamo che per ben due volte il Signore spinge questo profeta a compiere la sua missione. Quello che conta, però, è che i niniviti – come si legge nel testo – tutti insieme (anche le bestie)invocarono Dio e fecero penitenza. La salvezza, altro insegnamento per Giona, non è un fatto privato, ma comunitario, laddove per comunità si intende l’intera umanità. Giona, di fronte a questo lieto evento, chiede a Dio di farlo morire: non può sopportare che il suo oracolo di sventura sia andato a vuoto, né sa accettare che, mentre il suo popolo si rivolta contro il Signore, Ninive si sia convertita. Lascia la città e si mette ad osservare cosa vi accade da lunga distanza. Ma non era sempre stato lontano da Ninive? Non era mai stato là col cuore, come pensare che vi sostasse fisicamente? Si protegge con una capanna di frasche dall’arsura, sceglie di stare all’ombra. Si può interpretare così: l’ombra è la sua zona oscura infarcita di egoismo e di risentimento.

Giona si costruisce una capanna fuori Ninive e, accanto ad essa, Dio fa spuntare un ricino ma solo per farlo morire subito dopo. Si tratta di una pianta che in Oriente è considerata solo erbaccia. Nella morte del ricino, che non è opera sua, sperimenta concreta mente la distruzione che, per Ninive, pensava astrattamente. Come il ricino è donato e tolto, così la vita umana è gratuita. Il libro si chiude con questa domanda a Giona: non dovrei avere io pietà di un intero popolo se tu ti rattristi per un ricino che non hai fatto e che non ti appartiene di diritto? Non ci viene fornita la risposta perché la domanda è per tutti noi. Perché, potremmo chiederci, il Signore non lascia perdere questo profeta pieno di limiti e difetti e si sceglie un partner migliore? Il fatto è che, malgrado o proprio grazie ai nostri difetti e limiti, Dio vuole un rapporto personale con l’uomo a partire dalla sua condizione esistenziale, per disastrata che sia. Coda afferma che quella con Dio non è “nel suo porsi (…)una relazione generale, valevole per tutti e indistinta, ma (…)un’offerta puntuale e particolare d’alleanza: quella con Abramo, con Mosé (…)con Israele e (…)anche con il singolo”.

Giona, in fondo, è uno che vuole starsene tranquillo ma, come spiega Newman, essere tranquilli significa essere in pericolo. Pericoloso è perdere l’appuntamento con Dio. Questo profeta non vuol cedere sulla sua idea di Dio perché è ciò che ne giustifica la gretta mentalità; dunque, non cambia idea su Dio per non cambiare se stesso. Ma, diciamolo, la prima forma di carità è perdersi e non perdere ciò che si ha. Gregorio Magno non esitava a rimarcare che è poca cosa abbandonare ciò che abbiamo perché il dono supremo sta nel cedere ciò che siamo. A questo profeta manca la nostalgia di quello che potremmo essere (Nietzsche). Giona si accontenta, invece, dell’io che è. Si affatica solo al pensiero di fare il primo passo verso Ninive perché la sua vita non è finalizzata al cammino dell’amore. Chi cammina sulla via dell’amore, invece, diceva San Giovanni della Croce, “non stanca e non si stanca”. La fede di questo profeta è immatura e, come dice Drummond de Andrade, amare è un privilegio di chi è maturo.

Nelle crisi come quelle patite da Giona, tuttavia, v’è del positivo. I giapponesi tracciano due caratteri per scrivere la parola crisi: un carattere significa pericolo, rovina imminente e, l’altro, occasione favorevole, apertura imminente. Un poeta tedesco diceva che dove cresce il pericolo là cresce la possibilità della nostra salvezza. Giona sperimenta che, da qualsiasi punto precipiti, cade in Dio. Jean Yves Laloup sintetizza questa esperienza: Dove io cado/Dio scende (e nella stiva della nave, nel ventre della balena il profeta avverte sempre la presenza divina). È sceso più in basso/di dove io sono caduto/Dove io salgo/Dio attende/È sempre più in alto/di dove io sono salito. Questa Presenza immancabile, avvertita costantemente, mette la fede al riparo da ogni difficoltà a viverla e testimoniarla. Un esempio. Aveva già trentaquattro anni Ignazio di Loyola quando si accomodò con i ragazzini a studiare il latino per poter, poi, dedicarsi alla teologia. Tutti ne osteggiavano l’operato con questa motivazione: non aveva compiuto studi accademici. All’Università di Alcalà de Henares subì un processo da parte dell’Inquisizione perché aveva osato, senza essere Dottore in Teologia, prendersi cura di anime. All’Università di Salamanca non andò meglio; lì, infatti, furono i domenicani ad attaccarlo per gli stessi motivi. Davanti a tutto questo, però, Ignazio oppose: “In tutta Salamanca non si trovano manette né catene capaci di impedire il mio desiderio di amare Dio!”. Quando è assente questa determinazione ci si ammala della sindrome di Giona.

Difficile è ubbidire a Dio e, questo, lo sperimentiamo spesso. Padre Mapple, personaggio di Melville in Moby Dick, afferma: “tutte le cose che Iddio vuole che noi facciamo sono difficili per noi (…). Se ubbidiamo a Dio, noi dobbiamo disubbidire a noi stessi; ed è in questa disubbidienza che consiste la difficoltà di ubbidire a Dio”. Giona non vuole disubbidire a se stesso: non accetta di profetare per essere smentito anche se ciò valesse la salvezza di una intera popolazione. Eppure Dio è sempre con lui: “anche (…)quando la balena scese a posarsi sulle estreme ossature dell’oceano – aggiunge padre Mapple - , anche allora Iddio udì il grido dell’inabissato profeta pentito”. Ribadiamolo: solo quando, durante la tempesta, è costretto a professare la propria appartenen za al suo popolo Giona prende coscienza della sua identità. Perché? In fondo, è un solitario, ama stare seduto per conto suo e, come alla fine del libro, osservare dal di fuori, al fresco di una capanna quello che accade intorno a lui. Non è capace di pensare ed agire in prospettiva comunitaria, ma soltanto in quella miseramente nazionalistica. Nouwen spiega cosa si debba intende re per comunità, comunione: “La comunione ha poco a che fare con la reciproca compatibilità. Una uguale educazione, il temperamento o l’appartenenza a una determinata condizione sociale possono tenerci insieme ma non costituiranno mai il fondamento della comunione. La comunione ha il suo fondamento in Dio che ci chiama all’unità e non all’attrazione reciproca delle persone. Esistono molti gruppi che sono stati istituiti per difendere i propri interessi, per sostenere i loro privilegi o per promuovere le loro cause (…)questi gruppi si chiudono di fronte a reali o possibili intrusi. Il mistero della comunione consiste proprio nel fatto che essa comprende tutte le persone, quali che siano le loro differenze individuali”. Giona pensa di appartenere ad una comunità della quale difendere il privilegio di essere popolo eletto; pensa che i niniviti siano gli altri in quanto esclusi dal progetto salvifico di Dio e non comprende che una comunità è tale se a tutti riconosce la possibilità di farvi parte. La comunione ha il suo fondamento in Dio ed è Lui che, piaccia o no al profeta ribelle, decide che Ninive faccia parte dei salvati.

Resta da dire, come si esprime Murray, che “dall’inizio alla fine” – in questo libretto – “il punto in discussione è il trascendente mistero della libertà di Dio e dell’amore di Dio”. Temi che non ci toccano per tangenza esterna e la vicenda si chiude con una domanda che non riguarda solo Giona: Non vale la pena di salvare Ninive? Ci deve sconcertare che una minaccia di Dio vada a vuoto? Ma non si realizza proprio quando suscita conversione (che è la segreta speranza divina)? Continua Murray: “è come se la domanda (…)sul pregiudizio e la compassione, di colpo, e con forza e autorità (…)fosse diretta a noi lettori. E così non siamo più semplici spettatori della storia (…), ma ne siamo attivamente partecipi (…)nella pagina aperta di fronte a noi con quel totale silenzio che segue alla domanda, ci viene offerta la sorprendente libertà e opportunità di scrivere noi stessi il paragrafo finale”. La nostra missione verso quelli di fuori comincia esattamente dal prendere coscienza di questa domanda. Alzarci ed andare per annunciare non ‘una parola’, ma ‘questa parola’ è una sfida che parte laddove si chiude, in forma interroga tiva, il libretto.

La fede è “un continuo pellegrinaggio del cuore. Desideri incalzanti, canti infiammati, pensieri coraggiosi” (Heschel). Per non ammalarci della sindrome di Giona – che tende sempre più a regredire in un infantile desiderio di protezione, dobbiamo imparare il dono di sé e che, come evangelicamente ci viene insegnato, custodire egoisticamente la vita significa perderla. Leonardo Boff ha ricordato la figura eroica di padre Luis Espinal, un gesuita che si schierò dalla parte dei più deboli fino a subire un sequestro e la fucilazione.  Tenne una orazione intitolata Usare la vita che intendo riportare per intero: Gesù Cristo disse: ‘Chi vuole economizzare la vita, la perderà; e chi la userà per me, la ricupererà in vita eterna’. Malgrado tutto abbiamo paura di usare la vita e di consegnarla senza riserve. Un terribile istinto di conservazione ci porta all’egoismo e ci tormenta quando desideriamo rischiarla. Cerchiamo ovunque sicurezza, per evitare i rischi. E soprattutto vi è codardia …Signore Gesù Cristo, abbiamo paura di usare la vita. Anche se tu ce l’hai data perché la usassimo. Non possiamo economizzarla in uno sterile egoismo. Usare la vita vuol dire lavorare per gli altri, anche per quelli che non ci pagano; fare un favore a chi non ce lo può restituire; usare la vita è arrischiarla, anche nell’insuccesso, senza false prudenze, esporsi al fuoco per il prossimo. Siamo fiaccole e abbiamo senso solo quando bruciamo, solo così saremo luce. Liberaci dalla prudenza codarda, da quella che ci fa evitare il sacrificio e cercare la sicurezza. Usare la vita non si fa pomposamente e con falsa teatralità. La vita si dedica semplicemente senza pubblicità, come acqua di fonte, come la madre che dà il petto al figlio, come l’umile sudore del seminatore. Allenaci, o Signore, a lanciarci nell’impossibile, perché dietro all’impos sibile c’è la tua grazia e la tua presenza; non possiamo cadere nel vuoto. Il futuro è un enigma, il nostro cammino penetra nelle nuvole; tuttavia, vogliamo continuare a darci, perché tu stai aspettando nella notte, con mille occhi, colmi di lacrime

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