Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Dio ed il Dolore

Per aprire un dibattito

Dio ha una sola passione: amare ed essere amato
(S. Kierkegaard)



“Dio è debole” […] non nella sua onnipotenza formale, ma nel suo Amore che rinuncia liberamente alla potenza
(P. Evdokimov).

Nell’affrontare questo tema [1], a mio avviso, la prima “figura” da incontrare è quella della Croce. Tra i Padri della Chiesa c’era chi la definiva teologo perché fonte di insegnamento per il cristiano. In che senso? Credo che una chiarificazione possa venire da un aneddoto:

«Un giorno Jung parlò con il teologo evangelico Wilhelm Uhsadel del suo viaggio in India. Affermò che, in ultima analisi, tutto dipendeva dal modo in cui l’uomo affrontava la sofferenza, perché la sofferenza è parte integrante ed essenziale della nostra esistenza. Criticò sia il tentativo dell’uomo orientale, che “annulla la sofferenza”, sia quello dell’uomo occidentale che “si sbarazza della sofferenza con le medicine”. Occorre superare la sofferenza e la si può superare solo portandola.
Allora indicò l’immagine del Crocifisso appesa alla parete della sua camera e disse che solo dal Crocifisso si poteva imparare a portare la sofferenza inevitabile» [2].

È, dunque, “contemplando” il Crocifisso che intercettiamo una autentica teologia del dolore inteso come dolore condiviso pienamente tra Creatore e  creatura! Resta, però, che, sebbene la Passione di Cristo abbia gettato qualche fascio di luce sul “dolore di Dio”, il “mistero” dell’evento continua ad interrogarci [3].
Influenzati dal pensiero greco, la maggior parte dei Padri, erano propensi a parlare – ad eccezione di Lattanzio – dell’impassibilità di Dio. Il Motore Immobile aristotelico riceve amore, attira, ma non ama, né va incontro agli altri; non solo lo Stagirita, però, la pensava così:

«la divinità sarà quella che meno assumerà forme molteplici […] un dio […] non può consentire ad alterarsi […] nessuno ci venga a dire che […] sotto forme più varie, per la città s’aggiran gli déi; nessuno racconti fandonie […] per evitare insieme di bestemmiare gli déi e di rendere più paurosi i fanciulli» [4].

Il lascito dei filosofi greci peserà non poco quando si tratterà di accettare l’idea del pathos di Dio.

Il mio è un intervento finalizzato ad accendere un dibattito e, così, deposito nello spazio concessomi appena qualche provocazione ed una tessera immancabile al mosaico di riflessioni che dal mio intervento si svilupperà è rappresentata dal mistero (qualcuno preferisce parlare di ‘problema’) del silenzio di Dio.
L’uomo biblico lo sperimenta non poche volte e la Scrittura ha il merito di non tacere questo scandalo! [5]. Un brano del “Cantico di Mosé” contenuto in Esodo 15, 11, in ebraico, recita: Mi khamokha ba – elim? Cioè: Chi è come te fra gli déi? I rabbini, invece, leggono: Mi khamokha ba – illemim? – Chi è come te fra i muti? Si tratta, però, di “momenti” rispetto ai numerosi casi nei quali il Trascendente dialoga con l’uomo.
Un pensatore ebreo del Novecento ha ribadito il concetto espresso in esergo da Kierkegaard: l’unica passione (pathos) di Dio è amare ed essere amato.
Nelle Sacre Scritture, infatti, si comprende, senza possibilità di equivoci,che Dio è «personalmente coinvolto, perfino influenzato, dalla condotta e dal destino dell’uomo» [6]. Compromissione che salda a filo doppio amore e sofferenza. Nell’amare l’uomo senza misura, Dio si appassiona, fino a patire, alle nostre vicende. Scrive un autore orientale:

«il dolore di Dio e l’amore di Dio sono associati e rappresentano l’unità dell’amore di Dio fondato nel dolore. Tra essi non c’è né separazione, né opposizione» [7].

Il “silenzio” è, in Dio, un momento altrettanto eloquente di quello in cui si dà una epifania! Il ‘non detto’ è segno di attenzione ricca di pathos per ‘mondo’ ed ‘uomo’; giammai mutismo indice d’indifferenza.

Dio è povero, nel farsi uomo per noi, nell’accogliere in sé per compassione la sofferenza degli altri
(Massimo il Confessore)

L’Incarnazione e la Croce sono i migliori teologi e possono davvero istruirci in maniera decisiva riguardo ad una robusta teologia del dolore. Cosa mostra il Padre nel rendersi presente nel Figlio? Che Egli «è da sempre un Dio degli uomini» ed «esiste eternamente rivolto all’uomo». In Cristo, «fin dall’eternità ed in libertà, è un Dio della storia ed ha ‘tempo’ per l’uomo» [8].
Dio viene non a villeggiare nel Suo mondo, bensì per avere tempo da condividere con la creatura. Un depotenziarsi? No, piuttosto, una esplicazione della Sua essenza che è Amore. Commuove non il fatto che Dio patisce, bensì che compatisce: “impassibile”, non “privo di compassione” [9].
In Cristo, Dio prende sul serio l’uomo assumendone la carne che soffre! Polemizzando con gli ariani, un antico Padre, metteva l’accento sull’“umanità del Verbo”: hinc cum caro pateretur, extra eam non erat Verbum (quando la carne soffriva, il Verbo non era fuori di essa).
Cristo si è mosso tra le strade del Suo Paese, ha incontrato, toccato, la Sua gente: «quando compiva divinamente le opere del Padre la carne non era fuori di lui; il Signore compiva queste opere nel suo corpo» [10].
Condividendo ‘carne’, ‘tempo’ ‘luoghi’ con l’uomo, Dio diviene davvero il Dio – con – per – noi; più comprendiamo il Suo modo di amare, più ci diventa chiaro chi siamo e come umanizzarci. La potenza che non sa abbracciare, uccide (Buber). Comprendere la kenosis vuol dire imparare ad amare, a donarsi, a soffrire non solo per l’altro, ma con l’altro. Rispettare il Dio che ha “tempo per l’uomo” aiuta a rispettare l’uomo che gode di un simile privilegio. Fissare il “Volto del Crocifisso” – sola, unica icona del Padre – è riconoscere l’infinita dignità dell’uomo [11].

La sola scelta è tra il dolore aperto della Croce e il dolore chiuso dell’inferno
(G. Thibon)

Riguardo al pathos di Dio, in verità, bisogna cominciare a meditare assai prima di toccare i temi dell’“Incarnazione” e della “Crocifissione”. Origene, sebbene annoverabile tra i teologi restii a discutere sull’impassibilità divina, scrisse che il Salvatore patì ancor prima di incarnarsi e salire sulla Croce:

«Qual è questa passione che dall’inizio ha subito per noi? È la passione dell’amore» [12].
Quando il “Dio dell’Universo” – aggiungeva il nostro autore – si occupa di cose umane, soffre di una passione umana. Dio, con la Passione, si mette “contro se stesso” pur di salvare l’uomo: l’amore assume una forma follemente radicale. Gridare l’abbandono di Dio nell’ora più dolorosa ed allo stesso tempo fidarsi di Lui è soffrire secondo l’esempio di Cristo. L’uomo Cristoformato grida tenendo vive la “sofferenza per l’abbandono” e la “certezza dell’accoglienza” espresse con eguale intensità emotiva [13].
Il “principio di non contraddizione”, o la legge “una cosa esclude l’altra”, nella fede perdono diritto di cittadinanza; la logica, qui, si arresta bruscamente perché, come disse Henry Miller, in essa non c’è redenzione. Dio si dà nel “paradosso”! Egli è, infatti, paradossalmente, libero da tutto, ma non – sottolineava Mons. Gay – dal Suo amore. Nietzsche insinuava che l’amore per noi fosse l’inferno di Dio e che la pietà l’avesse ucciso! Ma questo è esattamente ciò che Benedetto XVI definiva l’amore nella sua forma più radicale (cfr., qui, nota 13).
Kafka, narratore e testimone dell’alienazione dell’uomo moderno, disse all’amico Brod che il nostro mondo non è che uno dei malumori di Dio. La fede, all’opposto, dice che Dio viene nel mondo per rivendicarne la proprietà ed il diritto di custodirlo in collaborazione con noi e facendo in modo che sia l’amore il nesso che lega inscindibilmente Creatore e creatura. Il Dio che ha creato non può, fosse pure a caro prezzo, disinteressarsi della creatura, del mondo [14].
Vi ringrazio, mio Dio, per avermi fatto passare attraverso il crogiolo della sofferenza
(Teresa di Lisieux)

Chi è Onnipotente può rinunciare alla propria onnipotenza?
Certo! A patto, però, che a muovere verso tale autolimitazione sia l’Amore! Dio entra nella sofferenza, nella morte, ma non vi soccombe grazie all’Onnipotenza; in verità, è per il Suo Amore che condivide con noi questa vittoria [15].
“Per noi” Dio accoglie la Croce ed insegna ad esserci come dono per gli altri.
Il Dio pathos è la migliore critica di un modus vivendi che, ormai, si alimenta al profitto ed all’autorealizzazione. Guardare al Dio per gli altri significa costruire l’uomo per gli altri [16].
È chiaro che, raggiungere l’uomo fino a prenderne la peritura carne, le contraddizioni, l’incomprensione davanti alla sofferenza, significa, per Dio, mettersi contro se stesso e praticare un cammino lungo e doloroso.
Come dice un proverbio africano, però, il cammino attraverso la foresta non è lungo se si ama la persona che si va a trovare.
 La foresta affollata da erbacce (peccato, debolezza, tare ontologi che… ) non spaventa Chi ci ama e non Lo induce a rinunciare a farci visita. Qui si comprende che, mi si passi l’affermazione, proprio nel “modo” di essere divino (Incarnazione e Crocifis sione) si manifesta che in Dio è contenuta anche la “vera essenza” dell’umanità [17].

Il partner del dialogo con la teologia contemporanea […] è […] l’uomo che soffre: […] che sperimenta la situazione di non salvezza, nelle sue varie forme…
(W. Kasper)

La possibilità del divenire, in Dio, non è indice di mancanza; anzi, proprio perché Amore incontenibile, sente di dover aprirsi al mondo, all’uomo. L’Amore sovrabbondante spiega e giustifica che Dio trovi il tempo di condividere le sofferenze umane [18]. La Croce, espressione sì del “dolore”, ma anche (soprattutto) dell’“Amore sovrabbondante” di Dio, allora, non fa paura, ma inaugura ‘la’ Speranza che salva! Il cristiano che ha compreso la Passione di Cristo, sa che, dove c’è la Croce, la Risurrezione è vicina (Bonhoeffer). Un compianto vescovo italiano insegnava che la nostra storia crocifissa è già impregnata di risurrezione (Don Tonino Bello). La filosofa ebrea Simone Weil pensava alla Croce di Gesù e confessava di provare, per chi l’aveva sperimentata, addirittura invidia. Su di essa avviene l’incontro autentico, sofferto ed appassionato tra Creatore e creatura: «La Croce è la nostra patria» [19]. L’amore è patire “per” e “con” l’altro – e su questo la Weil concorda: «L’amore di Dio per noi è passione» [20]. L’interesse per questo tema si accese nella pensatrice anche grazie ad una esperienza assai incisiva che fece in un paesino portoghese, nel 1935. Si trovò tra le famiglie di poveri pescatori a festeggiare il santo patrono di quel posto. Nei canti e nella processione notò che si esprimevano fatica e sofferenza, caratteristiche di quegli umili lavoratori del mare:

«Non ho mai udito un canto così doloroso – annoterà la Weil - […]. Là, improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi» [21].

Se frequentassimo persone come gli umili pescatori incontrati da Simone, piuttosto che stordirci tra le luci dei lussuosi ma disanimati ipermercati, scopriremmo che la Croce è per molti realtà quotidiana; che, per tanti, il Dio che soffre con noi è il Compagno la cui Presenza è vitale e non questione teologica da dibattere tra specialisti. Non facciamoci illusioni: la verità è che – come disse la Serva di Dio Suor Maria Alfonsa – la via della Croce è la via più difficile, ma resta la via regale perché Dio ed uomo si incontrino!
Perché la sofferenza è santa? Perché Dio soffre nel mondo attraverso l’uomo…
(D. Bonhoeffer)

Una autentica “teologia del dolore”, in primo luogo, deve evitare di pensare alla Croce come se fosse una crudeltà che Dio esige per farsi ripagare dall’uomo una offesa ricevuta. Parlare di riscatto, risarcimento, mi pare inadeguato (se non, addirittura, falso!). Cristo è – piuttosto – la Presenza che rimane, fedele ed inalterata nell’Amore, quando tutto va in malora. Egli è la prova tangibile, data una volta e per tutte, della vicinanza del Padre ad ognuno di noi. Ha scritto una testimone del Vangelo:

«Quando nella vita tutto ti scompare, ritroverai Lui […] fedele: Lui, il tradito, per consolare tutti i traditi; il fallito per consolare tutti i falliti; il vuoto per riempire ogni vuoto; […] il non amato che sostituisce divinamente ogni amore perduto o non trovato» [22].

Bisogna rinunciare all’idea del Dio talismano; Egli non ci protegge da ‘ogni sofferenza’, bensì fa compagnia in ‘ogni patimento’. È nella comune condizione di sofferenti che si incontrano uomo e Cristo; la divinità di Gesù è mostrata pienamente nel modo in cui si fa uomo, pur restando il Figlio che svela il “vero Volto del Padre”. Nella sofferenza condivisa si incontrano – per un dialogo vivo e ricco di pathos – Dio ed uomo. La Lubich, scrive:
«T’ho trovato in tanti luoghi, Signore! […] Ma dove sempre ti trovo è nel dolore» [23]. Veniamo cercati nella sofferenza ed è lì che dobbiamo imparare a cercare. Noi cerchiamo perché manchiamo di qualcosa, mentre Dio ‘ci’ cerca per donare la vita piena. San Giovanni della Croce riteneva meritevole di commozione il pensare a Dio che cerca le nostre anime per farle ricche con i Suoi doni: non si capisce Dio se non si pensa a lui come ad amore che si dona a noi per comunicare la sua perfezione, la sua felicità – diceva. Quando tutto scompare – allora – ritroviamo Lui. Il pathos divino è in questo permanere, in questa immutabilità dell’Amore. Immutabilità che non va confusa con lo stare della pietra disanimata; in realtà, a rimanere inalterata è la sorgente sempre aperta del cuore divino. Nel Dio ebraico – cristiano, a differenza (come sopra abbiamo mostrato) della divinità intesa dai greci, l’immutabilità evoca fedeltà: è il perenne rinnovarsi (nelle forme) di una Promessa non ritirabile (nella sostanza).

Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione/[…]/Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione
(D. Bonhoeffer)

Una verità cristiana che non sia, almeno in parte, accompagnata da sofferenza, finisce col divenire una esangue posizione teoretica. Se con Dio la relazione è “reale”, necessario è assumersi i rischi di un vivo dialogo con un Tu! Il cristianesimo non può esaurirsi in una conoscenza ed accettazione di dottrine; deve, piuttosto, essere rischio. Dio, nel mettersi da Soggetto di fronte a noi considerandoci soggetti, sceglie una relazione le cui possibili (e spesso toccate) derive sono l’ateismo, il nichilismo, l’indifferenza… Senza una marcata, visibile venatura di “pathos”, la vita cristiana perde consistenza. Un filosofo cristiano, in questo caso, ha detto parole pesanti: «Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne» [24]. Mounier, che nella sofferenza fisica devastante della figlioletta vedeva un messaggio di Dio, ci sta dicendo che l’uomo che si voglia dire “cristiano”, non può non misurarsi con la sofferenza: Dio stesso, infatti, non si è sottratto alla sfida, ma l’ha pienamente accettata e vinta. Nella sofferenza del Figlio, in quanto uomo, apprendiamo il senso del limite; impariamo a conoscerci in quanto “creature” e non “creatori”! Il dolore di Dio, esemplificato dalla Croce, dunque, è la sola ermeneutica critica applicabile ad una idea di uomo tesa ad accrescere la già mostruosa ed a tratti ridicola elefantiasi dell’ego. L’antropologia cristiana, quando si sceglie come teologo e maestro la Croce, invece, offre una lezione antitetica a quella dei profeti del self made men: «l’uomo è creatura e ogni sua pretesa di autoaffermazione orgogliosa e titanica lo condanna all’inautenticità e all’alienazione più radicale; vive invece nella verità, quando accetta e riconosce la sua creaturale finitezza e dipendenza dal Creatore» [25]. L’umiltà di Dio è la sola strada percorribile all’uomo.
Se qualcosa ci fosse di meglio e di più utile per la salvezza degli uomini, del patire, Cristo l’avrebbe indubbiamente mostrato con le parole e l’esempio
(Imitazione di Cristo)

Il filosofo e cristiano di confessione protestante, Paul Ricoeur, propone una interessante espressione: globalizzazione della croce. L’ispirazione gli viene da un passo di Paolo: non c’è giudeo, né greco; non c’è né schiavo, né libero (Gal 3, 28). Da questa ‘atipica’ globalizzazione, il filosofo fa discendere «una sorta di negativismo nei confronti dell’attuale disparità dell’ordine economico – sociale e politico» [26]. L’umiltà che nel paragrafo precedente Barbaglio chiede alla persona, qui viene richiesta a livello planetario: l’autoaffermazione titanica minaccia muovendo anche sulla grande piazza dei potentati economico-politico-tecnologici. Cristo – ricorda Paolo – abolisce le differenze, almeno nella loro più deplorevole accezione. La Croce ha globalizzato l’amore: ogni uomo è amato da Dio ed ogni uomo deve amare senza erigere steccati.
La Croce è aperta in tutte le direzioni: il palo orizzontale lega il prima ed il dopo, la destra e la sinistra; il palo verticale, lega la terra al cielo, l’uomo a Dio. Al centro, poi, si intersecano tutti i percorsi. L’uomo o è cruciforme o non è! Ha scritto un teologo: «Il palo verticale e il braccio orizzontale si incontrano in un punto che simboleggia il centro dell’uomo. Possiamo distenderci fra cielo e terra e fra gli uomini senza lacerarci solo se rimaniamo in questo centro. Solo perché il braccio orizzontale è sostenuto dal palo verticale noi non ci perdiamo negli altri. La nostra dedizione al mondo parte da questo centro. Ma questo centro non ci libera dalle contraddizioni che costituiscono la nostra esistenza» [27]. Sulla Croce cade il potere del mondo e trionfa l’amore di Dio. Conclude Grün: «Quando Gesù è morto in croce, il velo del tempio che bloccava il cammino verso Dio si è strappato. La croce mostra chiaramente che il mondo non può più nasconderci la vista di Dio, perché il suo potere è stato infranto ed è stato segnato dall’amore di Dio» [28]. Torniamo a Ricoeur. La sua convinzione è che, senza l’intersecarsi del divino con le nostre vicende, trionfa l’inumano: «là dove il divino non irriga le radici dell’umano, l’umano si corrompe» [29].
Nella raccolta di testi dalla quale attingiamo, in una intervista a Bertrand Révillon, il pensatore francese risponde alla domanda: Dio non è onnipotente? A suo dire, in verità, a fare problema è, piuttosto, un modello politico di onnipotenza! È – precisamente – quello del tiranno al quale tutto è consentito. Al Dio ebraico – cristiano, come sappiamo – ciò è del tutto estraneo. Col cristianesimo, a detta di Ricoeur, si sperimenta la Parola impotente.
L’intervistatore chiede se la soluzione non stia, per caso, nel rinunciare del tutto all’idea di onnipotenza. Il filosofo, però, più che di ‘rinuncia’, preferisce parlare di riformulazione della spinosa questione; invita, perciò, a parlare di “onnipotenza” in termini di amore. Dio diviene, così, l’onni – amante [30]. Come può, infine, un cristiano “guardare alla Storia”?
Secondo Ricoeur, lo sguardo del Dio onni-amante insegna a considerare con misericordia finanche le derive nelle quali le visioni del mondo contemporaneo si arenano.
In questi termini si può “testimoniare il Vangelo”: «per me la testimonianza dell’evangelo è lo sguardo di benevolenza sugli sforzi e sui fallimenti delle società umane, lo stesso sguardo che ha avuto Cristo sulla peccatrice. Sì, per me essere testimone dell’evangelo significa avere questa attitudine di compassione e di indulgenza per la fragilità umana» [31].

L’intera vita di Cristo fu croce e passione
(Imitazione di Cristo)

Uno scrittore ricco di spiritualità ha paragonato Dio alla salamandra: questa, si sa, riesce a passare indenne attraverso il fuoco; allo stesso modo, Dio entra nella morte, eppure resta ‘incorruttibile’. Egli – conclude il nostro autore – compatisce senza patire [32]. In Cristo vince la morte, ma non la fugge: ha voluto conoscere personalmente quanto ci affligge prima di patirne il peso. Un Padre della Chiesa ha scritto: «Il motivo per cui il Verbo di Dio, impassibile in se stesso, sostenne la passione era che l’uomo non poteva essere salvato in altro modo» [33]. L’Incarnazione è l’evento unico, irripetibile. Dio non ritirerà la Sua Parola (Cristo). L’intramontabile mistero, dunque, rende inesauribile ed inesausta la nostra meditazione circa il Dio onni-amante (Ricoeur) [34]. D’accordo… ma “perché continuiamo a soffrire”? Il fatto è che, malgrado tutto, l’uomo resta “altro” da Dio e, proprio il mantenimento di questa ‘alterità’, consente la relazione. Il dolore non sarà mai comprensibile come può esserlo un teorema di geometria o una dimostrazione matematica, perché Dio stesso rimane – per lo più – incomprensibile. Un teologo del Novecento ha risposto alla domanda – perché Dio ci lascia soffire? – spiegando che «l’incomprensibilità del dolore è un frammento dell’incomprensibilità di Dio» [35]. A volte, davanti all’incomprensibilità del dolore, non resta che un sospiro da consegnare nelle mani di Dio; non c’è spiegazione, ma resta l’invocazione [36]. L’uomo, con le sue domande, i dubbi e le angosce riguardo al soffrire, si colloca – almeno inizialmente – sull’altro fronte. Sperimenta, in un primo momento, una invincibile solitudine. L’esperienza è quella di Giobbe! Di lui si dice che veniva dalla terra di Utz: luogo non identificabile. Il nome dell’ignota località somiglia ad una radice ebraica che significa ‘consiglio’. L’uomo che patisce ha bisogno di consiglio, di consulenza! Se, però, cambiamo, come hanno fatto i rabbini, Utz in chuz, la parola sostituente significa fuori: Giobbe è colui che sta ‘fuori’, ‘dall’altra parte’. Egli trascina Dio in guidizio, Lo interroga e pretende vederlo “faccia a faccia”, piuttosto che nella versione scolorita delle esangui e geometriche teologie – falsamente consolatorie o ingiustamente accusatorie – dei suoi amici! L’uomo che soffre vuole le capire chi sia il Dio nel quale confidare, perché non riesce a conciliare la Bontà del Creatore con la sua sofferenza (a suo dire ingiusta) di creatura allo sbando: per Giobbe – scrive un illuminato esegeta – la sola cosa che conti «non è il “male di vivere”, ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita» [37]. La sfida è questa: divenire da “uomo di fuori,dell’altra parte”, il consofferente, colui che, cioè, condivide l’essenziale con Dio!

Quando si è nel pieno della sofferenza bisogna fare silenzio, e basta!
(Davide Maria Turoldo)

Questo è il senso veramente soprannaturale ed insieme umano della sofferenza. È soprannaturale, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l’uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione
(Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 31)

Edith Stein raccolse la sfida del male, del dolore da innamorata della Croce e quale sostenitrice convinta del pathos di Dio per noi. Di famiglia ebraica, allieva del grande filosofo Husserl, si convertì e divenne Carmelitana. Morì, come è noto, in una camera a gas, vittima della follia nazista [38]. Divenne amica di un docente, Adolf Reinach che, purtroppo, morì partecipando alla Prima Guerra Mondiale. La vedova Reinach chiese proprio a lei di recarsi a casa per riordinare i manoscritti dello sfortunato marito. La filosofa temeva l’incontro: come avrebbe potuto reggere davanti alla sofferenza di quella donna? Invece, superato ogni indugio, si trovò di fronte una persona capace di soffrire con immensa dignità. Si alimentava, infatti, agli insegnamenti della Croce. Da quel momento, Edith, la elegge a teologo, a maestra della sua vita ed inizia il cammino di conversione. In una relazione destinata alla Superiora del Monastero di Colonia, scrisse:

«Fu […] la mia prima esperienza della forza divina che dalla Croce emana e si comunica a quelli che l’abbracciano. Per la prima volta mi fu dato di contemplare in tutta la sua luminosa realtà la Chiesa nata dalla Passione salvifica di Cristo, nella sua vittoria sul pungolo della morte. Fu quello il momento in cui la mia incredulità crollò […] e Cristo si levò raggiante davanti al mio sguardo. Cristo nel mistero della sua Croce!» [39].

Torna ciò che dicevamo in apertura riportando un aneddoto su Jung:
la sofferenza si supera solo portandola; lo studioso del profondo aggiungeva, ricorderete, che solo dal Crocifisso si impara a portare la sofferenza inevitabile.
Portare la sofferenza, va bene; ma è necessario pure, di fronte a quella che colpisce altri, guardarla con misericordia, animati dal desiderio di parteciparvi. Fosse pure un attimo, quando portiamo al sofferente un po’ di ristoro, agiamo conformandoci, in parte, a Cristo.
Si tratta di prendere tremendamente sul serio ogni palpito di un cuore che soffre e, fino a rischiare in proprio, di cercare la parola che aiuti, accompagni.
Per mostrare cosa intendo dire mi affido ad un racconto ebraico.



Una donna andò a trovare il maestro chassidico Moshe Leib di Sassov:
- Voglio sentirvi pregare per mia figlia; è malata e in pericolo di morte!
- Auguro che Dio le mandi una pronta guarigione!
- Ah, no, rabbi! Non basta. E sappiate che non mi muoverò di qui finché non giurerete solennemente, sulla parte personale che vi spetta nel mondo futuro, che mia figlia guarirà!
- Ebbene, così sia: giuro, su questa parte personale che mi spetta nel mondo avvenire, che tua figlia guarirà.
Alcuni giorni dopo la giovane morì. Allora uno dei discepoli del maestro gli chiese:
- Che idea fare un tale giuramento sapendo che la ragazza era colpita da un male incurabile!
- E io vi dico che tutto il mondo a venire non vale un’ora della consolazione che, in quel momento, ho potuto dare a quella madre! [40].   



[1] È utile, visto che ho il compito di introdurre il dibattito, suggerire un percorso bibliografico che affronti ad ampio raggio la questione che, poi, altri relatori indagheranno in direzione monografica. Per un confronto fra teologia tradizionale, patristica e moderno/contemporanea, c. charamsa, Davvero Dio soffre? La tradizione e l’insegnamento di San Tommaso, Bologna 2003; f. ardusso, La debolezza di Dio, in «Archivio teologico torinese», 8 (2002), pp. 362 – 382); g. canobbio, Dio può soffrire?, Brescia 2005; per comprendere l’onni-potente Dio come onni-amante (Ricoeur), d. garota, L’onnipotenza povera di Dio, Milano 2001; per una rivisitazione “cristologica” dell’idea di impassibilità divina, p. gamberini, O Lógos sárx egéneto. Tesi sul divenire di Dio, in «La Scuola Cattolica», 120 (2001), pp. 273 – 289; d. gonnet, Anche Dio conosce la sofferenza, Magnano (BI) 2000.
[2] Cit. in a. grün, La croce. Immagine dell’uomo redento, Padova 2009, p. 98. Non solo Jung si è confrontato con il tema della Croce e, dunque, per indagare i percorsi teologici e psicologici intorno ad essa, è utile leggere k. rahner, Il male. La risposta della psicoterapia e del cristianesimo, Milano 1987.
[3] Cfr., j. galot, Il mistero della sofferenza di Dio, Assisi 1975. Inesauribile la riflessione che si apre davanti ai patimenti del Salvatore. Interessante lo studio condotto da b. maggioni, I racconti evangelici della passione, Assisi, 1994. La Croce ci parla inesausta di un Dio Altro, che si compromette con la Storia ed ha tempo per l’homo patiens: g. moioli, La Parola della Croce, Viboldone 1985. La creazione attende salvezza attraverso il chinarsi del “Dio appassionato dell’uomo” sulle ‘realtà terrestri’: «poiché la salvezza è una realtà totale, essa riguarda (tutto) l’uomo e tutti gli uomini, raggiungendo così la realtà storica e sociale, la cultura e le strutture comunitarie in cui essi vivono» (giovanni paolo ii, Discorso alla Pontificia Università Urbaniana, in Osservatore Romano, 7 ottobre 1988).
[4] platone, La Repubblica, in Opere complete, Bari 1982, VI, pp. 90 – 91. In sintesi: «Per Platone […] per Aristotele, Dio può essere oggetto, ma non soggetto d’amore, giacché amore, per il greco, implica sempre mancanza di ciò a cui tende, e l’ottimo […] non può mancare di nulla e, dunque, non può amare alcunché» (g. reale, Storia della filosofia antica, Milano 1980, V, pp. 100 – 101). Tra il “Motore Immobile” aristotelico ed il mondo, poi, non può esserci “relazione appassionata”, anche perché, nella mentalità filosofica greca manca il concetto di creazione: «Il primo motore immobile di Aristotele è causa di ciò che il mondo è, non lo è del fatto che il mondo esista […] la materia è anch’essa a modo suo causa prima, in un universo come quello di Aristotele dove il Motore primo immobile non è creatore» (e. gilson, L’essere e l’essenza, Milano 1988, p. 78). 
[5] Cfr., j. m. mcdermott, La sofferenza umana nella Bibbia, Roma 1990. Sulla sofferenza causata dal “silenzio di Dio”: aa. vv., Chi è come te fra i muti? L’uomo di fronte al silenzio di Dio. Lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini, Milano 1993. 
[6] a. j. heschel, Il messaggio dei profeti, trad. it. parziale, Roma 1981, p. 9.
[7] Cfr., k. kitamori, Teologia del dolore di Dio, Brescia 1975, p. 60. Dio non viene al mondo per tangenza esterna; piuttosto, viene a dirci che esso è Suo e, dunque, amarlo è compito che condivide con l’uomo: Dio «viene al mondo – precisa un teologo – in modo tale da appartenervi […] rivendicando il mondo […] come ‘sua proprietà’ (Gv 1, 11)» (e. jüngel, Dio, mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Brescia 1982, p. 491). Nel condividere l’interesse per il mondo, Creatore e creatura si coalizzano con il cemento dell’amore. Conclude Jüngel: «Dio e l’uomo avranno l’amore come loro futuro comune» (p. 504).
[8] w. kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1997, pp. 257 – 258. In Cristo, Dio viene – paradossalmente – ad occupare, per avere tempo per noi, l’ultimo posto. Non muta la Sua essenza ma, in tal modo, la manifesta poiché l’Amore non prevarica, si dona. Dà molto a pensare una espressione di Charles de Foucauld: Cristo ha occupato così bene l’ultimo posto da non lasciarlo a nessun altro. Cristo cambia radicalmente il modo di intendere il Trascendente: in Lui, cioè, avviene una «svolta assolutamente decisiva […] Dio […] non è in primo luogo “potenza assoluta”, ma “amore assoluto”, e la sua sovranità non si manifesta nel tenere per sé ciò che gli appartiene, ma nell’abbandonarlo» (h. u. von balthasar, Teologia dei tre giorni, Brescia 2000, pp. 39 – 40). 
[9] Mi riferisco ad una Omelia sul ‘Cantico dei Cantici’, la n. 26, che Bernardo di Chiaravalle scrisse in occasione della scomparsa dell’amato fratello Gerardo. Il santo teologo avvertiva la presenza di Dio che condivideva il suo dolore e, per questo, facendo teologia non a tavolino, ma in ginocchio, scrisse: impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio è impassibile, non privo di compassione (bernardo di chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, 26, 5 [SC 431, ed. p. verdeyen, Paris 1998, pp. 288 - 289]). 
[10] Cfr., atanasio di alessandria, Orationes contra Arianos, III, 32 (PG 26, 389 – 390c). Sulla Croce, Dio, in Cristo, ha le braccia spalancate per aprirsi al mondo e raccogliere, in un abbraccio, i confini dell’intera realtà. Ha detto Cirillo di Gerusalemme, Dio ha disteso sulla Croce le sue braccia per circondare i confini dell’universo. Nella povertà dell’abbassamento, viene rivelato che l’impotenza dell’Amore che gratuitamente si dona è il vero volto della Potenza divina. È, dunque, l’onnimpotenza del Calvario a mostrare cos’è l’onnipotenza di Dio (f. varillon).
[11] È stato detto: Maxima enim reverentia debetur homini ex affinitate quam habet ad Deum [Massimo rispetto è dovuto all’uomo per l’affinità che egli ha con Dio] (tommaso d’aquino, Summa theologiae, II – II 103, 3, 3).
[12] origene, in Ez. Hom., VI, 6, cit. in h. de lubac, Storia e spirito, Milano 1985, p. 264. La Passione mostra e il “Volto di Dio” e la verità della “condizione umana”; per questo, va compreso l’atteggiamento divino/umano di Gesù davanti alla morte: h. schürmann, Gesù di fronte alla propria morte, Brescia 1983.
[13] Si tratta di idee ricavate da una Enciclica del regnante Pontefice: «Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore questo nella sua forma più radicale» (benedetto XVI, Deus Caritas est, Città del Vaaticano 2006, 12). Ancora: «Per il credente non è possibile pensare che Egli sia impotente […] è vero che perfino il nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in croce, il modo estremo e più profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà» (38).
[14] Parlando in termini non teologici, bensì psicologici, una studiosa non ha potuto evitare di ammettere che «amare e creare sono alla radice identici» (lou andré salomé, Riflessioni sull’amore, Roma 1997, p. 20).
[15] Scrive un teologo: «perché onnipotenza dell’amore, Dio può […] anche permettersi l’impotenza dell’amore, cioè entrare nella sofferenza e nella morte senza soccombere» (w. kasper, Il Dio di Gesù Cristo, cit. pp. 264 – 265).
[16] «Dio è colui che è per gli altri» (e. jüngel, Dio mistero del mondo, cit. p. 289). Con la discesa agli inferi di Gesù, si realizza quella che un teologo definisce solidarietà all’indietro: consiste in «una memoria solidale con coloro cui la morte ha tolto la voce e sono caduti nell’oblio» (j. b. metz, Glaube in Geschichte und Gesellschaft, Grünewald, Mainz 1977, p. 115). La solidarietà è traduzione nel quotidiano della decisione che Dio prende nell’eternità di dedicarsi, in Cristo, interamente all’uomo ed alle realtà del mondo. Giovanni Paolo II, al n. 43 della Evangelium vitae, scriveva: «Il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggiore debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati… Quanto è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (cfr. Mt 25, 31 – 46)».
Cfr., j. moltmannj. b. metz, Storia della passione, Brescia 1974, specialmente pp. 37 – 56.
[17] In realtà, non sto affermando qualcosa di nuovo. Un teologo protestante del Novecento, in una conferenza, ritrattò la sua concezione di Dio: non più il Totalmente Altro, ma il Dio – con – noi! Il 25 settembre del 1956, l’esponente della ‘teologia dialettica’, dichiarava: «Proprio la divinità di Dio, ben compresa, include la sua umanità» (k. barth, L’umanità di Dio, Torino 1975, p. 42).
[18] «l’essenza immutabile […] di Dio contiene, nella sua splendida libertà, la “possibilità” del divenire. “Possibilità” non nel senso di carenza, potenzialità, bensì della possanza, della sovrabbondanza» (h. küng, Incarnazione di Dio, Brescia 1972, p. 547).
[19] Cfr., s. weil, L’amore di Dio, Torino 1968, p. 113. Ad inverare ogni sofferenza, qualsiasi sia il luogo nella quale si dà, è sempre la Croce: «In qualunque epoca, in qualunque paese, dovunque c’è una sofferenza, la Croce di Cristo ne è la verità» (Ibid. p. 124). Verità che salva e non meramente consola: il cristianesimo non è una epidermica terapia riguardo al male di vivere, ma ristrutturazione ontologica del soggetto patente: «Sarebbe una prova di vera inumanità del cristianesimo, se esso insegnasse solo a sopportare la disumanità. Qui non si deve solo consolare, qui si deve anche portare salvezza» (j. b. metz, Glaube in Geschichte und Gesellschaft, cit. p. 125).
[20] id., Quaderni II, Milano 1985, p. 230.
[21] id., Attesa di Dio, Milano 1972, pp. 42 – 43.
[22] Cfr., c. lubich, L’unità e Gesù Abbandonato, Roma 1984, p. 77. In realtà, nessuna argomentazione, nemmeno quella ora donata dalla Lubich, può del tutto rassicurare nel fare i conti con l’angoscia insita in ogni sofferenza. Scrivendo su di un personaggio biblico che ha fatto i conti col male faccia a faccia, qualcuno ha scritto che, anche se Gesù, uno della Trinità, davvero ha sofferto, questo «grande segreto dell’amore di Dio rivelato nella pienezza dei tempi non abolisce il travaglio interiore dell’angoscia che prende inevitabilmente al momento della grande prova. Anche in Cristo, infatti, Dio, poiché radicato, attraverso il grembo di Maria, presente nella nostra storia e nella nostra vita, è pur sempre anche assente» (b. moriconi, Giobbe, Torino 2001, p. 133).
[23] id., Meditazioni, Roma 1974, p. 67. Proprio perché l’inveramento del rapporto Dio/uomo passa per la fornace della sofferenza condivisa, amare Dio avvicinandosi al Suo modo di amare richiede impegno, fatica. San Vincenzo de’ Paoli sosteneva che bisogna amare Dio con il sudore della fronte.
[24] Cfr., e. mounier, Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza, Milano 1995, p. 40. Ottenere questo, però, significa, in prima battuta, pensare sul serio l’agonia  – pur sorretta da una fiducia incrollabile nel Padre – patita da Gesù. «La teologia della croce dovrà assumere proprio questa […] dimensione dell’agonia di Gesù nell’abbandono di Dio e portarla alle sue estreme conseguenze» (j. moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Brescia 1973, p. 180). Assumere “questa dimensione”, però, non può assolutamente costituire un ‘esercizio teoretico’, ma richiede l’investimento di tutta la persona. Portare all’estreme conseguenze l’abbandono patito da Gesù, significa stare con Lui non solo nel momento trionfale della Risurrezione, ma soggiornare al Suo fianco (squarciato) nel mentre della Passione per ritrovare Cristo in ogni “povero cristo”. Non teologia a tavolino, dunque, ma vita, pathos! Conclude Moltmann: «La conoscenza di Dio non si attua […] nella sfera di analogie che si stabiliscono tra cielo e terra, bensì sub contrario, nella contraddizione, nel dolore e nella sofferenza» (p. 246).
[25] Cfr., g. barbaglio, Uomo, in Nuovo Dizionario di Teologia biblica, Cinisello Balsamo (MI), pp. 1590 – 1609, cit. p. 1597.
[26] p. ricoeur, La logica di Gesù. Testi scelti a cura di E Bianchi, Magnano (BI) 2009, p. 101. Data l’importanza di interrogarsi – da cristiani – riguardo alla ‘globalizzazione’, è bene documentarsi leggendo s. morandini, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, Bologna 2008.
[27] Cfr., a. grün, La croce. Immagine dell’uomo redento, cit. p. 121. Dio si cura di ogni uomo come se fosse l’umanità e dell’umanità come se fosse un solo uomo. Sant’Agostino diceva – rivolgendosi al Padre – tu curi ognuno di noi singolarmente come se fosse il solo e curi tutti come se fossero singoli.
[28] Ibid. p. 129.
[29] p. ricoeur, La logica di Gesù, cit. p. 130.
[30] Ibid. p. 142. In un altro testo raccolto da Bianchi, Ricoeur medita su Mt 16, 25 e conclude: «Della sua onni-potenza Dio ci dà solo il segno della sua onni-debolezza, quella del suo amore. Lasciare che l’onni-debolezza di questo amore venga in mio aiuto significa, per l’intelligenza della fede, accettare che Dio sia pensabile solo attraverso il simbolo del servo sofferente e mediante l’incarnazione di questo simbolo in un evento eminentemente contingente, la croce di Gesù» (pp. 64 – 65).
[31] Ibid. p. 154.
[32] Cfr., f. varillon, La sofferenza di Dio. Note teologiche e spirituali, Roma 1989, p. 49.
[33] Cfr., anastasio di antiochia, Discorso 4, 1 (PG 89, 1348). Parlare con convinzione di amore senza misura di Dio per noi, impone di pensare seriamente la Sua scelta di com – patire, in Cristo, con noi! «Se […] si deve parlare con tutta la serietà di reale amore e sollecitudine di Dio, allora chiaramente non può reggere il dogma dell’incapacità di soffrire da parte di Dio» (g. greshake, Il prezzo dell’amore. Riflessioni sul dolore, Brescia 1983, p. 49).
[34] Ha detto uno studioso: Dio si è “fatto uomo” «una volta per sempre e non può più abbandonare la natura umana assunta per mezzo dell’unione ipostatica» (i. sanna, Incarnazione, in Dizionario teologico interdisciplinare, vol. II., Casale Monferrato 1997, p. 281).
[35] Cfr., k. rahner, Sollecitudine per la Chiesa, in Nuovi saggi, vol. VIII, Roma 1982, pp. 542 – 564.
[36] È quanto lascia intuire un narratore ebreo: «Deborah (non) […] osava più invocare Dio, le sembrava troppo alto […]: una scala fatta di milioni di preghiere avrebbe dovuto avere, per arrivare a un lembo di Dio […]. Dovunque era possibile una intercessione, lei indirizzava un sospiro» (g. roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano 1977, pp. 17 – 18).
[37] Cfr., g. ravasi, Giobbe. Traduzione e commento, Roma 1979, p. 56. Innegabile che, nella sofferenza più accesa, diviene assai difficile credere e parlare della Bontà divina. Dopo Auschwitz, scrive un filosofo ebreo, mettere assieme bontà, intelligibilità e potenza di Dio è impossibile. Viene revocata drasticamente e drammaticamente in dubbio una specifica concezione dell’onnipotenza divina. L’argomento richiede il rimando ad h. jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova 1997. 
[38] Non essendo tenuti a concessioni monografiche, per approcciare vita e pensiero di questa geniale testimone del nostro tempo, rinvio alla lettura di un volume scritto a più mani: aa. vv., Edith Stein. Una vita per la verità, Introduzione del card. tarcisio bertone, a cura di massimo angelelli, Roma Morena, 2005.
[39] Cfr., e. stein, Das Lebensbild einer Carmelitin und Philosophin, Norimberga 1948; trad. it. a cura delle carmelitane scalze di arezzo, Edith Stein, Brescia 1959, p. 104.
[40] Cit. da v. malka, Piccole scintille di saggezza ebraica, Cinisello Balsamo (MI) 2009, p. 119. Una simile sensibilità al dolore è possibile solo a chi, più che parlarne, lo sperimenta. Un esempio: «Raccontano che il cardinale Villot, arcivescovo di Parigi, colto da dolori a causa di un cancro in fase terminale, abbia pronunciato queste parole: ‘Noi sappiamo dire belle frasi sulla sofferenza. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non parlarne, se non per conoscenza diretta: noi ignoriamo ciò che essa è fino a quando, come è successo a me, non ne piangiamo» (Riportato da s. zavoli, Il dolore inutile. La pena in più del malato, Milano 2002, p. 15).  Cfr., d. sölle, Sofferenza, Brescia 1976. 

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