Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Custodire il Custode

L’uomo non si fida di Dio. Egli, tentato dalle parole del serpente, cova il sospetto che Dio, in fin dei conti, gli tolga qualcosa della sua vita, che Dio sia un concorrente che limita la nostra libertà e che noi saremo pienamente esseri umani soltanto quando l’avremo accantonato; insomma, che solo in questo modo possiamo realizzare in pienezza la nostra libertà. L’uomo vive nel sospetto che l’amore di Dio crei una dipendenza e che gli sia necessario sbarazzarsi di questa dipendenza per essere pienamente se stesso. L’uomo non vuole ricevere da Dio la sua esistenza e la pienezza della sua vita
(benedetto XVI, Omelia dell’8 dicembre 2005).

Nelle parole di Papa Ratzinger si coglie senza zone d’ombra il profilo drammatico e disperato che ha assunto la visione che l’uomo è capace di avere di se stesso:
un essere che confonde la relazione con la dipendenza; la custodia di Dio con la prigionia patita a causa di un Padrone metafisico senza volto. Dal giardino di Adamo sono nati, nel corso della storia, innumerevoli serpenti che insinuano il sospetto che l’uomo si impoverisce in maniera letale se si accontenta di essere immagine di Dio per tendere alla Sua somiglianza: non si regna se non si è Re; dunque, o Dio o l’uomo – come dirà Nietzsche: se c’è un dio io non sopporto di non esserlo!
All’et – et di una amorevole relazione, si sostituisce l’aut – aut di una superba separazione. Non si vuole ricevere nulla da Dio e ci si sottrae alla Sua custodia e, così, non Lo si porta in noi e non Lo si può donare agli altri. Disereda se stesso del Trascendente l’uomo e, talvolta, ha anche la sfacciataggine di chiedersi (specialmente nelle situazioni limite): Dio, dov’è?
Non ci deve salvare e noi non sentiamo il dovere di salvarlo in noi (alla fine del mio scritto chiarirò cosa intendo affermare con una espressione che, a prima vista, può sembrare ardita, se non addirittura blasfema). Mentre mi preparavo a scrivere questo libricino, ho trovato in un mio quaderno di appunti una frase del filosofo e letterato Miguel De Unamuno. Vale la pena riportarla perché introduce – accoppiata alla riflessione del regnante Pontefice qui in esergo – splendidamente il nostro tema:

Nelle mie angustie supreme io grido con Michelet: il mio io, mi strappano il mio io. È la speranza in Dio (…) l’ardente desiderio che ci sia un Dio che garantisca l’eternità della coscienza, quello che ci porta a credere in Lui: portiamo dentro Dio come sostanza di quello che speriamo. Non concepisco la libertà di un cuore…che non sia sicura del suo perdurare dopo la morte”.

Andiamo a rileggere per segmenti:
A) l’uomo si sente aggredito da ‘angustie supreme’ quando avverte che a rischio è il suo io. Non va condannata la volontà di durare, ma ci si deve chiedere: non è nella più disperata certezza di una solitudine metafisica che si può credere davvero che ci strappino il nostro io? Accade, ciò, quando l’uomo si sa non custodito;
B) A questo punto, De Unamuno, si aggrappa a Dio. Non si tratta, se non ad uno sguardo superficiale, di un comodo rifugio o dell’assunzione sconsiderata di una spiegazione che non spiega nemmeno se stessa. Qui si tratta di mostrare che, se non si aggancia la nave dell’esistenza, sballottata nel mare del tempo, ad una stella – guida, si finisce col perdere la rotta;
C) De Unamuno dice che portiamo dentro Dio. Volendo farci custodire da Lui, dobbiamo inaugurare una relazione vitale – intima. Deve stare, Dio, più in profondità del nostro io se lo vuole assistere a partire dalle sue radici invocanti l’acqua del senso. Non possono bastare, per parafrasare Severino Boezio, le consolazioni della filosofia. Nietzsche scrisse ad Overbeck il 2 giugno del 1885 che la sua filosofia era ciò che lo maltrattava giù fino alle radici. Straordinario che un linguaggio simile adottasse il gesuita e poeta Gerard Manley Hopkins che, ponendosi sotto la custodia non della filosofia, ma del divino Custode, prega: O Signore di vita (…) manda la pioggia alle mie radici.
La richiesta di senso è radicale e non si può gioire se ci si attarda a lasciar maltrattare la radice del proprio essere dalla filosofia; occorre passare dalla ricerca all’invocazione che prega perché si venga presi in custodia dal Custode. Ma questo non avviene se prima non si lascia che, come dice Unamuno, Dio sia in noi come sostanza di quello che speriamo. Un cuore, insiste l’intellettuale basco, non può essere libero se non è certo di superare la propria finitezza. Il Pontefice, nel brano riportato, scrive che l’uomo vuole liberarsi da una dipendenza; ma una relazione è anche ciò che, arrischiandoci nel metterci in tensione dialettica con altri, ci protegge dal delirio di onnipotenza, dall’elefantiasi dell’ego. Viviamo in un’epoca nella quale ormai, da tempo, per dirla con Apollinaire, le officine sono più alte delle chiese, ma di certo il desiderio e la speranza d’immortalità continua a guardare più in alto delle officine.
L’uomo vuole criticare Dio e dimentica, direbbe Moltmann, che Dio è la critica dell’uomo perché – se attraversiamo la storia della rivelazione per come ci è narrata nella Bibbia – scopriamo davvero cos’è e cosa può essere l’uomo con o senza Dio. Spero che le mie riflessioni suscitino almeno la nostalgia della custodia divina intesa sia come dono che come compito. Salvarci in Dio e salvare Dio in noi sono momenti di una unica impresa che occorre tentare per superare quella che uno studioso individua come una delle patologie più devastanti del nostro tempo: l’illusione dell’onnipotenza umana che conduce al complesso di Dio.
Si tratta di tesi argomentate da Horst Erberhard Richter che intitola proprio Il complesso di Dio un suo saggio ricco di provocazioni. Ne parla Andrès Torres Queiruga:

“Il passaggio dal Medioevo all’età moderna sarebbe stato, a suo avviso, molto simile a un processo traumatico infantile: dal sentirsi impotente dinanzi a un Dio, che tutto governa e determina (…), a cercare l’autoaffermazione in un sogno di onnipotenza egocentrica che nega i limiti della propria finitudine” [1].

Per affrontare il nostro tema, valgano pure le considerazioni di un altro studioso che, nei mali denunciati da Richter, pur individua il luogo da sanare affinché si torni ad essere custodi di Dio ed a farsi custodire da Lui:
“l’uomo occidentale, allontanandosi sempre più dal medioevo, si sarebbe talmente estraniato da Dio da tentare alla fine di mettersi al posto di Dio (…) l’uomo è stato impressionato dalla potenza, dall’onnipotenza di Dio. Di conseguenza cerca da allora di divenire a sua volta onnipotente e di ereditare l’onnipotenza divina” [2].

Il dovere di un cristiano che voglia mostrare il valore di un sano rapporto interpersonale con Dio è quello di ricordare che l’ onnipotenza divina si è rivelata come capacità di farsi impotenza consegnandosi, in Cristo, all’uomo. L’aspetto kenotico della Rivelazione non va taciuto, perché il Dio ebraico – cristiano non è un sovrano assoluto e non esercita un potere in ossequio ad un bieco e miope volontarismo. La volontà di potenza è impresa caldeggiata da Nietzsche; Gesù ha mostrato la volontà di impotenza del Padre per poter venire più accosto alla miseria dell’uomo. Essere immagine di Dio non è acquisire una potenza fine a se stessa, ma – per dirla con Buber – una potenza capace di abbracciare. Dio ci custodisce nella potenza dell’Amore e nella Sua impotenza volontariamente patita che perdona la superbia umana: custodire Dio in noi significa rifare sempre questo movimento kenotico in favore delle sorelle e dei fratelli più deboli; farsi custodire da Dio significa vivere con in e per Lui non nei termini di una dipendenza, bensì di una relazione che ci costituisce.    

Wilhelm Dilthey [3] affermava che è da sempre che l’umanità è attraversata dalle correnti della vita religiosa; siamo ‘circondati’ dalle sue tracce (monumenti, chiese…).
Pur modificandosi incessantemente, l’antico della vita religiosa, aggiungeva il filosofo tedesco, coesiste col nuovo. La religione ha dovuto spesso fare i conti con la vita profana e, pur dovendo ammettere che arte e poesia sono sue filiazioni, resta che, esse, maturando, pretendono l’autonomia.
Tuttavia, a detta di Dilthey, non gli si può dare torto, la religione è stata studiata metodicamente, universalmente e coerentemente, per la prima volta, dai moderni popoli europei. Da Kant e Lessing in poi, infine, la religione è stata valorizzata per lo più dai frutti che produce in morale. Da qui in avanti, però, si finisce col decapitare il metafisico dal tronco religioso ridotto a saggezza intramondana. Resta in piedi, ad ogni modo, che – osserva Osvald Spengler – l’ateismo sarà il frutto cresciuto sulla pianta malata della ‘grande città’ nella quale vivono gli ‘uomini colti’. Non sarà, però, che l’intellettuale che si professa ateo vive sull’invenzione di un cadavere? Invenzione perché non è possibile che l’anelito religioso, come sottolineava Dilthey, da sempre presente tra gli uomini, si spegna d’un tratto.
Non è che un nuovo mito quello che parla della morte di Dio; il certificato di morte è stato frettolosamente stilato, a mio avviso, da medici troppo interessati a diagnosticare il cancro dell’ateismo quale patologia paradossalmente positiva del nostro tempo.
A dire il vero, fosse pure inconsapevolmente, ed attraverso il mantenimento implicito di corollari culturali derivanti da una fede cristiana rinnegata, il sacro deposito non ha lasciato del tutto l’anima europea. In fondo, anche chi ne celebra l’assenza, volendo partecipare la consapevolezza di tale assenza, deve far memoria e menzione, per se e per gli altri, di Dio. D’altro canto, rovesciando la teologia in antropologia, l’uomo si è ammalato di quello che è stato definito il complesso di Dio: ci siamo messi al suo posto, ma con grave danno perché muniti di credenziali fittizie e millantate. Ad ogni buon conto, non credo sia del tutto esatto parlare di ‘morte di Dio’, perché si tratta di un delitto e non di un evento naturale…l’ateismo è un fatto culturale! L’uomo si sottrae alla custodia del divino, non è questi che l’abbandona. La riprova si può avere scomodando un poeta maledetto della modernità: Arthur Rimbaud.
Il poeta affermava e rivendicava una sua provenienza pagana, anticattolica. Nella sue vene, scrisse, circolava mauvais sang, ‘sangue cattivo, non nobile’. Dai Galli, aggiunse, mes ancêtres (suoi antenati), aveva ereditato l’idolâtrie et l’amour du sacrilège, idolatria ed amore per il sacrilegio. Ecco: il rifiuto della Trascendenza è ereditario, culturale…Confessò:
Je ne me vois jamais dans le conseils du Christ; ne dans les conseils des Seigneurs – representants du Christ; sì, non si riconosceva né in Cristo, né nei suoi rappresentanti. Sottrarsi alla custodia della fede è una scelta, un sentire altro, non un destino o una necessità. Finisce, così, che il Vangelo diventa irrecuperabile nella vita del poeta: Christ ne m’aide-t-il pas, en donnant à mon âme noblesse et liberté. Sta dicendo che Cristo non aiuta la sua anima conferendo ad essa nobiltà e non la libera. Situazione felice? Rimbaud, esclama, dopo questa addolorata confessione, Hélas!, Purtroppo!
La lontananza da Cristo non è un’apertura sulla felicità. Ormai, al poeta, ai suoi contemporanei e, quanto più agli uomini della società postmoderna, non resta che ammettere una perdita: l’Èvangile a passé!, il Vangelo è perduto [4].

Sartre, che ateo si professava e senza cedimenti, ebbe l’onestà di dire che tanti sono gli uomini e tanti i rapporti con Dio; con acuta intelligenza, poi, dava il pieno assenso alla nostra tesi quando scriveva che anche l’ateismo è un rapporto con Dio. Fosse solo per raccontare la presa di distanza da Lui, occorre parlarne. Non si può fare a meno, questo il martellante motivo che percorre, in profondità ed in superficie, il mio libello. Soltanto in una parte di mondo fortemente cristianizzata si poteva produrre l’acido corrosivo dell’ateismo. Una polemica vive soprattutto, talvolta anche inconsciamente, dell’oggetto del polemizzare. Nel metterci contro di essa, costretti perciò – pur se male – a parlarne, malgrado noi custodiamo ciò che ha la pretesa di custodirci: la Parola. Credo non si possa negare che fra ‘religiosità’ ed ‘irreligiosità’ vi sia tensione continua. Il filosofo Ortega y Gasset sosteneva che alle epoche di odium dei seguono periodi in cui improvvisamente “con la grazia intatta di una costa vergine, emerge di sottovento lo strapiombo della divinità. L’ora è adesso di questo tipo e continua a gridare dalla coffa: Dio in vista!” [5]. Malgrado nebulose proposte di tipo, in verità, pseudoreligioso, l’inquietudine per l’Oltre non fa sosta, dalla nave della storia qualcuno ha buoni motivi per gridare: Dio in vista! Si tratta, fosse anche una visione appena abbozzata e dai contorni sfumati, di fare il possibile per custodirla. A quale scopo? Prendo in prestito una immagine di Maritain.
A suo dire, dovremmo essere, più che un canale, una vasca. Essere il primo, vuol dire riversare i doni di Dio che ci attraversano, ma che non si fermano a maturare in ricchezza personale; essere la seconda, invece, equivale a ricevere la grazia e, poi, raggiunta una certa pienezza, la si distribuisce. Quanto non si fa davvero nostro, riguardo a Dio, non è trasmissibile ad altri. La fede ‘invoca’ una custodia ispirata al modello mariano: Maria serbava, custodiva le parole dell’Angelo nel suo cuore, ma le meditava anche; ne faceva una questione di vita e non semplicemente materia amorfa per riempire, in qualche modo, i magazzini freddi e disadorni di una memoria improduttiva.
La mentalità ebraica, tipica anche di Maria, insegna che la memoria è viva e rende vivo ciò che pensa. L’uomo postmoderno può conservare una gioia insaporita di Trascendente perché, sebbene non chiaramente, percepisce che, forse, si potrà gridare nuovamente, da un momento all’altro, con Ortega y Gasset, Dio in vista!
Franz Brentano amava citare Aristotele; questi, ricordava il pensatore tedesco, affermava che c’è più gioia nello scorgere, anche se soltanto da lontano e nella penombra, un essere particolarmente amato, piuttosto che vedere da molto vicino e con chiarezza un oggetto che non ci interessa. Brentano, poi, richiamava un pensiero di Leibniz; questi, sosteneva che doveva contestarsi l’idea secondo la quale non fa tremare il pensiero che non vi sia alcun Dio, mentre il pensare che esista incute timore. Leibniz affermava, in definitiva, che si può tremare temendo un gran male, ma anche al pensiero di perdere un ‘gran bene’. Si può tremare, teologizziamo la lezione leibniziana, al pensiero che la presenza di Dio si riveli tanto ingombrante da oscurare l’uomo, ma non è da non temere – se di Lui abbiamo una retta idea – l’assenza di Dio che è, come dimostrano i guasti delle società prevalentemente atee, la perdita di un ‘gran bene’. L’uomo postmoderno, disilluso dagli sconfessati proclami superomistici, trema sia per il timore di grandi mali, sia per essersi privato della possibilità di farsi custodire da Dio.
Brentano, per chiudere con lui, volendo far comprendere che il cuore umano ha necessità di nutrimenti Trascendenti, ricorre ad un verso di Goethe:
Bist du nur ein trüber Gast/Auf der dunklen Erde (Tu sei solo un’ospite oscuro/sulla nera terra).
Ecco cos’è l’uomo senza Dio. Ma non è del tutto da stigmatizzare il fatto che oggi, in una società che si regge sulla comunicazione illimitata, tutto possa essere oggetto di discussione; che si parli pure liberamente di tutto, anche di Dio…anche della Sua assenza che è il modo postmoderno di confessare che la custodia della Parola non è ufficio dimenticato.
Ha detto il filosofo Rorty che, oramai, si assiste alla priorità della democrazia sulla teologia.
Si tratta di saper sfruttare questa opportunità sforzandosi di aver ben chiaro di quale Dio si sta parlando. Tocca soprattutto a noi che ci professiamo credenti l’onere di tenere aperta la discussione, di mostrare perché e come per noi ha senso l’universo simbolico della nostra fede; di mostrare che siamo noi ad illustrare quanto sia concreto, tangibile il deposito che custodiamo e che, a sua volta, ci custodisce.
Anche la sociologia della religione ritiene fondamentale che i credenti rafforzino la loro fede e donino ragioni della loro speranza ad altri mantenendosi assidui nei riti e nella credenza. Raymond Boudon e Françoise Bourricaud, a sostegno di questa tesi, scrissero qualche anno fa:

“Non è necessario che all’esperienza religiosa corrisponda una ‘realtà’ (…), perché essa possa essere ritenuta obiettiva (…) qualcosa di diverso da una rapsodia di fantasmi e proiezioni. È sufficiente che l’insieme di riti e credenze di cui essa è costituita possa essere comunicato e vissuto dai fedeli, che rafforzano la loro comunità scoprendo il senso di questo universo simbolico” [6].

L’uomo deve, attraverso la liturgia (universo simbolico), imparare che non si tratta solo di custodire il deposito e di farsi custodire da esso, ma c’è da prepararsi, innanzitutto, a ricevere ed a riceversi dalle mani di un Altro e, per questo, ringraziare. Se siamo in grado, a livello comunitario come a livello personale, di essere – come sopra dicevamo con Maritain – la vasca nella quale si accumula, forma e fortifica, la grazia di Dio che poi elargiamo ad altri, questa sarà la sola accettabile apologia postmoderna del cristianesimo.
Non dimentico mai una frase breve, ma bella e ricca di provocazio ni, di un pensatore ebreo del Novecento:
“la gloria dell’Infinito si rivela attraverso ciò che è capace di fare nel testimone” [7], cioè, in ognuno di noi che la custodisce dinamicamente e non per mera accumulazione. Si conosce solo ciò a cui partecipiamo veramente. Custodire un bene vuol dire partecipare al suo esserci e renderlo partecipe del nostro esserci: scambio vitale, non confronto dialettico tendente ad affermare se stessi a scapito di altri. Spostando questa tesi nel modo di rapportarsi a Dio, possiamo dire che ‘conoscere’ (nel senso di partecipare) Dio non è – insegnano gli esponenti più autorevoli del pensiero neo ebraico – “un atteggiamento poetico di un soggetto pensante verso un neutrale oggetto di pensiero, ma la reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita, tra esistenze attive” [8].
Va detto che, in teologia e, in generale, nelle cose della fede, c’è  molto da capire, ma anche, se non soprattutto, tanto da volere. Io voglio, con tutto me stesso, facendomi testimone, che la Parola, il deposito che custodisco nel mentre mi custodisce, non siano lettera morta…[9].
Non si tratta soltanto di dire, di annunciare servendosi delle astuzie del linguaggio, come se il ‘dire teologico’ dovesse essere lontano dal linguaggio secolare, quello della Lebenswelt. Volere i significati teologici, di fede, non solo capirli (I. Mancini) è vera custodia di essi e motivata speranza che ci custodiscano. Non è più tempo di custodire i beni della fede avvolgendoli in un armamentario concettuale – linguistico di stampo Scolastico, ma si deve esporre la parte più intima di se stessi a godere della presenza di Dio o arrischiarla nel soffrire per la Sua assenza. Solo ciò che si compromette fino in fondo con l’esistenza interessa l’uomo del nostro tempo.
A chi fa teologia e si occupa ininterrottamente della custodia degli insegnamenti cristiani, dovrebbe risultare vitale meditare, prima di ogni esercitazione accademica, un pensiero di un autore ebraico contemporaneo:

“Nessuna lingua è in grado di descrivere la sua essenza (di Dio), ma ogni anima può partecipare alla sua presenza e sentire l’angoscia della sua terribile assenza[10].

L’angoscia di non sentirsi accanto a Dio è custodirne la Presenza sotto forma dell’assenza e grida la voce umana per una sete divina.   
“Un singolo europeo può non credere che la fede cristiana sia vera e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato”
(T. S. Eliot)

Il poeta e critico letterario Eliot aveva visto giusto: la custodia del messaggio cristiano avviene anche inconsapevolmente. Tutto quanto un europeo dice, anche contro la propria radice cristiana, ha senso ed origine in essa. Lo stesso Nietzsche poté filosofare col martello, definirsi ‘dinamite’ perché a precederlo era una storia imbevuta di umori cristiani. Si può parlare contro solo ciò che ci costituisce! Attraverso un breve apologo lo ha sottolineato un filosofo italiano contemporaneo: “C’era una volta (…) uno specchio, appeso a un chiodo, che riteneva completamente inutili i chiodi”. C’era, poi, un uomo che condannava il mangiare ed il bere; un fuoco che pensava che, senza l’impaccio della legna, la sua fiamma si sarebbe levata più pura e più in alto; una colomba che riteneva di poter volare meglio senza il freno dell’aria. Cosa hanno in comune queste figure? Conclude il filosofo:

“muovono contro qualcosa, senza di cui non potrebbe esistere questo stesso loro movimento (…) sono costretti ad accettare quel che vorrebbero rifiutare e che dunque non riescono a rifiutare per davvero” [11].

Eliot ha ragione: si può obiettare che la fede cristiana non sia vera, ma con il peso culturale che ha in Europa, proprio perché vi si polemizza contro, non la si può ignorare almeno in quanto cultura. Siamo uno specchio che può discutere il valore dei chiodi, ma non farne a meno; anzi, ribadisco, proprio perché li si mette in discussione si confessa la dipendenza da essi. La fede cristiana ci custodisce, fosse pure nei suoi derivati culturali, malgrado la nostra ferrea volontà di lasciare tale custodia.

D’altra parte, è nel corredo ontologico della fede la categoria custodia. Nel Nuovo Testamento viene definita, con un termine greco assai pregnante semanticamente, parathēké (lett. bene affidato; cfr., 1Tm 6, 20: “O Timoteo, custodisci il deposito”). Nella Seconda Lettera a Timoteo, poi, Paolo afferma che è Dio stesso il Custode del deposito della fede: “so che Egli ha il potere di custodire il mio deposito”.
Si tratta di tenere in grande considerazione le indicazioni bibliche per non incorrere nel pericolo di deviare dal giusto cammino. Sì, nell’atto di contestare la fede cristiana, si deve ‘prima’ considerare cosa è, da chi viene e che vale come bene affidato (parathēké). Ricorriamo all’etimologia. Questa stessa parola viene dal greco to étymon, che significa ‘la cosa vera’. Conoscere l’etimologia di un termine significa fare proprio il nucleo di verità che sta in esso.
Considerare – infatti – è composto da cum – sidus, ‘osservare, mettere a confronto le stelle’. Era il procedimento adottato dai naviganti per non perdere la rotta. I valori cristiani sono stelle da mettere a confronto e con i quali confrontarsi per orientarsi nella storia e sono, appunto, da considerare. Si è, in Europa, da tempo si è persa la rotta. Scriveva Hegel nella Phänomenologie che, un tempo, si riconduceva tutto il senso al cielo, tanto che si dovette volgere di nuovo l’occhio dello Spirito al ‘terreno’. Ora, però, aggiunse il filosofo, occorre rialzare lo sguardo perché il senso è del tutto “radicato in ciò che è terreno”. Lo Spirito patisce una povertà che, per Hegel, si apparenta a quella del viandante nel deserto che “brama per una sola goccia d’acqua”. In tanta ‘povertà spirituale’, “la facilità con cui lo Spirito oggi si appaga dà la misura della grandezza di ciò che ha perduto” [12] .
Torna la storia dello specchio che snobba i chiodi. Lo Spirito, appagandosi oggi di nutrimenti di scarso valore, a volte insipidi, soffre e, così, mostra proprio di che natura e portata assiologica fossero i perduti ‘nutrimenti celesti’. Lo Spirito oggi è custodito male e custodisce beni effimeri ed incapaci di formarlo per muovere verso più grandi imprese. Viene in mente una immagine nietzschiana riguardo al proclama ‘Dio è morto’:

“finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno (…); ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso (…) forse non vi è ancora mai stato un mare così aperto” [13].

Tutto è sulle spalle dell’uomo e finisce, così, che ci si trovi nella deprimente conditio di dovere essere, ad un tempo, il custode e ciò che va custodito. Dall’esaltazione del solo uomo alla difficoltosa e, a tratti, patologica situazione dell’uomo solo. L’orizzonte, più che libero, è vuoto! Un vuoto che, esperito fenomenologicamente si radica in esperienza ontologica: viene attaccata l’autenticità dell’esistenza alla radice. Ci si vuole sottrarre, nel mentre si racconta il mito dell’uomo adulto, a volte sapendo di mentire su se stessi, alla custodia divina e si finisce con il rifugiarsi in credenze discutibili e arruffate. L’orizzonte libero non ha soltanto offerto possibilità all’uomo della conoscenza, ma ha pure intristito l’uomo con nome e cognome che si dibatte, nel mondo della vita, tra angosce e quesiti esistenziali. Scrive uno studioso delle nuove religioni:
“Scegliere di credere si declina…come curiosità di sperimentare (…)” e si va alla “ricerca di forme di religiosità non convenzionali (…)”. In questo caso,

“la questione centrale è se si tratti solo di bricolage, deprivato di senso che assembla pezzi di religioni tradizionali senza ordine e coerenza, oppure (…) di una ricomposizione del sistema di credenza religiosa in cui prende forma una nozione distinta e originale di sacro. Probabilmente non è ancora possibile dire quale delle due ipotesi si sta verificando” [14].

Si patisce una frammentazione generale a livello di identità personale e nemmeno si sa più cosa significhi vivere in una autentica comunità e, dunque, perché meravigliarsi se ci si lascia custodire da una religiosità frammentata e costruita ispirandosi a becero sincretismo? Il disincanto che ci ha mostrato l’inanità dei tradizionali riferimenti religiosi buoni per orientarci nella storia ha favorito, in realtà, il sorgere di un vuoto di senso che non si può ignorare e si tenta di colmarlo come si può. Non solo Nietzsche, ma anche la psicanalisi ha contribuito a sganciarci dalle stelle dei valori cristiani.
Scrisse Freud:

“Le consolazioni della religione non meritano fiducia: l’esperienza ci insegna che il mondo non è una stanza per bambini” [15].

L’errore è questo: chi dice che la funzione della religione (semmai di essa si possa parlare esclusivamente in termini di funzionalità) sia soprattutto quella di consolare?
Dalle prime pagine della Bibbia si evince già come il rapporto col Dio ebraico – cristiano sia responsabilizzante. L’uomo pecca e Dio, invece di condannarlo, lo interpella: ‘Adamo, dove sei?’; ci viene donato ogni bene, ma non in maniera paternalistica: Adamo deve custodire il giardino; l’uomo diventa fratricida ed il Creatore non accusa, ma offre la possibilità di divenire consapevoli di sì grande crimine: ‘Dov’è tuo fratello?’. Dio si rivela, nel Nuovo Testamento, in Gesù e Questi, invece di insistere sulla propria origine divina, chiede: ‘Voi chi dite che io sia?’. Il Dio ebraico – cristiano, nell’appellarsi alla creatura, in modi e tempi diversi, accende in lei la necessità di strutturarsi come capacità responsor iale, abilità a rispondere; ci rende responso – abili, capaci di rispondere.

Si obietta da più parti, dai ‘maestri del sospetto’ (Nietzsche, Marx e Freud) fino a certe letture sociologiche del fenomeno religioso, che la religione ‘custodisce’ colpevolmente le strutture politico – ideologiche di uno status quo spesso opprimente l’uomo; ebbene, proprio dalla specola sociologica, si leva una voce autorevole a contestare che le cose stiano così necessariamente:

“esistono (…) anche movimenti religiosi capaci di far saltare o disintegrare sistemi. Le esperienze religiose possono sostenere determinati ordinamenti sociali o metterli in discussione” [16].

Ad ogni buon conto, resta che il fermento religioso si inserisce sempre e comunque nella pasta del reale, nel tessuto storico. Uno dei più accesi patrocinatori dello ‘Stato moderno’, ha sottolineato che il ‘Regno di Dio’ va inteso non come una idea disincarnata,

“non come un regno dei cieli, che è al di là; bensì l’idea deve realizzarsi nella realtà. In un primo momento, nel caso della comparsa, leggiamo: ‘Il mio regno non è di questo mondo’; ma la realizzazione non può che diventare mondana e deve diventarlo” [17].

Si può davvero pensare, allora, che – essendo per intima struttura radicalmente altra – una proposta come quella cristiana lasci le cose che visita uguali a come erano prima che il Trascendente irrompesse nella storia? Dio provoca la storia, la invita, come con Adamo, con Caino e come Gesù coi discepoli, a rispondere a domande fondamentali:
a che punto della nostra maturazione umana siamo? (Adamo, dove sei?);
quale grado di fraternità abbiamo raggiunto nella comunità? Ne abbiamo davvero animata una in accezione cristiana? (Dov’è tuo fratello?);
infine, siamo davvero in grado di considerare ‘rettamente’ chi sia Cristo per noi? (Voi chi dite che io sia?).
Nel primo caso, con la domanda, Dio vuole custodire la persona (Adamo); nel secondo, l’altro (Abele); infine, sviluppare in noi la consapevolezza che comprendere Cristo è costruire l’uomo. Dio, se non viene diluito nelle sterili forme di vaghe spiritualità postmoderne, è scomodo!
Non Lo intenderemo mai, invece, se Lo considereremo per come Si è rivelato, una spiegazione che risparmia una spiegazione (Levinson). La custodia del deposito invita a scoprire in esso i semi per una crescita umana in accezione privata e collettiva.

Un saggio dell’Islam diceva, rivolgendosi a Dio:
se il piede Ti ricerca, ogni sentiero è santo.
I sentieri della storia verso il Trascendente, per dirla con una celebre espressione di Heidegger, spesso sono interrotti. I  nostri piedi non ricercano più Dio, ma i Suoi surrogati che – come placebo – pur non avendone la capacità placano, per un po’, ansie e paure. Aveva ragione il filosofo Marquard nel dire che è un compito che rasenta l’impossibile rimanere uomo per l’uomo dopo la morte di Dio. Nei nuovi movimenti religiosi si privilegiano posizioni olistiche: il singolo assorbito nel tutto. La fede, invece, come mostra Abramo che parte senza garanzie e senza una meta prestabilita, esige la risposta personale, un cammino vergine, arrischiato…Il cristiano è responsabile in prima persona della custodia (che è risposta esistenziale) dell’insegname  nto di Cristo.
Lo scrittore cattolico Julien Green, nel Diario, annota che se il Vangelo fallisce in uno di noi, a risentirne sarà tutta la Chiesa. La Parola custodisce nel chiamare alla Sua  custodia. Nel nostro tempo, purtroppo, anche riguardo ai rapporti umani, si preferisce esperire un amore liquido, traballante sui fragili trampoli di sentimenti a scadenza prefissata; l’affettività non si declina in termini di responsabilità, bensì si manifesta coi tratti marcati di una disimpegnata volatilità. Avrebbe detto Nietzsche che tutto è nella corrente! Il Dio ebraico – cristiano è esigente, reclama fedeltà assoluta anche verso le creature affidateci e per questo non piace all’uomo postmoderno che si intrappola nel puntiforme ed è innamorato di un vivere a - progettuale.
Il Premio Nobel per la Pace, Dag Hammarskjöld, disse, con bella metafora, che la vita è come uno scaffale sul quale Dio figura come una opera di consultazione utile, disponibile, ma che si scomoda molto raramente. Si custodisce un’opera non tenendola su di uno scaffale, inerte, ma rendendola viva, operante:  incarnan do nel tempo ciò che da sempre insegna.

Piaccia o no, non si può ridurre la vita, pur considerandola assurda, per riprendere una forte espressione di Albert Camus, ad indifferenza per l’avvenire ed a passione di esaurire tutto ciò che ci è dato. Occorre aspirare a molto di più. Nietzsche, l’abbiamo visto, pensava che l’uomo della conoscenza, con la ‘morte di Dio’ avesse di fronte a sé mari che mai prima erano stati tanto aperti; tuttavia, il filosofo, con onestà, ammetteva che l’orizzonte della storia, sgombro della Trascendenza, non è sereno. Da allora in poi c’è un cambiamento che va registrato. La deriva ateistica era pensata, sofferta, e – come nel caso ora rubricato – non ritenuta foriera di serenità; oggi, invece, non si polemizza con Dio, lo Si ritiene unicamente, per citare un noto uomo di scienza moderno, una ipotesi di cui non si ha bisogno. Dall’ateismo (eroico, positivo per certi versi) si scade nell’indifferentismo. Si prolunga ovunque la storia abitando, per dirla con Cox, città secolari. Come avviene il costruire refrattario a suggerimenti trascendenti? Il poeta Eliot, in un componimento poetico, affronta in questi termini la questione:

“Edifichiamo invano se il SIGNORE non edifica con noi (…)/ Mille vigili che dirigono il traffico/ Non sanno dirvi né perché venite né dove andate” [18].

Custodire il senso, cioè, non spetta ai ‘vigili’ (ideologi, pensatori, esperti…): ci possono dire dove andare, ma non rivelarci il perché. In più: non sanno, né interessa loro saperlo, da dove veniamo. Quando Abramo accetta di muovere verso l’ignoto è pur sempre certo che il comando viene dal Dio dei suoi padri e della sua discendenza: sa da chi viene l’ordine di andare e ciò, a bene vedere, non è cosa da poco.
Oggi abbiamo davvero mille vigili che vagamente indirizzano, ma non ci possono custodire perché loro, come noi, non hanno consapevolezza della propria origine, né si sentono parte di un progetto. Si sperimenta, in un procedere ateleologico, soltanto la stanchezza del camminare e non la gioia di sapersi personalmente convocati per il raggiungimento di un fine. Eliot, scrive:

“O stanchezza di uomini che vi stornate da Dio” (p. 67).

Togliersi dalla custodia divina lascia esperire la vita come vagabondare nell’ontico senza potersi munire di scorte di senso attingibili nel proprio essere ormai ontologicamente povero.

La povertà esistenziale, che fa un deserto della nostra dimensione orizzontale, consegue alla rinuncia ad un arricchimento che può avvenire solo per donazione verticale. Non vogliamo accettare la responsabilità di custodire, e qui sta la follia, proprio ciò che, custodito, ci custodisce. Siamo esseri chiusi al ricevere in orizzontale perché non abbiamo imparato un modo agapico di vivere dal Dio – Trinità che è intimo colloquio e reciproca donazione tra Persone (pericoresi). L’uomo dialogico è possibile solo custodendo in sé la ricchezza comunicativa del Dio trialogico. Alla base di questo letale guasto antropologico, c’è la confusione fatta riguardo al senso del ricevere. Prima di amar custodire ciò che custodisce (la Parola), bisognerebbe imparare il senso dell’essere ricettivi di fronte al Trascendente.
Gabriel Marcel è il pensatore cattolico del Novecento che ha preso sul serio tale questione.
Partiva da una convinzione che, oggi, appartiene, nella più ottimistica delle previsioni, a pochi uomini:

“quanto più profondamente si penetrerà nella natura umana, tanto più ci si collocherà nell’asse delle grandi verità cristiane. Mi si obietterà: dite così in quanto cristiano, non in quanto filosofo. Qui potrei (…) ricordare (…) che (…): il filosofo che si costringe a pensare solo come filosofo, si pone al di qua dell’esperienza, in una regione infra – umana; ma la filosofia è un’elevazione dell’esperienza, non è una castrazione” [19].

Fissiamo dei punti:
A) le grandi verità cristiane si colgono già quando nella natura umana si poserà lo sguardo quanto più profondamente possibile. Oggi l’uomo vale quanto e quando appare, non tenendo conto del fatto che è. Il soggetto è una costruzione fittizia, un fenomeno che deve adattarsi alle sempre cangianti attese di una società dello spettacolo. L’antropologia cristiana, invece, guarda al cuore, alle zone meno violabili della persona;
B) tale convinzione non è solo del cattolico ma, come giustamente nota Marcel, anche del filosofo. Non bisogna avere vergogna o paura se ci si sforza di non rimanere al di qua dell’esperienza, confinati in una regione infra – umana. Filosofare è elevarsi e non castrarsi. Ci si eleva, però, se si è convinti che Oltre c’è ricchezza da attingere, da ricevere per poi donarla avendone accettato la custodia e dopo averle riconosciuto la forza di custodire. Ci si deve preparare a ricevere.
Marcel, nel volume citato, spiega che quando affermiamo che un pezzo di cera ha ‘ricevuto’ un’impronta, si intende dire, in realtà, che l’ha subita. La ricezione avviene solo laddove c’è una pre – affezione, una pre – ordinazione:

“Si riceve in una stanza, in una casa, al limite in un giardino: non certo in un terreno incolto o in una foresta” (cit. p. 120).

Per accogliere chi ci viene a trovare occorre aver predisposto un ambiente. Se non si ha cura di sé non si può ricevere. L’uomo postmoderno si cura di sé soltanto esteriormente perché incontra l’altro (e quasi mai l’Altro) unicamente in superficie. Fuori siamo stanze ben ordinate, case invitanti, giardini curati; dentro, però, terreno incolto e foresta; anzi, già questo significherebbe avere una interiorità arredata grosso modo. In realtà, disinteressandoci di scoprire le verità cristiane che custodiscono, per custodirle, non approfondiamo la natura umana e dentro c’è il vuoto. Ricevere, precisa Marcel, non è “riempire un vuoto, ma far partecipare l’altro ad una certa pienezza” (p. 56).
Che troverà in noi Dio da custodire se non abbiamo preso sul serio in custodia noi stessi? Può affidarci la custodia del deposito, muovendo a noi l’invito che Paolo rivolgeva a Timoteo, se trova la nostra casa, il nostro giardino ridotti a macerie ed a terreno incolto? Non possiamo iniziare da noi stessi per costruire la ‘capacità ricettiva’; bisogna guardare al modello per eccellenza: la Trinità che è custodia e dialogo tra Persone, pienezza di vita, di senso, di comunicazione. Lì è l’Origine del nostro autentico essere che è tale solo se dialogico, comunicativo, pieno di senso custodito e da donare. Possiamo iniziare solo ad opera già iniziata a divenire uomini: iniziamo per iniziativa divina!
La conversazione intratrinitaria è il Luogo nel quale si può attingere il nostro essere, teomorfizzandolo, per conversare con altri riguardo al deposito custodito. Dal versante ermeneutico, questa lezione è ben nota. Il nostro lavoro comunicativo inizia

in medias res e mai all’inizio o alla fine. Noi soprag giungiamo, in un certo senso, nel bel mezzo di una conversazione che è già iniziata e nella quale cerchiamo di orientarci al fine di potere, a nostra volta, portare il nostro contributo” [20].

Paolo, come sopra mostrato, invita Timoteo a custodire il deposito, ma – pur consapevole delle sofferenze patite a causa dell’annuncio della Parola – trae la forza ed il senso di un tale compito per sé e per il discepolo dalla convinzione che Dio stesso opera tale custodia. Dobbiamo interrogare la Fonte, l’Autore dell’ atto del custodire e, in una ricerca partecipativa del senso del custodire, sperimentiamo che – per dirla ancora con Ricoeur – “colui che interroga partecipa alla cosa stessa sulla quale interroga” (cit. p. 43).
Se interroghiamo la Trinità sul senso e le modalità del custodire Parola e uomo, partecipiamo alla stessa vita intratrinitaria avendo la possibilità di tradurla in modello di vita comunitaria. Nei patimenti causati dall’indifferenza con la quale il mondo post moderno accoglie l’annuncio del deposito custodito (perché lo si ritiene incapace di custodire), non dobbiamo dimenticare di appellarci comunque a Dio. Solo l’uomo che dispera con la testa piegata sul proprio petto rende sterile il gridare; dobbiamo andare a scuola da Giobbe, piuttosto che dai suoi amici teologi dotati di buon senso, ma di scarsissima capacità empatica. Giobbe, al culmine del suo dolore, infatti, alza lo sguardo e dice:

“Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’ uomo?” (7, 20).

Si osservi con attenzione:
proprio mentre si riconosce non custodito, Giobbe si rivolge a chi ritiene la fonte de propri mali chiamandoLo custode dell’uomo! Questa è fede! Non c’è uomo tanto povero da non poter compiere il gesto più ricco di senso: abbandonarsi alla custodia di Chi lo trascende.
Santa Margherita Alacoque, in una visione, disse a Gesù: ‘Non sono degna di tutte queste rivelazioni, non avresti dovuto scegliere me, mi sento così povera’. E Gesù, rispose: ‘Se avessi trovato un altro povero più povero di te, avrei scelto quello’ [21].
C’è, a volte, nell’uomo ferito, nell’uomo che sente (e di per sé ciò non è male) la propria povertà interiore con forza come una voce che gli dice: ‘hai motivo di sottrarti, per indegnità, al compito di custodire la Parola’. Una voce che ci espone a non pochi pericoli. Dio stesso, in Gesù, si abbassa alla condizione umana perché noi siamo Sue creature e nella Bibbia si legge che, creandoci, non si limitò a vedere che era cosa buona ma, come sapientemente precisa il redattore biblico, era cosa molto buona. La povertà interiore non è vuoto; al più, è il massimo di pienezza che ci è consentito e se la nostra ‘relativa pienezza’ si apre alla ‘assoluta pienezza di Dio’, l’incontro è possibile. La santa ed umile Margherita è consapevole del divario che esiste tra il Creatore e la creatura, ma – riconosciuta la propria miseria – non esita comunque a dialogare con Gesù. Quando l’uomo ha sviluppato, riguardo al divino, una certa capacità ricettiva, si accorge che Dio è nel cuore quando ormai è troppo tardi per sottrarsi alla Sua custodia ed al compito di custodire (per donarlo) quanto ci rivela. Una volta lessi una frase di Shakespeare:
ci sono persone che ti entrano nel cuore come ladri nella notte e se ne impadroniscono per sempre.
Dio ci entra in cuore, talvolta, senza che ne siamo consapevoli, ma non entra mai, perché non ci fa violenza, in un cuore che non sa essere, in qualche modo, disposto a ricevere e non a subire la Presenza dell’Altro. Dopo può darsi che noi ci si metta a riflettere su quella inquietudine interiore che segnala una presenza e si giunga a fare chiarezza (sempre parzialmente) riguardo alla sua identità. Leggendo un pensatore cattolico italiano del Novecento, appresi che l’umanità dell’uomo è più della sua razionalità, ma non è senza di essa. Ecco perché Marcel diceva di avere a cuore la verità cristiana anche come filosofo. La ragione va custodita e custodisce se l’esercizio filosofico che essa consente è elevazione e non castrazione. Margherita Alacoque razionalizzava, in un primo momento, la sua povertà: se ho tanto, come posso meritare il quanto che Dio mi affida in custodia attraverso delle rivelazio ni? Con la stessa capacità di ragionare accoglieva la risposta di Gesù e vinceva la fiducia in Lui sui conteggi disperati di una ragione calcolante: la povertà dell’uomo è, se si fa capacità ricettiva e consapevolezza di poter vivere solo di doni, la ricchezza relativa che sola è capace di incontrare la ricchezza assoluta. Il limite custodisce perché rende consapevoli del necessario affidarsi al Custode.

Si può risvegliare in noi il desiderio di farsi custodire? Arthur R. Peacocke scomodò la figura di Abramo affascinato dalla pronta risposta alla chiamata di Dio da parte del Padre della fede. Citava, poi, l’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei, laddove Paolo parla di uomini che avevano riconosciuto di essere ospiti e pellegrini sulla terra. Peacocke, a questo punto, rilevò che, da quando il cristianesimo ha assunto forme convenzionali, istituzionalizzate, si è smarrito il senso di avventura della fede.
Congelato Dio in monarca assoluto, non si può non avere desiderio di eliminarlo; ridotto a monumento, ad ingombrante reperto archeologico, si ritiene impossibile attivare con Lui un dialogo.
Questo ha fatto dire al filosofo rumeno Cioran che le destin historique de l’homme est de mener l’idee de Dieu jusqu’a sa fin (il destino storico dell’uomo è condurre l’idea di Dio sino alla sua fine).
Il fatto è che siamo dibattuti – sarebbe miopia non ammetterlo – in una aporia che non pare ammettere facile soluzione; tanto è che, lo studioso che l’ha formulata, ne parla nei termini di una contrad dizione senza speranza: la fede ci pone di fronte ad “una creazione totalmente necessaria di un mondo totalmente contingen te” [22].
Dobbiamo, in quanto credenti, sentirci custodi di una creazione necessaria di un mondo che si presenta del tutto contingente. Sentiamo che tutto passa, tutto svanisce: sia a livello di rapporti interpersonali, sia riguardo alla relazione con il mondo.
Questa difficoltà, a mio avviso, può essere, se non superata, arginata dal recuperare l’idea di custodia della fede cristiana come avventura. Paolo pativa persecuzioni, prigionia ma – di fronte alle contraddizioni del mondo – elevava lo scudo di un deposito immutabile, incancellabile e, vistone il valore, da difendere. Noi non abbiamo davanti agli occhi (anche quelli dell’interiorità) se non la contingenza del mondo.
Nietzsche ci ha detto, convincendoci, che il retro mondo è favola. Se non è bene disconoscere la lezione di Ogden, non è salutare nemmeno dimenticare che, privata dei riferimenti ultimi, la vita si configura inesorabilmente come una bagattella dell’esperienza transitoria (Whitehead) che è vano custodire.
Non affrettiamoci a gettare alle ortiche l’armamentario teologico cedendo a mode o alle sollecitazioni di quanti applicano anche ai riferimenti ultimi la legge dell’obsolescenza dei valori mondani. Eliot, come recita l’esergo riportato qui a pagina 11, ci ha – ritengo – dato un avviso da non trascurare: un singolo europeo, diceva, può dubitare della fede cristiana. Si noti: non è – quella del senso della custodia del deposito sacro – questione privata; non la si può risolvere guidati da un gusto personale o dalle opinioni di una cerchia di persone.
Se poi, un singolo europeo, si volesse caricare sulle spalle l’immane peso di negare validità alla fede cristiana, sappia, avverte Eliot, che si dibatte sempre nella cultura che scaturisce dalla fede contestata. Pare, insomma, che si stia tagliando il ramo sul quale si siede.
La vocazione, insegnano le Scritture, non è costrizione; semmai, solo dopo aver dato il proprio consenso a vivere di e con Dio vengono poste delle condizioni, per lo più, rese necessarie dal tipo di cammino che si sta per intraprendere, ribadisco, per libera scelta. La libertà da Dio è una possibilità che ci dona Lui stesso.
Di là del discorso teologico, però, resta la cultura: ovunque volgiamo lo sguardo vestigia di vita cristiana (architettura, musica, letteratura…) ci costringono ad essere consapevoli di quanto intendiamo rifiutare. La non custodia, però, è sempre consapevole del non custodito e, così, come per lo specchio che voleva fare a meno dei chiodi di cui racconta Severino, si finisce col dipendere sempre, in qualche modo, da quanto si contesta. Se ne può sentire, a tratti, persino la nostalgia; si finisce, a volte, con il sentire la mancanza di qualcosa e di qualcuno non nonostante i difetti, ma proprio grazie ad essi.
Paradossale?
Fate attenzione a voi stessi e vi accorgerete che non sto delirando. Ho sentito vedove, vedovi dire che, malgrado le molte cose non sopportate nel o nella partner, la loro mancanza genera un dolore lancinante e che pare insuperabile.
Accade lo stesso all’uomo postmoderno quando, insoddisfatto del nuovo modus vivendi, si chiede se il caro, vecchio buon Dio, in fondo, non fosse preferibile ai sortilegi di pasque laiche che sul teatro della storia non godono più del favore degli spettatori. Il fatto è che la custodia della fede, o del suo derivato, la cultura cristiana, pur in sordina, continua ad essere una questione viva ed aperta, a lavorarci dentro, a dare da pensare.
Il teologo Erkhard Nordhofen sostiene, infatti, che la sacralità (ma lo si può affermare della fede) ama essere in viaggio, ma non è sparita.
Il concetto di secolarizzazione, conclude, diventa ingannevole se induce a pensare in termini di sparizione, piuttosto che di viaggio della sacralità. Il sacro, le inquietudini della fede sono in viaggio nella nostra vecchia Europa e non è detto non troveremo, prima o poi, davanti a noi il deposito che reclama custodia.

Quando parliamo di una assenza con enfasi, vuol dire che mai come in quei momenti patiamo la nostalgia di una presenza. Nelle situazioni irrecuperabili, ad esempio la morte, ci si chiede dov’è Dio e, forse, il parlarne come di un assente è il solo modo per dire che si tratta di una Presenza desiderata con tutto se stessi. Il protagonista di un film di Attenborough, Viaggio in Inghilterra, è straziato dal dolore per la morte della moglie e si chiede: perché amare se perdersi fa così male?

Sottrarre il dolore alla custodia divina lo rende insensato e l’uomo, con la sua povera filosofia, non sa che avvilupparsi in domande che vagano, punteruoli infuocati nell’anima, verso nessuna luce chiarificatrice.
Il personaggio del film evocato pensava che siamo come topi di un esperimento cosmico, nel quale Dio fa la parte dell’impassibile scienziato che opera una scrupolosa vivisezione. La moglie, quando era malata terminale di cancro, gli aveva detto: Il dolore di domani fa parte della felicità di oggi [23].
Agostino diceva che se non vogliamo perdere i nostri cari quando ci lasciano dobbiamo amarli in Colui che non si perde. Ma il protagonista del film non ha il riferimento Trascendente e tutto si arena in una insostenibile disperazione ‘umana, troppo umana’. Amare e perdersi  è una dialettica dell’impotenza insensatamente sempre attiva se non viene riscattato il limite insuperabile in Colui che ci custodisce comunque. Si guardano le cose unicamente dal lato della perdita, non confortati né dalla gioia di aver avuto (il dolore futuro è pur sempre conseguenza di una gioia vissuta e gratuita), né dalla convinzione che c’è Qualcuno che – in ogni caso – custodisce noi ed i nostri cari. Un teologo, riflettendo su questi temi, ha detto rivolgendosi a Gesù:
“Tu ci guarisci mentre ci ferisci”.
Paradosso?
Continua:

“Ci guarisci dal sogno della totalità, dall’epidemia dell’ invulnerabilità” [24].

L’uomo si ammala di una illusoria invulnerabilità; si chiama, per superbia antropologica, fuori da ogni Trascendente custodia;  rifiuta di essere lui stesso custode del Custode, vivendo e vivendoLo nella fede, poi si scopre nudo e ricolmo di paure di fronte ai suoi limiti.
Un filosofo francese, credente, trova invece sensato seguire l’iter tracciato da San Bernardo, che cita in una sua bellissima opera: Signore, se tu sei con me nella sofferenza, concedimi sempre di soffrire, perché tu sia sempre con me e in me e che io possa averti sempre [25].
Dio è compagno (lett. colui col quale si divide il pane, anche quello della sofferenza). Mettere il dolore sotto la custodia divina è passare dalla ‘disperazione’ al ‘senso’.
Qui non è in gioco il capire, bensì l’amore per ciò che ci supera e ci custodisce non solo ‘malgrado’ la nostra ‘incomprensione’, ma ‘proprio’ grazie ad essa. In un romanzo francese del Novecento, un gesuita, Padre Paneloux, dice una cosa degna di continua meditazione:  
“Forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire” [26].

Quando non comprendiamo, non sentiamo di essere custoditi da Dio, non cancelliamo l’offerta di relazione che da Lui ininterrotta mente proviene perché – ed un buon cristiano non dovrebbe mai stancarsi di annunciarlo – “la grazia di Dio è più potente della capacità dell’uomo a dire no a Dio” [27].
Parlare a chi si trova nelle condizioni del personaggio del film di Attenborough della custodia divina non consente di dimenticare che lo si deve fare con rispetto, discrezione e comprensione per la sofferta incredulità dell’altro. Non è facile essere – per riprendere il titolo italiano di un lavoro del teologo protestante tedesco Heinz Zahrnt – alle prese con Dio. Sarà condivisibile da molti la tesi di Michael Gazzaniga  secondo la quale gli uomini sono macchine per la costruzione di credenze, ma non è facile, né onesto, universalizzare tale affermazione.
Nel mondo le situazioni sono tante e complesse: non si tratta semplicemente di voler cambiare quelle non condivise, né di interpretarle per un gioco accademico fine a se stesso, ma ci si deve dialogare con onestà, cautela senza far scemare la fermezza delle nostre posizioni.
L’ho imparato da uno scrittore e critico letterario dall’intelligenza assai fine, Octavio Paz:
alcuni vogliono cambiare il mondo, altri leggerlo – diceva – noi parlare con lui.
Dobbiamo parlare con quelli che non si sentono custoditi da Dio e che non se ne ritengono custodi. Il danno di certa teologia è di avvilupparsi in un lavorio ermeneutico prezioso, pregiato, ma che non sempre riesce ad indirizzare, con lo specchietto dei suoi risultati, un raggio di luce del sole al quale si espone per elaborare teorie. Bisogna non lasciar vivere l’attività teologica unicamente in un gioco di interpretazioni della Parola, bensì tentare di prelevarne qualche elemento, qualche indicazione che produca effetti positivi in anime tormentate. Il compianto Giovanni Paolo II ritenne di dover portare questo tema addirittura dentro una Sua fondamentale enciclica, Fides et ratio (14. IX. 1998):

“L’interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portare ad attingere un’affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l’espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi” (84).

Se la teologia si limita ad essere l’espressione di concezioni umane su Dio, quale uomo, soprattutto se già in difficoltà in fatto di fede, vorrà assumersi l’onore e l’onere di farsi custode della Parola credendo che questa, a Sua volta, lo custodirà?
Non deve dimenticare, chi vuole essere autentico custode della Parola ed invitare altri ad esserlo, che ci precede, come si espresse una filosofa ebrea, convertita al cristianesimo (divenne una carmelitana), il teologo primordiale:

“Ogni parlare di Dio ha come premessa che Dio parli. Il parlare di Dio afferra colui al quale è diretto, ma esige come condizione di ascolto la resa di tutta la persona. L’essere afferrati da lui regolarmente è congiunto con la chiamata ad essere ‘teologo’. Per mezzo di coloro ai quali è rivolta la sua parola sulla cima del monte, Dio intende parlare a quanti sono rimasti giù (…). Egli dona ai suoi teologi quelle parole e immagini che l’abilitano a parlare di lui agli altri” [28].

Dio si fa custodire da noi attraverso l’invito a custodire le parole che dona. Non si tratta di parole destinate unicamente a farci svolgere un ufficio semantico, ermeneutico – filologico; piuttosto, noi che abbiamo avuto, come dice la Stein, il privilegio di riceverle sulla cima del monte dobbiamo scendere per donarle a quanti sono rimasti giù.
Le parole di Dio non possono rimanere nel ristretto perimetro degli interessi degli addetti ai lavori, ma la nostra deve essere, potrei dire, una custodia transitiva di esse; farle passare, cioè, dalla nostra custodia a quella di altri anche se il teologo accompagna il dono illuminandolo con l’uso umile e cauto dei saperi umani. Non si tratta  di porgere frutti maturati sull’albero accademico e per trasmissione intellettuale, ma di vitaminizzare quei frutti con atteggiamenti caritatevoli, con comprensione. Ai teologi, che mostrano i risultati del loro essere custodi della fede e custoditi dalla Parola, un illustre predecessore ha lasciato un insegnamento irrinunciabile:
Quisquis ergo vulta audita intelligere festinet ea quae jam audire potuit, opere implere Chi dunque desidera comprendere le cose udite, si affretti ad attuare nella vita ciò che è già riuscito ad intendere [29].
Potrei continuare a scrivere questo libricino ancora per molto, iniziarne di nuovi e portarli al termine, eppure mancherei fin dall’inizio, già nelle intenzioni, lo scopo del mio lavoro se non mi ispirassi all’antica massima latina secondo la quale sit finis libri non quaerendfinito il libro non è finita la ricerca. La custodia della Parola dura quanto la nostra vita. Ogni teologo, in modo assolutamente personale, pur se in comunione con altri cercatori, deve sentire la responsabilità di mostrare cosa voglia dire essere custodi della fede cristiana e cosa comporti sentirsene custoditi. Mi sono immediatamente sentito in sintonia col filosofo ebreo Lévinas quando diceva di amare particolarmente questa frase di Dostoevskij:
noi siamo tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti e io più di tutti gli altri.
Queste sono tutte stelle da far brillare ad ogni costo sui sentieri della ricerca teologica se non si vuole andare fuori strada portandoci dietro gli altri. Qualche anno fa, un teologo ci ha consegnato riflessioni che possono valere come sistemazione sinottica della nostra questione. La teologia, scriveva, ha

“la responsabilità di dire l’Indicibile, responsabilità però leggera, perché la teologia non ha che da lasciarsi trasportare dalla Parola che, interpellandola, la libera. Poiché non è la teologia a disporre della Parola ma è la Parola a disporre della teologia, è di fronte alla Parola che il teologo, sempre inadeguato al proprio compito, deve stare con timore e tremore” [30].
Da quanto detto viene fuori che aveva ragione chi disse che si può fuggire da Dio, ma non sfuggirgli. Non è superfluo ricordare qui che la parola ebraica ‘emet ‘verità’ (non nel senso greco, ma indicante ‘stabilità’, ‘roccia’, ‘permanente’…) presenta, per l’acuta sensibilità filologica rabbinica, una particolarità: le sue consonanti sono la prima, la mediana e l’ultima dell’alfabeto ebraico; perciò, Dio/Verità è il primo, il medio e l’ultimo del tempo. Da qualunque parte si precipiti, dunque, si cade sempre nelle ‘braccia di Dio’ che è dovunque. Si può dire finanche, seguendo Warburg, Der liebe Gottsteckt im Detailil buon Dio abita nei dettagli e rimane, comunque, come diceva il Tommaseo, il solo tremendo unico amico. Anche il padre della psicanalisi – che vide la religione come una illusione che l’avvenire avrebbe incenerito – ebbe a dire:

“Difficilmente potremmo sbagliare nel giungere alla seguente conclusione: l’idea di uno scopo nella vita sussiste e cade insieme con il sistema religioso” [31].

Il fatto è che, piaccia o no, specialmente riguardo al cristianesimo (che è più di una religione, onestamente), occupandosi del Trascendente non si tralascia mai del tutto un riferimento significativo all’uomo, alla storia; proprio occupandosi delle questioni ultime si finisce col mettere in gioco il senso che non ha ragione di esistere se non in quanto oggetto privilegiato della ricerca umana. Quando si discute di Dio e di cosa Egli abbia promesso all’uomo per custodirlo in vita e finanche oltre la vita, nessuno manca di portare in simili ricerche qualcosa che sia profondamente suo. Anche in questo caso, Freud fa una onesta ammissione:

“Gli uomini sono raramente imparziali quando si tratta di cose ultime (…). Credo che in questi casi ciascuno di noi sia dominato da intime e profondissime predilezioni di cui le nostre speculazioni fanno inconsapevolmente il gioco” [32].

Traduciamo tutto in ambito teologico. Se qui si fa questione delle cose ultime, fatto salvo uno sfondo di sapere specializzato, non si può pretendere l’imparzialità che, in verità, nemmeno nello scienziato è del tutto possibile. Le nostre speculazioni in materia teologica fanno inconsapevolmente il gioco delle nostre intime e profondissime predilezioni perché in questione è il senso della vita. Non è lo stesso vivere sapendo che siamo custoditi dal Trascendente o che siamo intrappolati, per riprendere il titolo di un’opera dello scienziato Jacques Monod, tra caso e necessità. Pretendere che la custodia meditata della nostra fede (ecco cos’è, in fondo, essere teologi) sia operazione asettica, privata di aneliti affettivi, è inaccettabile. L’incertezza che accompagna la nostra ricerca è compensata dalle intime e profondissime predilezioni di cui parla Freud perché, laddove si tratta del senso dell’esserci, le speculazioni – pur se inconsapevolmente – amano arrendersi a quanto profondamente desideriamo sia vero.
Desiderio non normativo, in verità; bensì, indicativo: non dice dove dobbiamo andare, ma il luogo che vorremmo ci accogliesse e Chi vogliamo raggiungere. Una conoscenza intuitiva di sé e del nostro fine che la speculazione può tentare di chiarificare, ordinare in pensieri compiuti, ma non bocciare appena avverte lacune e difficoltà. Il teologo deve sforzarsi di far comprendere che la custodia del Custode non è onore ed onere da svolgere guidati da una sicura teoria scientifica, ma nemmeno gioco di ombre; bisogna parlare con cautela delle cose della fede, non rinunciare per mancanza di riferimenti oggettivi e di un referente empirico. Contro quanti, per paura di lasciar intravedere crepe nel proprio sistema di pensiero, fanno dire alla loro teologia parole che si pretendono ultime, vale quanto annotò nel diario un intellettuale dopo una serata trascorsa in uno dei salotti pregiati e trasudanti cultura della Francia dell’Ottocento:
“Serata presso Madame de Krüdener. Questa gente va troppo lontano con le sue descrizioni del paradiso di cui parlano come della loro camera. Perché uscire dal sentime nto religioso per entrare nelle descrizioni puerili?” [33].

Se il teologo pretende di parlare da credente adulto in un mondo che è effettivamente divenuto adulto, rischia di offrire descrizioni puerili della fede cristiana pensando che ciò sia una indiscutibile prova dell’essersi emancipati da un più rozzo e obsoleto (ma certo più schietto e modesto) sentimento religioso. Si custodisce e si porge in malo modo Dio se si ha la pretesa di – secondo la forte espressione di Constant – parlare del paradiso come se parlassimo della nostra camera. Credo che, per mostrare che siamo inabitati da Dio, che ne ‘siamo custodi’ e che ce ne ‘facciamo custodire’, dobbiamo lasciar rilucere l’amore per le cose, ma, in primo luogo, per l’uomo.

Tra i tanti meriti che ha la riflessione filosofica di Berdjaev, un profondo pensatore russo, c’è anche quello di aver detto in maniera lapidaria quanto ho appena richiamato: Trattare dell’uomo è già trattare di Dio. Dirlo in questi termini, però, può apparire ovvio; ma, un filosofo, non offre conclusioni che non siano il frutto di un percorso lungo e meditato. Il nostro autore, infatti, ripercorre alcuni momenti della lunga storia nella quale si è rischiato sempre più di inquadrare la relazione uomo/Dio in termini di pura conflittualità. Pare, in certe tappe del pensiero filosofico, che si sia tentato di escludere dalla scena uno dei due attori; come se la sopravvivenza di uno di loro dovesse significare sistematicamente la fine dell’altro. Scrive il filosofo russo:

“Prima Feuerbach (…) voleva passare dall’idea di Dio all’idea dell’uomo, poi Nietzsche (…), volle passare dall’idea dell’uomo a quella del super – uomo. L’uomo (…) qui (…) era (…) destinato a sentire che era solamente un cammino (…); attualmente bisogna capire in un modo nuovo che passare all’uomo è passare a Dio. Questo è proprio il tema essenziale del Cristianesimo” [34].

Non è detto che la critica, l’incredulità che, però, non smette di cercare siano stati – nella modernità – soltanto veleni; spesso hanno assunto la positiva funzione di solventi concettuali che hanno scozzonato la fede cristiana da incrostazioni superstiziose, da patine di ipocrisia. In fondo, come diceva Heidegger, una fede che non si espone continuamente ad una eventuale incredulità non è una fede. Quello che conta, ormai, è comprendere – seminando nel solco tracciato da Berdjaev – che trattare dell’uomo (custode e custodito ad un tempo) e trattare di Dio equivale a percorrere la stessa strada. L’uomo non è un cammino verso il super – uomo perché Dio non possiamo risolverLo in una idea dell’uomo; si tratta, piuttosto, di comprendere che il tema essenziale del Cristianesimo è Dio con l’uomo – l’uomo con Dio: attivare un custodirsi reciproco inaugurando una relazione vitale nella quale nessuno è oggetto, ma entrambi sono a pieno titolo soggetti e titolari del rapporto.
Il compito dell’uomo è custodirsi assieme alle cose del creato attraverso le quali rinviene tracce del Trascendente; ma, in primo luogo, è nel volto umano che si rintraccia il Custode. Ispirandomi ad un midrash sono solito dire che anche uno specchio di bronzo può essere una offerta gradita a Dio perché in esso si sono specchiate persone: il riflesso del volto in un misero specchio è la metafora del mondo che, sebbene imperfetto ed altro dal Creatore, ne contiene il riflesso, la traccia [35].
Vorrei, infine, proporre – anche se per accenni – due figure della contemporaneità che mostrano come l’uomo sia custodito da Dio e come ne possa essere il custode. I saggi hassid dicevano che la via più breve tra un uomo e la verità è una storia. Racconto, ripeto, in breve, quella di due testimoni che possono confermare la validità di quanto finora argomentato:
l’uno, un pittore (William Kurelek); l’altra (Etty Hillesum), una ebrea che patì nel campo di sterminio nazista di Westerbork ed il cui ultimo gesto fu quello di gettare una cartolina dal treno che la portava ad Auschwitz dove trovò la morte il 30 novembre del 1943. Sul treno, aprì la Bibbia e trovò quel passo in cui si dice che Dio è il nostro alto ricetto (potremmo anche tradurre: l’alta custodia dell’uomo)[36].
William Kurelek (1927 – 1977), figlio di immigrati dall’Ucraina, è il più affermato ed amato pittore del Canada. La famiglia patì la vita dura della prateria canadese e la miseria si ingigantì al punto che i genitori, cristiani ortodossi, rinunciarono a credere. La pove ra e spoglia casa di quella tormentata famiglia bruciò e, quando venne ricostruita, si guardarono bene dal far comparire in essa la minima traccia di interesse per la religione. Con quella casa era andata in fumo anche la loro fede; non si sentivano più custoditi e, dunque, in dovere di custodire. William stesso crebbe senza particolare interesse per la fede e ne farà, poi, motivo di rimprovero ai suoi. Si pagò gli studi lavorando duramente e, contravvenendo ai desiderata dei genitori, si iscrisse all’Ontario College of Art per imparare l’arte pittorica. Conflitti in famiglia, sommati ad inquietudini personali, ne minarono anche la salute psichica e William conobbe una devastante dipendenza da farmaci. Si trasferì a Londra nel 1952 e lì, in un noto ospedale psichiatrico, conobbe la terapista Margaret Smith, cattolica.
Fu lei a prenderlo spiritualmente in custodia per avvicinarlo nuovamente a Dio. Quando, per l’aggravarsi della sua salute mentale, venne trasferito al Netherne Hospital, nel Surrey, l’artista canadese fece un’esperienza decisiva per il suo percorso di conversione. Una notte, contemplando gli orti dalla finestra dell’ospedale, sentì una presenza: Qualcuno era lì per lui, lo veniva a visitare, a prenderlo in custodia. Non a caso la sua autobiografia si intitola Someone with MeQualcuno con me! Poco alla volta, si convertì definitivamente alla fede cattolica e guarì del tutto anche dai suoi mali. Ecco, ora era definitivamente custodito da Colui che Giobbe, piegato e piagato come lui dal dolore, definì, l’abbiamo visto, custode dell’uomo. Nel 1960, Kurelek si propose di dipingere l’intero Vangelo di Matteo. Al Niagara Falls (cascate del Niagara) Art Gallery si trovano ben 160 quadri che mostrano quanto avesse preso a cuore e realizzato il progetto. Si batté, tra le altre cose, incondizionatamente in favore della vita, lui che aveva conosciuto il pericolo di viverla alienata dalla custodia della Trascendenza. Denunciò con forza l’orrore dell’aborto nella sua opera più famosa, L’altra My Lay. Nel dipinto si vede l’Ospedale di Toronto che fa da sfondo a secchi ricolmi di feti abortiti e trattati come spazzatura ed il sangue cola addirittura sulla cornice. La vita di Kurelek mostra puntualmente cosa sia l’uomo quando non è e quando è custodito dal Custode [37].

L’ebrea Etty Hillesum, invece, mostra, con la vita ed il pensiero, il modo giusto di affrontare l’altro aspetto della questione: come custodire il Custode? Come salvare Dio in noi? Cosa intendeva, in primo luogo, con il termine salvezza? Abbiamo visto (nota 26) con quali mezzi un personaggio di Camus, un medico, intende risolvere la questione soteriologica: dell’uomo, a lui, interessa soltanto la salute. Sebbene costretta in un contesto vitale di enorme sofferenza anche fisica, Etty (era – come anticipato - nel campo nazista di Westerbork) non rinchiudeva l’anelito alla salvezza nel ristretto perimetro della cura del corpo. In una lettera dalla prigionia, sentenzia:

“Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva” [38].

Custodire la vita come unicamente un bene materiale, ristretto alla salvaguardia del corpo, non è sufficiente nemmeno se si vive in un luogo nel quale esso è ininterrottamente a rischio. Accostandosi di molto alla Frank – altra vittima dell’odio nazista -, Etty non acconsente a deprezzare la vita. Dove trae la forza per fare questo? Leggiamo un frammento da una lettera del 18 agosto del 1943 indirizzata ad Henny Tideman:

“Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani” (cit. p. 122).

Ecco i due momenti: affidata a Dio, custodita ed arricchita in questa custodia Trascendente, la giovane ebrea si apre agli altri. La custodia invoca la condivisione. “La mia vita – continua – è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio”. Essere custoditi da Dio non è un arricchimento passivo, ma il mantenimento innamorato di un colloquio continuo con Lui. Quando era in “un angolino del campo”, a volte, la ragazza sentiva con forza di avere i “piedi piantati sulla tua terra” e gli “occhi rivolti al cielo”. Questo significa fare teologia pregan do, pensare Dio in ginocchio e non sulla cattedra.
Si notino i due momenti profondamente intrecciati: i piedi sono piantati sulla tua terra. Il credente è sempre ‘dentro’ la situazione, attento alle questioni terrene, ma sa che la terra è Sua, di Dio. La si ama di più ed in maniera corretta quando la si sa custodita dal Creatore. Gli occhi, aggiungo, possono guardare il cielo solo dopo aver sperimentato cosa significhi il compito dell’attenta custodia della terra di Dio.
Anche le parole, a questo punto, trovano senso ed accoglienza, custodia, nella Parola e si salvano da eventuali dissacrazioni. Ma cosa vuol dire mettere il nostro parlare sotto la custodia del Trascendente? Nella stessa lettera, lo spiega Etty:

“A volte vorrei incidere delle piccole massime e storie appassionate, ma mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose” (p. 122).

La parola Dio contiene tutto e, perciò, tutto e tutti custodisce. Sì, ma la giovane ebrea ha fatto indubbiamente comprendere che anche noi dobbiamo custodire e salvare in noi la Parola e rinunciare ad incidere – come lei si esprime – massime di sapienza, storie; tutto quanto possiamo dire converge de origina dal Centro per eccellenza: Dio. Il nostro dire è sempre periferico.

Spostandoci ai Diari, scopriamo che Etty, molte volte, confessa che amerebbe la calma di un chiostro, il silenzio, la pace, il conforto di alimentarsi a secoli di sapienza religiosa, ma poi…ammette che la sua vita deve realizzarsi fra gli uomini del suo tempo e tra le atrocità di cui è, volente o no, testimone. Volersi custodita da Dio, ecco cosa qui lei ci insegna, non significa ritirarsi dal mondo, ma portarlo nel cuore e portare, poi, il tutto nel cuore di Dio. Per giungere a custodire stabilmente nel cuore il Custode, però, occorre – senza rinunciare a tenere, come si esprimeva in una lettera, i piedi piantati per terra – abbeverarsi a momenti estatici:

“un piccolo pezzo d’eternità scende su di me con un largo colpo d’ala. So bene che questo stato d’animo non dura a lungo: magari è già passato dopo mezz’ora, ma nel frattempo ho potuto di nuovo attingervi forza” [39].

Il male dell’uomo postmoderno è che ha un’anima (semmai non lo turbasse o facesse sentire ridicolo usare questa parola) sfilacciata in mille distrazioni e cloroformizzata da incalcolabili seduzioni ludico – tecnologiche. Come si può custodire un piccolo pezzo d’eternità e preparare la propria casa interiore per il Custode se siamo riversati continuamente fuori di noi? Questa è l’epoca, direi, della ricerca snervante del divertimento, dello stordimento a qualunque costo e con ogni mezzo. Recuperare zone di deserto e pause per pregare è arredare la propria interiorità come luogo di custodia per il Custode, il Solo che ci possa davvero custodire evitandoci la dispersione in mille rivoli di pseudo – felicità. Etty conobbe il valore di rafforzamento insito nella preghiera. Nel Diario (cit. p. 111), il 18 maggio 1942, annota:

“M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera (…), ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte”.

Raccogliersi, fare ordine in sé, proprio come si fa con la propria casa sapendo che qualcuno ci visiterà; quel Qualcuno con me che visitò Kurelek prigioniero sì di un ambiente interiore disastrato, ma già avviato, pur inconsapevolmente, sulla via della guarigione.
La terapista che condusse il pittore canadese più vicino a Dio, aveva cominciato con il ricomporre i fili della sua sfilacciata anima. Allo stesso modo, la preghiera custodiva la minacciata (in tutti i sensi) vita di Etty. Soltanto attraverso una costruzione spirituale matura di sé si riesce a non guardare a Dio in maniera distorta.
La giovane ebrea curando, seppure nell’inferno di un campo di concentramento, la sua spiritualità, si predisponeva ad una visione di Dio da poter donare ad altri. Un lunedì mattina, verso le dieci, le venne di annotare nel Diario questo pensiero:

“Dio non è (…) responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi!” (p. 134).

La custodia degli altri e del mondo è, potrei dire, da un punto di vista ontologico, opera del Custode; dal versante, per così dire, ontico, ci è comandato di essere custodi, i contenuti contenenti:

“È vero, ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l’inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli” (cit. p. 139).

Tutto questo, impone la disciplina dell’essenziale. Come non affolliamo la nostra casa di cose inutili, di ciarpame, altrettanto non dobbiamo riempire quantitativamente l’interiorità custodendo ‘qualsiasi cosa’; dobbiamo discernere.
La precarietà che Etty sperimenta nel campo di Westerbork, la scarsezza di tempo, di libri, di mezzi per scrivere, le insegna che la custodia dell’essenziale forma non poco nel relazionarsi a Dio ed agli altri:

“Non faccio (…) più riassunti di libri, ci vuole troppo tempo e non potrò trascinarmi dietro tutta quella carta. Con la mente estrarrò dalle cose ciò che è essenziale, e lo terrò in serbo per i momenti di necessità” (cit. p. 158).

D’altro canto, aveva già scritto, e come sopra riportato, che è Dio la Parola che racchiude tutto e, più che appunti, annotazioni espunte da libri, conta il tenere vivo, teso, il colloquio ininterrotto col Custode. La Hillesum si pone il problema di come salvare Dio in noi, proprio perché ha il ‘gusto dell’essenziale’; ha messo le parole sotto la custodia della Parola; ha privilegiato il dialogo ininterrotto in verticale e custodisce con diligenza spirituale la propria ‘casa interiore’ affinché possa essere il luogo di Dio. Siamo all’11 luglio del 1942 e si ha una presa di posizione della giovane ebrea che ci chiama a riflessione profonda; a domandarci se non sia il caso di fare nostra – quando la vita è minacciata – l’ assunzione di responsabilità verso Altro ed altri. Scrive Etty:

“E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio” (p. 163).

Aprendo il mio saggio, dicevo che, forse, se non ben compresa, questa posizione può apparire addirittura blasfema.
Per comprendere il ragionamento che ha portato la ragazza a ciò, dobbiamo spostare l’attenzione su di una preghiera che segue questa frase scritta di sabato. La domenica mattina, offrì parole che vorrei rubricare intendendole come lascito spirituale che aiuti a sentirci salvati in Dio e ci responsabilizzi salvando Dio in noi per poterLo annunciare e donare con convinzione (che mai deve rasentare la presunzione). A chi? A quanti non l’hanno incontrato o a quanti, pur avendone notizia, necessitino di dover meglio comprendere chi è Colui il quale, pur tormentato, piegato e piagato, Giobbe non esitava a chiamare custode dell’uomo:

“Cercherò di aiutarti – dice la Hillesum rivolgendosi direttamente a Dio – affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla.
Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi.
L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio.
E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.
Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio (…).
Con me vivrai anche nei tempi magri, mio Dio (…); ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio” (pp. 169 – 170).

Certo che non cacciare via Dio dal nostro territorio non preserva dal veder trasformate le modalità entro le quali potremo essere a Lui fedeli [40]; resta, tuttavia, che, rinunciando a salvare posate d’argento o altri beni di scarso valore, faremo posto alla preoccu  pazione di preservare in noi un piccolo pezzo di Dio e riusciremo, così, e soltanto in questo modo, ad aiutare noi stessi.
Questa posizione coincide con quella di Berdjaev che abbiamo esposto sopra: trattare dell’uomo è già trattare di Dio; o, per usare il linguaggio che ci ha accompagnato sino alla fine, custodire l’uomo è custodire Dio e ciò significa anche aiutarci perché – come recita un salmo - cammineremo alla luce di Dio.

Sarà Lui il compagno di viaggio; Lui che Giobbe, senza esitare, tra la disperazione dell’abbandono e strazi psicofisici, non ha esitato a definire, non mi stancherò mai di insistere su questo punto, Custode dell’uomo.



       

    




















[1] Cfr., id., Credo in Dio Padre, Casale Monferrato (AL) 1994, p. 114.
[2] Cfr., h. waldenfels, Il fenomeno del cristianesimo. Una religione mondiale nel mondo delle religioni. Brescia (Gdt 236), 1995, p. 36.
[3] id., Il problema della religione [1911], in Ermeneutica e religione, a cura di g. mozza, Bologna 1970.
[4] a. rimbaud, Una stagione all’inferno. Illuminazioni, Milano 1990, pp. 65 – 67. Quando si pensa che il divino nasca dal conferire ad una entità metafisica poteri e facoltà che sentiamo con dolore (invidia?) mancarci, lo si vede come un usurpatore: detiene quanto di buono, di forte sarebbe spettato a noi; in questo caso, potremmo dire con un teologo che ha studiato a fondo l’ateismo, la religione “si trasforma (…) in un vampiro dell’umanità, che si nutre della sua sostanza, della sua carne e del suo sangue” (h. de lubac, ‘Il dramma dell’umanesimo ateo’, in Opera omnia, voll. II, Milano 1992, p. 27).
[5] Cfr., id., ‘Dio in vista’, in Lo Spettatore, Milano 1984, pp. 108sgg.
[6] In Dizionario critico di sociologia [1982, 1986], edizione italiana a cura di l. infantino, Roma 1991, p. 401, alla voce “Religione”.
[7] Cfr., e. lévinas, Etica e infinito, Roma 1984, p. 120.
[8] Cfr., m. buber, L’eclissi di Dio, Milano 1983, pp. 50sgg.
[9] È quanto diceva un teologo italiano contemporaneo: “I significati non sono solo capiti, ma sono anche voluti” (i. mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano 1983, p. 35.
[10] Cfr., a. j. heschel, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Milano 1971, pp. 151 – 152.
[11] Cfr., e. severino, Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Milano 1994, p. 112.
[12] Citato e commentato in p. coda, La percezione della forma. Fenomenologia e cristologia in Hegel, Roma 2007, pp. 28 – 29.
[13] f. nietzsche, cit. in g. scherer, Il problema della morte nella filosofia, Brescia 1995, p. 245.
[14] Cfr., r. marchisio, Religione e religiosità, Roma 2002, pp. 120 – 121.
[15] id., Introduzione allo studio della psicanalisi, Roma 1949, p. 494.
[16] Cfr., n. luhmann, Funzione della religione, Brescia 1991, p. 24.
[17] g. w. f. hegel, Lezioni sulla storia della filosofia II, Firenze 1967, p. 97.
[18] Cfr., t. s. eliot, Cori da “La Rocca III coro, Milano 2000, p. 64.
[19] g. marcel, Dal rifiuto all’invocazione. Saggio di filosofia concreta, Roma 1976, pp. 111 – 112.
[20] Cfr., p. ricoeur, Dal testo all’azione, Milano 1989, p. 46.
[21] Cit in f. scanziani, Così è la vita. Il senso del limite, della perdita e della morte, Cinisello Balsamo (MI) 2007, p. 101.
[22] s. ogden, The Reality of God, London 1967, p. 17.
[23] Cit in a. scola, “Se vuoi puoi guarirmi”. La salute tra speranza e utopia, Siena 2001, pp. 75 – 76.
[24] Cfr., h. u. von balthasar, Il chicco di grano. Aforismi, Milano 1994, p. 124.
[25] m. henry, L’essence de la manifestation, Paris 1969, voll. II, p. 843.
[26] Cfr., a. camus, La peste, Milano 1974, p. 157. Simile la posizione di Spinoza: Id quod per aliud non potest concipi, per se concipit - ciò che non si può concepire per mezzo di altro, deve essere concepito per se stesso (id., Etica, Milano 1939, p. 48). Sant’Anselmo, dal canto suo, insegnava che incomprehensibile incomprehensibiliter comprehenditur – l’incomprensibile viene compreso incomprensibilmente. Un testo religioso indiano (Upanishad), recita: Tu non puoi conoscere colui che conosce. Tornando all’opera citata di Camus, credo opportuno aggiunge re qualcosa. Il dottor Rieux, ateo, ma coraggioso nel sacrificare la propria vita per curare la peste diffusa nel paese in cui si svolge la vicenda, obietta al gesuita che salvezza è un’espressione che non riesce a comprendere e preferisce, perciò, interessarsi unicamente della salute dell’uomo. In realtà, il vero cristiano, sa che la custodia dell’uomo chede di tenere unite, in una sola anima, la posizione di Paneloux (attenzione al Verticale) e quella di Rieux (attenzione all’orizzontale). 
[27] Cfr., k. rahner, ‘L’immacolata concezione’, in Saggi di mariologia e cristologia, Roma 1965, p. 421.
[28] Cfr., edith stein, Vie della conoscenza di Dio, Padova 1983, p. 187.
[29] san gregorio magno, Hom. 23 in Ev.
[30] Cfr., f. bisio, ‘Incontrarsi sul confine. Un modello per i rapporti tra filosofia e teologia’, in aa. vv., Esperienza e libertà, p. codag. lingua (edd.), Roma 2000, pp. 106 – 107. Aggiunge un pensatore francese: “Non è la Parola delle Scritture che ci dà ad intendere la Parola della Vita. Ma è quella, in noi generata in ogni istante, che ci rende Figli, che rivela, nella sua propria verità la verità cui fa riferimento la parola delle Scritture. Colui che ascolta queste parole sa che essa dice il vero, per il fatto che autoascolta in sé la Parola che lo costituisce nella vita” [m. henry, “Le parole de Dieu: un approche phénoménologique”, in Archivio di filosofia 60 (1992), p. 163]. Questo gravoso compito, ci sentiamo in dovere di precisarlo, non va affrontato con acribia ragionieristica o con aria professorale, ma con la gioia di chi sa che custodisce quanto lo custodisce. Karl Barth, in un dibattito, disse che la teologia non deve essere noiosa. Il suo collega Jüngel precisò che la teologia annoia quando evita le domande che fanno correre qualche rischio all’interrogante (Cfr., La teologia in discussione, Napoli 1991, p. 84). La domanda sul senso della custodia reciproca (Dio/uomo – uomo/Dio) è arrischiante, ma infonde bellezza, sostanza e vivacità alla teologia.
[31] Cfr., s. freud, ‘Il disagio della civiltà’, in Opere, Torino 1966 – 1980, vol. 10, p. 568.
[32] id., ‘Aldilà del principio del piacere’, in Opere, cit. vol. 9, pp. 244 – 245.
[33] Cfr., b. constant, Journaux intimes, Paris 1952, pp. 451 – 452.
[34] n. a. berdjaev, L’io e il mondo. Cinque meditazioni sull’esistenza, Milano 1942, pp. 239 – 240.
[35] Ecco il midrash al quale ho fatto riferimento. Dopo che gli ebrei, nel deserto dell’esodo, ebbero dato a Mosé, per la costruzione del tabernacolo tutto ciò che di prezioso possedevano, le donne offrirono i loro specchi di bronzo. Mosé sdegnò l’offerta: ‘Dovrei profanare le cose della santità con quelle della concupiscenza?’. Ma Dio gli disse: ‘Non sai che ho pettinato io stesso i capelli di Eva, affinché piacesse di più ad Adamo? Gli specchi che ti portano mi sono più cari dei tesori regali, poiché devo loro il mio popolo. Quando in Egitto, gli ebrei rientravano in casa, dopo le fatiche e le sofferenze della schiavitù, le mogli li facevano mangiare e bere; poi avvicinavano a loro gli specchi, si specchiavano insieme e dicevano loro tra le carezze: vedi, tu sei bello, ma io sono più bella di te. Allora dimenticavano le loro pene, e unendosi alle loro spose nella gioia dell’intimità moltiplicavano i figli d’Israele. Accetta dunque questi specchi del desiderio, santificati dall’amore umano, e fanne la vasca dell’acqua pura, che santificherà i miei sacerdoti, nel mio amore” (Riportato da s. quinzio, La Croce e il nulla, Milano 2006, p. 142). L’amore del Custode ci santifica e custodisce e ci moltiplica anche attraverso la vituperata (per moralismo e non per senso morale) seduzione. Ciò che si custodisce riferendolo al Custode non è mai impuro ed è sempre a Lui gradito essendo, in fondo, anche un mezzo per custodire noi.
[36] Ecco la cartolina che Etty gettò fuori dal treno della morte il 7 settembre 1943 e ritrovata lungo la linea ferroviaria e spedita da un certo Glimmen il 15 settembre 1943: “A Christine van Nooten. Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: ‘Il Signore è il mio alto ricetto’. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora (…), forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro. Etty” (e. hillesum, Lettere 1942 . 1943, Milano 2005, p. 149).
[37] Cfr., w. kurelek, Someone with Me. Autobiography of William Kurelek, Toronto 1980; m. ewanchuk, William Kurelek. The Suffering, Steinbach 1996, Canada;  p. morley, Kurelek. A Biography, Toronto 1986. Devo le poche notizie rubricate su questo straordinario testimone della fede cattolica alla lettura di un saggio scritto da un autore italiano: m. introvigne, Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà, Milano 2006, pp. 172 – 176.
[38] id., Lettere 1942 – 1943, cit. p. 45.
[39] id., Diario 1941 – 1943, Milano 1994, p. 86.
[40] Qualcuno si è sentito in dovere di avvisarci che non possiamo calcolare che volto avranno domani gli attuali quadri assiologici e gli odierni riferimenti teologici, ma di certo non ci sarà il vuoto. Scrive, infatti, il sociologo al quale sto pensando: “Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno (…) nuovi ideali (…) nuove formule che serviranno per un certo tempo di guida all’umanità (…). Non vi sono vangeli immortali (…). Come saranno i simboli in cui si esprimerà la nuova fede (…) è un problema che supera la facoltà umana di precisione” (e. durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Milano 1982, pp. 467 – 468). 

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