Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Riflessioni sul New Atheism

L’ateismo assoluto è più rispettabile dell’indifferenza mondana […]. L’ateo assoluto sta pur sempre sul penultimo gradino prima della più perfetta fede (e non si sa se lo varchi o no), mentre l’indifferente non ha più nessuna fede, tranne la cattiva paura (F. Dostoevskij, I demoni, parte II).

Oggi torna prepotentemente attuale la domanda che, contestando Mosé per le difficoltà patite dopo aver lasciato l’Egitto, gli israeliti gridarono: Il Signore è in mezzo a noi, o no? (Es 17, 7). L’Europa – si lamenta da più parti – non ricorda più di avere anche un’anima cristiana [1]. Numerose sono le voci che trionfalmente cantano la gioiosa e progressiva scristianizzazione in Europa. È un fatto che il primo ministro francese, Lionel Jospin, telefonava a Roman Herzog (presidente della Convenzione europea) e tuonava contro l’inserimento del benché minimo riferimento all’eredità religiosa dell’Europa nella Carta dei diritti fondamentali. Tempo fa, inoltre, Giscard d’Estaing, sulle pagine del Corriere della Sera, rispondendo ad una serie di domande, ricordava che il riferimento al cristianesimo è assente nella Costituzione per l’Europa, ma c’è un accenno alla religione. Poco da stare allegri, comunque; infatti, l’intervistato, malinconicamente, aggiungeva: molti non ci volevano neppure quello. Insistiamo: il Signore è in mezzo a noi, o no? È facile allestire una galleria di “figure” che tentano, non solo di rispondere negativamente, ma addirittura di cancellare, dal fascio delle inquietudini umane, l’interrogazione stessa. Siamo di fronte al cosiddetto New Atheism. Un colpo di martello devastante alla religione lo assesta il filosofo Daniel Dennett quando afferma che la “religione” dovrebbe cadere prona sotto lo sguardo freddo, impietosamente analitico, della “biologia evoluzionista”. Il pensatore cattolico Augusto Del Noce ha detto, motivatamente, che l’ateismo ha voluto essere il destino della modernità. Ormai, come anticipato, dobbiamo fare i conti con un nuovo ateismo irriverente, dissacratorio e che, malgrado per molti versi si fonda su presupposti scientifici, spesso muove da posizioni intrise di una acredine motivabile unicamente sul piano della polemica personale. Le posture, gli atteggiamenti pacchiani di certi “nuovi atei” tendono a sminuire l’importanza del “fatto religioso”; in realtà, non può mai essere una cosa semplice o ridanciana sopprimere una “dimensione” umana fondante. Se andiamo con la mente agli atei moderni (Nietzsche ne è, indubbiamente, la figura centrale) ci accorgiamo che, oggi, si assiste ad un ateismo per nulla difficile e tormentato. Ha scritto un filosofo, saggista e drammaturgo contemporaneo, se l’ateismo «diventasse troppo di comodo […], si trasformerebbe […] in un feticcio domestico»; ammettiamolo: «non è poi così facile essere atei davvero» [2].

Per tutta la mia vita ho cercato di essere un ateo (J. P. Sartre)

Prima di attaccare il cristianesimo, però, il New Atheism mina le basi del sentimento religioso. La battaglia è spietata ed un premio Nobel, Steven Weinberg, dichiara che il mondo deve ridestarsi dal lungo incubo della religione. Il già citato Dennett, dal canto suo, al termine “incubo” preferisce quello di incantesimo. La sua tesi fondamentale, recita: gli uomini, per ormai troppo tempo, sono stati soggetti all’incantesimo delle grandi idee religiose [3]. Esse, in fondo, nulla hanno di soprannaturale; per il nostro autore, infatti, la religione – sebbene sia troppo importante per non occuparsene – non è altro che un fenomeno naturale e, come tale, va sottoposto al vaglio critico e corrosivo delle leggi della fisica e della biologia. Dennett ritiene gli ‘atei’ ben disposti a discutere le proprie posizioni, mentre rinviene nei soggetti religiosi una insopportabile inclinazione a rifuggire dal dibattito. Mi pare, tuttavia, che le teologie moderne e contemporanee non confermino del tutto questo giudizio. Il filosofo, poi, sostiene che, per poter affermare le virtù della propria religione, ogni uomo deve pagare un prezzo: essere pienamente disponibile a sottoporre quanto afferma a un esame rigoroso. In realtà, i teologi maggiormente avvertiti riguardo a questo genere di polemiche, non esitano a riconoscere che il credente stesso, almeno per quello che riguarda l’ambito cristiano, fa i conti con dubbi ed interrogativi taglienti: «l’atto di fede è un mistero per lo stesso credente… il credente non potrà mai analizzare né razionalizzare pienamente la sua chiamata alla fede; l’elemento decisivo di tale chiamata sfugge ad ogni tentativo di riflessione» [4]. L’apparato simbolico delle religioni, per Dennett, va messo in discussione perché foriero di non lievi pericoli. Il filosofo afferma che se Al Qaeda avesse colpito la Statua della Libertà, la reazione americana sarebbe stata più violenta, meno razionale. Lady Libertà, infatti, è il simbolo più amato dagli statunitensi. I simboli sono pericolosi perché, scrive, possono diventare troppo sacri! Ora, però, colpisce al cuore il cristianesimo invitando i fedeli a sottoporre ad esami l’Eucaristia, l’Ostia consacrata per rinvenirvi il DNA di Gesù! Una picconata che rasenta lo squallore. Dennett, poi, si preoccupa di ciò che chiama salute culturale; la si tutela, a suo parere, cercando di stabilire se la religione è nociva. La decisione, non mi sorprende, viene affidata agli scienziati. Dennett è graniticamente convinto che la religione abbia ormai svolto il suo compito e, per questo, le tocca lasciare la scena alla scienza [5]

Coloro che negano Dio sono destinati ad attribuire tutte le Sue caratteristiche a esseri in carne ed ossa (I. B. Singer)

Richard Dawkins, scienziato e nemico acerrimo delle religioni, afferma che, fin quando sosterremo che la fede va “rispettata” in quanto tale, «sarà difficile negare rispetto alla fede di Osama bin Laden e dei terroristi suicidi» [6]. Nelle prime pagine de L’illusione di Dio sostiene che il libro raggiungerà il suo scopo se i lettori credenti, quando lo richiuderanno, saranno finalmente ‘atei’! È un’affermazione che tradisce una gran superbia intellettuale. Si possono mettere sullo stesso piano una fede religiosa ed il fondamentalismo, il fanatismo? Fissandosi sulle derive che, col terrorismo islamico, le credenze religiose conoscono (non a partire da oggi), il nostro autore giustifica la sua battaglia: «faccio tutto il possibile per mettere la gente in guardia contro la religione, e non solo contro quella dei cosiddetti “estremisti”». Tutto sullo stesso piano, “fanatismo” e “fede”! Questo apologeta della non credenza conia un termine: fede – centrici; si riferisce, cioè, ai credenti più tenaci che possono essere tali, però, unicamente perché sottoposti ad un indottrinamento iniziato nella prima infanzia. Una frustata arriva sul volto dei cristiani cattolici quando Dawkins, tacciando di immoralità la Sacra Scrittura, afferma che la Bibbia «non è il tipo di libro che si può dare ai figli per la loro formazione morale» [7]. È chiaro che qui viene completamente ignorata la lunga e complessa storia dell’interpretazione delle Scritture. Paradossale: si contesta ai credenti di leggere i testi sacri in maniera letterale, di non distanziarsi criticamente dalle posizioni in essi enunciate e poi, proprio i nuovi atei, commettono lo stesso errore. Siamo sicuri, però, che sia innocente ignorare, da parte loro, i progressi che l’esegesi ha compiuto negli ultimi secoli? Dawkins considera il Dio dell’Antico Testamento come – il personaggio più sgradevole di tutta la letteratura; Egli è geloso e fiero di esserlo; è, per lo più, un bullo misogino. Sono solo alcuni tra gli sgradevoli epiteti che l’autore dedica al Dio ebraico – cristiano e frutto sicuramente di ignoranza riguardo all’esegesi più recente.

Scristianizziamoci! Scristianizziamo il popolo (E. Reclus)

Come Dennett, anche Dawkins pensa che sia la scienza a dover occupare i terreni un tempo sotto la custodia del religioso, del cristianesimo [8] . È la pretesa, potremmo dire, di far valere incondizionatamente la ferrea logica del 2 + 2 = 4! Possediamo una rete che può pescare solo brani di realtà che non superino la larghezza delle sue maglie. Quanto supera il calcolabile sfugge alla rete scientista. Riprendendo l’immagine ittica dell’astrofisico inglese Arthur Eddington, immaginiamo che uno studioso dei pesci getti ininterrottamente la rete ed analizzi scientificamente quanto cattura; dopo lunghi anni, concluderà che i pesci superano i 5 cm di lunghezza. È una “legge universale” o non, piuttosto, la conferma che i pesci di dimensione diversa sono sfuggiti alla rete? Peschiamo quello che la nostra rete – ragione (strumentale, calcolante) ci consente [9]. Le scienze esatte, la ragione calcolante ci stanno di fronte come un muro di pietra: ad esso non bisogna arrendersi, poiché il Senso è “oltre” ogni possibile risposta alle nostre domande scientifiche – per dirla con Wittgenstein. È Dostoevskij a parlarci del “muro di pietra”: quello elevato con le nozioni – mattoni delle ‘leggi di natura’, delle ‘deduzioni delle scienze naturali’, della ‘matematica’: «S’intende – scrive il nostro autore – che non cercherò di abbattere quel muro a testate se non avrò davvero la forza di abbatterlo, ma non mi concilierò con esso soltanto perché mi trovo davanti a un muro di pietra e le mie forze non sono sufficienti» [10].

“Non conciliarsi col muro di pietra” delle leggi che mettono fuori legge le questioni del Senso – è l’imperativo da ossequiare. Nei Ricordi del sottosuolo (cit. pp. 22 – 23), si afferma che occorre accettare il fatto così com’è: 2 + 2 = 4! L’uomo spirituale, replica: «ma a me che importa […] se […] queste leggi e questo due più due fa quattro non mi piacciono?». In un altro capolavoro della letteratura russa firmato da Turgenev[11], l’ateo Bazarov, sostiene una tesi nettamente scientista: «La cosa importante è che due più due fa quattro, e il resto son tutte sciocchezze […]. Anche la natura è una sciocchezza […] non è un tempio, ma un laboratorio, e l’uomo ci lavora dentro» (cit. p. 59). Ad un occhio che non lascia entrare riflessi di Trascendenza il mondo appare come un laboratorio a disposizione della nostra volontà di potenza. Di fronte ad una bella donna, Bazarov dice: «Un corpo che è una meraviglia […] da portarlo subito sul tavolo anatomico» (p. 97). La vita diviene qualcosa da riempire con qualsiasi cosa. Bazarov, ancora: «nella valigia è rimasto posto, e io ci metto del fieno; così nella valigia della nostra vita: con cosa non la riempiamo, perché non ci resti del posto» (p. 201). L’ateismo di stampo scientifico, in fondo, parte dalla certezza che quanto esiste non è frutto di un Progetto. L’antesignano di questa mentalità è un autore che fa passare gli uomini per zingari che vagano, senza meta, in un universo non creato per loro: «Soltanto il caso è all’origine di ogni novità […] caso puro […], libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione: oggi questa nozione […] non è più un’ipotesi fra le molte possibili […], ma è la sola concepibile […] l’unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l’osservazione e l’esperienza» [12].

Fino all’ultimo resteranno in noi zone di incredulità la cui scoperta a volte ci sorprende (Roger Schutz)

Queste che sembrano posizioni coraggiose, tese a liberare l’uomo da umilianti, soffocanti tutele Trascendenti, in realtà, portati anche dalle seduzioni del caso e della necessità, ci fanno giungere nella terra desolata (T. S. Eliot) del nonsenso postmoderno. Si usa oggi (sono costretto, per motivi di spazio, a sintetizzare drasticamente) ricorrere alle teorie di Charles Darwin per assestare picconate efficaci ai sostenitori del Progetto Intelligente (un modo, banalizziamo ancora, per dimostrare che l’evoluzionismo ha reso superfluo il ricorso a qualsiasi testo sacro per capire chi siamo!). In realtà, Darwin, per quanto riguarda le innegabili “implicazioni teologiche” delle sue idee, non rimase quieto; c’era, in verità, più di una dolorosa contraddizione tra quanto la fede gli aveva insegnato e quanto l’osservazione scientifica gli rivelava. Ecco cosa il naturalista inglese scriveva ad un amico riguardo al rapporto tra “Selezione naturale” e “Creazione”: «Quanto all’aspetto teologico della questione, esso m’è sempre doloroso. Sono confuso. Non avevo intenzione di scrivere da ateo, ma devo confessare che non riesco a vedere prove di benevolenza e di disegno tutt’intorno a noi così chiaramente come le vedono altri, e come io stesso vorrei vedere. Mi sembra che nel mondo ci sia troppa infelicità […]. D’altra parte, non posso affatto accontentarmi di vedere questo meraviglioso universo, e soprattutto la natura dell’uomo, e di concludere che tutto è il risultato di forze cieche. Sono incline a vedere in ogni cosa il risultato di leggi progettate con i particolari, buoni o cattivi che siano, lasciati all’opera di ciò che possiamo chiamare il caso. Non che questa opinione mi soddisfaccia completamente. Sento nel mio intimo che l’intero argomento è troppo profondo per l’intelletto umano: è come se un cane speculasse sulla mente di Newton. Ognuno speri e creda come può» [13]. In queste parole di Darwin c’è chi può rintracciare, onestamente, tracce di scientismo o elementi di superbia dovuta ad una presunta superiorità epistemica? In una lettera del 1870, poi, ancora un riferimento alla sua posizione teologica: «La mia teologia è semplicemente un pasticcio: non posso vedere nell’universo solo il risultato del caso cieco, eppure non riesco a vedere nei particolari alcuna prova di disegno benefico, anzi di un disegno qualsivoglia» [14]. Niente tranquillità interiore, dunque, laddove si desidera vedere l’ordine (un agostiniano ordo amoris) nella realtà e si trova, invece, il caos! Gerhard Lohfink, in un recente studio sull’ateismo, cita una lettera che il naturalista inglese, nel 1860, inviò a Asa Gray: «Non riesco a persuadermi che un Dio benefico e onnipotente abbia volutamente creato gli icneumonidi con l’espressa intenzione che essi si nutrano entro il corpo vivente dei bruchi» [15]. A Darwin – anche in questo caso – pareva dolorosa e non poco l’inconciliabilità tra la credenza in un Dio benefico ed onnipotente e lo spettacolo orrendo, cruento, di una vespa parassita che si nutre violando l’interno del corpo di un bruco. Il suo dolore dovrebbe dar da pensare a quanti vivono un allegro nichilismo ed un ateismo tipo ‘lasciamo stare l’Oltre ed andiamo all’osteria’! Lohfink, che ha citato il naturalista inglese, commenta: «Gli icneumonidi di cui parla Darwin sono vespe parassite, di cui esistono determinate specie che pungono i bruchi e poi depongono le proprie uova all’interno dei bruchi vivi. Dalle uova strisciano fuori larve che cominciano immediatamente a mangiare. Il bruco rappresenta la loro sala da pranzo vivente. Questo è piuttosto disgustoso e Darwin non riusciva a persuadersi che un Dio buono abbia dovuto escogitare una cosa tanto ripugnante. Perciò dubitava sempre più dell’esistenza di Dio» [16].

Credo nella religione del dubbio. Ecco, questa è la mia religione (P. Gobetti)

Il neopositivista Rudolf Carnap aggrediva alla radice la validità delle espressioni (soprattutto linguistiche) religiose ed assimilava il «significato delle espressioni “conoscenza” e “scienza” al campo del razionale»; faceva di più: sosteneva che deviare dal campo del razionale è un’azione «assolutamente inopportuna» [17]. I confini – dunque – sono stati ben tracciati (almeno dal punto di vista epistemico). Il neopositivismo, poi, stabilisce una nuova regola: «conoscibile è tutto ciò che si può esprimere» [18]. Andrebbe aggiunto: ciò che si può esprimere “con linguaggio scientifico”; “conoscibile” è unicamente quanto è scientificamente verificabile. Carnap, scriveva: «Una proposizione vuol dire solo ciò che in essa è verificabile […], una proposizione, ammesso che voglia dire qualcosa, può significare soltanto dei fatti empirici. Una cosa per principio posta al di là dell’esperibile non potrebbe essere né detta, né pensata, né indagata» [19]. Il riferimento, qui, è alla metafisica strictu sensu; tuttavia, è noto che questi intellettuali applicano lo stesso filtro critico alle espressioni religiose. Come parlare di Dio, farne il Nome, se una proposizione vale solo se verificabile? Si può “verificare” – su simili presupposti – la sensatezza dell’espressione “Dio esiste”? Certo che no! Infatti – secondo Carnap – una proposizione che “vuole significare” non può che esprimere fatti empirici. Che ha che vedere Dio con l’empirico? È innegabilmente al di là dell’esperibile (sempre, ripeto, in accezione scientista); dunque, ne consegue che Dio non può, per Carnap e per quasi tutti i pensatori del Circolo di Vienna, essere detto, pensato, indagato. Sono, queste, le radici dell’ateismo semantico. L’attacco alla teologia ed al sostrato metafisico di essa, a questo punto, può venire sprezzantemente e spregiudicatamente alla luce. Nel manifesto programmatico del Circolo di Vienna, leggiamo: «La metafisica e la teologia credono, ingannandosi, che le loro proposizioni dicano qualcosa o che denotino uno stato di cose. L’analisi, tuttavia, mostra che queste proposizioni non dicono niente, ma esprimono semplicemente un certo stato d’animo»[20]. L’accusa che l’ateismo semantico o linguistico rivolge all’universo espressivo teologico è di fondare su metafore, su toni poetici e, per questo, impresentabili come verità. Chiedo: non c’è verità anche nella poesia? Le immagini, le metafore, sono frequenti nell’esposizione di ragionamenti scientifici. La fede parla per immagini e queste non ne sono l’accidentale rivestimento. Il cristiano, quando parla (poeticamente, metaforicamente) della Trascendenza, non si illude; piuttosto, allude: «Veniamo spesso invitati a riformulare la nostra fede in una veste libera da metafore e simboli. La ragione per cui non lo facciamo è che non possiamo. Possiamo, se volete, dire “Dio entrò nella storia” invece di dire “Dio discese sulla terra”. Ma […] “entrò” è altrettanto metaforico quanto “discese” […]. Possiamo rendere le immagini più prosaiche, ma non possiamo fare a meno di servirci di immagini» [21].

Se Dio esiste, l’uomo è nulla: ma se l’uomo esiste dov’è Dio? (J. P. Sartre)

L’ateismo semantico tende a svalutare ogni proposizione profumata di religioso per confinarla nel ristretto, innocuo, perimetro degli stati d’animo. La teologia si inganna se pensa di fare affermazioni dotate di significato. Chi conosce la Teologia del Novecento, sa bene che è stato già sottolineato che di un “dio tappabuchi” abbiamo finalmente imparato a fare a meno; che il linguaggio religioso ha bisogno di una rivisitazione semantica. Scrive un teologo protestante morto per mano dei nazisti: «l’uomo ha imparato e badare a se stesso in tutte le questioni importanti, senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro Dio» e «si è visto che tutto funziona anche senza Dio e non meno bene di prima» [22].  Che un Dio “solo pensato” sia riducibile, al più, ad un Ornamento (Vattimo) [23] è cosa nota, ormai, anche ai teologi: Dio, ammettiamolo, «resta al di là del concetto» [24].

[L’ateo assoluto] sta sul penultimo gradino della fede perfetta (F. Dostoevskij)

Filosofo e studioso di neuroscienza, Sam Harris invita a sgombrare la fede dal mondo mediante la ragione e la divulgazione scientifica. La fede – per questo autore – permette di esistere a credenze prive di giustificazione e, in più, che spingono a commettere i «crimini più mostruosi contro l’umanità» [25]. Ci resta solo, come si esprime Harris, da attendere la fine della fede – che metterà fine a religioni e terrore – poiché un “futuro” è possibile immaginarlo unicamente per la ragione. A pagina 149 del saggio, il filosofo predice la serrata definitiva dell’“ufficio teologico”: «verrà un tempo in cui dovremo riconoscere una verità ovvia: la teologia oggi è poco più di una branca dell’ignoranza umana […] è un’ignoranza in grado di volare» [26]. L’ignoranza è al cuore della teologia, eppure vola verso sogni che non raramente si traducono in una prassi violenta. Sarà compito dei teologi, dei credenti mostrare che le cose non stanno in questo modo. Le religioni, in realtà, possono essere anche veicoli di pace! Come l’altro esponente del New Atheism, Richard Dawkins, anche Harris attacca la Bibbia. Il primo aveva parlato di immoralità della Sacra Scrittura, aggiungendo che la Bibbia non è il tipo di libro che si può dare ai figli per la loro formazione morale. Per Harris [27], invece, dovrebbe generare non lieve perplessità il fatto che la Bibbia, che si pretende sia stata scritta da un autore onnisciente, possa non essere, poi, «la fonte più ricca di idee matematiche di tutti i tempi»; possibile che in essa non si trovino insegnamenti esatti «sull’elettricità, o sul DNA, o sulla vera età e sulle vere dimensioni dell’universo» ? [28]. Siamo, qui, di fronte ad una conclamata ignoranza riguardo gli sviluppi della storia delle interpretazioni della Bibbia; questa, sappiamo, non è un testo scientifico e non ha interesse a divulgare alcuna teoria cosmologica! Racconta, piuttosto, la storia che si svolge tra Dio e l’uomo, parla della Salvezza. La Scrittura, diceva Galilei, ci interessa non per sapere “come va il cielo”, ma “come si vada al cielo”! Nel saggio La fine della fede (cit.), Harris non parla, se ho letto bene, di “ateismo” in senso stretto; non attacca filosoficamente la religione, la fede, ma analizza e discute le concrete conseguenze (irrimediabilmente nefaste) che teologi, teologie e testi sacri producono sulla società e sugli individui. Quanto gode oggi della definizione di sacro, a suo dire, è soltanto ciò che un tempo era ritenuto essere tale! Il sacro è un reperto archeologico che ha perso anche la bellezza ed il valore delle ‘cose’ antiche. Harris non riesce a definire la fede religiosa se non una specificità culturale perversa e la Bibbia (torna a colpirla con violenza) viene ridotta all’opera di uomini e donne coperti di sabbia e, l’errore si rinnova, ricchi solo di errate cognizioni scientifiche [29] . Il problema è che quasi tutti gli esponenti del New Atheism leggono il religioso, la fede, unicamente alla luce degli eventi luttuosi recenti causati dal fondamentalismo islamico e giudicano il Cristianesimo soltanto alla luce di quanto a loro, nella morale cattolica, risulta inaccettabile. Harris dice di non vedere la differenza che passa tra un uomo che crede di ottenere in ricompensa da Dio 72 vergini per aver ucciso alcuni ebrei (allude ai musulmani) e un soggetto convinto che le creature di Alpha Centauri gli stiano inviando messaggi per la pace del mondo attraverso l’asciugacapelli. Siamo d’accordo con lui quando si tratta di mettere sotto accusa le derive conosciute dalle religioni, dalla fede; tuttavia, non ce la sentiamo di seguirlo quando riduce il religioso e la fede a mera e cruenta superstizione. Il filosofo irride ripetutamente i musulmani (non tutti, in verità, meritano le sue critiche) e, riguardo all’usanza delle donne islamiche di portare il velo, scrive:  realmente pensano che il creatore dell’universo si interessi di sartoria? Si può, chiedo, entrare con tanta irridente violenza verbale nel cuore di chi sinceramente vive una fede religiosa? La cultura viene inevitabilmente nutrita dai succhi religiosi. Gettare tutto alle ortiche o consegnare indiscriminatamente ogni anelito e comportamento religioso al ridicolo è ingiustificato! Dio ed Allah, infine, non ci aiuteranno a distruggere il mondo, per Harris, unicamente se li metteremo sullo stesso piano di Apollo e Baal. Agli esponenti del New Atheism bisognerebbe suggerire di non accanirsi a distruggere quelli che ritengono essere “idoli” solo per procurare un trono vacante ai “loro idoli”.

L’ateismo ben compreso è l’espressione necessaria di una spiritualità che ha esaurito le sue possibilità religiose, ed è perfettamente compatibile con un autentico desiderio di religione (O. Spengler)

Raccogliamo qualche idea, ora, da un altro noto ed agguerrito contestatore delle fedi religiose. Cristopher Hitchens, taglia corto: «la religione è prodotta dall’uomo». L’uomo, producendola, però, esercita, per riprendere una espressione cara a Nietzsche, il veneficio (Hitchens denuncia proprio questo: la religione avvelena ogni cosa) [30]. Strana posizione per uno che si chiama Cristoforo – “portatore di Cristo”! La religione, scrive a pagina 270 di Dio non è grande (cit.), «non ha ormai più scusanti. Grazie al telescopio e al microscopio, non fornisce più alcuna spiegazione di qualche importanza». Torna ossessivamente l’idea – guida del New Atheism: la potente ed indiscutibile avanzata del sapere scientifico toglie alle fedi religiose qualsiasi alibi per continuare ad esistere. Resta da stabilire, però, chi dovrà prendersi in carico le domande fondamentali di Senso che continuano ad inquietare i pensieri umani [31]. Nel suo indomabile furore polemico Hitchens trascina anche il Buddhismo, Gandhi e riserva un trattamento migliore soltanto a Martin Luther King. Ad ogni buon conto, per il nostro autore resta fermo che chi si professa combattente divino e si appoggia, per questo, alle proprie certezze, denuncia esplicitamente la sua  appartenenza all’infanzia della nostra specie. Rimane solo da attendere la nascita di un nuovo Illuminismo a difesa del “pluralismo laico”. Il fedele – soprattutto il cristiano – è solo un combattente divino? Contro chi, se ha una fede religiosa autentica, deve battersi? Qui si stanno criticando le derive del religioso che nessuno di noi ha mai smesso severamente di condannare. Il cristiano autentico vive il sacramento del fratello ed è l’uomo per l’Altro/altro [32]. Leggere il fenomeno religioso unicamente in chiave patologica non è una patologia? Non è un disturbo di natura personale quello che spinge ad una visione miseramente unilaterale di ciò che, all’opposto, è complesso, variegato, multicolore? Gli autori del New Atheism si sentono tutti dei chirurghi in dovere di rimuovere un carcinoma. Dawkins sostiene che non ci si deve preoccupare del virus dell’Aids, del morbo della mucca pazza, né di altre minacci simili; ci si deve dare pensiero, piuttosto, di quello che non esita ad etichettare come uno dei più grandi mali del mondo: la “fede religiosa”! È un male che questo polemico autore accosta al virus del vaiolo ma che, rispetto ad esso, risulta più difficile da estirpare. Dawkins è particolarmente affezionato ad una frase di Robert Pirsig: L’illusione di una persona è chiamata malattia mentale; l’illusione di cui sono vittime molte persone è chiamata Religione!

Né la parola data né i patti e i giuramenti, che sono i vincoli della società umana, possono essere stabiliti o essere sacri: eliminato Dio, anche soltanto col pensiero, tutte queste cose cadono (J. Locke)

Va ricordato, a beneficio dei meno avvertiti riguardo la storia del pensiero teologico, che c’è anche una Teologia della “morte di Dio”. L’espressione non ha paternità nicciana, eppure è proprio col pensatore tedesco che essa assurge ad un livello altamente problematico, drammatico. Quale Dio muore per la filosofia e la teologia moderna e contemporanea? “Morte di Dio” è una formula che si trascina dietro una potente opera di decostruzione della metafisica. Siamo, ora, nell’ambito di quello che un pensatore italiano definisce nichilismo religioso: «è l’espressione di un più alto sentimento di Dio – spiega Vincenzo Vitiello –, che oltrepassa ogni immagine umana di Dio […]. La “morte di Dio” è espressione ambigua […]. Non dice ancora il Nulla di Dio, dice però la fine dell’immagine umana di Dio, troppo spesso confusa con Dio» [33]. Ecco cosa muore: una immagine umana di Dio che, vuoi anche per motivi teoretici complessi, viene troppo spesso confusa con Dio! È questo il fecondo terreno comune: credenti ed atei possono ritrovarsi nello sforzo di smascherare le immagini troppo umane di Dio che finiscono, quasi sempre, per favorire immagini disumane, troppo disumane, del mondo. Un suggerimento, perciò, va registrato: «Il cristianesimo come novità quotidiana, come scandalo che scuote l’esistenza anziché addomesticarne il lato tragico attraverso false protezioni, può trovare nell’ateismo non il nemico acerrimo, ma un compagno con il quale condividere un lungo tratto di cammino assieme, proprio perché numerosi sono gli avversari in comune: l’idolatria, le mistificazioni, le finte rassicurazioni metafisiche, l’oblio del carattere perturbante dell’esistenza, il disconoscimento della finitezza» [34].



La fede si nutre di interrogativi (Henri Fesquet)

Gli atei, spesso, non amano sentir parlare di un dio che si qualifica come tale innanzitutto perché pare si sia dimenticato completamente degli uomini [35]. A nessuno riesce facile accettare un dio che appare nei panni di un antagonista dell’uomo. Proclamare la “morte” di un dio simile si dà come la sola soluzione praticabile per garantirsi spazi di esistenza. Qui la morte di dio non è più un evento inatteso, ma una deliberata decisione degli uomini (non dice Nietzsche che siamo stati noi ad uccidere Dio?) [36]. I cristiani – quando si rifiutavano di sottomettersi agli dèi – venivano accusati di ateismo. Prima di Nietzsche, sapete chi ha, pure a colpi di martello, spinto gli “idoli al crepuscolo”? Proprio il Dio ebraico – cristiano! Nel Decalogo è proibito, infatti, avere altri dèi. C’è, nel comandamento, qualcosa che richiama l’amore e qualcosa d’altro che si può definire teologia a colpi di martello: «“Non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20, 3). Quel “me” […] fa dei Dieci Comandamenti […] un dialogo amoroso». È questa la parte positiva dell’espressione biblica che ha, però, anche il potere di spingerci in un abisso. Tu non avrai altri dèi. «Questa è teologia a colpi di martello. L’alba di Dio ha inizio con il crepuscolo degli idoli. La fede esige che non si abbiano altri dèi; che da quel punto di vista lì si sia totalmente atei» [37]. Nietzsche, dunque, ha ripetuto il gesto di Dio: affrettare il “crepuscolo degli idoli”, ma non perché sorgesse l’alba di Dio, bensì per liberare la scena del mondo ed accogliervi l’Oltreuomo [38]. La rimozione del Trascendente, però, ha luogo in quanto si è incappati in una caricatura di Dio. Nietzsche fa esclamare al suo Zarathustra: «Basta un dio così! Meglio nessun dio, meglio costruirsi il destino con le proprie mani, meglio essere un folle, meglio essere noi stessi dio!» [39]. Si fa presto a condannare chi si esprime in questo modo; in realtà, se leggiamo tra le righe, ci accorgiamo che Zarathustra sta lanciando parole infuocate che mostrano come «la rabbia contro Dio è effettivamente ispirata da un desiderio di Dio, di un Dio veramente divino, cioè umano» [40]. Fate attenzione: il personaggio nicciano non esclama basta con Dio!; grida – invece – basta con un Dio così! Basta, cioè, con una “immagine umana, troppo umana” del divino che finisce, il più delle volte, con il sovrapporre l’inumanità dell’uomo alla Bontà infinita del Creatore. E le due cose, ahimé!, spesso vengono confuse. Nietzsche, a leggere onestamente, ha reso un servizio ai cristiani: mostra – col suo tormento teoretico e vissuto – quali siano i mali derivanti dall’affidarsi ad un dio ricoperto di zavorre moralistiche che servono soltanto ad un interessato gruppo di fedeli (formalmente) – infedeli (sostanzialmente). Le parole che sto per annotare escono dalla penna di uno studioso della mistica orientale ed occidentale: «il lavoro di Nietzsche nei confronti del cristianesimo è stato prevalentemente quello di una critica agli ideali e alla morale, che si servono di una immagine oggettivistica di Dio, e di un concetto statico, che serve appunto a quella morale e a quei bisogni […]. Nietzsche non sopporta la religione per quello che ha di servile, di dipendenza da altro, la deteriore e falsa “umiltà” che si esprime nella morale della piccola gente» [41]. È interessante rilevare che l’autore di queste parole, il Vannini, definisce il filosofo tedesco una grande personalità religiosa. In un certo senso, è giusto: tutte le grandi personalità religiose non accettano che al posto di Dio stia una caricatura filosofica o un fantasma costruito a garanzia dei propri interessi. In ogni cristiano, uomo religioso, sonnecchia un ateo – è stato detto; ebbene, in molti atei si agita un credente che, come Zarathustra, può esclamare basta con un Dio così! perché è convinto, in cuor suo, che gli stanno proponendo il volto “non autentico” del Creatore. Atei capaci di risvegliarci da sicurezze poggianti su traballanti sofismi, di affiancarci nel difficile lavoro di ripulitura, da incrostazioni superstiziose ed ideologiche, del Volto di Dio, meritano di starci a fianco e di camminare con noi verso la Verità [42]. L’ateo che pensa, che inquieta le certezze a buon prezzo che abbiamo acquisito e deviate su di un binario morto, è una ricchezza per aumentare e raffinare la fede: «esistono atei che ogni cristiano desidererebbe di cuore avere come interlocutori. Il loro ateismo lo aiuta a chiarire la propria fede e a liberarlo da una scorretta zavorra. L’incontro con un ateismo […] critico con se stesso può soltanto ravvivare la fede. Tra la fede cristiana e l’ateismo autentico […] vi sono molti punti in comune. Poiché la fede giudaico – cristiana è incessantemente impegnata a negare gli dèi del mondo e a criticare nella maniera più acuta le false immagini di Dio […]. Non andrebbe mai dimenticato che i cristiani delle origini venivano descritti come “atei” dai […] pagani […] per questo motivo […]. Michail Bachtin dice […]: “La fede vive sul confine con l’ateismo, lo guarda e lo comprende: l’ateismo vive davvero al confine con la fede e comprende la fede” […]. E il vero credente comprende l’ateo perché anche lui è un critico delle religioni. Il vero pericolo per la fede non è […] l’ateismo, bensì l’indifferenza, la tiepidezza, la pigrizia intellettuale, l’arroganza – dall’interno come dall’esterno»[43]

L’ultimo Dio sparirà con l’ultimo uomo (Michel Onfray)

Sam Harris ha detto di voler demolire le pretese morali e intellettuali del cristianesimo. In Francia – per raggiungere lo stesso scopo – è stato riproposto un termine coniato da Bataille: ateologia. Un filosofo francese, Michel Onfray, ha scritto addirittura un trattato: Trattato di ateologia uscito in Italia grazie all’editore romano Fazi nel 2005. Nella sola Francia questo libro ha venduto oltre 200. 000 copie! Nel volume i credenti vengono etichettati come persone tese verso rassicuranti infantili finzioni; tutto, pur di non fare i conti con le crudeli certezze degli adulti. Il bersaglio critico preferito da questo autore, però, sono le persone e le istituzioni che diffondono il virus religioso. I credenti vengono paragonati a vittime ed i responsabili della diffusione delle fedi religiose a carnefici! Onfray, poi, capovolge la celebre sentenza – Dio non esiste, allora tutto è permesso – e la riscrive in questo modo: poiché Dio esiste, allora tutto è permesso! Egli esiste e ciò consente e legittima, appellandosi alla Sua Parola, ogni sorta di crudeltà. Al filosofo francese disturba il fatto che la religione sottometta l’intelligenza all’obbedienza. C’è al fondo della “fede religiosa” una “pulsione di morte”! Le tre religioni monoteistiche, per il nostro autore, invitano a non vivere “qui ed ora”; magnificano, piuttosto, un’“aldilà” fittizio [44] . Chi rinuncia a vivere, per Onfray, paga due volte il tributo alla morte. Il pensatore impiega molto spazio per sottolineare l’aspetto “patologico” del religioso. Jahvè, Gesù, Allah – a suo dire – sono soltanto le utili finzioni che Mosè, Paolo di Tarso, Costantino e Maometto utilizzano per tener testa alle forze oscure che li tormentano. Questo magma maligno, poi, vien da loro proiettato sul mondo che diviene sempre più oscuro, mentre la loro interiorità nessun giovamento ne ricava. Le figure religiose evocate, dunque, per Onfray, tengono in piedi quello che egli definisce l’impero patologico della pulsione di morte. Essa, più che con i cascami di utili finzioni religiose, andrebbe curata con un lavoro filosofico su di sé; mediante, cioè, un lavoro introspettivo che faccia perdere terreno ai sogni e deliri di cui si nutrono gli dèi. L’ateismo, nella prospettiva aperta dal pensatore francese, più che una “terapia”, è già di per sé una salute mentale recuperata [45]. Se occorre decostruire, smontare gli impianti di senso religiosi, però, è altrettanto necessario – precisa Onfray – che ci si dedichi all’allestimento di un nuovo progetto etico per la imminente era post – cristiana. Il vuoto lasciato dai riferimenti assiologici di natura religiosa va colmato con una morale post – cristiana. Liberi dalle appartenenze religiose, dice il filosofo, guarderemo finalmente all’altro non più come nemico, bensì, come l’occasione di un’intersoggettività da costruire qui ed ora [46]. Come è agevole comprendere, questo autore non ha interesse a demolire ‘filosoficamente’ alcun credo religioso; piuttosto, vuole decostruire i testi sacri per finalità pratiche («La teoria ateologica di Onfray si offre come una visione del mondo e di filosofia pratica… la sua non vuole essere un’analisi teoretica, ma piuttosto un esercizio di decostruzione di idee legate alle dottrine monoteistiche» [Gianluca Miligi]). Con l’ateologia, spiega lo stesso filosofo, non si vuole provare l’inesistenza di Dio, ma si procede soltanto allo smontaggio dei testi sacri. Onfray, in una intervista, ha proposto, senza cautele espressive, di scristianizzare ogni ambito della vita civile. Invoca più leggi utili a tale scopo ed affinché, in una Repubblica ‘laica’, risulti sempre più evidente che si è usciti definitivamente dalle tutele religioso/cristiane! La laicità post – cristiana deve collocarsi definitivamente oltre gli ‘effetti’ prodotti fino ad ora dal cristianesimo. Nel Trattato di ateologia, rimarcando un tema squisitamente nicciano, si afferma che, creare oltremondi, è pericoloso: ci fa dimenticarsi della realtà. Fin quando daremo ascolto al timore, alla paura, all’angoscia, incalza Onfray, lasceremo agire delle macchine per creare divinità. La tesi di questo autore che più mi dà a pensare è questa: inevitabilmente sta per seguire un’era postcristiana [47]. Talmente sta a cuore ad Onfray lasciarsi al più presto alle spalle un’epoca che, in qualche modo, possa dirsi ancora cristiana, che giudica non uno scopo la negazione di Dio, ma solo un mezzo per inaugurare un’era completamente laica. Non è facile – denuncia il nostro autore – definirsi “atei”, poiché così ci possono soltanto chiamare gli altri. Tale epiteto, aggiunge, disgraziatamente, viene impiegato soltanto e sempre nella prospettiva insultante di un’autorità impaziente di condannare. Si ha, qui, quella che il filosofo francese ritiene essere una costruzione linguistica finalizzata a rendere sempre più aspra una amputazione: a – teo, mis – credente, a – gnostico, non – credente. Termini che definiscono un soggetto a partire da ciò che pare essere una sua imperdonabile mancanza. È decisamente difficile aprire un colloquio con uomini definiti unicamente con denominazioni negative. Non è giusto, protesta (e qui siamo in parte con lui) Onfray, comportarsi in tal modo con quanti si portano oltre il pensiero magico e le favole [48].

Non c’è, in definitiva, alcun punto d’incontro tra “credenti” ed “atei”? In realtà, qualche cosa di positivo l’abbiamo disseminato lungo il percorso che stiamo svolgendo. A questo punto, però, dobbiamo scomodare nuovamente il politologo americano Michael Novak. A suo dire, “fede” e “mancanza di fede” non vanno messe in netta contrapposizione; non sono «due teorie rivali sui fenomeni dell’universo», ma due orizzonti alternativi che il nostro autore denomina blick. Il termine venne coniato da R. M. Hare ed indica, non una ‘spiegazione’ ma, piuttosto, il modo in cui decidiamo ciò che “conta” come spiegazione: «Un blick è un modo di osservare la realtà che non è smentita da alcuna testimonianza contraria. Rappresenta un modo concorrente di vedere il mondo, in virtù del quale alcuni fatti sembrano più rilevanti e più presumibilmente veri rispetto ad altri nel nostro modo di giudicare la realtà quotidiana. Deriva dal proprio orizzonte personale» [49]. Aver fede o non averne implica l’apertura di due modi di giudicare la realtà quotidiana che non devono finire col configurarsi come teorie rivali, ma vanno tenuti entrambi vivi in quanto orizzonti alternativi. Entrambi gli orizzonti, poi, sono il frutto di un modo personale di “vedere la realtà”! Le cose, allora, stanno in questo modo: «l’ateismo è un blick, esattamente come […] lo sono […] la fede cristiana e quella ebraica. Il mondo appare piuttosto differente a ognuno di questi blick» [50]. Mettere a confronto i due orizzonti non ha lo scopo – precisa Novak – di convincere una delle due parti in causa; il fine, piuttosto, è il rispetto reciproco tra i titolari dei due orizzonti, a differenza di quanto accade, purtroppo, «ormai da parecchie generazioni» [51]. I saperi specializzati, spesso alleati con i “nuovi atei”, non possono continuare a vantare la pretesa di estromettere religione e cristianesimo dai loro campi di indagine. Se il Trascendente è stato cacciato dai “discorsi” dei “saperi mondani”, è rimasto presente – anche laddove ha pesato assai con il silenzio (insidiato dal grido delle vittime innocenti) – è sempre rimasto presente, dicevamo, come l’assenza acuita dal fallimento sanguinoso delle ideologie totalitarie. Ha ragione Novak: «nel Ventesimo secolo è stato più facile incontrare Dio nelle prigioni e nelle camere di tortura che nelle università» [52].

Che cos’è l’uomo più felice senza la fede? Un fiore in un bicchiere d’acqua, senza radici e senza durata
(Camillo Cavour)

Si è molto parlato della visita di Benedetto XVI in Inghilterra. È il Pontefice che ha dichiarato beato il Cardinale John Henry Newman (1801 – 1890), un anglicano che si convertì, all’età di 44 anni, al cattolicesimo [53]. Perché inserirlo nel nostro discorso? Ci sono due considerazioni scolpite nella sua copiosa produzione di scrittore che mostrano la sua capacità di vedere, da lontano, i pericoli di certe posizioni intellettuali. Era consapevole che, in fatto di religione, non esistono strade asfaltate, praticabili senza intoppi ed intralci. È una realtà da attraversare coraggiosamente perché in religione – scriveva il grande Newman – «tutte le strade hanno ostacoli; questa ha una robusta cancellata, quella attraversa una palude. Non per questo non si deve prenderla; la religione non deve essere un punto morto, il cristianesimo non deve morire. Dove si va altrimenti?» [54]. Notate l’attualità impressionante di queste parole! Le religioni, oggi, non sono forse strade con tanti ostacoli? Eppure, rappresentando (contrariamente a quanto affermano i pensatori del New Atheism) una dimensione ineliminabile dell’uomo, sono strade necessariamente da prendere. La religione – dovendo fare i conti con le provocazioni dei “nuovi atei” – diciamo con Newman, non deve essere un punto morto, né è consigliabile lasciar morire il cristianesimo. La questione tocca il senso della vita, riguarda la necessità di offrire una direzione alla Storia: dove si va, altrimenti? – chiedeva già allora il cardinale inglese. Nel cuore della modernità, il beato aveva individuata una carie pericolosa: lo spirito di incredulità. Newman non esitava a descrivere il male più grande del nostro secolo: «La proposizione fondamentale della nuova filosofia […] è questa: che in tutte le cose dobbiamo regolarci secondo ragione, in nessuna secondo la fede, e che non possiamo conoscere ed accettare alcunché se non nella misura in cui sia stato dimostrato» [55]. Ecco le radici dei “nuovi atei”: regolarsi unicamente secondo ragione e mai attingendo alla fede; conoscere significa accettare unicamente quanto supera il vaglio della dimostrazione scientifica. Regole procedurali buone per chi fa scienza sono state – indebitamente – trasferite sul terreno eterogeneo del religioso, della fede mossi dal desiderio di colonizzarlo. Ai “nuovi atei”, che con odio manifestano il proprio pensiero, andrebbe ricordata una riflessione di Albert Einstein: Gli ateisti fanatici sono come schiavi che continuano a sentire il peso opprimente delle catene anche dopo essersene liberati con grande sforzo. Sono creature che – chiuse nel loro rancore contro la religione tradizionale, intesa come “oppio di popoli” – non riescono a sentire la musica delle sfere. Ma ci sono, in realtà, attimi della vita nei quali le acquisizioni scientifiche tacciono ed irrompe, direbbe Karl Barth, come un potente pugno nello stomaco, la Trascendenza.

Nell’atto di fede c’è sempre un momento in cui bisogna chiudere gli occhi e buttarsi in acqua con cuore intrepido e senza garanzia apparente (Paul Claudel)

Forse è tutta qui la questione: si verifica sempre l’irruzione di un momento che impone di chiudere gli occhi e, privi di salvagente, gettarsi nel mare magnum della fede! Comprendere fino in fondo questi momenti è possibile? La precedenza, in questi casi, va alla credenza e non all’intelligenza. Uno dei filosofi più importanti del Novecento, scrive: «La fede si comprende solo credendoci» [56]. Credere significa avere consapevolezza che davvero la Trascendenza entra attraverso la porta di attimi kairologici irrompendo come un pugno nello stomaco (Barth). In attimi come epifanie e non in catene di ragionamenti pazientemente tessute lungo giorni e giorni di accademismi teoretici: ecco dove preferisce mostrarsi Dio! Uno scrittore russo illustra questa esperienza al limite del dicibile e del razionalizzabile: «Dio mio! Un attimo di vera beatitudine! È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?» [57]. Si decide qui l’autenticità del rapporto con la Trascendenza: riuscire a far in modo che un attimo di vera beatitudine possa riempire tutta la vita di un uomo! Perfino il demoniaco Kirillov – in un’altra opera del già citato scrittore russo – allude a quegli ‘istanti’, «non più di cinque o sei secondi ogni volta, in cui si avverte la presenza dell’eterna armonia, pienamente raggiunta […]. È una sensazione chiara e incontestabile. È come se […] improvvisamente si dicesse: sì, questa è la verità […]. In cinque secondi io vivo tutta una vita, e per essi sono pronto a dare la vita» [58]. Kirillov ha risposto positivamente alla sfida di instaurare un rapporto vivo, autentico con la Trascendenza: ha sperimentato che in un attimo (cinque secondi) ha vissuto tutta una vita. Si tratta di momenti talmente pregni di Dio e della presenza dell’eterna armonia pienamente raggiunta, che il personaggio di Dostoevskij si dice per essi pronto a dare la vita. In queste testimonianze cadono tutte le polemiche, svapora l’acredine mostrata dai “nuovi atei”. Sono gli uomini ai quali hanno tenuto la testa troppo tempo sott’acqua ad apprezzare la libera respirazione. Volere Dio è volere respirare! In un lunghissimo eppur incompiuto romanzo del Novecento, ci viene presentata la figura di un uomo che, più che negare Dio, se ne tiene alla larga! Il suo atteggiamento – come quello di molti “nuovi atei” – deriva dal pensare, obbedendo ai dettami dello scientismo, che il credere in Dio sia questione meramente sentimentale: «Ulrich era abituato a ragionare non tanto come negatore di Dio quanto da uomo che sta al di fuori di Dio, che secondo la scienza significa lasciare in balìa del sentimento ogni possibile moto verso Dio perché questo non può promuovere la conoscenza […]. Egli in quel momento non aveva alcun dubbio che questo fosse il solo atteggiamento giusto […]. Ma il pensiero che lo tentava disse: - E se questa libertà da Dio [Ungöttliche] non fosse altro che la via moderna verso Dio?» [59]. Si noti la differenza degli attimi vissuti dal personaggio di Robert Musil: quando, in qualche modo, si pone la “questione Dio”, non dubita del fatto che sta coinvolgendo il sentimento e non la conoscenza. L’aspetto negativo della cosa è ritenere che questo sia il solo atteggiamento giusto! È questa una pecca dei “nuovi atei”: pensare a Dio è una questione marginale in quanto non permette di accrescere la conoscenza e rimane confinata nel sentimentale. La conoscenza, però, provoco, è soltanto di tipo scientifico (scientista)? Sminuire il sentimento, come se ogni possibile moto verso Dio non fosse che una vacanza dalla vera conoscenza, conduce a pensare che, privilegiando la scienza, si sperimenta la Ungöttliche (libertà da Dio). Solo allo scopo di procurarci la “libertà da Dio” è lecito farvi riferimento? Nello romanzo di Musil, poi, appare la figura di una donna, Agathe, fortemente tentata da pensieri suicidi. L’irrompere di “tracce di Trascendenza”, anche qui, avviene attraverso la porta stretta, ma santa e benedetta, di attimi (irruzione del Kairos nel kronos). Pensare a suicidarsi, in Agathe, non escludeva il fluire in lei della «speranza che morte e terrore non fossero l’ultima parola […] lo sentiva bene, tutto ciò da cui era presa con tanta forza non era interamente scevro dal costante sospetto che si trattasse di mera apparenza». La tenue luce di speranza che resisteva nel cuore della donna non era in grado di vincere il costante sospetto che gli attimi di salvezza che parevano affacciarsi sul suo dolore fossero illusione, apparenza! Eppure – «non le fu difficile credere che dietro a lei, nello spazio dove non si può mai figgere lo sguardo, forse c’era Dio». Forse c’era Dio! Si sta – qui – tra dubbio e speranza. Inizia a prodursi una striscia di sole nel buio dello spirito. Era costante il sospetto che la voce consolante che Agathe sentiva in sé non fosse autentica; tuttavia, alle spalle, laddove lo sguardo non giunge, la donna crede, senza difficoltà, alla Presenza! Lo sguardo non può arrivare dove Dio si trova: possiamo guardare solo avanti e non è detto che, non visto, Dio non ci stia seguendo! Agathe «dovette confessarsi […] di aver sentito ‘Dio’ così chiaramente come un uomo che stesse ritto dietro di lei e le ponesse un mantello intorno alle spalle» [60]. La donna sente Dio e, per comunicare una sensazione così potente, ma refrattaria a farsi esprimere a parole, non trova di meglio che una metafora: la Presenza è “come” un uomo che, per proteggerti, ti avvolge in un mantello. Non un teorema, una dimostrazione razionale, ma il sentimento della Presenza che protegge: ecco chi è Dio negli attimi in cui – avviluppati nel dolore, nella disperazione – si affaccia, improvvisa, la mano amica della Trascendenza. È potente come un “pugno”, ma ti tocca come una “carezza”. Metafore? Sì, ma animate dalla sincera fede nella Presenza che non si lascia ridurre ad alcunché di verificabile in senso strettamente scientista. Laddove si trovasse la formula di Dio saremmo necessitati a credere ed una storia d’amore si trasformerebbe in un ossequio intellettuale ad una astrazione. (Dostoevskij diceva che la “formica”, l’“ape” hanno la loro formula [il “formicaio”, l’“alveare”], ma l’uomo non ce l’ha. Nemmeno Dio!). Lasciamoci, dunque, con la parola del regnante Pontefice. Se non è possibile farne l’Oggetto di una dimostrazione apodittica, Dio – ci insegnava l’allora Cardinale Ratzinger – rimane comunque «l’ipotesi migliore […] che esige da parte nostra di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile»[61]. L’ascolto umile sostituisce la parola superba della scienza che pretende, direbbe Montale, di squadrare la realtà da tutti i lati; esso si colloca, perciò, con attenzione, negli attimi attraverso ai quali possiamo sperare entri Dio per circondarci, volendo riprendere l’immagine di Musil, col mantello del Suo Amore, della Sua Misericordia. Amen! 




[1] L’avvenuta svalutazione di riferimenti religiosi comuni ha costituito un impoverimento notevole per il patrimonio spirituale europeo. Sono penetranti e condivisibili le analisi di uno studioso contemporaneo: «L’Occidente non è più l’Europa, né geografica, né storica; non è più nemmeno un complesso di credenze condivise da un gruppo umano […]; proponiamo di leggerlo come una macchina impersonale senza anima». È una macchina impazzita che, «se emancipa dai legami della tradizione, la ragione sulla quale pretende di fondarsi ha di che dare le vertigini» (s. latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, lo sviluppo, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 12).
[2] Cfr., f. hadjadj, La fede dei demoni, ovvero il superamento dell’ateismo, Marietti, Genova – Milano 2010, p. 14. 
[3] daniel c. dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
[4] Cfr., j. alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986, p. 105. Chi, più del credente, è esposto alle tempeste dell’incredulità, dell’inganno? Un filosofo, al quale non poche cose contestano i cattolici, afferma: «L’aver fede è un non vedere e un non sapere. E l’apostolo Paolo dice […] che si ha fede nelle “cose che non appaiono” (non apparentium). Il fedele può quindi ingannarsi. Anzi, è solo il fedele che può ingannarsi» (e. severino, Téchne. Le radici della violenza, Rizzoli, Milano 2010, p. 69). 
[5] Oggi domina la posizione di chi ritiene che sia la scienza e non la fede a poterci salvare. Il fatto è che «gli uomini medi – oggi non sentono più bisogno di essere salvati, se non nel senso di migliorare comparativamente le proprie condizioni di vita» (s. natoli, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 119 – 120).
[6] r. dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007, p. 302.
[7] ivi., p. 244. La Bibbia è patologica oltre che immorale. Seguirne i precetti – ecco un punto fermo negli autori del New Atheism – avvelena psicologicamente e causa guasti nel mondo. Uno scrittore inglese scrive che «sono morte più persone di religione che di cancro» (dick francis, L’ultimo ostacolo, Sperling & Kupfer, Milano 1992, p. 144). 
[8] Si oppongono due studiosi: «La scoperta che la scienza di oggi deve riconoscere è che la religione è una componente indispensabile della natura dell’uomo, oltre che della scienza medesima, e che ha svolto un ruolo centrale nella storia e nell’origine della specie umana» (m. cerutig. fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 106).
[9] Cfr., a. eddington, La filosofia della scienza fisica, Laterza, Bari 1941.
[10] Cfr., f. dostoevskij, Ricordi del sottosuolo, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 32 – 33. e. severino, Dostoevskij e il “muro di pietra”, in a. di chiara (a cura di), La filosofia russa 1800 – 1900, Città del Sole, Napoli 1998, pp. 85 – 96.
[11] i. turgenev, Padri e figli, Feltrinelli, Milano 2010. 
[12] Cfr., j. monod, Il Caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970, pp. 95 – 96.
[13] c. darwin, cit. da a. la vergata, Darwinismo e naturalismo, in p. costaf. michelini (a cura di), Natura senza fine. Il naturalismo moderno e le sue forme, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006, pp. 13 – 51, qui, p. 23. 
[14] ibidem.
[15] Cit. da g. lohfink, Dio non esiste! Gli argomenti del nuovo ateismo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p. 88.
[16] ivi., pp. 88 – 89.
[17] r. carnap, La costruzione logica del mondo, Fabbri, Milano 1966, p. 358.
[18] Sui neopositivisti, neoempiristi e sul Circolo di Vienna mi sono intrattenuto in un opuscolo precedente dedicato a Wittgenstein. Qui accenno solo alle posizioni di questo gruppo di intellettuali che possano interessare direttamente la questione che dibattiamo. La frase appena citata è in m. schlick, La svolta nella filosofia, in a. pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, UTET, Torino 1969, pp. 255 – 263, qui, p. 258.
[19] r. carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, in a. pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, cit. pp. 504 – 532.
[20] Cfr., h. hahno. neurathr. carnap, La concezione scientifica del mondo, in l. lentinie. severino, Il Circolo di Vienna, in a. bausola (a cura di), Questioni di storiografia filosofica, vol. IV, La Scuola, Brescia 1978, pp. 738 – 755.
[21] Cfr., c. s. lewis, Le lettere di Berlicche e il brindisi di Berlicche, Jaca Book, Milano 2001, p. 173.
[22] Cfr., d. bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 398 – 399.
[23] Scrive, a tal proposito, un filosofo italiano: «nel tempo della morte di Dio l’incarnazione si risolve/dissolve in simbolo, il cristianesimo in immenso materiale metaforico, la fede in estetica» (s. natoli, Dio e il divino, cit. p. 38).
[24] b. welte, Dal Nulla al mistero assoluto, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 115. Le cose stanno esattamente così e per gli esponenti del neoempirismo e per i neopositivisti ed, infine, per i sostenitori dell’ateismo semantico: «l’idea di Dio (o ragione) di cui comunque disponiamo, non è l’essenza o natura di Dio, bensì solo la condizione del nostro pensarlo» (c. arata, Discorso sull’essere e ragione rivelante, Marzorati, Milano 1967, p. 20).
[25] s. harris, La fine della fede. Religione, terrore e il futuro della ragione, Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena 2006, p. 68.
[26] Il sociologo P. L. Berger, alcuni anni prima che Harris entrasse in scena, aveva scritto che si sperimenta «una gravissima crisi teologica»: «il credente o il teologo sembrano ormai aggirarsi in un paesaggio di rovine fumanti» (Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, Il Mulino, Bologna 1995, p. 21). L’unica apertura che Berger lascia è davvero poca cosa: «in seno alla cultura secolarizzata continueranno ad esserci delle isole notevoli di soprannaturalismo» (cit. p. 42). I teologi sono tenuti, scrive uno di loro, ad accettare “sfide inedite”: solo se avranno il coraggio di fare i conti con esse si potrà evitare che la teologia patisca l’esilio: cfr., c. duquoc, La teologia in esilio. La sfida della sua sopravvivenza nella cultura contemporanea, Queriniana, Brescia 2004). Anticipa tutti, però, l’“uomo dinamite”, il “filosofo col martello”: «Ma chi si preoccupa ancora oggi dei teologi, eccetto che i teologi?» (f. nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1982, Aforisma 28, p. 37). 
[27] C’è qualcosa che mette assieme gli autori citati? Proprio riferendosi ad Harris, Dennett e Dawkins, un teologo e politologo americano, annota: «sono tutti e tre convinti che la religione sia una minaccia talmente grave da non meritare alcuna apertura al dialogo» (m. novak, Nessuno può vedere Dio. Il destino comune di atei e credenti, Liberal Edizioni, Roma 2010, p. 51).
[28] Cfr., s. harris, Lettera a una nazione cristiana, Nuovi Mondi, Modena 2008, pp. 95 – 96.
[29] La Bibbia non deve fornirci una cosmologia certa, una conoscenza scientifica intoccabile da critiche ed aggiustamenti; no, essa mostra come Dio muta i nostri cuori di pietra in cuori di carne. È il racconto di una “relazione d’amore” tra Creatore e creatura che ha come lieto fine la nostra conversione: «Il vero contenuto della Bibbia è la persona stessa che la sta leggendo. Quando leggono, alcuni intendono altri no. Tutti hanno accesso alla Parola di Dio […] ma solo alcuni percepiscono realmente il messaggio» che «non è nelle parole ma nell’effetto che esse producono. È la conversione» (d. de kerckhove, La civilizzazione video – cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, p. 115).
[30] Cfr., c. hitchens, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi, Torino 2007, p. 9. Per quanto riguarda il mio riferimento a Nietzsche, si rilegga l’aforisma 3 del Prologo a Zarathustra: ci si esorta a rimanere fedeli alla terra ed a «non credere a quelli che vi parlano di sovraterrene speranza. Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio» (Cit. da j. werbick, Un Dio coinvolgente. Dottrina teologica su Dio, Queriniana, Brescia 2010, p. 129, nota 127; il poderoso saggio è diffusamente dialogante con Nietzsche!). Chi propone una speranza non terrena, dunque, per Nietzsche come per Hitchens, esercita un veneficio – avvelena ogni cosa.   
[31] C’è un punto fermo: ci si può porre unicamente la «questione del senso come questione di Dio» (k. rahner, Nuovi Saggi, IX: Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, pp. 272 – 278). 
[32] «I cristiani hanno sempre privilegiato il prigioniero, il rifugiato, il povero e lo straniero […]. La fede è posta incessantemente di fronte alla necessità di riconoscere Dio come […] presente nelle regioni (culturali, sociali, intellettuali) in cui lo credono assente» (m. de certau, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, Qiqajon, Magnano 1993, pp. 16 – 17).
[33] Cfr., b. fortev. vitiello, Dialoghi sulla fede e la ricerca di Dio, Città Nuova, Roma 2005, p. 21.
[34] Cfr., g. l. poltrinieri, Esistenza senza Dio. La provenienza “apre” sempre futuro, in «Filosofia e Teologia» 17 (2003), p. 470.
[35] «l’aspetto vero dell’ateismo […] è la negazione di un Dio che nega l’uomo» (s. fausti, Elogio del nostro tempo. Modernità, libertà e cristianesimo, Ancora, Milano 2006, p. 64). Il dibattito sull’opportunità di cancellare o no l’orma di Dio sui nostri percorsi storici si radica su due estremi degni entrambi di feroce contestazione. Vanno condannati gli estremi che toccano «coloro che pretendono di amare Dio senza però amare il proprio fratello» e quelli toccati da «coloro che pretendono di amare il loro fratello senza amare Dio. Da un lato la teocrazia disumana; dall’altro l’umanesimo ateo» (f. hadjadj, La fede dei demoni, cit. p. 211). Il credente non deve “irrigidirsi” nella teocrazia disumana, l’ateo deve guardarsi dal pericolo di “disumanizzarsi” e “disumanizzare” instaurando un umanesimo ateo!   
[36] È in questa prospettiva, credo, che acquistano senso le parole di due studiosi che riflettono sull’aforisma 125 de La gaia scienza laddove Nietzsche annuncia la “morte di Dio”: essa «non è un evento inevitabile e “naturale”, una caduta di ciò che non esisteva […], ma un’azione precisa e cruenta, che è stata commessa da sempre, e senza la quale noi uomini non potremmo esistere» (m. cerutig. fornari, Le due paci, cit. p. 65).
[37] Cfr., f. hadjadj, La fede dei demoni, cit. p. 228.
[38] In realtà, la “morte di Dio” non è una questione teologica che lascia inalterata la sfera antropologica. Da quando si è decretata la scadenza delle garanzie divine per quanto riguarda la nostra dignità, piaccia o no, a livello filosofico, come nella realtà quotidiana, l’uomo è diventato – direbbe Hölderlin – ein zeichen sind wir deutungslos (un segno privo di interpretazione): «il problema oggi non è se davvero Dio è morto, bensì se non è morto l’uomo: per il momento non in senso fisico – benché anche questo gli venga minacciato – bensì in senso spirituale» (e. fromm, La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, Milano 1992, p. 73). Il soggetto ha voluto fare il dio ed è rimasto, prima, solo con l’io e, poi, senza io e senza Dio. La modernità ha condotto, non alla reale morte di Dio, bensì, a quella che è stata definita la morte metafisica di Dio: «L’avvento del soggetto come principio della modernità segna al contempo l’ora metafisica della morte di Dio» (m. ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 64). Uccidendo Dio, però, l’uomo ha rinunciato alla scintilla divina che in lui era, non poteva essere altro, un dono: «La morte di Dio non è l’uomo che diventa Dio […]; è al contrario l’uomo espressamente obbligato a rinunciare al sogno della propria divinità. Quando gli dèi si eclissano, allora si svela realmente che gli uomini non sono dèi» (m. gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 292).
[39] f. nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, vol. VI, 1, Adelphi, Milano 1979, p. 317.
[40] Cfr., s. giametta, Commento allo “Zarathustra”, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 266.
[41] Cfr., m. vannini, Nietzsche e il Cristianesimo, D’Anna, Firenze 1986, p. 17. L’attacco frontale del “filosofo col martello” è diretto contro un dio avvolto nella ragnatela teoretico – metafisica ordita dal pensiero occidentale: «Risulta chiaro che l’affermazione di Nietzsche circa la morte di Dio riguarda il Dio cristiano. Ma è altrettanto certo […] che le espressioni “Dio” e “Dio cristiano” sono usate nel pensiero di Nietzsche per indicare il mondo soprasensibile in generale. “Dio” è il termine per designare il mondo delle idee e degli ideali […]. Così l’espressione “Dio è morto” significa che il mondo ultrasensibile è senza forza reale, non dispensa vita alcuna. La metafisica, cioè – per Nietzsche – la filosofia occidentale intesa come platonismo, è alla fine» (m. heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 198).  
[42] La Verità è sempre bene da cercare – atei o non atei che si sia: «nella buia notte di questo secolo è stata tratta una prima e fondamentale lezione dalle viscere stesse del nichilismo: la verità conta. Anche per chi non è affatto sicuro dell’esistenza di Dio, la verità è una cosa completamente diversa da una bugia. I torturatori […] finché avrai la capacità di dire “sì” o “no” secondo quanto comanda la sola verità, non potranno vincerti» (m. novak, Nessuno può vedere Dio, cit. pp. 336 – 337).
[43] Cfr., g. lohfink, Dio non esiste! cit. pp. 164 – 165.
[44] Che la “proposta cristiana” sia, invece, “radicata nella concretezza dell’esistenza”, lo testimonia un teologo protestante del Novecento che, vivendo fino il fondo il proprio credo, subì l’impiccagione da parte dei nazisti. È – potremmo dire – la verifica esistenziale che rende credibili le parole che ci ha lasciato in un appunto del 5 maggio 1944: «Non si tratta dell’aldilà, ma di questo mondo, di come è creato, conservato […] riconciliato e rinnovato. Nell’Evangelo ciò che è oltre questo mondo intende esserci per questo mondo» (d. bonhoeffer, Resistenza e resa, cit. p. 355).  
[45] Il tentativo degli esponenti del New Atheism di far passare l’uomo religioso, il cristiano, per soggetti affetti da gravi patologie genera la paura di manifestare il proprio credo religioso. Si pretende di trovare, dietro la più sincera e convinta appartenenza religiosa, qualcosa di necessariamente oscuro. Si assiste ad un «diffuso psicologismo […]. È […] come se tutti […] volessero leggere dietro i comportamenti delle persone dei secondi fini o dei significati nascosti. Il risultato è che le persone si chiudono». Cosa avviene nel campo specifico della testimonianza religiosa? «Si è giunti […] all’assurda situazione attuale in cui possiamo vedere come persone sicuramente religiose nel profondo del proprio animo si costruiscano una maschera di indifferenza di fronte agli altri per non esporsi, per non doversi sbilanciare su temi che richiedono più silenzio che discussioni. D’altro canto la religiosità non è soltanto dubbiosità, è anche intimità, pudore» (e. girmenia, L’analisi esistenziale, Armando, Roma 2003, p. 60).  Un altro autore rafforza questa tesi: «l’elemento religioso viene talvolta nascosto con pudore… Il suo compito consiste nell’impedire che qualcosa divenga un puro oggetto, un oggetto di osservazione» (v. e. frankl, Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Morcelliana, Brescia 1990, p. 55).   
[46] C’è chi, pur dolendosene, ha dovuto riconoscere la pesante svalutazione patita dalla religione e dal cristianesimo quando si racconta la storia recente: «chi dovesse scrivere la storia contemporanea potrebbe pacificamente ignorare la religione, senza per questo compromettere affatto la chiarezza e l’adeguatezza della sua visione […]. La scienza e la tecnica […] svolgono le loro ricerche completamente al di fuori di qualunque accettazione come di qualunque rifiuto di valori religiosi […]. La filosofia è lontana mille miglia dall’attribuire un senso all’assoluto delle antiche metafisiche […]. La poesia e le arti da secoli ormai non traggono alcun elemento da suggestioni o sentimenti o bisogni o intuizioni del divino. La politica ha amputato alla base i suoi legami con una autorità intesa come valore assoluto per sostituirli con il criterio della delega e della rappresentanza degli interessi dei consociati». In definitiva, l’«uomo del ventesimo secolo non sa riconoscere il senso di un rito religioso, sacro […] di collegamento con quell’assoluto che da secoli è scomparso dal suo orizzonte» (s. quinzio, Religione e futuro, Adelphi, Milano 2001, p. 13 e sg.). 
[47] A dire il vero, un problema simile se l’è posto un teologo canadese: siamo gli ultimi cristiani? Risponde: «Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani» (j. – m tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, p. 33). Con buona pace di Onfray, può finire uno stile di cristianesimo, non il cristianesimo; possono essere inattuali un certo tipo di cristiani, ma non sarà facile (io lo ritengo impossibile) eliminare del tutto i sinceri e fedeli testimoni del Vangelo!
[48] Per quanto riguarda i cristiani cattolici, va detto che non sarà mai sufficiente lo sforzo compiuto dalla Chiesa di Roma allo scopo di non interrompere i contatti con il fratello ateo pensoso – per citare Ungaretti. La Chiesa, quando non “testimonia la verità con la carità”, corre il rischio di contribuire alla crescita del numero degli atei: «Per molti uomini oggi la Chiesa nella sua forma concreta rappresenta più un impedimento che un aiuto alla fede» (w. kasper, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia 1983, p. 75). Norberto Bobbio, su La Stampa del 10 gennaio 2004, confessò: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì». Bisogna fare in modo che per le chiese «il resto del mondo» smetta di essere solo «un’entità da convertire» e cominci a valere, piuttosto, come «un gigantesco agglomerato di sofferenze da abbracciare» (asor rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, Torino 2002, p. 117). Dovremmo convertire in “manifesto programmatico” dell’impegno cristiano per l’immediato futuro le parole di un teologo napoletano: «alla fede vissuta e pensata dei cristiani è chiesta […] l’audacia di idee […] gesti significativi ed inequivocabili di carità e di giustizia nella sequela» del Crocifisso; «il cristianesimo del terzo millennio o sarà più credibile nella carità e nel servizio che» la Croce «ispira, o avrà ben poco ascolto nel cuore dei naufraghi del “secolo breve”, che restano […] alla ricerca del senso perduto, capace di dare sapore alla vita e alla storia, come solo Cristo nel suo crocifisso amore ha saputo fare» (b. forte, Dove va il Cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2000, p. 154).
[49] m. novak, Nessuno può veder Dio, cit. p. 175.
[50] ibidem.
[51] ivi., p. 186.
[52] ivi, p. 339.
[53] Non possiamo, ovviamente, dedicare molto spazio al percorso esistenziale (coincidente con quello di fede) a questo testimone della fede cristiana. Mi permetto di rimandare a p. gulisano, John Henry Newman. Profilo di un cercatore di verità, Ancora, Milano 2010. 
[54] Cfr., j. h. newman, Perdita e guadagno, Jaca Book, Milano 1996, p. 313.
[55] Cfr., j. h. newman, Sermoni cattolici, Jaca Book, Milano 1986, p. 314.
[56] Cfr., m. heidegger, Fenomenologia e teologia, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994, p. 11.
[57] f. dostoevskij, Le notti bianche, Einaudi, Torino 1983, p. 71.
[58] id, I demoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 780.
[59] Cfr., r. musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1985, vol. II, p. 1053.
[60] ivi., pp. 832 – 833.
[61] Cfr., j. ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 124. 

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