Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

DAI LOGOI AL GRIDO: GIOBBE E LA “TEOLOGIA SPEZZATA”

O terra, non (…)abbia posa il mio grido! (Giobbe 16, 18)

Io grido verso di te, ma tu non mi rispondi (Giobbe 30, 20)

Giobbe, dichiarando che non conoscerà soste gridare la propria innocenza, spezza le pretese di ‘certa teologia’(Barth). A lui non basta sentir parlare di Dio, ma vuole parlare a Dio e non esita a gridare, scandalizzandosi, a causa di un ‘eccesso di male ingiustificato’. Tuttavia, sa bene che un uomo non può mai pretendere di avere ragione di fronte a Dio. È degno di riflessione il fatto che grida verso Dio! E noi, fortunati (?)destinatari dei frutti delle magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria, gridiamo nel vuoto? A noi, confessiamolo, piace almanaccare amleticamente sul pro e contro Dio senza deciderci effettivamente se farlo entrare o no nelle nostre esistenze. Ci è difficile ammettere che non gridiamo nel vuoto ma che, da qualsiasi punto dell’esistenza si precipiti, si cade in Dio. Siamo, ripetiamo altalenando tra esaltazione e depressione, gli eredi del sapere aude kantiano; gli uomini della Ragione! Possiamo comportarci come Giobbe di fronte a questioni filosofico - teologiche? Il gridare non è comportamento da professori! (E qui dimentichiamo che un professore di teologia, come insegnava Kierkegaard e ripeteva Barth, è uno che è può essere tale perché un Altro è morto in croce per lui). Ebner, a beneficio degli illuministi della domenica, ricordava che Ragione (in tedesco Vernunft)viene, nella sua lingua, da percepire (vernehmen): “cioè udire e accogliere in sé. ‘Ragione’ è originariamente ed essenzialmente il ‘senso’ per la parola posto nell’uomo dalla parola nella divinità della sua origine: la possibilità di venir appellati dalla parola e dal senso della parola e solo di seguitola facoltà di formare concetti e idee”. Giobbe può gridare, gli amici – teologi che malamente lo confortano teologizzare, solo perché originariamente la Parola ha donato la possibilità di comunicare. Se la parola umana è dono divino, non è bestemmia gridare, ma è sgradito a Dio fare della Ragione non una possibilità di percepirLo, ma una potenza autoreferenziale. Ebner riteneva sbagliato anche tradurre logos, pensava al Logos giovanneo, con ‘ragione creatrice del mondo’ o ‘ragione in sé’…Infatti, “lo spirito del Cristianesimo (…)non vuol saperne dei sogni della metafisica, dato che esso (…)ha a che fare con le realtà spirituali della vita”. Neanche Giobbe vuole scoprire la ‘ragione in sé’ delle cose, né pensa a Dio come un Aristotele ante litteram, ma vuole percepire (vernehmen)Dio. E così accadrà grazie ad una teofania. La ragione non è il centro di accoglienza dei fantasmi teoretici quando l’uomo grida per un dolore che non pensa di meritare; piuttosto, la ragione impegnata in questioni teologiche è una Vernunft che vuole vernehmen, percepire; sì, perché Dio, come tutto ciò che ha creato, non può diluirsi nei sogni della metafisica, ma è una realtà spirituale con la quale entrare in relazione diretta, empatica, perché ne va della vita. Si tratta di prendere sul serio una ricerca; e, come spiega Varillon, la parola cercare è fondamentale nel lessico biblico: cfr., Matteo 7, 8; 6, 33. La ‘verità’ – conclude Varillon – “è sempre al termine di uno sforzo faticoso”. Polanyi ritiene che, nella nostra conoscenza, vi sia una dimensione inespressa: conosciamo più di quanto siamo in grado di esprimere. Una pienezza di senso inespressa alimenta la forza del cuore che, nel mondo biblico, esprime e la sede degli affetti e il luogo privilegiato della conoscenza. Cesbron, scrive: “Come altri fanno solo di testa loro, io non ho mai fatto che di cuore mio. Credo di non aver mai permesso alla mente di creare qualche problema secondario tra un problema essenziale e il cuore”. Ed a raggiungere il cuore è, non la ragione, ma – sottolineava il cardinale Newman – l’immaginazione, una ‘forza  anarchica’ Allo stesso modo, ai logoi della docta fides, se Dio è cercato per una relazione reale, è lecito sostituire il grido. Come chiarisce Heidegger, dire e parlare non sono la stessa cosa: “Uno può parlare, parla senza fine e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto”. Giobbe non parla, grida perché vuole dire qualcosa di vero a Dio. Ora si dà il vero pensare e non il mero concettualizzare. Heidegger, diceva che il cammino del pensiero muove verso ciò che ha dignità di problema. Si può negare che ‘degno di essere interrogato’ il rapporto con il divino? In questo caso, si tratta di mistero che non è l’inconoscibile. Mentre riconoscere il mistero, per Marcel, è “un atto essenzialmente positivo dello spirito” – positivo per eccellenza – l’inconoscibile è soltanto “un limite del problematico che può risolversi senza contraddizioni”. A nulla serve tenere ‘lunghi discorsi’ intorno al divino perché, illumina Heidegger, l’ampiezza di un discorso su qualcosa non equivale affatto all’ampiezza della comprensione della cosa. Giobbe grida il suo dolore, ma anche la fiducia in Dio: riceverà una risposta! Chi sa stare oltre le ‘parole della docta fides’, chi le spezza, incontra la Parola. Giobbe non parla solo del mistero della sofferenza umana, ma anche di come il dono della parola – dono divino – è il solo medium per suscitare una risposta di Dio. Si va dai logoi al Logos ma, per non impaludarsi nel teorico, occorre che i logoi si convertano in grido. Chi fa il professore nelle cose della fede è paladino di una retta docta fides e non sbaglia; solo che non coglie l’essenziale: è foriero di oppressione e fanatismo avere Dio senza l’uomo ed è presunzione volere l’uomo senza Dio. Come scriveva Nietzsche ad Overbeck, il 2 luglio 1885, la “nostra epoca (…)è infinitamente superficiale”. Kierkegaard, inoltre, annotò nel Diario che “la disgrazia dell’umanità, della generazione attuale (…)è che essa ha abolito il rapporto con Dio”. Proprio perché in gioco c’è la questione del male, che tocca le nostre corde affettive, Giobbe è interessato a parlare a Dio. Ci si allontana dalle chiese a causa non di “qualche argomento intellettuale contro la fede”.  Gli uomini se ne stanno allontanando “perché la loro immaginazione non è stata toccata e le loro speranze non sono state risvegliate dalla loro esperienza di chiesa” (Gallagher). A nulla giova ricorrere solo alla ragione per dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di Dio. Il metropolita Bloom, nel luglio del 1970, alla BBC, si confrontò con l’atea Marghanita Laski alla quale disse: “In un certo senso lei è nella mia stessa posizione. Lei ha una certezza per quanto riguarda la non – esistenza di Dio che è in un certo senso un atto di fede, perché anche lei come non può portare ben poche prove esterne”. C’è anche qualcosa di estremamente conveniente nel credere in Dio. Giussani ha scritto che “conveniente è un’ipotesi che si incontra col desiderio dell’uomo, adatta al cuore e alla natura dell’uomo”. Una teologia che non accoglie il grido dell’uomo sofferente non è una teologia crocifissa. Per Guardini l’autentico linguaggio teologico è invocativo e l’adorazione è l’anima di un linguaggio che vuole rivolgersi con onestà al divino. Contro una teologia che non pone al centro l’incomprensibilità di Dio e si crogiola nelle enunciazioni determinate, scrisse: “Talvolta la teologia nel suo complesso (…)appare come un’enorme escrescenza sulla vita della lieta novella, della proclamazione e della fede cristiana”. Ad un suo discepolo anziano, Rabbi Mendel, confidò: Dio è una domanda. Questione sempre aperta e formulabile con un grido. La sete di Dio concreta! In un salmo si dice che, come la cerva assetata anela ai corsi d’acqua, così l’anima cerca il Signore. In ebraico ‘gola’ e ‘anima’, si dicono nefesh: la gola della cerva, riferimento concreto, rappresenta la nostra parte sensibile. Sete duplice: Dio appaga completamente l’uomo.

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Dio si rivela a noi perché soffre e perché soffriamo (de Unamuno)

Dio è una supposizione: ma chi potrebbe bere tutto il tormento di questa supposizione, senza morire? (Nietzsche)


Sgombriamo subito il campo da un equivoco: non propongo uno studio esegetico o filologico del Libro di Giobbe. Si tratta, invece, di comprendere quale ‘provocazione’ può costituire per un ‘certo modo di fare teologia’. Si richiede, dunque, che questa riflessione venga preceduta da una attenta lettura del testo biblico. Barth disse che in Giobbe la teologia è spezzata! Viene posto in discussione un modo di parlare di Dio. Alla parola ben levigata, incastonata in una architettura logica impermeabile ad ogni sbavatura affettiva, di certe elaborate teologie, oppongo il valore esistenziale del grido. A noi cristiani la cosa non dovrebbe parere né strana, né scandalosa. Con Gesù abbiamo già compreso come certe preziosità teologiche possono essere sconfessate nell’ora in cui ci si manifesta un eccesso di male inspiegabile. Proprio in questi momenti (kairologici non cronologici)sperimentiamo la lacerante ambiguità della fede: ci si dispera e ci si abbandona a Dio allo stesso tempo. Dell’esperienza di Gesù ha parlato Xavier Léon – Dufour. Gesù “uomo indifeso, che si vede consegnato ai suoi avversari, con lo stesso grido proclama ‘Mio Dio, mio Dio”. Per la prima ed unica volta nei sinottici, Gesù chiama YHWH non Padre, ma Dio, come se in questa ora estrema l’esperienza di filiazione cedesse all’esperienza di creatura. Gesù grida la sua angoscia, ma sotto forma di dialogo: egli proclama la sua fiducia (mio Dio), la sua certezza che Dio domina il corso degli eventi a dispetto di tutte le apparenze. Il paradosso è assoluto. L’esperienza di abbandono è simultaneamente affermata (abbandono ai nemici)e negata (non abbandono da parte di Dio): il grido vuole essere un appello che proclama la presenza di Colui che sembra assente. La relazione non è interrotta, anche se Dio sembra scomparire. Il mistero dell’ultima parola di Gesù sta in questa tensione”. Manteniamola ‘questa tensione’: lasciare che l’uomo si esaurisca nel ‘grido d’angoscia’, risolvere la pesante concretezza del ‘momento – limite’ nell’allegra convinzione che il male è riscattato già prima di abbattersi su di noi. Rahner diceva che la paura della morte era un suo diritto. Se si pensa di giustificare Dio circa il male che patiamo addossandocene la responsabilità, si pecca. Dio non è difendibile né può essere accusato; piuttosto, va ‘invocato’ con un grido che spezzi la vanità di tutte le parole dotte che pretendono di conoscere, universalmente ed in ogni tempo, cosa dire nei momenti critici. Non la teologia deve rispondere in certi momenti, ma Dio stesso. Questo vuole Gesù sulla Croce, questa la pretesa di Giobbe che scandalizza solo i teologi benpensanti. Se nelle situazioni – limite Dio non si mostra, ci santifica credere comunque in Lui. Per Teresa d’Avila i santi non sono quelli che vedono Dio, ma quelli che credono in lui e, secondo Gregorio di Nissa, la conoscenza di Dio è una montagna ripida e di difficile accesso. Chi professa una teologia che non si ‘spezza’ al ‘grido’ di quanti trovano difficile dire ‘Dio mio, Dio mio’ appesi alla loro croce, merita la critica di Calvino: vi sono molte pecore fuori della Chiesa e molti lupi dentro di essa. Metz amava proporre un Dio che non corrisponde ai fantasmi di potere del clero, né ai fantasmi psicologici della realizzazione degli individui. Sto espungendo queste citazioni da un libro di Bruno Chenu, ‘La sostenibile leggerezza del credere’ (San Paolo, Milano 200). Citi anche Bernanos: la Chiesa non deve essere un riparo, un rifugio, una specie di locanda spirituale, attraverso i cui vetri possiamo prenderci il piacere di osservare i passanti, la gente di fuori, coloro che non sono ospiti della casa, camminare nel fango. La teologia non può essere un porto di pace per pochi; e gli altri, perché fuori da quei convincimenti, periscano pure nelle tempeste del non – senso. Una teologia che non si fa dissestare dal grido di chi invoca il senso, perché ha compreso che non è a portata di mano ed a buon prezzo, finisce per inghirlandare di corone verbali un Dio che non gradisce questo olocausto di parole altisonanti, ma l’amore. Chenu ricorda pure una frase di padre Bouillard: Tutto quello che si raccomanda in nome di Dio deve potersi giustificare dal punto di vista dell’uomo. Piegandola al caso di cui discuto, direi: una teologia che pretende di parlare in nome di Dio deve tenere in conto il punto di vista dell’uomo anche se non viene espresso con discorsi fioriti, ma con un grido scomposto. Certe compunte lodi sono meno gradite a Dio delle grida sgraziate di un uomo che Lo invoca come presenza viva. La teologia, intesa come parlare di Dio, deve lasciar spezzare le sue sontuose architetture logiche dalla povertà del grido di chi è costretto a scoprire che la fede è, piuttosto parlare a Dio.

Edith Stein, quando visitò il duomo di Francoforte, vide entrare – racconta – “una donna con il suo cesto della spesa e si inginocchiò in un banco per una breve preghiera. Per me era una cosa del tutto nuova. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti che avevo visitato ci si recava solo per la funzione religiosa. Qui invece qualcuno è entrato nella chiesa vuota nel mezzo delle occupazioni quotidiane, come per andare a un colloquio confidenziale. Non ho mai potuto dimenticarlo”. Tutto lo sforzo del vero credente deve consistere nel saper trovare spazio a Dio, per un colloquio confidenziale, al centro delle incombenze quotidiane. Se si vuole che Dio sia sensibile al nostro cuore, che sia percepito, è dal cuore che deve partire la domanda. Goethe, nel Faust, scrisse che “dal cuore deve venire/quel che sui cuori vuole agire”. Per fare questo, però, occorre fare deserto all’interno dei giorni affollati che solitamente viviamo. Il grande filosofo Antonio Rosmini, era adolescente ma già svolgeva una animata vita intellettuale. Di tanto in tanto, si isolava. Scrive in uno dei famosi colloqui con la sua anima: “gli altri giorni, andando dietro alle mondane cose, non pensi né mediti veramente (…); ma or ravvolgendo le eterne verità, il tuo pensiero è veramente in atto, perché il suo oggetto è la verità”. Nel caso della donna semplice descritta dalla Stein e di quello presentato da Rosmini, evince un dato: la vera contemplazione nasce nel cuore dell’azione. La donna che si ferma davanti a Dio pur avendo le sue faccende quotidiane da sbrigare, il filosofo che si dà a meditare le eterne verità pur preso da mille attività intellettuali, ci fanno capire che fare teologia senza la mediazione di ‘contemplazione e prassi’ – scrive Gutierrez – “significherebbe essere al di fuori delle esigenze del Dio della Bibbia. Il mistero di Dio vive nella contemplazione e vive nella pratica del suo disegno sulla storia umana; soltanto in seconda istanza tale vita potrà animare un ragionamento appropriato, un linguaggio pertinente”. Solo dopo aver contemplato ed agito come Dio esige si potrà teologizzare ricorrendo a categorie di pensiero più strettamente filosofiche. In verità, oltre che impararlo da Giobbe, il cristiano maturo sa bene che – come sottolinea Kierkegaard – “per il cristianesimo (…)la verità non consiste nel conoscerla, ma nell’esserla”. La verità per il cristiano non è qualcosa, ma Qualcuno.

hai bisogno di redenzione, altrimenti sei perduto. Così, ti occorre una luce proveniente da un’altra parte (Wittgenstein)

L’uomo è l’essere che ha il dono ed il compito di Deum quaerere. Le domande, però, nascono solo a partire da ciò che si mostra. Dio, dice la Scrittura, ‘nessuno l’ha visto’. L’inquietudine del quaerere, qui, risiede nel fatto che, come scrive Pareyson, “Dio ama manifestarsi proprio nel nascondersi in fondo a ciò che l’uomo non giunge a comprendere e a padroneggiare completamente”. Come fare l’ermeneutica di ciò che è invisibile? L’Incarnazione apre possibilità notevoli. Partiamo dal Vangelo giovanneo: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito che è rivolto verso il seno del Padre ce ne ha fatto la narrazione”(1,18). Il termine greco per ‘narrazione’ è exeghésato; come a dire, Gesù è l’esegeta del Padre! Un percorso esegetico, ermeneutico, nell’ambito della fede non è mai questione meramente tecnica, ma esige l’esposizione radicale al mistero. Si legge in Atti 9,2 che i cristiani sono quelli della via: crescere nella fede è un lavoro ininterrotto. Una prima indicazione fornitaci dal passo giovanneo è che il Figlio è rivolto verso il seno del Padre. Che vuol dire? In ebraico, grembo materno è rahamim che vuol dire pure ‘misericordia’; dunque, Gesù guarda – e fa guardare – in primo luogo all’aspetto materno di Dio. Siamo nelle viscere di Dio e non può che amarci visceralmente. Per stare nel grembo materno, però, occorre essere piccoli. Scrisse Edith Stein all’amico filosofo Fritz Kaufmann: “il mio consiglio gliel’ho già dato: diventare un bambino (…). Lei mi guarda allibito, perché non mi vergogno di venire a parlare di una saggezza da bambini”. Affidandosi, fiducioso come un bimbo rivolto verso la madre, ci conosciamo come ‘creatura amata infinitamente’. Il Vaticano II è inequivocabile: “la creatura senza il Creatore svanisce e l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa” (Gaudium et spes, n.36 c). Gesù, dunque, mentre ci ‘narra del Padre’, ‘narra di noi a noi stessi’. Lui è, infatti, anche ‘vero uomo’! Una narrazione fatta non solo da parole – e Gesù è La Parola - , ma anche di ‘gesti, atti’. Una narrazione, potremmo dire, che si ascolta e si ‘vede’. Kierkegaard scrive che la verità cristiana è tutt’occhi. Sarebbe insensato, spiega, affermare che mentre si esamina un quadro o un pezzo di stoffa si è guardati. Ebbene, la verità cristiana mi esamina per stabilire se il mio agire è conforme a quanto osservo in Cristo. Non è la verità cristiana un oggetto, una ‘presenza oggettiva’, poiché noi, parlandone, diveniamo oggetto per essa. Chi l’annuncia “evoca uno spirito che l’esamina mentre parla”. Si tratta di un confronto serio, nel quale ne va della vita. Questo ‘deposito sacro’, poi, è custodito nella Chiesa che ne fa memoria affinché non si perda l’identità cristiana (Giovanni Paolo II). Molto dipende da come valorizziamo questo lascito. Aveva ragione, in tal senso, Papa Giovanni XXIII nell’insegnare che la Chiesa non è un museo da custodire, ma un giardino da coltivare.

A causa delle nuvole è impossibile vedere se il sole sta già sopra la montagna oppure non ancora, e io per la nostalgia di finalmente vederlo sono quasi malato. (Vorrei litigare con Dio) (Wittgenstein)

Oserei dire che l’eresia è nel cuore stesso della questione cristiana. Il credente è un uomo che si decide per Dio attraverso Cristo. Questi chiede: Chi dite che io sia? Ogni volta che Dio rivolge una domanda all’uomo non significa che ignora i fatti, ma pretende che sia la creatura stessa a riconoscersi. Col vocativo (chiamandoci alla confessione del peccato), Dio ci salva dall’accusa e dalla condanna. L’uomo deve scegliere: o si riconosce colpevole ed il Signore evita di accusarlo (e la Sua accusa è già punizione), o si chiude a vita nella maschera isolante della menzogna che Dio comunque sconfessa. D’altro canto, non si può mai evitare l’esame di coscienza se nel Qohelet sta scritto che sulla terra non c’è un uomo così giusto da far sempre il bene senza mai peccare. Berger spiega che la parola eresia viene dal greco hairein ‘scegliere’. Quando si è di fronte ad interrogativi biblici, (Adamo, dove sei? - l’uomo deve distruggere i meccanismi di difesa che rendono inautentica la vita - , Dov’è tuo fratello? - si viene messi di fronte alla responsabilità che abbiamo verso l’altro, Chi dite che io sia? - la fede esige il riconoscimento consapevole di Dio) si deve scegliere: menzogna o verità! Decidersi, insomma, di fronte a se stessi, all’altro ed all’Altro. Qui non si possono sciogliere le riserve ricorrendo ad un argomento razionale; piuttosto, ci si mette totalmente in gioco. Rosmini, sottolineava: la verità di fede non è fondata unicamente sulla dimostrazione, bensì “sull’evidenza del lume interno” donato dalla grazia di Dio. Questa percezione – tutta interiore – ci offre “un criterio immediato della verità”. I Profeti, gli apostoli, non avevano manuali di teologia e filosofia che spiegassero le ‘cose della fede’, ma ne avevano una immediata percezione e bastava per un sì definitivo a Dio. Se tutto si fondasse su una dimostrazione razionale, la fede sarebbe possibile solo a quei pochi che sanno come usare la ragione. L’unico ermeneuta attendibile è, ancora una volta, Gesù. Moingt sosteneva che la traccia di Dio è rinvenibile non “sul cammino di una qualche meditazione metafisica”, ma solo “sui passi dell’uomo di Nazareth”. Dio non si configura più, in questo caso, come Colui che è, ma come Colui che viene e chiede “il favore di accoglierlo tra noi”. Moingt invita a non pensare Dio entro la categoria della necessità, ma con quella della gratuità. Aver fede è, dunque, correre un rischio molto alto: l’offerta gratuita del donante è sempre esposta al rifiuto del ricevente. Dio e l’uomo non sono necessitati a dialogare. Abbandonato il Dio dell’in sé e per se, apriamoci al Dio “nell’atto di venire a noi”. Cristo è il Dio che viene a noi. Lezione fondamentale soprattutto in tempi in cui, scrive Bloch, gli sguardi verso l’alto si fanno di solito meno numerosi. Resta che dalle nostre parole la Parola non esce! Fosse pure fuoco sotto la cenere. Un monaco zen chiese ad un monaco cristiano: ‘Fratello, dicci di Dio, che cos’è?’ È qualcosa che non si riesce a prendere e che non si riesce a lasciare. Di fronte a questo, si aprono due compiti rintracciabili nell’insegnamento paolino. In 2Corinti 13, 5, si legge: “Esaminate in voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?”. Siamo davvero certi, ben radicati nella nostra fede? Siamo il luogo di Dio, visto che, come acutamente scriveva Buber, Dio è dove lo lasciamo entrare? Una volta che ci è apparso chiaro che nemmeno noi ‘cosiddetti credenti’ possiamo riposare pacificamente sulle nostre convinzioni, ecco il secondo compito (ecumenico)indicato da Paolo: “Accogliete colui che è ancora debole nella fede e non discutete sulle opinioni”(Romani 14, 1 – 2). Se è Gesù il solo ermeneuta di Dio e del grado di umanizzazione da noi raggiunto, obbligatoria è la modestia teologica.

La teologia deve imparare a stare pazientemente e fiduciosa nel deserto. Questo esercizio lo facciamo quando sembra che la Presenza non si dia, che la salvezza nostra sia una chimera che è bene abbandonare. In questi momenti, occorre assumere la posizione suggerita da Kafka: si deve, anche “se la salvezza non dovesse venire, vivere sempre in modo da essere degno di essa”. Gli ebrei, giocando sulle parole, dicono che il  ‘deserto’ (midbar)è il luogo nel quale ‘Dio è colui che parla’ (medabber). Dio volle conoscere il Suo popolo facendolo passare attraverso una esperienza esodale: i quarant’anni nel deserto sono serviti al Signore “per sapere quello che avevi nel cuore”(Deuteronomio 8,2). Ad Abramo è detto: ‘Va verso te stesso!’(Genesi 12, 1). Due cose: 1) Il cuore, indica la ‘totalità dell’uomo’, si conosce dal modo di affrontare la traccia di Dio nell’arsura provocata dalle innumerevoli esperienze assimilabili a quella del deserto; 2) L’uomo non si possiede, non si conosce immediatamente, ma deve andare verso se stesso. Si trova chi si lascia. Una Parola che provoca l’esodo, l’uscita da sé è quella che ci fa ritrovare. La teologia, talvolta, pretende di offrire una parola che ha trovato mentre la fede sa di venire dalla Parola che vuole trovarci. La Parola incarnata in Cristo è la proposta alternativa a quella contenuta nelle parole di una saggezza umana, troppo umana. La Croce, poi, ha una propria Parola da opporre alla sapienza del mondo. Paolo si esprime chiaramente: c’è ho logos ho tou staurou, una ‘parola della croce’(1Corinti 1, 18). Sulla Croce, però, Cristo non parla, ma grida col Salmo 22 l’abbandono di Dio (anche se, come vuole la lettura corretta del Salmo, sullo sfondo c’è una invincibile fiducia nel Padre). In questi momenti, il grido spezza le parole della teologia ed apre alla scelta: o il salto nel buio della fede o lasciare che la fede salti nel buio irredento della disperazione. Il ‘credere’ si gioca, ora, sulla convinzione che solo Dio ha parole di vita eterna in momenti di amarezza, di morte. Perciò, come dissero i discepoli a Gesù, noi – saltando le seduzioni teoriche di certa teologia – ci rivolgiamo al Padre direttamente: da chi andremo se solo Lui ha parole di vita eterna? Credere è rapportarsi concretamente ad un Tu. Sottolineava Giovanni Paolo II nella Fides et ratio: “la credenza risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché include un rapporto interpersonale e mette in gioco non solo le personali capacità conoscitive, ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad altre persone, entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro”(§ 34). Dio, nel grido dell’abbandono, non è evidente; ora si tratta di credere stabilendo un rapporto personale col Padre. L’abisso dell’enigma Dio sta in tensione dialettica con l’abisso di povertà dell’uomo. Laddove non ci sono più parole rassicuranti, erompe il grido. In questo, il Libro di Giobbe è di insegnamento per un tempo come il nostro che Anders definisce l’epoca dell’incapacità di provare angoscia. Ascoltiamo dai mezzi di comunicazione annunci di catastrofi terribili, ce ne indigniamo ma, poco dopo, si torna alle consuete incombenze di piccolo cabotaggio. A volte ci sentiamo, dice Pascal, “come un uomo che sia stato portato addormentato in un’isola deserta e spaventosa e che si svegliasse senza sapere dove si trova e senza mezzi per uscirne”. Aggiungeva: “non mi sono potuto aggrappare a un appiglio” e, perciò, “ho cercato se questo Dio ha lasciato qualche segno di sé”. Il coraggio di affrontare questo itinerario viene dalla certezza che Dio compensa simili ricerche. Tommaso d’Aquino, annotava: a colui che fa tutto quello che può, Dio non rifiuta la grazia. Questo fare non esclude, naturalmente, compiti spirituali nei quali far propria l’esperienza di Teresa Benedetta della Croce: la mia ricerca della verità era la preghiera.

Per l’uomo quel che è eterno, importante, è stato coperto da un velo impenetrabile. L’uomo sa che là sotto c’è qualcosa, ma non la vede. Il velo riflette la luce del giorno (Wittgenstein)

La teologia, per dirla con Pascal, deve stare attenta a non “fare un idolo della stessa verità; infatti la verità senza la carità non è Dio: è solo un idolo che non bisogna amare né adorare”. La verità non sta tutta nelle tetragone proposizioni teologiche che sono soltanto una elaborazione della Parola. Le parole della teologia sono sempre in ritardo rispetto alla Parola e subordinate al modo di essere della Parola incarnata. Pare sia stato Lutero a dire che la teologia è la grammatica della parola Dio. Si deve avere lo sguardo fisso verso l’Ermeneuta per eccellenza, Cristo. Ireneo di Lione diceva che, se avessimo conosciuto già tutta la verità, superflua sarebbe stata la venuta di Gesù. Incarnandosi, Dio non è che muti, ma assume, per amore, la nostra mutevolezza. Agostino, nel De Trinitate, spiega che Dio, incarnandosi, non muta la sua divinità, ma assume la nostra mutabilità. Il Volto del Figlio è la sola ermeneutica (narrazione) che mostri davvero il Volto del Padre: “l’ipostasi del Figlio diviene come una forma e un volto che permette di riconoscere il Padre, e l’ipostasi del Padre è riconosciuta nella forma del Figlio”(Basilio di Cesarea). Il Logos spezza i nostri dotti logoi quando grida dalla Croce e l’abbandono di Dio e la fiducia nel Padre. Cristo non cerca spiegazioni alla Sua situazione cruenta e dolorosa, ma grida. Pascal, diceva: vorremmo avere dei maestri mandati dalla mano di Dio. Questi maestri li abbiamo: sono gli avvenimenti. L’Incarnazione, la Croce sono avvenimenti/maestri mostrando come le parole penultime siano povere e bisognose di aprirsi alla Parola ultima. L’uomo della fede non è l’uomo che cerca prove di Dio, ma l’uomo che si cerca e cerca Dio nella prova. Di ‘prova in prova’ si sceglie (ecco l’aspetto eretico dell’opzione cristiana)se dire o no a Dio. La conversione non è un atto unico, ma apertura costante al mistero. Scrive Kasper: “la confessione di fede in un unico Dio è (…)una scelta di fede che impegna alla continua conversione”. E, aggiungerebbe Chesterton, non avremo pace fino a che con crederemo a qualcosa di definitivo.

In più di una occasione, Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, ha ricordato una lezione di Ippolito di Roma: Dio si è fatto Parola incarnata perché, altrimenti, sarebbe stato impossibile imitarlo. Se l’umanità di Gesù non fosse reale e piena, potrebbe pretendere che lo seguissimo? Bianchi, perciò, sostiene che Gesù ha evangelizzato Dio “nel senso che ha reso Dio buona notizia”; questo il significato della parola Vangelo! Il Salvatore “narrando Dio con la propria vita (…)ha giudicato tutte le immagini e i volti di Dio che gli uomini si fabbricano con le proprie mani, ha giudicato tutte le proiezioni umane che sovente attribuiscono a Dio il volto di un Dio perverso”. Il Logos, quando si spezza nel dolore della Croce, manda in frantumi i logoi di una sapienza umana, troppo umana di Dio. La parola della Croce di cui parla Paolo spezza logoi imprigionati in categorie che fanno comodo all’uomo religioso, ma non all’uomo della spiritualità o della fede. La distinzione si comprende grazie al biblista Alberto Maggi: la religione “nasce dagli uomini ed è diretta verso la divinità”, la spiritualità, la fede “nasce da Dio ed è rivolta agli uomini”. Nella ‘religione’ prevalgono il Libro, il ‘sacrificio’; nella spiritualità (fede), conta l’uomo ed è fondamentale l’amore. Lo stesso Gesù si è rapportato in maniera marcatamente conflittuale con leggi, luoghi di culto, autorità religiose. Con Gesù, la fede subentra alla religione perché il rapporto con Dio non dipende da ciò che fa l’uomo, ma da ciò che Dio Padre fa per lui. Il termine ‘religione’ (riferito all’ebraismo) compare una sola volta nel Nuovo Testamento (Atti 25, 19). Il vocabolo greco che traduciamo ‘religione’ è deisidaimonias (da déidô ‘timore’ e daimon ‘demone’). Religioso è chi ‘teme gli dei’. Nella religione, perciò, bisogna meritare la benevolenza divina; nell’ottica gesuana, invece, tutto è ‘dono’. Seguire Gesù è, inoltre, concedersi la sola possibilità di umanizzarci pienamente. Edith Stein, di questo, fece uno dei capisaldi del suo pensiero: “la sequela di Cristo porta a sviluppare in pieno l’originaria vocazione umana: essere vera immagine di Dio (…). L’elevazione al di sopra dei limiti della natura, che è l’opera più eccelsa della grazia, non può certo venire raggiunta con una lotta individuale contro la natura o con la negazione dei suoi confini, ma solo mediante l’umile soggezione al nuovo ordine donato da Dio”. 

In 1Re 19, Elia, minacciato di morte da Gezabele, si rifugia nel deserto dove grida il suo desiderio di morire. Un angelo, però, gli comanda di raggiungere il monte di Dio, l’Oreb. Si rifugia, giuntovi, in una caverna (simbolo di paura e di insicurezza). Anche qui viene visitato da Dio che gli impone di uscire per una nuova missione. Elia non ha che il desiderio di morire ed inizialmente il deserto per lui è il luogo della sconfitta. Ma il desiderio di morte viene gridato a Dio ed è questo che fa la differenza con una depressione senza riscatto. Commenta Bastianel: “Occorre (…)la delicatezza di dire al Signore chi siamo, affidandogli ciò che siamo e lasciando che sia lui a ridirci chi siamo veramente”. Il nome Elia, in ebraico El – ja, significa ‘Dio è Dio’. Ecco perché, dovunque Elia fugga, sempre si muove entro il progetto di Dio. La tautologia, qui, indica che tutto inizia e tutto si ricapitola in Dio. Anche nel NT, inoltre, si sperimenta il sostegno di Dio. Mi ha sempre impressionato questo passo del Vangelo: Pietro cominciò ad affondare, ma Gesù lo afferrò (Mt 14, 30s.). Come ha scritto Barth, in Gesù si è deciso una volta per tutte che Dio non è senza l’uomo. Nel Profeta Zaccaria si legge che chi tocca i prediletti di Dio tocca Lui nella pupilla dei suoi occhi. Questo ci rende soave la Legge: “La tua legge è la mia gioia” – dichiara il salmista (Sal 119, 77). I precetti della fede, però, non devono mai diventare materia di una morale politica, orizzontale. La Legge è gioia quando si comprende che è l’amore di Dio a darceLa.

Benedetto XVI ci ha recentemente messo in guardia da “un cristianesimo e (…)una teologia che riducono il nocciolo del messaggio di Gesù” perché confondono il Regno di Dio con i valori del Regno -  “identificando questi valori con le grandi parole d’ordine del moralismo politico (…). Dimenticandoci, però, così, di Dio (…). Al suo posto rimangono grandi parole (e valori)che si prestano a qualsiasi tipo di abuso”. La teologia può divenire un serbatoio di intuizioni morali corrompibili in moralismo politico. Bendetto XVI ci ricorda una domanda di Serres: Chi è l’uomo? Ci sono molte risposte, ma il pensatore francese ritiene che, alla confusione teoretica, fa da contraltare una certezza pratica: sappiamo chi è l’uomo quando stiamo di fronte a chi soffre. Pur non credente, Serres evoca Pilato che, davanti a Cristo flagellato, umiliato, riconosce l’uomo vero: Ecce homo! Dopo aver creato l’uomo, Dio vide che era ‘cosa molto buona’. Il cristianesimo, ne deduce il Pontefice, è “quella memoria dello sguardo d’amore del Signore sull’uomo”. Anche l’uomo, però, deve porsi di fronte al mistero di Dio senza crogiolarsi in dotte formule teologiche: “La questione di Dio – insegna il Papa – non è per l’uomo un problema meramente teorico (…). Di fronte alla questione di Dio, l’uomo non ha l’agio di restare neutrale (…)può solo dire si o (…)no (…)senza mai poter evitare tutte le conseguenze che ne derivano fin nei più piccoli dettagli della vita”. In A Diogneto si legge che è talmente grande il posto che Dio ha assegnato ai cristiani che non è loro permesso di disertare (6, 10). Il male viene quando, spiega Benedetto XVI, l’uomo vuole “tenere la verità prigioniera dell’ingiustizia” come si esprime Paolo nell’epistola ai Romani (1, 18). Si oppone resistenza alla verità omettendo di rendere grazie al Signore. La teologia è ingiusta di fronte alla Verità quando vuole farla coincidere con i propri schemi. Tommaso d’Aquino sosteneva che la teologia non può vedere né provare i suoi fondamenti ultimi e deve fare riferimento, per inverarsi veracemente, alla scienza dei santi. Dunque, conclude Bendetto XVI, “il lavoro del teologo è ‘secondario’, relativo all’esperienza reale dei santi (…). È questa l’umiltà richiesta al teologo…senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà che è in causa, la teologia diventa un gioco intellettuale vuoto”. Nei Proverbi è scritto che dove ci sono molte parole non manca il peccato (10, 19). Una teologia che moltiplica parole e non si abbevera alla scienza dei santi (che fanno esperienza viva e diretta di Dio)cade in peccato. Occorre spezzare il circolo vizioso ed incantato dei logoi superbi di una teologia elaborata a tavolino. Parole che soltanto un grido può spezzare. Nel Profeta Isaia si registra questo invito: Grida a squarciagola, non avere riguardo (58, 1). Grida, nell’Antico Testamento, pure Giobbe col quale, come scrisse Barth, si può parlare di teologia spezzata.

La teologia ufficiale sottesa al Libro di Giobbe sosteneva che in Dio vigesse la giustizia retributiva: al giusto il bene, all’empio il male. Quando, però, il male colpisce Giobbe, che ritiene di essere un giusto, lo schema scricchiola paurosamente. Questo libro accende di timore e tremore tutte le corde della nostra sensibilità poiché, come scrive Sestov, ci insegna che c’è una bilancia sulla quale il dolore umano risulta più pesante della sabbia del mare. Come scrive il MacKenzie, l’autore mostra che Dio “può avere scopi diversi dal semplice esercizio della giustizia retributiva”. Gli amici teologi (Elifaz, Bildad, Zofar)che si sforzano di spiegare a Giobbe il perché delle disgrazie che lo colpiscono non vengono messi alla berlina dall’autore poiché sono soltanto “eloquenti difensori della ‘tradizione’”. L’errore, piuttosto, è questo: la loro dottrina contiene certo “molta verità morale e religiosa, ma è sciupata dalla loro esagerazione (…). Sono caduti vittime – spiega MacKenzie – del vizio professionale del teologo, che è quello di dimenticare che in fondo egli si occupa del mistero. Hanno ‘studiato’ Dio come un soggetto analizzabile, prevedibile e intellegibile. E, nel costringere i fatti ad accordarsi con la loro comprensione, diventano premeditatamente disonesti”. Nessuno, oltre il lettore, sa che Giobbe soffre perché Dio ha scommesso col satana sull’amore disinteressato del suo servo. Quest’uomo viene provato e non sa che sta affrontando una prova. Per Givone una prova è tale solo se non si sa che è una prova; in caso contrario, tutto sarebbe chiaro in anticipo: alla fine il giusto verrà comunque ripagato dei mali subiti. Non uomo di fede, come Abramo, ma uomo della prova è Giobbe: “se (…)diventasse come Abramo (…)il male non gli apparirebbe più come veramente male, cioè come qualcosa in grado di mettere in questione Dio, ma gli apparirebbe già da sempre risolto in Dio”. Questa soluzione positiva saputa in anticipo sarebbe un lascito della teologia; qui, invece, l’uomo non sta cercando Dio attraverso una riflessione, ma lo sta mettendo in discussione attraverso l’afflizione! In questa atmosfera spirituale, per riprendere Jung, credere non equivale ad esibire una fede esterna ma, a dispetto del sapere teologico, l’anima fa esperienza di Dio. Scrive Jung: “Finché la religione rimane soltanto fede esterna e forma esterna, finché la funzione religiosa non diventa una funzione della nostra anima, nulla di fondamentale è successo”. Per significare davvero per noi, “il mysterium magnum” deve radicarsi “principalmente nell’anima umana. Chi non lo sa per esperienza, sarà forse dottissimo di scienze teologiche; ma non ha la più pallida idea di cosa sia religione”. La fede, direi, è l’inveramento e la personalizzazione patica del religioso. Se Dio ha, indipendentemente dal concetto di divino elaborato dall’uomo, offerto una Sua immagine “incomprensibilmente sublime e al tempo stesso terribilmente contraddittoria” – continua Jung – non è accaduto per consentire ai “teologi d’ogni tempo e luogo” di litigare; piuttosto, questa immagine di Sé, Dio l’ha manifestata “perché l’uomo libero senza arroganza possa, nel silenzio della sua anima, guardare a un’immagine a lui affine”. Dio si rivela affinché l’uomo si conosca liberamente e senza arroganza specchiandosi nel suo Dio.

Oserei dire che Dio sta offrendo stima a Giobbe. Lasciando che il satana lo tenti, fa sì che sia l’uomo stesso a dimostrare che si può amare Dio senza interesse. Il tentatore è sconfitto dall’uomo. Se la disputa si fosse svolta solo tra Dio ed il maligno, l’esito sarebbe stato scontato in anticipo. Chi svolge la professione di ‘pensare’ può porsi razionalmente la questione circa il rapporto male/esistenza di Dio; ma qui – precisa von Balthasar – il caso è drammatico perché “Giobbe non si pone, ma capita in una situazione che gli è nuova e che non può assolutamente venire paragonata alle situazioni fino ad allora manifestatesi nel suo rapporto con Dio; né si può dunque stabilire come da quelle vecchie esperienze religiose si sia giunti a questa nuova esperienza; tra i due mondi di esperienza di spalanca un abisso”. Quando un credente fa i conti con situazioni esistenziali che non rientrano negli schemi teologici collaudati da una tradizione, si apre il grido, l’invocazione con la quale non si vuole più parlare di Dio, ma a Dio. Giobbe era un uomo ricco, felice e del Signore, lui che non è israelita, parlava esattamente come gli amici teologi che ora avversa! Fa scandalo che si parli di Dio a partire dal male e dalla constatazione che il mondo è divenuto incompatibile con il progetto divino. Giobbe scandalizza perché, come Cristo dalla Croce, urla perché? Qui non si chiede una soluzione ragionata, ma un confronto reale. In fondo, aggiunge von Balthasar, “Giobbe parla in base al dolore di un’esperienza di privazione che gli altri non conoscono (…). Come sul primo momento gli amici, avvicinandosi a Giobbe, non lo riconoscono tanto è sfigurato (2, 12), così non ne riconoscono l’interiorità durante tutta la discussione”. L’uomo piagato e piegato verrà riconosciuto da un non – teologo: quel Pilato che, davanti a Gesù sofferente, esclama: Ecce homo! Gli amici teologi in Giobbe non sanno vedere che un peccatore macchiatosi di qualche colpa occulta. La teologia, piuttosto, deve insegnare che la religione è il senso di umanità, per usare un’espressione di Drewermann. Questo sacerdote – psicologo è convinto che gran bene procura la teologia se si occupa “delle nostre necessità, delle nostre frammentazioni, dei nostri fallimenti, i nostri dubbi, la nostra disperazione. Una religione che non entri nel merito di queste cose cola a picco da sé…”.Visto che non sono stati considerati questi elementi affettivi in Giobbe, non meraviglia che le elaborazioni teologiche e le lezioni tradizionali degli amici colino a picco anche senza criticarle. Se, aggiunge Drewermann, la filosofia ci è necessaria per argomentare sul valore della libertà; se la psicoanalisi si occupa dell’uomo in preda all’angoscia e si sforza di chiarire i ‘motivi empirici’ che la causano, la teologia fa comprendere “che c’è un interlocutore per l’angoscia dell’uomo che permette la redenzione, la salvezza”. Nel Libro di Giobbe, i teologi fanno pensare, piuttosto, che di fronte all’uomo ci sia un giudice e non un interlocutore.

Kierkegaard, con ironia, dice che Giobbe non si lamentò davanti alle ingenti perdite subite, né a causa della petulante moglie prodiga di insensati consigli, ma solo quando parlarono i teologi. Ovvio, se parlano come se abitassero in un mondo in cui certezze e risposte si ottengono a buon mercato. Non si possono fare affermazioni teologiche credibili se non ci si compromette fino in fondo con quanto si enuncia. Uno studioso di ‘psicologia della religione’, Mario Aletti, ammonisce i maestri della docta fides: cercare la verità, in teologia, non sarà mai sforzo fruttifero se si pensa che tale ricerca proceda da una sterilizzazione degli affetti. Citando Pohier, Aletti sostiene che il teologo deve partire da questa consapevolezza: io non posso teologizzare che in prima persona singolare: io credo. Scandalizza Giobbe perché, nota Ravasi, “mostra come la sofferenza abbia in sé anche una presenza di Dio, oscura e perfino terribile”. Convinto di essere giusto, non può che ritenere il Signore responsabile di quanto l’affligge. Un saggio di Walter Vogles ha un titolo che fa testo: Giobbe, l’uomo che ha parlato bene di Dio. Nel capitolo 42 del testo biblico, Dio rimprovera Elifaz sostenendo che, assieme ai suoi amici, non ha parlato rettamente. Eppure, pare che sia Giobbe ad insultare il Signore. Dio mostra di preferire il grido del sofferente e lo spezzamento della teologia! Non dimentichiamo un detto ebraico: Dio ha seppellito la Verità prima di creare l’uomo. Jaspers parla di rivolta riferendosi a questo inquietante personaggio: è consapevole, Giobbe, che “la trasformazione delle sue domande in una dottrina è lo sviamento verso una falsa comprensione di sé”. Ha ragione pure chi dice che questo testo biblico è ‘non concluso’. Quando alla fine, Dio si mostra, non dà risposte. Si tratta di una manifestazione diretta divina che, sottolinea Ricoeur, “lascia la speculazione aperta in più direzioni”. Manifestatosi Dio in prima persona, Giobbe smette di domandare. Perché? Ravasi pensa che la sospensione della domanda avviene “non perché ha trovato la risposta, ma perché ha inteso che nella realtà regna non l’incomprensibilità cieca e assurda” (Dio non fa che mostrargli la bellezza e la complessità della creazione)- “ma un ordine che egli non riesce ad esaurire e all’interno del quale deve collocare anche la grande domanda della sua sofferenza”. In questo testo non si vuole risolvere una questione puramente umana, ma si ha la pretesa di vedere Dio coi propri occhi; e, quando ciò accade, Giobbe dice di conoscere il Signore finalmente non più per sentito dire. L’interrogazione di Giobbe è rivolta soltanto a Dio. In gioco non è tanto una riflessione sul male patito dall’uomo, quanto una questione più pesante: come credere in Dio, ed in quale Dio, se si patisce un eccesso di male innocente? Il Dio di Giobbe è indefinibile perché qui non c’è una domanda metafisica e che riguardi l’essenza di Dio. Il rapporto uomo/Dio si svolge, qui, al crocevia del silenzio e del rifiuto (Kierkegaard). La teologia non deve sistematizzare qualcosa che appare teoreticamente fuori posto, ma spezzarsi sotto il peso della speranza dell’uomo che grida affinché Dio personalmente venga a mostrare la propria carità. Si spezzano, ancor prima di nascere, le parole di una docta fides che vorrebbe ricamare una suadente ma infeconda teodicea. Giobbe insiste: Dio è profondamente compromesso col male che sta patendo! Qui non siamo davanti all’uomo delle prove, ma all’uomo che grida perché prende sul serio il male non sapendo che è soltanto una prova. Dio non è un argomento, ma l’Altro che l’uomo considera unico interlocutore. Ma uomo e Dio sono anche liberi di non parlarsi. E se il Signore parla, si sa, non si può mai avere ragione con Lui. Tuttavia, l’uomo osa gridare la sua volontà di confronto diretto, eludendo gli argini protettivi della teologia dominante. Come dice Kierkegaard, la voce di Dio può certo essere sempre più forte del nostro grido, fino a sopraffarci; ma, anche “se la voce stritola un uomo, oh, meglio questo di tutte le chiacchiere e le voci sulla giustizia della provvidenza inventata dalla saggezza umana e diffuse dalle donnette e dai mezzi uomini”.

MacKenzie precisa che è necessario che Giobbe sia “un amante di Dio”; altrimenti, meriterebbe il castigo divino e le sue recriminazioni sarebbero insensate. Dio sa già che il suo servo smentirà il satana. Si tratta di un uomo fuori dal patto di Israele e la salvezza attesa non è che il benessere in questa vita. Tuttavia, davvero Giobbe serve Dio Hinnām, ‘per nulla’? Gratuitamente? Dio ritira i Suoi doni al servo per dimostrare che contano meno di Lui. I tre amici teologi sono tutti in rapporto con Edom, nota come ‘patria dei saggi’(cfr. Abd 8; Ger 49, 7). Qual è il guasto che procura la loro ‘presunzione teologica’? MacKenzie illumina: “si ostinano ad affermare che pronunciano il giudizio di Dio, che ciò che professano è sapienza garantita dall’alto; così Giobbe è portato a includere fra i suoi nemici Dio”. Sì, ma quale Dio? “Dio quale gli è presentato dagli amici”. Un credente, con il Dio che gli presentano, abbandona anche il Dio vero. Ecco la responsabilità dei teologi. La vera prova di Giobbe è questa: “contro l’autorità umana e le apparenze esteriori, egli lotta per conservare e affermare la sua fede che Dio lo ama”. Elifaz, uno degli amici, non transige: sia chiara o no a Giobbe la sua iniquità, non può e non deve che accettare il verdetto inequivocabile di Dio: è un peccatore. In realtà, solo il lettore sa che non stanno così le cose. Che miopia in questo teologo che – per citare ancora MacKenzie – “non considera il caso che gli sta davanti; non ha investigato la posizione di Giobbe. In breve, ha una mente chiusa ed è completamente soddisfatto della sua pulita e comprensibile dottrina, che egli applica compiacentemente e piuttosto insensibilmente”. Giobbe nulla riceve dagli amici perché c’è più interesse verso la malattia che verso il sofferente. La grandezza di questo personaggio risiede nel fatto che, se i “suoi amici umani lo hanno bocciato”, pure lui “dà per scontato che il suo amico divino verrà a cercarlo”. Qualunque deduzione sul caso faccia l’amico Bildad, la si deve non all’esperienza, ma al sapere teologico delle generazioni precedenti. Zofar, invece, mostra di avere una saggezza tutta sua, autocertificantesi. Rassicura l’amico: riavrà i suoi beni. Ma non è solo questo che Giobbe vuole. Una teologia minimalista si fa banalmente consolatoria. Bisogna, piuttosto, assumersi il peso terribile del pathos che anima le domande radicali di chi è in difficoltà circa la propria fede. Giobbe conosce gli argomenti degli amici, ma lamenta che non vengono applicati nel modo giusto al suo caso. C’è una differenza tra lui ed i teologi – amici: “Per tutto il dialogo egli solo pronuncia preghiere a Dio. Gli amici lo lodano, ma non si rivolgono a lui. Non hanno bisogno di questo rapporto personale. Il loro Dio premia o castiga in stretto accordo con i meriti umani (…). Non c’è nulla che sentano il bisogno o il desiderio di dirgli, e non c’è posto per un rapporto d’amore. Non ‘ragionano con Dio’, ragionano solo di lui – e non sempre giustamente”(MacKenzie). Si tratta di un rapporto impantanato nelle secche di un freddo legalismo. In realtà, come scrive il filosofo Vincenzo Vitiello, “Dio, innanzitutto, è passione (…)non lo si cerca senza patirlo (…). Chi cerca Dio per essere felice ha scambiato Dio con un idolo. Dio lo si cerca per Dio, non per altro”. Ed è questo che Giobbe – con la sua esperienza – ci dice per farci evitare le secche di una loquacità infeconda quando ci relazioniamo al Trascendente.

Giobbe vuole che Dio parli in prima persona perché è certo del fatto che il giudizio pronunciato non potrà che essere a suo favore. Elifaz è disturbato da tutto questo: la sua convinzione, nel primo discorso, era che i giusti vengono sempre premiati. Nel secondo discorso, invece, si mostra assai stizzito contro l’amico e, vestendo di nero il suo dire, ora preferisce mettere l’accento sulla teoria che giustifica il castigo dell’empio. Questo fa di lui e dei suoi amici dei consolatori molesti. Così, ecco l’altro teologo, Bildad, che rimprovera Giobbe, nel secondo discorso, per il dire ingiurioso verso la sapienza antica. Lo sventurato oppone: se deve sopportare il misterioso attacco di Dio, perché gli amici peggiorano le cose con crudeli polemiche? Si chiede MacKenzie: “Se Giobbe ha torto, fa male solo a se stesso: perché devono essere così aspri e così intolleranti? (La ragione è che egli minaccia la loro esistenza religiosa; guai se avesse ragione, tutta la loro fede sarebbe scalzata. È la loro insicurezza che li rende crudeli)”. Così, imperterriti, continuano a “cercare ‘la radice del suo danno’ in lui, mentre in realtà va cercata in Dio”. Giobbe, però, è convinto: se Dio non ha parlato con lui finora, lo farà in futuro! Ha fede e sa che un giorno – fosse pure post mortem – le cose saranno chiarite. Alla fine, il gesto significativo di quest’uomo, sarà il mettersi la mano sulla bocca (40, 4). Si tratta, commenta MacKenzie, di “un gesto di silenzio volontario”. È sbigottito: ha scoperto che il principio del contraccambio non è valido universalmente e non è infallibile. È sgomento perché l’esperienza ha rovinosamente contraddetto una dottrina religiosa granitica e portata all’eccesso. Secoli dopo, il compianto Giovanni Paolo II, nella Fides et ratio, ha scritto qualcosa che Giobbe ha sperimentato: “Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è (…)criterio di verità e, insieme, di salvezza”(n. 23). Tuttavia, i credenti, per riprendere una espressione paolina, devono portare gli uni i pesi degli altri. Non si può avere di Dio una visione privata, né certificare con ragionamenti strettamente personali la validità del proprio modo di dire Dio; ci si incontra nella fede e, con modi giusti e ragionevoli, si aprono confronti. Il teologo luterano Bonhoeffer ha scritto, giustamente, che “il cristiano ha bisogno degli altri cristiani che dicano a lui la Parola di Dio (…)ogni volta che si trova incerto e scoraggiato; da solo (…)non può cavarsela, senza ingannare se stesso sulla verità”. Ma quale aiuto danno quelli che, come gli amici di Giobbe, ricorrono solo alla sapienza delle parole e non alla Parola della Sapienza? Che ripetono pedissequamente lezioni trite e non lasciano risuonare, attraverso un discorso appassionato, la Parola di Dio? Fare comunione non è lo stesso che realizzare una forma di vita in comune apparentemente. Si rischia, così, di sognare la comunione, non di realizzarla. Gli amici – teologi non fanno comunione con il sofferente; si proteggono da quella contagiosa amarezza, piuttosto, dietro i paraventi riccamente ornati delle loro teorie. Sono sinceri nell’enunciare le loro convinzioni, ma ciò non evita loro di essere infecondi e molesti consolatori. Meritano il rimprovero di Bonhoeffer: “Chi ama il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato ad essere un elemento distruttore di ogni comunità cristiana, anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione”.

Nel Vangelo (Mt 5, 45), si legge che Dio fa piovere sui giusti e sugli empi. Una logica accettabile se la categoria di riferimento al Signore è l’amore e non una ‘morale commerciale’. Gli amici di Giobbe non hanno fatto altro che parlare di un servizio a Dio dettato o dalla paura del castigo o dalla speranza di ricevere dei beni: per l’amore non c’è posto! Come si spiega, allora, che talvolta gli irreligiosi, gli empi conservano la prosperità? Si potrebbe rispondere che il prezzo, salato, lo pagheranno i figli. Non sarebbe giustizia piena perché, la parte colpevole, ormai non ne potrebbe sentire i morsi. In tutto questo si dimentica che Dio è Qualcuno da incontrare, un Tu col quale incrociare il proprio sguardo. A tal proposito, il teologo Bruno Forte, racconta l’ultima predica di Jean Marie Vianney, più noto col nome di Curato d’Ars. Vecchio e stanco, sedeva su una sedia davanti ad un gran pubblico in attesa delle sue parole. Egli, invece, scoppiò a piangere in maniera fragorosa. Dopo un po’, calmatosi, si rivolse al tabernacolo e disse: Lui è là, io lo guardo, lui mi guarda. Questo rapporto diretto con Dio è ciò che chiede Giobbe ed il credente che non scambia il Dio vivente, con una teoria. Nell’antico Egitto, informa il teologo ortodosso Evdokimov, “si distingueva la menzogna o la verità dalla sola intonazione della voce”; ed il pianto del Santo Curato d’Ars è strettamente imparentato col grido di Giobbe: un rapportarsi patico al divino perché c’è la certezza che si tratta di una relazione reale. Anche la psicologia della religione distingue gli effetti (terapeutici)di una credenza autentica da una frutto solo di convincimenti psicologici. Scrive Gianfranco Tedeschi: “una radicale trasformazione della personalità (…)avverrà molto più intensamente se il paziente sentirà che il compito di autorealizzarsi, di completarsi, è una volontà della trascendenza, di Dio, e non la volontà di un archetipo solamente psichico”. La vicenda di Giobbe è, direi, un vino troppo forte perché giovi a chi assapora soltanto ‘saggezza annacquata’ e la proclama senza pathos. Mi piacciono le parole che, in sintonia con questa ultima affermazione, tracciò la sapiente mano di Bernanos: “A tanta gente occorre un certo numero di luoghi comuni da ripetersi scambievolmente come pappagalli, coi movimenti affettati, gli impettimenti e le strizzatine d’occhio di quell’uccello. Ma non si possono nutrire i pappagalli col vino aromatico di Giobbe”.

Alla fine, Elifaz invita Giobbe a riconciliarsi con Dio. Il suo è un dire ‘sincero’, ma ancora una volta si deve rilevare che si pensa ad un rapporto col divino in termini di ‘morale commerciale’: convertirsi conviene! Si tratta dell’unica strada percorribile per riottenere i beni inceneriti. Giunto ormai all’ottava risposta, il martoriato Giobbe ribadisce di non voler dare ragione agli amici ed alle loro teorie: non può dichiararsi peccatore. MacKenzie rintraccia la sezione chiave del libro nel discorso di Dio e nella risposta di Giobbe. Il nostro esegeta, così commenta la parte finale di questa vertiginosa giostra di interrogazioni: “Il discorso divino spazza via tutta la materia non pertinente e tutti i falsi problemi in cui Giobbe era rimasto impigliato nella controversia con gli amici”. Il Signore non fa dichiarazioni e, con solennità ma con pazienza ed ironia, pone al sofferente interlocutore domande alle quali non è dato rispondere. Chi ha osato muovere critiche a Dio dovrebbe avere chiara consapevolezza circa i propri argomenti: ma chi può correggere il Creatore visto che non può avere la Sua conoscenza? Il problema personale di Giobbe non viene affrontato. Le lamentele del sofferente sfociano, placandosi, in una ammissione: l’insegnamento divino è chiaro e Dio è conosciuto non più per sentito dire! Quello che viene dato a Giobbe è quello che lui veramente voleva: la Parola di Dio, nella quale soltanto è dato conoscerLo. Non è un caso che Giobbe comprenda ora davvero chi è Dio: si trova, infatti, davanti al catalogo della creazione. Come giustamente scrive Tresmontant, solo “una metafisica della creazione permette e può sostenere una metafisica dell’amore perché, per instaurare una relazione d’amore tra due esseri, occorre che essi esistano, che siano due”. L’amore tra la creatura e Dio, malgrado la scandalosa ed inquietante presenza del male, non può estinguersi: chi ci ha creato gratuitamente non può non amarci! Ora, anche se Giobbe sa che non può conoscere le vie del Signore, si rende conto che la ‘presenza di Dio’ ha un valore nuovo ed incalcolabile in quanto si dà come presenza parlante. Il discorso non è più mediato dalla ‘saggezza teologica degli amici’, ma è la Sapienza a manifestarsi. Anche se le cose che Dio dice non si discostano molto da certe lezioni ricevute dagli amici, a convincere Giobbe è Dio che si rivolge direttamente a lui. Eliu aveva detto che solo il Signore può parlare correttamente di giustizia e stabilire chi veramente è giusto, ma ora è la Parola stessa ad elargire insegnamenti. Giobbe vince proprio quando esce sconfitto da Dio stesso dal dibattito. Anche se il Signore ha pronunciato parole che il suo servo non si aspettava, pure c’è gioia perché si esce dalla notte oscura nella quale Dio sembrava muto e sordo di fronte alla creatura. Il sofferente è lieto di sapere che aveva torto se, alla fine, ha visto la presenza del Creatore. Eliu aveva detto che non possiamo raggiungere l’Onnipotente. In fondo, aveva ragione: davanti ad un uomo che ha la salda convinzione che il senso della vita stia solo in Dio, è l’Onnipotente stesso a visitarlo.

Ravasi ha giustamente notato che, dalla prima all’ultima pagina, il libro “si sforza di dimostrare come questo Dio, pur comportandosi in modo scandaloso, si riveli il vero Dio, e non quella falsa immagine presentata dalla teologia tranquilla, serena, distaccata, dei teologi ufficiali”. Giobbe non ha le certezze ostentate dai suoi amici, ma si affida al suo amore per il Signore che – anche laddove pare bestemmia – si mantiene ad un livello altissimo di fede autentica. Pare che qui valgano non poco le parole di Derrida: “Dio non ci parla più”. Sembra si stia aprendo, con questa affermazione una lunga notte oscura dell’anima; invece, resta un considerevole scampolo di speranza, grazie al valore del nostro debole dire. Continua Derrida: “È necessario assumere le parole su di sé (…)affidarsi alle tracce, diventare l’uomo che scruta”. Se non si riesce più a sentire la voce, piuttosto che giustificare questo silenzio con asserzioni teologicamente fondate, occorre stancare lo sguardo verso l’orizzonte: qualcosa accadrà. In fondo, Dio rimprovera il suo servo, proprio come fanno gli amici – teologi. Ma la tempesta nella quale Dio parla con ironia, autorità e dura chiarezza è salvifica, laddove le petulanti insistenze dottrinarie offendono e stancano lo sventurato. Ha scritto Kierkegaard: “Come fa bene un uragano! Che felicità deve essere sentirsi rimproverare da Dio. Mentre ogni altro rimprovero non fa altro che indurire il cuore di un uomo, quando è Dio stesso che giudica l’uomo, questi dimentica il dolore per quell’amore che vuole renderlo migliore”. Si spezza la teologia perché dal parlare di Dio si è giunti al parlare a Dio. Le cose vanno al loro posto, direi con il pensatore danese, nel “momento in cui tutte le probabilità umanamente concepibili si dimostrano impossibili”. Bisogna che la speranza terrestre venga colpita a morte perché la speranza celeste agisca! Annota Jaspers: “Giobbe non difende alcuna dottrina (…)non si sottomette alla tradizione. Non cerca la saggezza umana ma Dio stesso. Egli reclama che sia preso sul serio il valore originario della sua esperienza. Non alla teologia egli si affida, ma a Dio”. E Dio non dice che il suo servo ha torto ma fa comprendere che non ha l’obbligo di dare conto della Sua condotta anche perché l’uomo davanti a Dio non può mai avere ragione. Come scrive Morselli, questo testo ci insegna anche “che Dio è disposto a indulgenza verso chi insorge contro i suoi decreti, ma non verso chi pretende svelarne il mistero, subordinandolo ai criteri di una legalità rigorosa bensì, ma antropomorfica”. Ecco perché, alla fine, il rimprovero più aspro è riservato agli amici – teologi. Giobbe, non ammettendo teorie, mostra di avere una fede incrollabile: finanche il male viene da Dio. Fuori del Signore non si dà nemmeno quanto pare ne neghi l’esistenza. La ‘compunta devozione’ della teologia a tavolino, non vale una sola (apparente)bestemmia di Giobbe. La pretesa di ‘certa teologia’ di voler ‘scusare Dio’, negando che Egli sia compromesso col male, mostra di alimentare una scandalosa presunzione nei cosiddetti ‘giusti’. Chi può parlare in difesa dell’Onnipotente? Solo quando Dio stesso ‘parla’, pur non dando spiegazioni, Giobbe raggiunge un appagamento pieno. Chi guarda a Dio non deve temere di pronunciare parole insensate, perché la radice delle parole è la Parola. C’è una massima del fondatore del chassidismo, il Baalshem, che qui può risultare particolarmente appropriata: Quando la mia mente è fissa in Dio, lascio che la mia bocca dica ciò che vuole; poiché allora tutte le parole sono legate alla loro radice celeste. Le parole parlanti e non quelle meramente parlate (Merleau – Ponty)danno non solo notizie delle cose, ma anche il senso delle cose. Kafka, conversando con Janoch sulla gran mole di notizie riportate dai giornali (“lordura su lordura”, “un mucchio di terra e di sabbia”)si chiedeva che ‘senso’ avesse tale scialo di fatti. Concluse: “Ciò che conta è il senso degli avvenimenti. E questo non lo si trova nel giornale, ma soltanto nella fede”. In Giobbe non c’è semplicemente un elenco di sciagure, ma anche lo sforzo sincero ed appassionato di trovare il senso degli avvenimenti. Leggere questo libro aiuta a non fermarsi alla fenomenologia del male, ma invita ad andare fino in fondo a cercarne la motivazione ontologica.

Dio ed il satana non scommettono sulla giustizia di Giobbe, ma sulle motivazioni del suo comportamento devoto. È disinteressato? Nessuno, tranne il lettore, sa di quella scommessa e ciò consente, non solo di prendere sul serio la prova, ma anche di muovere la domanda inquietante: qual è l’autentica motivazione per la quale nel cuore umano alberga la fede in Dio? Giobbe non dirà falsità per riacquistare l’amore divino: non dirà, come pretendono i teologi, che è empio, colpevole. L’attenzione di quest’uomo si sposta tutta su Dio. La sua grandezza sta tutta, diciamo con Westermann, nel fatto che attacca Dio attaccandosi a Lui! Giobbe aveva considerato il Signore un concorrente violento ed Egli mette in caricatura il contestatore per orientarlo ad una diversa modalità di relazione. Se Dio ha scommesso sulla gratuità della fede del Suo servo, alla fine lo assolve non perché ha ragionato bene, ma perché si è mostrato intellettualmente onesto essendo tetragono nell’interrogare Dio. Non interessa al servo umiliato ammettere proprie colpe per soddisfare una prassi giuridica che gli avrebbe restituito, al più, i beni di un tempo; interessa la conferma dell’amore che il Signore gli ha sempre offerto. Non si fida di un procedimento nel quale la parola chiave fosse giustizia. La stessa teofania, infatti, in quanto Rivelazione, mostra che tutto va discusso ex novo entro la categoria del dono. Giobbe ha desiderato di non essere mani nato e, così, capovolge il disegno della genesi: l’uomo è cosa molto buona. Quando si spezzano le rassicurazioni teologiche ne esce gravemente compromesso anche l’ottimismo antropologico. La tempesta, che nel capitolo 9 (v. 17)è metafora delle sofferenze che grandinano su Giobbe, alla fine è il medium attraverso il quale Dio gli parla. Se nella tempesta del male l’uomo non smette di avere lo sguardo fisso in Dio, ed a lui grida, nella stessa tempesta Dio si rivela per mostrarci che è Lui il Senso. Nel discorso finale Dio porge domande a Giobbe per renderlo partecipe della rivelazione. Si sarebbe avuta, in caso contrario, una esaltazione di Dio ed una umiliazione dell’uomo. Qui il rimprovero, l’ironia non sono animate da disprezzo, ma costituiscono la salvifica pedagogia di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo dov’è, a Caino dov’è Abele, non significa che non Lo sappia: vuole soltanto che l’uomo sia capace – abile a rispondere perché lo vuole carico di dignità. E una forma alta di dignità è l’essere responsabili – responso (risposta)/abile (capace). L’uomo responsabile ha dignità perché capace di rispondere di sé. Conoscendo il meccanismo di peccato che l’ha preso in ostaggio, può sperare di liberarsene. Genesi narra la creazione e culmine ne è la creazione dell’uomo. Nel catalogo riportato da Dio alla fine del Libro di Giobbe, invece, questo viene omesso. Perché? Gli studiosi rispondono che si vuole dare una visione cosmologico non antropocentrica. Qui, ed è proprio quanto Giobbe voleva, è Dio e quanto opera la risposta definitiva al nostro agostiniano cuore inquieto.

La teologia, così, è davvero spezzata. Se chi ‘pensa la fede’ si sottrae alle provocazioni di Giobbe, annacquerà a tal punto il suo messaggio da farne una bevanda insipida che la complessità dell’anima contemporanea rifiuterà senza tentennamenti. L’angoscia è una componente dell’esistenza, ovvio; così è soprattutto nella vita del credente. Kierkegaard amava una citazione di Lutero che qui ha valore pedagogico meditare: Elimina la coscienza angosciata e tu puoi chiudere anche le chiese e farne delle sale da ballo. Gabriella Cotta riepiloga quello che mi sta a cuore comunicare: “Giobbe (…)fa emergere, con prepotenza, la questione del male ‘eccessivo’, che, travalicando ogni equa eppur insoddisfacente dialettica retributiva, ne provoca il corto circuito, configurando la realtà del ‘male innocente’, il male cioè nella pura problematicità della sua essenza. Giobbe (…)si ribella non perché riceve del male, che in qualche misura tutti sono pronti ad accettare nella consapevolezza della sua presenza inevitabile nella vita di ciascuno, ma perché è costretto a subire un eccesso incomprensibile di male, non riconducibile ad alcuna causa manifesta, e perciò non giustificabile”. Gli amici – teologi non rinunciano alle loro teorie perché temono che, di fronte al male ingiustamente subito, potrebbero trovarsi altrettanto spiazzati. Giobbe, invece, “prendendo le distanze da amici e famigliari, si rende conto che (…)questo tipo di male, non causato dall’agire umano, non può che trovare spiegazione altro che in Dio. Egli, dunque, esige di confrontarsi soltanto con lui, nella certezza orgogliosa che la propria innocenza può trovare soddisfazione solo da un simile interlocutore. È proprio questa fede incrollabile, che pure dilaga in ribellione e bestemmia, questa consapevolezza rabbiosa dell’assoluta priorità del rapporto con Dio, rispetto a ogni computo morale, a ottenere finalmente risposta”.

Chi non vuole fare di Dio l’oggetto di un discorso, ma il partner imprendibile eppure vicino col quale dibattere circa il senso della vita, deve operare uno spezzamento all’interno delle parole collaudate della teologia. Collaudate, beninteso, fino a quando la questione di Dio non diviene urgente all’interno di qualcosa – come un eccesso di male immeritato – che sconvolge la geometrica certezza di avere il divino a portata di mano. Anche l’ateismo – se autentico – non può vantare una fede (di segno opposto, ovvio, a quella religiosa)incrollabile. Come ha scritto Milan Machovec, l’ateismo autentico è più critico che affermativo. Marx, in fondo, attaccò solo le concezioni di Dio del suo tempo: gli epigoni, dunque, criticano altre concezioni di Dio. Mutate queste, vanno rivisti anche gli impianti critici. I teologi del XX secolo, ammette Machovec, hanno fornito modelli di Dio di fronte ai quali si può essere meno aspramente atei. La critica di Marx al ‘fatto religioso’ – fino alla messa in questione dell’esistenza di Dio – è un’apertura nella quale i suoi discepoli possono lavorare solo con intenzioni diverse ed argomentazioni nuove. Sarebbe palese e grave fraintendimento pensare che l’ateismo marxiano abbia cristallizzato un dogma della non esistenza di Dio. La teologia deve mettersi al passo con questa idea di critica ai modelli di Dio suggerita da Machovec: rivedere, spinta dal confronto con l’esperienza personale di chi intuisce un aspetto diverso del divino, le proprie categorie di pensiero. Se Dio si rivela nella Storia è impensabile che per rapportarci a Lui debbano valere per sempre. Si deve procedere, talvolta, attraverso interrogazioni esasperate e disperate, fino a che il senso si manifesta anche laddove pareva non rintracciabile. Francesco Gaiffi, scrive: “Nella vita di Giobbe, Dio è presente nella forma di una domanda paradossale, nell’appello a lottare contro di lui. Proprio la sproporzione eccessiva della domanda definirebbe la figura tragica del protagonista e nell’affidarsi totalmente a essa Giobbe trova prima una lacerazione interiore profonda, poi la risposta dell’evento teofanico: la rivelazione finale misteriosa e liberante mostra a Giobbe che la verità della sua esperienza di Dio è passata proprio attraverso la lotta ‘tracotante’ con lui”. Ci si interroga veramente su se stessi e sul proprio dolore quando si grida il proprio perché? a Dio! Capitò qualcosa di analogo a Wittgenstein quando lesse i testi in cui Nietzsche opera la critica dei valori (anche cattolici)fino a demolirli mostrandone l’origine umana, troppo umana. Wittgenstein ne uscì spiritualmente malconcio! Denudato dei riferimenti assiologici e teologici che da secoli davano senso all’esistenza umana, annotò, l’8 dicembre del 1914, nei Diari: “Ma che cosa devo fare affinché la mia vita non vada sprecata?”. La certezza che qualcuno raccolga un simile quesito è già, di per sé, confortante! Basta non credere che questa domanda risuona nel vuoto. Importante è comprendere che i sentieri dell’incontro con Dio non vanno totalmente tracciati con la nostra debole, tremolante mano; piuttosto, ci deve appartenere la perseveranza, la belligerante ostinazione di percorrere anche sentieri che vorremmo evitare. Un dio catturato con una formula teologica appare più accessibile, ma può configurarsi come uno dei tanti ingannevoli volti di Dio che gli atei giustamente rifiutano. Giobbe ci insegna proprio questo: qual è il vero rapporto da instaurare con Dio? Possiamo, dunque, concludere che “il Libro di Giobbe ‘dovrebbe’ essere il libro del dolore: più ci si inoltra nella lettura, più appare chiaro che il tema del dolore non ha, nel libro, una posizione preminente, anche se le pagine dedicate al dolore sono molte. L’apparente contraddizione tra le molte pagine e la non centralità del tema si risolve facilmente costatando come unico tema centrale si venga sempre più delineando il mistero come proposizione della capacità di comprendere quale sia il rapporto che l’uomo deve avere con Dio se vuole che esso sia il rapporto vero (…). Allora non l’ingiustizia o l’infedeltà sono la causa del dolore per Giobbe, ma piuttosto il piano di Dio su di lui, che egli deve accettare non (…)per necessità, ma per libera, convinta adesione, in una fede, che non solo contrasta con la ragione, ma si incontra con la ragione illuminata dalla presenza del mistero. Giobbe ormai sa che il suo dolore fa parte di un piano in cui l’amore verso di lui si manifesta”(Bruno Salmona). Il Dio che presentiamo, se Lo convertiamo in un idolo, ha nulla che vedere con il Dio che si presenta nella Bibbia. Chiuderei con Kierkegaard: Si deve colpire a morte la speranza terrestre e solo allora ci si salva con la speranza vera. Si deve, direi, lasciar colpire a morte la speranza offerta da certa teologia – tutta terrestre – se si vuole che la Speranza – non costruita, ma donata – ci salvi.

Alla fine del libro, il Signore ordina ai teologi di offrire in olocausto ‘sette vitelli e sette montoni’. A me, però, piace pensare che Dio volesse veder bruciare non animali, ma le vane parole che hanno pronunciato con irritante sicumera. Il Signore, poi, invita lo stesso Giobbe a ‘fare orazione’ per loro; proprio lui deve intercedere per quei consolatori molesti, che gli hanno reso la pena più pesante, affinché Dio usi loro misericordia. Il Signore dice espressamente che “per riguardo a lui (Giobbe)” sarà clemente. Ed il rinato amico farà esattamente come gli è stato chiesto. Alla fine, non solo avrà riavuto il doppio dei beni persi, non solo avrà riallacciato il suo buon rapporto col Creatore, ma ha sperimentato pure una maggiore umanizzazione di sé. Poco importa che il sofferente si sia sentito solo quando insisteva nel voler sentire parlare di Dio in maniera diversa. La vera fede non si preoccupa di piacere alla maggioranza. Dostoevskij fa dire ad un suo personaggio: “Se (…)tutti ti abbandoneranno e ti scacceranno con violenza, inginocchiati, rimasto solo, sulla terra e baciala, bagnala delle tue lacrime, e la terra ne sarà fecondata, anche se nessuno ti avrà veduto, né sentito nella tua solitudine. Credi fino all’ultimo, anche se dovesse accadere che tutti sulla terra si sviassero e tu solo rimanessi fedele: anche allora reca la tua offerta a Dio e lodalo, tu, l’unico rimasto. Ma se due come te si incontrano, ecco già tutto un mondo, il mondo dell’amore vivente; abbracciatevi commossi e lodate il Signore: infatti la Sua verità si è compiuta, sia pure in voi due soli”. Giobbe ha spezzato – con un grido - parole per farsi edificare dalla Parola. Giobbe riceve l’approvazione di Dio (lui ha parlato bene), ma anche l’invito ad intercedere per quelli che pensavano di dire bene. Mi sono chiesto: come mai Dio, qui, passa per il perdono di un uomo per usare misericordia a degli uomini? Perché, a ben vedere, quando il Signore rimprovera i teologi di non aver parlato bene di Lui, non sta operando una correzione accademica; non sta agendo da professore di teologia. Le tesi di quei ‘consolatori molesti’, in fondo, erano insegnamenti venerati ed accettati anche dai migliori uomini di fede; lo stesso Giobbe, lo dice nel testo, sa che quelle parole sono ammantate di valore. Il fatto, qui, è che anche quanto è vero, giusto, distanziandosi dalla carità diviene molesto e nocivo; Dio non rimprovera le tesi dei teologi, ma il fatto che le abbiano esposte senza filtrarle attraverso il rispetto umano che si deve ad un sofferente. Laddove c’è l’invocazione al senso non si può rispondere con la Parola tenuta pomposamente in una mano guantata. Gli amici – teologi, non hanno inventato dottrine, parlano con le parole della saggezza tradizionale, non hanno offeso Dio, ma l’uomo. Giobbe deve intercedere per loro perché l’offeso è lui e Dio vuole che sia un uomo, mostrando che la fede umanizza pienamente, a mostrare ad un altro uomo cos’è la misericordia divina. Viene così stabilita, scrive il MacKenzie, “la verità delle veementi affermazioni di Giobbe contro gli amici durante il dialogo (…). La loro dottrina, le loro conclusioni e le loro accuse contro di lui erano false; il loro bigottismo e la loro mancanza di carità (con cui credevano di poter difendere Dio e la sua giustizia)erano colpevoli (…). Jahvéh li tratta con misericordia e indulgenza; il suo perdono è facilmente ottenuto, ma per mezzo dell’uomo che avevano condannato come ostinatamente malvagio (…). Se gli amici si umilieranno, anche Giobbe li perdonerà. Essi hanno contribuito smisuratamente alla sua sofferenza; nondimeno, egli deve riconciliarsi con essi e divenire il loro ‘redentore’ (…). Jahvéh ristabilì Giobbe nello stato di prima, ‘quando egli intercedette per il suo prossimo’(…). Perfino mentre gli amici lo processavano, veniva in realtà ‘qualificato’ per ottenere per essi il perdono di cui avevano bisogno”. Dalla teologia spezzata nasce un percorso nuovo.
Lasciamo Giobbe e seguiamolo.

Dopo il fallimento delle ‘pasque laiche’ (comunismo, socialismo…)risulta ancora più evidente che la ‘pretesa cristiana’ eccede qualsiasi prospettiva soteriologica orizzontale, in quanto promette di riscattare l’uomo dalla morte! Un professore di storia stigmatizzò l’indifferenza del filosofo Landsberg nei riguardi di un recente accadimento politico: “L’uomo vuole agire!”. Il filosofo, ribatté: “Io non voglio agire, voglio essere salvato”. Questa aspirazione mette l’uomo in grado di non privarsi di Dio nemmeno di fronte alla più realistica minaccia di annientamento. Si narra che ad Auschwitz un gruppo di ebrei mettesse sotto accusa Dio: lo accusarono di crudeltà, poiché concedeva ai nemici del Suo popolo un potere feroce. Nulla trovarono, negli insegnamenti biblici e talmudici, che giustificasse i mali patiti. Dio fu giudicato colpevole; ebbene, dopo che il capo dell’assemblea aveva pronunciato il terribile verdetto, alzò il capo e sciolse la seduta: era l’ora della preghiera della sera!  Si può avere un confronto con Dio senza timori reverenziali, ma alla fine si torna a Lui. L’ebrea Hetty Hillesum, che patì il lager, confessò la difficoltà di credere in Dio di fronte alle facce dei suoi aguzzini: “Se penso alle facce della scorta armata (…)! Le ho osservate ad una ad una (…)non mi sono mai spaventata tanto (…)Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: ‘E Dio creò l’uomo a sua immagine’. Questa parola ha vissuto con me una mattina difficile”. Crollata la visione teologica dell’uomo, resta l’orrore per il volto non più Trasfigurato nella cristificazione, bensì sfigurato nell’animalità. Si danno, tuttavia, segni della persistenza del Bene? Virgilio sosteneva che anche la terra e le acque del mare offrono segni. Per chi ‘sa’ e ‘vuole’ interpretarli; tuttavia, ogni interpretazione parte da una precomprensione: siamo già in un percorso di fede o no? Il cristiano si lascia attraversare dal paradosso: accetta che non tutto si spieghi. Whitehead non riusciva a  pensare Dio come un Essere impassibile; piuttosto, Dio soffre con la realtà, nella vita sociale. Parlava, il filosofo, di sensibilità divina. La traccia di Dio in noi inizia a farsi evidente anche quando, novelli Giobbe, accendendo dispute Lo rendiamo presente; fosse anche, ecco, stigmatizzandone il silenzio. Gesù è stato definito da  Bessière il Dio inatteso: come può l’uomo, che vede nella divinità soltanto qualità meritevoli del superlativo assoluto, riconoscere nel figlio del falegname di Nazareth il Messia? La Potenza massima espressa in una impotenza impensabile. Heschel, commentando Esodo 19, 20 ‘Il Signore scese sul monte Sinai’, affermò: “Nessuna frase al mondo ha mai detto di più: colui che è trascendente, nascosto ed elevato al di sopra dello spazio e del tempo, è venuto umilmente quaggiù”. Cristo, dunque, mostra che Dio stesso vuole che ci si interessi a Lui attraverso il paradosso e non la speculazione. Ci si muove nella traccia di Dio, ma non si tratta di andarvi da soli: è un cammino condiviso con altri. Illumina Lévinas: “Dio non si mostra che per la sua traccia. Andare verso di lui non è seguire questa traccia, è andare verso gli altri che si tengono nella traccia”. La strada verso Dio è l’altro, il prossimo, il volto nudo ed interpellente del povero, della vedova…Il cristiano, poi, riceve in Cristo la Parola definitiva sulla propria identità: “la cristologia – scrive Gesché – costituisce un’antropologia profetica”. Cristo è La Parola che ci ‘dice’ cosa siamo nel progetto di Dio che proietta l’antropologia nell’escatologia. La figliolanza è l’essenza dell’antropologia teologica. Paolo, nella Lettera ai Galati (4,5), sostiene che in Cristo ci viene donata la ‘figliolanza a Dio’; in greco, l’espressione è hyiothesia. Termine che, secondo von Martitz, non si trova prima del secondo secolo a.C. e solo Paolo, in tutto il Nuovo Testamento, lo userebbe. Nella confusione che genera la domanda dell’uomo su se stesso, la cristologia getta semi preziosi di chiarificazione. Nel Medioevo, Bernardo di Chiaravalle pativa conflitti rintracciabili nelle anime moderne e contemporanee. Era poco più che ventenne quando, per sfuggire le spire della mondanità, si ritirò in un severo convento riformato. In una lettera confessò stati d’animo che fanno pensare alla crisi spirituale di un intellettuale cronologicamente assai più vicino alla nostra sensibilità: “Invoca in voi la mia vita eccezionalmente strana, la mia coscienza in pena. Io sono infatti il chimerico mostro del mio secolo, né chierico né laico. Che se non ho abbandonato l’abito del monaco, ne ho perduto le maniere di vivere”. Tenendo dei sermoni sul Cantico dei Cantici ai suoi monaci, si confessa – apertis verbis - un tormentato cercatore di Dio: “Spesso anch’io, non mi vergogno di confessarlo, specialmente all’inizio della mia conversione, (ero) duro e freddo di cuore, cercando colui che voleva amare l’anima mia (…). Mentre dunque cercavo lui (…)l’anima mia languiva sempre più e si annoiava, e sonnecchiava per tedio, triste e quasi disperata, mormorando tra sé quelle parole: Davanti a questo freddo, chi potrà resistere?”. Dio non è facile nemmeno, forse soprattutto, per i santi! Discorso dell’uomo sull’uomo e Parola di Dio all’uomo vanno messe in tensione dialettica. Per riprendere Giovanni Paolo II, solo facendo memoria della propria identità (svelata in Cristo e custodita dalla Chiesa)possiamo aprire un discorso sull’uomo orientato ad una speranza concreta di salvezza. Pannenberg: “Nell’età moderna l’antropologia di fatto, è ormai diventata il terreno sul quale la teologia dovrà motivare le pretese di validità universale per i suoi enunciati”. Aggiunge Schillebeeckx: “la storia di vita attuale dei cristiani è un quinto Vangelo: appartiene anch’essa al cuore della cristologia”. Non bisogna, con troppa allegria e leggerezza, espellere inquietudini escatologiche dal nostro vivere col pretesto che ci si deve occupare del presente, del mondo: l’identità autentica la salviamo preservando la memoria cristiana che è memoria non del passato, ma del futuro! Facendo memoria scopriamo la verità profetica su noi stessi. Dio si è fatto seriamente ed a caro prezzo uomo: ha accettato di vestirsi di carne dolente! Bernanos ha parole feconde: “Dal Getsemani al Calvario, sappi che Nostro Signore ha conosciuto ed espresso in anticipo tutte le agonie, anche le più umili, le più desolate – la tua di conseguenza. Questa passione non è un gioco da principe! (…)non si tratta di un Dio che gioca a fare l’uomo”. In S. Paolo c’è una chiara indicazione su come deve rivolgersi a Dio l’uomo duramente provato. Nella Lettera agli Ebrei, al capitolo 5 (vv., 7 – 10), leggiamo: “nei giorni della sua vita mortale, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva salvarlo dalla morte”. Cristo viene esaudito perché ‘riverente’. Spesso, però, si traduce: “fu esaudito per la sua pietà”. Non è esatto. Vanhoye precisa che il testo greco non dice eusebeia (pietà), bensì, eulabeia (circospezione, profondo rispetto): “Anche se ha supplicato e gridato, Gesù ha sempre conservato un profondo rispetto per Dio”. Paolo scrive: “imparò dalle cose che patì l’obbedienza”. Non significa che prima della Passione Gesù non fosse obbediente, ma c’è da distinguere “fra una disposizione previa all’obbedienza e le virtù dell’obbedienza acquisita attraverso le prove (…). Prima può avere una sincera disposizione all’obbedienza, ma non ancora la virtù provata”. Gesù accetta la prova, aggiunge significativamente Paolo, “benché fosse Figlio”. La maturità del credente è obbedire nella prova, interrogare e gridare a Dio dal profondo del proprio dolore senza bestemmiare. Questo il Dio che dobbiamo incontrare andando verso gli altri che si tengono nella Sua traccia. Cristo è la traccia (e trascina con sé tutta l’umanità): “tutte le storie sono legate alla figura di Gesù di Nazareth” – spiegava Ratzinger (oggi papa Benedetto XVI). È scandaloso (in senso positivo)che un “singolo uomo deve essere il centro di tutta le storia”. Quando il nuovo papa si trova di fronte alle diatribe che scatena la questione del ‘parto virginale’ di Maria, non si nasconde: “Io ritengo, lo confesso apertamente, che tutta la diatriba (…)sia una scappatoia di fronte alla vera questione (…): un Dio, che può diventare uomo, può anche essere nato dalla Vergine (…). Ma, ecco il punto: Dio può essere un uomo?”. A questa domanda si risponde mostrando che la Sua traccia è viva in noi ed opera incessantemente per il bene. Tenersi nella traccia con altri verso l’Altro è portare a compimento la propria maturità umana.

Come un bambino che simula di salire: gradini che ha dipinto per terra.
(F. Pessoa)

Pessoa fa riferimento all’uomo del sapere: prima dipinge un mondo che possa intendere e poi si esalta perché lo abita agevolmente! L’eterno gioco della conoscenza. Abbiamo il mondo che siamo in grado di rappresentarci. Quando ciò diviene impossibile? Basta che nel cielo dipinto del teatrino si verifichi uno strappo e ci si rende conto che era l’immagine della realtà, non la realtà che abitavamo. L’ansia consegue alla caduta delle certezze epistemiche. Dissero a Cioran: Lei è contro tutto ciò che è successo dal 1920 in poi - Rispose: No, da Adamo in poi. È con un pessimismo radicale che l’antropologia filosofica fa i conti. Nell’enciclica di Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, al n. 84, viene riproposta la domanda di Pilato: ‘Che cos’è la verità?’. Il Papa sostiene che questa Grundfragen origina “anche dalla sconsolata perplessità di un uomo che spesso non sa più chi è, da dove viene e dove va. E così non di rado assistiamo al pauroso precipitare della persona umana in situazioni di autodistruzione progressiva”. Ci aggrappiamo a maniglie fenomeniche: fede in ciò che appare e l’ansia è, momentaneamente, tacitata. Siamo fermi al fenomeno incapaci di riferirlo, per caricarlo di senso, al fondamento (Dio). Non solo l’uomo, ma anche i luoghi che abita, perdono consistenza…diventano fluidi, inqualificabili. Diveniamo meno umano ed i luoghi non – luoghi. Il mondo non è più il nostro luogo e, dunque, non possiamo farne la porta aperta a Dio che vuole entrarvi: “L’epoca in cui viviamo oggi (…)è l’epoca in cui non si può più pensare alla realtà come a una struttura saldamente ancorata a un unico fondamento, che la filosofia avrebbe il compito di conoscere e, forse, la religione (…)adorare. Il mondo effettivamente pluralistico in cui viviamo non si lascia più interpretare da un pensiero che lo vuole a tutti i costi unificare in nome di una verità ultima” (Vattimo). Difficoltà ad essere, ansietà nel radicarsi. L’uomo, sempre più consapevole della propria finitezza, patisce l’assenza di una convinzione soteriologica verticale. Il sapere non è più in funzione della ‘vita buona, felice’; piuttosto, strumento della volontà di potenza. María Zambrano, sintetizza: “Punto dolente della cultura moderna (…): la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva che possa alimentare la vita”. Si trascura di accrescere un sapere dell’anima. Il depauperamento delle facoltà umanizzanti ha tra i più nefasti corollari il deprezzamento politico, economico/sociale dei deboli. In un convegno, la Diocesi di Milano si è occupata della missione della Chiesa e dell’uomo ferito. Si partiva dal tentativo di “ritrovare il cuore dell’annuncio del Vangelo come parole nuove – parleremo lingue nuove (Mc 16, 15) – che sostengono la lotta contro il male”. All’uomo ferito occorre donare un linguaggio nuovo, che lo coinvolga nella proposta della fede. Si fa riferimento alla parabola lucana del Buon Samaritano in quanto vi incontriamo “una icona della condizione di ogni uomo. L’uomo di sempre è quell’uomo ‘assalito’, ‘percosso’, ‘ferito’, ‘denudato’, ‘abbandonato’”. Ad accoglierlo deve essere la Chiesa, simboleggiata dalla “locanda nella quale l’uomo ferito trova ristoro” grazie al Samaritano. Il sofferente lucano non viene soccorso dal primo che passa: “La ferita è sempre difficile da vedere, perché chi sta male viene messo ai margini (…). In una città che emargina la Chiesa rimane quell’ostello che tiene aperte le porte”. Sottolinea Eugenio Zucchetti: non prevalgono più ‘istanze solidaristiche’ che spingevano alla difesa dei poveri; si chiede sempre più, invece, che ci difendano dai poveri. La richiesta di pane toglie sapore al nostro superfluo mostrandoci la faccia buia del nostro vivere in una logica da supermercato. Questione radicale occuparsi dell’uomo ferito ontologicamente ed onticamente se, come precisa Zucchetti, “i mutamenti oggi in atto (…)determinano esiti che sono molto più di semplici questioni sociali, ma rimettono in gioco l’idea stessa di uomo”. Mons. Sequeri non ricorre a giri di parole: “La cura dell’uomo ferito (…)è forma della rivelazione evangelica di Dio (…). Il cristianesimo deve essere giustamente geloso di questo legame indissolubile fra la verità di Dio e la cura dell’uomo ferito”. Legame preservabile giocandolo ed arrischiandolo nell’atmosfera postmoderna che Mons. Manenti configura come un cantiere nel quale lavoriamo senza essere padroni e nel quale l’avvenimento è ritenuto più interessante dell’uomo. Il cristianesimo deve essere ‘povero’, ‘fragile’ come l’uomo di cui si occupa. La povertà, d’altro canto, – spiega Mons. Rouet – rende creativi; l’essere ricchi impigrisce, invece, nell’esercizio egoista del conservare. Quando Pietro cammina sulle acque per raggiungere Cristo ha paura. Di cosa? Del vento! Se il vento minaccia, provoca tempesta, pure è necessario affinché si gonfino le vele delle barche. Ciò che mette in pericolo può essere la forza che conduce all’approdo. Il vento simboleggia ciò che conduce dove non vorremmo andare. Andare verso l’uomo ferito è mettersi in gioco, rischiando se stessi, nel vento sconvolgente di quella novità che è l’annuncio cristiano. Vera sfida è scegliere, essere qualcuno, fare qualcosa malgrado le incertezze che informano ogni proposta umanizzante. La maturità si acquista nel non fare di se stessi un possesso tanto geloso quanto sterile. L’incertezza domina su tutte le possibilità aperte per trovare il senso della vita: “stiamo fuoriuscendo dalla cristianità, siamo in una civiltà in cui nulla occupa più questo spazio che viene conteso da opzioni reciprocamente incompatibili. Ai nostri giorni è impossibile essere cristiani, atei o qualsiasi altra cosa, senza un certo grado d’incertezza. La nostra situazione è caratterizzata da questa fragilità, molto più che dall’idea secondo cui la laicità avrebbe spazzato via la religione” – scrive Taylor. Manteniamoci, tuttavia, in una ‘giusta inquietudine’ per non isterilire in quello che Augusto Del Noce definiva nichilismo gaio: “è senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano) (…). Tale nichilismo è la riduzione di ogni valore a valore di scambio”. Religione: re – ligare, ‘legame’, ‘relazione’; questi termini evocano sforzo, lavoro su se stessi e, per questo, invisi dal modus vivendi imperante: “lo sforzo non è più di moda, ciò che è costrizione o disciplina austera è svalutato…la nostra cultura dell’espressione e del benessere stimola la dispersione a vantaggio della concentrazione…lavora allo sbriciolamento dell’Io…” (Lipovetsky).

Mai come oggi l’uomo interroga se stesso e si smarrisce in un magma di risposte. Scrisse Erikson che lo “studio dell’identità ha per il nostro tempo lo stesso valore strategico che lo studio della sessualità aveva al tempo di Freud”. Posso dire chi sono, cos’è l’io senza rapportarmi al tu? Benveniste chiarisce: “non impegno il termine io se non indirizzandomi a qualcuno che sarà, nella mia allocuzione, un tu. È questa condizione di dialogo che è costitutiva della persona, poiché essa implica in reciprocità che io divenga un tu nell’allocuzione di colui che, a sua volta, si designa come un io”. La chiamata di Altri spodesta il soggetto di ogni certezza! Irrita la proposta cristiana, nuova e scandalosa, perché fugge la cultura dell’analgesico e propone una cura radicale. ‘Convertitevi’ (metanoite)è la pretesa evangelica: si tratta di capovolgere a 360° la propria esistenza. Non rattoppare, ma rinnovare. È quanto sconvolge e scandalizza a parlarci ancora del cristianesimo: “Il cristianesimo come novità quotidiana, come scandalo che scuote l’esistenza anziché addomesticarne il lato tragico attraverso false protezioni, può trovare nell’ateismo (…)un compagno col quale condividere un lungo tratto di cammino (…)perché numerosi sono gli avversari in comune: l’idolatria, le mistificazioni, le finte rassicurazioni metafisiche, l’oblio del carattere perturbante dell’esistenza, il disconoscimento della finitezza” (Poltrinieri). Nella Fides et ratio si dice che “una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione”(n. 91). Di fronte a simili scenari si deve lavorare anche con strumenti laici, purché dotati di possibilità nuziali. Ben venga, dunque, anche il logos filosofico! L’enciclica, al n. 77, sottolinea che “è la stessa teologia a chiamare in causa la filosofia”. Agire, responsabilità, cura di sé, sono parole filosofiche e la teologia se ne occupa utilizzandole in diverse accezioni. La polemica contro le istanze religiose che intendono guidare le nostre esistenze nasce dal non accettare che una sola proposta monopolizzi la richiesta di senso. Rifiutando un Dio straripante, invadente, (non sempre a torto)si è commesso l’errore di gonfiare talmente l’ego da non farci entrare più niente e nessuno. L’uomo è stato paragonato ad un lago che, rifiutandosi di far defluire le acque, cresce continuamente ed alza dighe. Rifiutandosi di defluire nella Trascendenza, si ingrossa sempre più. L’immagine è di Nietzsche che la propone nell’aforisma 285 de La gaia scienza: “C’era un lago che si rifiutò un giorno di far defluire le sue acque e che rialzò una diga laddove fino ad allora trovava deflusso: da quel momento questo lago cresce sempre più di altezza. Forse proprio quella rinuncia darà anche a noi la forza con cui può essere sopportata la rinuncia stessa; forse l’uomo a partire da ora crescerà sempre più in alto, non avendo più sbocco in un dio”. Ma le apologie dell’io (Miccoli) – liete che l’uomo non sfoci in un dio - non salvaguardano l’humanitas dell’uomo. In tempi in cui si esalta l’individuo per mezzo di ‘imperativi estetici’ si pone in ombra la vera umanità dell’uomo. Fromm riportava un titolo del New York Times: Morto un fabbricante di scarpe e contestava che in biasimevoli astrazioni finiscano le qualità reali di un uomo! È preferibile parlare di anime che cercano il senso. Tolstoj scrisse alla cugina Aleksandra che fede e miscredenza coabitavano nella sua interiorità come un cane e un gatto in uno sgabuzzino. Le lotte interiori sono feconde quando si accompagnano all’amore; solo chi ama lotta senza rancore. Come maturare se si disertano queste due forze? Anselm Grün: “il combattere e l’amare. Non c’è nessuna via per diventare uomini senza questi due poli. L’uomo che solamente combatte diventerà facilmente un don Chisciotte che ha sempre bisogno di nemici, per percepire se stesso. L’uomo che oltrepassa il combattere e si dedica solo all’amore non imparerà mai davvero ad amare (…). L’amore ha bisogno anche di forza, per poter sviluppare tutto il suo potenziale di fascino e di felicità. Ogni uomo dovrà trovare il suo equilibrio personale tra combattere e amare. Non c’è un uomo unitario, un modello unitario per il processo in cui l’uomo diventa se stesso. L’equilibrio tra combattere e amare deve venire nuovamente stabilito anche in ogni età della vita (…)muta diventando maturi”. Laddove si rifiuta un modello unitario di uomo, se ne offre uno conflittuale, tragico. Qui ci si avvicina all’uomo autentico. Yeats scriveva che solo cominciamo a vivere quando la vita diventa tragedia. Nulla di umanizzante si realizza quando, piuttosto che percorrere luoghi silvestri, si sonnecchia in protette serre tra fiori di plastica. Come si espresse la scrittrice lettone, grande invalida, Zenta Maurina Raudive, le rose supercoltivate del nostro tempo hanno perduto il loro profumo.

Cataluccio ha parlato di quel fenomeno inquietante che è la sempre più diffusa immaturità degli individui: la sindrome di Peter Pan, del bimbo ludens. Ha “preso il sopravvento il mito di una vita priva di riflessione, senza intrusione dell’intelletto”. Il puerilismo è quel fenomeno che indica la tendenza della società a non innalzare il fanciullo a uomo, bensì ad abbassare alla puerizia i comportamenti adulti. Si assume di fronte alla vita un permanente atteggiamento di gioco. Huizinga scolpì una formula: All’antico ‘tutto è vanità’ viene sostituito il nuovo e più convincente motto ‘tutto è gioco’. Muta l’idea di gioventù: “la gioventù non è più una condizione biologica, ma una ‘definizione culturale’. Si è giovani non in quanto si ha una certa età, ma perché si partecipa di certi stili di consumo e si assumono codici di comportamento, di abbigliamento e di linguaggio”. Siamo ancora nel secolo di Peter Pan. Cataluccio attacca il progresso tecnologico indicandolo come la causa della nostra immaturità: “progresso tecnologico e progresso morale non sono andati di pari passo: le tecnologie sono avanzate da sole”. Un uomo perennemente dedito a giocare non accetta progetti etico/morali. Non fa come si conviene, cioè, il mestiere di uomo. Padre Bruguès spiega che l’interrogativo etico principe non è ‘cosa fare per non trasgredire norme’, bensì ‘cosa fare dell’essere che scopro e che sono?’. Il ‘mestiere morale’ presenta affinità con l’attività artigianale; in entrambi i casi, infatti, si tratta di possedere le stesse qualità: pazienza, tenacia, umiltà, creatività ed amore e responsabilità per sviluppare il gusto di un lavoro ben fatto. Si tratta di qualità che non possiamo rinvenire nel bimbo ludens che ha fretta di consumare tutti i piaceri di oggi e tutti i piaceri nell’oggi. Il percorso di crescita esige la ‘pratica morale’; in essa, “il soggetto si comporta come l’artigiano del suo divenire”. Formarsi moralmente sì, ma non in vista di una esclusivo perfezionamento di sé: “la perfezione dell’opera morale consiste non nella formazione di una personalità morale che, per quanto mirabile, resta un’operazione sempre esposta alle derive narcisistiche, bensì nel dono di sé. Prima di ‘fare se stesso’, ciascuno di noi ‘riceve se stesso’ da altri (…): ognuno di noi è ‘essere – donato’ e, per rimanere fedele alla propria natura, dovrà a sua volta diventare un ‘essere – dono’”. Un immaturo non vuole che fruirsi attraverso le cose: ingurgita, fagocita beni effimeri fremendo nel bozzolo di egoistici appagamenti provvisori. Una agghindata crisalide che mai sarà splendida farfalla! Non donarsi è disertare le fatiche del mondo e, disse Lévinas, non costruire il mondo è distruggerlo. Amare mondo ed uomo senza riferimento alla Trascendenza può intrappolare in sterile filantropismo. Non radicare nell’Amore l’amore è rischioso. Teresa di Gesù se ne preoccupava: “Per la miseria della nostra natura credo che non arriveremo mai ad avere perfetto amore del prossimo, se non lo faremo nascere dalla stessa radice dell’amore di Dio”. Ragiona Simone Weil: stabilire se l’anima di un uomo ha dimorato nel fuoco dell’amore di Dio è possibile non tanto esaminando come parla di Dio, ma facendo attenzione a come parla delle cose del mondo. La finzione, dice Simone, è impossibile, poiché si può imitare l’amore di Dio, ma non si può dare falsa imitazione “della trasformazione che egli realizza nell’anima”. Fingere di amare Dio o di essere abitati dal Suo amore è possibile. Spesso, nel clima di immaturità nel quale vive il bimbo ludens, si scimmiotta l’Amore. Si pensa di essere adulti solo quando si rifiuta, acriticamente, ogni limite e divieto. In ambito teologico, però, vale la pena riflettere. San Tommaso scrisse che Dio proibisce ciò che è empio ed ordina ciò che è giusto perché ha “a cuore gli uomini” che vengono danneggiati o salvati dagli atteggiamenti che assumono. Ciò che è giusto o ingiusto non viene deciso da Dio come se fosse un freddo giurista (bonum quia iussum), ma per il nostro bene (iussum quia bonum). Dio ci vuole maturi, responsabili di fronte alla vie che ci indica. Ancora Tommaso: a suo dire, il vertice della dignità umana è fare il bene non per costrizione, ma per libera scelta. Se non si rende evidente che nell’anima è avvenuta una trasformazione, che l’uomo sfigurato dall’ immaturità è trasfigurato in creatura capace di donarsi, vuol dire che siamo sulla strada sbagliata. Dio ama la realtà com’è e l’uomo per quello che è; tuttavia, un credente immaturo pensa che ciò significhi che stiamo bene come siamo. È solo che Dio non vuole rivoltare uomo e mondo come avviene in numerose proposte politico – ideologiche: bisogna che tutto cambi affinché nulla muti. Bernanos criticava le teorie politiche: “il buon Dio prende la nostra povera società qual è; al contrario di quello che fanno i buffoni che ne fabbricano una sulla carta, poi la riformano a tutta forza, sempre sulla carta, beninteso!”.

L’uomo immaturo sta dietro il credente immaturo che finge un amore di cui non è capace e confonde la filantropia con l’‘essere – dono’. Si rimedia all’incapacità di rispondere ad una vocazione religiosa realmente impegnativa andando al supermercato delle religioni scegliendosi quella che offre più a buon prezzo motivi per continuare a vivere. Passare, anche in riferimento al ‘fatto religioso’, dalle scelte alle preferenze certifica l’immaturità del soggetto postmoderno. Scrive Gallizioli: “l’opzione religiosa postmoderna (…)non riconoscendosi più nelle grandi narrazioni delle religioni tradizionali, spinge il soggetto a recuperare nei frammenti delle più disparate tradizioni alcune connessioni ‘a senso’ dichiaratamente valide per sé o per piccoli gruppi”. Ci si rivolge alle religioni orientali ritenendole un analgesico contro le astrazioni dogmatiche della teologia occidentale. Certe aperture spirituali valgono come boccate d’aria fresca per “pellegrini spirituali sempre più in difetto di ossigeno”. Intendere la ricerca religiosa come un meccanismo di appagamento delle proprie ansie, conduce ad immaturità teologica. Aspettative più alte ha chi pensa l’uomo entro coordinate cristiane. Per Basilio di Cesarea, infatti, l’uomo è un animale che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio. I greci definivano l’uomo microcosmo e Gregorio Nisseno lo riteneva microtheos (piccolo Dio); Origene lo definiva un ‘universo in piccolo’ e faceva riferimento al passo di Matteo ‘voi siete la luce del mondo’ (5,14): se illuminiamo vuol dire che in noi ci sono ‘sole e luna’. Chi adotta le tesi freudiane vede proprio nella fede una delle cause della nostra immaturità: l’uomo proietterebbe la potenza che non ha in un essere superiore. Che dire? Credo fuorviante associare Dio alla figura del padre se ci impantana nell’accezione del legislatore estrinseco. Il padre – scrive Greco –  ha “una funzione altamente positiva nella crescita del figlio, per il quale è modello e promessa di futuro. Egli non interdice soltanto, ma nella sua tenerezza riconosce il figlio mediante la parola, conferendogli una personalità, proiettandolo così nel futuro. Questa più completa immagine del padre si avvicina di più al dio dell’esperienza religiosa, non riducibile ad un simbolo ‘archeologico’, giacente nell’inconscio del soggetto”. Freud si ferma all’archeologia del soggetto. L’inconscio freudiano si arresta agli aspetti primordiali dell’uomo ed i simboli vengono interpretati orfani di valenze teleologiche; il simbolo, oppone Ricoeur, va anche verso uno sviluppo della coscienza. Il simbolo, in questa allargata visione ermeneutica, si costituisce quale punto d’incontro tra ‘archeologia’ e ‘teleologia’: “Un’ermeneutica dei simboli, che non intenda mortificarne la ricchezza di significati, deve saper percorrere entrambe queste direzioni, quella verso l’arché e quella verso il télos”. La dialettica che il pensatore francese accende non finisce nel ‘sapere assoluto’ che risolva contraddizioni e fatiche dialettiche in una totalità senza resto. Ricoeur propone tre livelli simbolici: 1) una simbolica costituita da simboli ‘stereotipati’ possessori unicamente di un passato; 2) simboli ancora in uso; 3) simboli ‘prospettici’ che, assumendo figure tradizionali, creano un senso nuovo; qui opera una interpretazione vivente del loro contenuto arcaico. Il terzo livello è veramente simbolico. Di fronte ai simboli sacri il soggetto si accorge che il costituirsi del senso non è padroneggiabile. Greco esemplifica: “I simboli del Sacro non offrono un sapere assoluto, ma promettono una tensione escatologica (…) annunciano una pienezza di senso che lungi dall’essere prodotta dal soggetto, gli è donata quale assoluta novità che interpella ed orienta il vivere”. Superata è sia la freudiana archeologia del soggetto, sia la hegeliana teleologia della coscienza: la prospettiva ermeneutica inaugurata dai simboli religiosi propone l’escatologia del tutt’Altro. Quanto è oltre la storia ci interpella affinché ci si compia nella storia. Un “oltre che è prima, come origine ultima, ed è davanti, come compimento sperato ed atteso”, ma in nessun modo allestibile nel tempo. L’uomo non appartiene totalmente a se stesso e, perciò, la traccia del tutt’Altro è inscritta in lui e lo caratterizza. Siamo invitati nel tempo, da un senso che è prima ed oltre il tempo, a realizzare un progetto escatologico. Maturo è l’uomo capace di sentire il richiamo dell’Oltre. Solo così spezziamo il cerchio incantato che ci chiude tra la mortificazione di un’archeologia freudiana che ci determina a priori e la sterile esaltazione di una teleologia hegeliana che promette la conciliazione di tutti i contrari in una totalità senza resto. Come essere sicuro che in me c’è la traccia di Dio? Innanzitutto, imparando a vivere pienamente il presente, evitare la schiavitù del passato e avere il cuore rivolto al futuro. Le stesse lettere che formano il sacro Tetagramma JHWH portano a questo. Esse sono jod, hè, vav hè; tutte mute ed hanno in sé il passato, presente e futuro del verbo essere.

Maturare è andare verso la piena umanizzazione di sé. A guidarci, nella fede, è la Parola, Cristo che, insegna Tommaso, è “non una qualsiasi parola, ma la Parola che produce l’amore”; cita Agostino: ‘La Parola di cui vogliamo parlare è conoscenza unita all’amore’. Il cristiano ha memoria del futuro, di uha promessa che impone scelte nel presente. Secondo Paolo, ecco il nutrimento per la memoria dell’uomo di fede: 1) impegno nella fede; 2) operosità nella carità; 3) sperare costantemente in Cristo (1Ts 1,3). Il punto 2 interessa la prassi (etica). Una ‘spiritualità’ inattiva è autocompiacimento, ma agire senza nutrimento spirituale è frenesia ateleologica. In un uomo c’è La Presenza se c’è equilibrio, presupposto della maturità. La teologia, per i primi cristiani, era percorso personale e non lavoro a tavolino. San Bonaventura definiva la ‘scienza teologica’ un habitus affettivo che stava tra l’attività speculativa e la prassi ed il cui fine era il ‘progresso personale’. L’habitus da acquisire era la sapienza che Bonaventura riteneva essere la compresenza in noi della conoscenza e dell’amore. Il credente convive col Mistero. Non vale per l’uomo in generale? Panikkar ritiene che, non solo la parola Dio, ma anche le questioni affrontate in fisica evochino il mistero; tuttavia, se per i concetti della fisica “disponiamo o possiamo disporre di parametri che ci consentono di misurare costanti o formulare possibili leggi sul funzionamento della realtà fisica”, riguardo a Dio ciò non è dato. Manca il referente empirico: Dio non Lo vediamo, non Lo tocchiamo. Vale, però, solo sul piano empirico. Se è nel vissuto che ci interroghiamo, rinveniamo Tracce della Trascendenza che rendono sensate ‘certe’ ricerche. Dio, oserei, è visibile nel grado di maturità umana che abbiamo raggiunto. Teofilo di Antiochia: mostrami la tua umanità e io ti dirò chi è il tuo Dio. Nello stesso rapporto uomo/donna si gioca la possibilità che Dio sia tra noi. In ebraico, ish e ishah (uomo – donna)sono composti dalle lettere yod, alef, shin, he. Se l’unione uomo/donna è buona ne deriva la ‘santità di Dio’ (le lettere yod e fanno parte del Tetragramma che sta per il Suo nome impronunciabile). Se il rapporto tra i due sessi non è buono, prevale esh (da alef e shin)e significa fuoco: un fuoco che distrugge. L’umanità dell’uomo, insomma, cresce se si sviluppa un dialogo autentico sull’asse orizzontale (con altri)e su quello verticale (con Altri). Umanizza anche dialogare con chi ha interesse a Dio attingendo a categorie noetico - linguistiche differenti dalle nostre. La questione della fede è legata a filo doppio col linguaggio. Currò precisa che, più che ‘usare’ il linguaggio, lo abitiamo: “il senso della parola è dato in rapporto all’altro. Prima che parlare di qualcosa si parla all’altro”. L’altro entra nel discorso e muta in parola di risposta la mia parola. Essere abile nel rispondere significa essere responso abile, capace di responso di fronte alla parola di altri e di fronte alla Parola che è Altri. Il senso della catechesi: “servizio alla Parola non (…) statica. Parola umana investita radicalmente dal vento della Parola divina (…)che dice più di quello che dice (…)detta attraverso di me ma che non viene da me (…) che fa da eco, che fa risuonare la Parola (…)parola che comprende mentre trasmette e che mentre trasmette comprende; parola che non si appropria mai della Parola”. Il livello di umanità raggiunto da un uomo dice chi è il suo Dio. Annick de Souzenelle spiega che, nel nome Adam (Adamo), c’è il sangue: dam, sangue in ebraico, preceduto dalla A, alef che indica Elohim. Adamo significa, dunque, ‘Dio nel sangue’. L’intimità con Dio, se la lasciamo accadere, dice il peso specifico della nostra umanità e questa, circolo virtuoso, mostra Chi sia il nostro Dio. Vuole una relazione profonda con noi: ad Aronne e Maria, gelosi per l’intimità che Mosé ha con Lui, precisa che a loro parla per ‘enigmi’, ma a Mosé ‘bocca a bocca’; non ‘faccia a faccia’ come si traduce. Si tratta di un bacio! Dio parla all’uomo nel bacio, in un contatto carnale. Dio non vuole salvare un’idea dell’uomo, ma l’uomo con ‘nome e cognome’. Basorah, che in ebraico significa ‘buona novella’ ha per radice basar, ‘carne’. La buona notizia è che Dio ha interesse per l’uomo in carne ed ossa! Se filtriamo il rapporto con l’altro soltanto attraverso teorie filosofico/politiche, sociologico/ideologiche, in noi non v’è traccia di Dio. Lo sguardo teologico sull’uomo: vederci come eravamo nelle intenzioni di Dio. Dobbiamo, però, essere ‘capaci di generarci’. In Adam è inscritta la vocazione ad essere madre di se stesso: la prima e l’ultima lettera del suo nome, alef e mem, compongono la parola ‘madre’. Il nome della lettera centrale, dalet, simboleggia la ‘porta’ ed indica che Adamo deve nascere da se stesso e attraversare ‘porte’, mutare…Non si prescinde dalla parola, poiché la costruzione dell’identità è narrativa. La de Souzenelle ricorda che dabar significa e ‘parola’ e ‘cosa’, ma si può pronunciare anche deber, ‘peste’: “se non entriamo nella nostra natura profonda, proiettiamo sul mondo e sulle scritture uno sguardo che scinde ogni cosa dal suo archetipo divino…e andiamo dritti verso la peste!”. A disgregare in profondità è il rompere con la nostra vera natura. Egitto in ebraico si dice Misrayim e contiene la parola mayim, ‘acque matriciali’ e sr che significa ‘il feto’. Durante la schiavitù gli ebrei sono stati in Egitto come in un grembo materno! La maturità raggiunta permette a Mosé di farli uscire dalle acque matriciali (apertura del mar Rosso); il mare attraversato dagli israeliti si asciuga: la coscienza stabile, terrosa, emerge dall’acquatico, fluido, informe. L’Egitto è “simbolo di una tranquilla incoscienza primordiale, e il Faraone non è altro che il potere esteriore (…)che ci rassicura” ma rende schiavi. Nell’Esodo si racconta l’avventura di un passaggio che i liberati temono (gli ebrei, tra le difficoltà del deserto, rimpiangono le certezze della schiavitù). Diventare come Dio ci vuole richiede l’assunzione di rischi enormi! Un uomo che ha in sé traccia di Dio sa, però, che il deserto non è un rischio fine a se stesso, bensì preludio all’autentica liberazione. L’uomo che sente la provocazione divina in sé è l’uomo del passaggio. Ebreo si riferisce ad eber, ‘il passaggio’, ad ‘ereb, la ‘sera’. Nella Genesi la sera è il momento in cui tutto diviene oscuro, ma anche il tempo in cui si prepara la nascita di un giorno nuovo. La sera è simbolo matriciale. ‘Eber, il passaggio, avviene se dimoriamo nella ‘ereb, sera (oscurità, clausura). Che l’umanità dell’uomo riveli chi sia il suo Dio è testimoniato anche dalla struttura del creato. La prima parola del Genesi è Be – re’ sit; l’ideogramma della prima lettera, bet, significa ‘la casa abitata da Dio’…l’increato abita il creato! Nelle pieghe più riposte del soggetto è il Nome. Moseh (Mosé)è formato dalle stesse lettere – mem sin he – della parola hasem, il Nome! L’ordine di queste tre lettere viene capovolto: è – commenta de Souzenelle – “un invito a ‘capovolgerci’ interiormente, a ‘convertirci’, a ritornare alla nostra origine: al nome che noi siamo nel profondo”. L’uomo trova Dio e Lo mostra se unificato in se stesso e se i suoi archetipi sono armonizzati. Penso alla similitudine tra amen (fede stabile) ed ‘eben (pietra). Amen si scrive alef – mem – nun e pietra alef – bet – nun; il primo inizia con em di ‘madre’ e l’altro con ab di ‘padre’. L’amen, fede che poggia sulla roccia, è il rapporto sano con gli archetipi. Dio è Padre nella Giustizia e Madre nell’amore. La psicologia insegna che chi non interiorizza bene e la figura materna e quella paterna, ma solo una delle due, o diviene autoritario o eccessivamente debole; sul piano teologico, non è cosa diversa. L’uomo che vuole umanizzarsi fa i conti con l’inesauribilità della Parola e, allo stesso tempo, con la debolezza del suo dire. Sant’Efrem diacono sostiene che Dio ha “colorato la sua parola di bellezze svariate” a nostro vantaggio; vuole garantire a chi la scruta di poterne contemplare ciò che preferisce: “Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla”. Sant’Efrem precisa che nella Parola c’è più ricchezza di quanto pensiamo di aver individuato. Arricchirsi della Parola non significa portarne via qualcosa diminuendoLa! Di fronte all’inesauribilità della Parola si rende grazie: “Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi”. La Parola ci supera solo per saziarci! Nutre, fa crescere, senza impigrirci: tutta non la si può accogliere, eppure non rinunciamo a prenderne ancora un po’. Diciamo a Dio, in questo caso, ciò che un poeta disse alla sua donna: amo in te l’impossibile, ma senza disperazione. In un uomo che cerca inesausto e senza dannarsi ciò che ama, traluce la traccia di Dio. L’uomo che si umanizza in maniera difettosa giudica lo straripare della Parola un’offesa alla sua intelligenza. Le parole attraversate dalla Parola mostrano Dio com’è. Lui stesso, tuttavia, insegna che parole e nomi non sono essenziali. Nell’esodo, spiega Rizzi, Dio - dicendo a Mosé ‘io sono Colui che sarà con te’ - non mette al posto di un ‘nome ontologico’ un ‘nome dinamico’, bensì esprime un nome funzione che si risolve “nell’attestato e nella promessa. Come a dire: non importa come io mi chiami. Ciò che importa è che sarò sempre con te. Alla teologia del nome si sostituisce una teologia della promessa”. Promessa di una Presenza. L’amore è questo: l’altro ci sarà sempre per me! L’uomo deve mostrare (non dimostrare), attraverso la sua umanità, che è depositario di una promessa che non verrà dimenticata. Cirillo Alessandrino dice che, mentre il nome Dio indica il “dominatore di tutte le cose”, Padre ci fa “raggiungere la ragione di una proprietà intima, poiché è manifestare che Dio ha generato”. Già i Padri della Chiesa, dunque, sottolineavano la valenza positiva della figura paterna in teologia. Potenza d’amore e non solo autorità che impone una Legge. Alda Merini, dal versante poetico, immagina che Gesù racconti un episodio dell’infanzia: “un giorno mi trovai nel tempio. I saggi volevano provare la mia libertà. Venni posto davanti alle Sacre Scritture e le riconobbi. Sapevo tutto e spiegai qual era la soluzione dei testi: l’amore”. Per muovere nella giusta direzione riguardo alla nostra umanizzazione vale una lezione di Manicardi: distinguiamo l’utopia dall’escatologia: la prima “è una costruzione umana”; la seconda, “dono di Dio”. “L’agire cristiano, escatologico, nutre una speranza universale e si pone come istanza critica verso ogni progetto storico – politico umano”. La promessa di Dio costituisce il paradigma escatologico al quale fare riferimento per giudicare le utopiche soteriologie ideologico – politiche. Padre Delp, un gesuita morto nei lager, pregava affinché si restituisse l’uomo a uno stadio di idoneità a Dio. Si tratta di condurre lo sfigurato uomo alla Trasfigurazione; ‘sfigurato’, l’uomo deve ‘trasfigurarsi’, cristificarsi. Per realizzare questo progetto ci si deve umanizzare sulla spinta di una provocazione teologica. Il presupposto perché ciò accada lo esplicita Nouwen: fare interagire ‘onestà, coraggio e fiducia’. Avere “l’onestà di smascherare e il coraggio di porci di fronte ai nostri molti autoinganni (…)avere fiducia che questa onestà e questo coraggio ci condurranno non alla disperazione, ma a cieli nuovi e terra nuova”. Assolto questo obbligo verso se stessi, si passa a restaurare la ‘comunità’ perché l’uomo è  creatura dialogica. Nouwen ritiene che la comunità si dia grazie all’ascolto comune della Parola: “Da questo ascolto comune (…)può crescere un silenzio creativo (…). Ascoltare insieme la parola può (…)liberarci dalla tendenza alla competizione e alla rivalità”. Si devono correggere molte distorsioni interiori. L’attenzione all’interiorità è dovuta al fatto che, scrive lo psicologo Quaglia, la nostra realtà “è essenzialmente affettiva”. Per comprendere il potere edificante del patico occorre premettere che, prima “di pensarsi l’uomo si sente, e prima di rappresentarsi mentalmente il mondo nei suoi caratteri formali ha, di questo mondo, un’immagine essenzialmente affettiva”. Quaglia all’oggettività preferisce “l’importanza che una determinata verità acquista per l’uomo”. Quando si decide che a valere debba essere solo ciò che è gradito ad una analisi razionale, si compie una violenza non diversa da quella attribuita al teologico di cui ci si vuole liberare. Gli antichi prima sentivano e poi pensavano; avevano un sentimento ingenuo della vita. Seneca, a Lucilio, scrive che “gli dei ci lasciano andare verso di loro e porgono la mano a chi sale”; scrive pure che “dio (…)viene dentro agli uomini (…). Negli uomini sono disseminati germi di vita divina”. Epitteto dice che siamo ‘frammenti di Dio’ e questo responsabilizza; aggiunge: Dio “t’ha dato in mano a te stesso e ti dice: ‘Non avevo un altro più fidato di te (…)”.  Dio, soprattutto, ci affida ‘gli altri’. Se ci formiamo teologicamente dobbiamo essere capaci di donare le ragioni della nostra speranza. Dice Paolo nella Lettera ai Romani – “come avrebbero potuto credere in uno che non udirono? Come potrebbero aver udito senza uno che annuncia?”(10,14). Se abbiamo raggiunto un livello di umanità capace di annunciare la propria ricchezza e di condividerla, se la nostra parola è tanto più umana quanto più lascia risuonare la Parola, mostriamo chiaramente chi è il nostro Dio. Seguire i movimenti della nostra anima, ben concentrati, in silenzio, è fondamentale! Dobbiamo eleggere a categoria centrale del nostro essere l’attenzione. San Basilio, scrisse: “Sii attento a te stesso per essere attento a Dio”. L’autonomia dell’uomo non consiste nel ribellarsi contro tutto ciò che non capisce, ma nel liberare l’interiorità per amare Dio come vuole essere amato. Fare il vuoto in sé, fare psicoecologia non è possibile ad un uomo immaturo. Evitare ciò che non deve riempire l’io permette alla voce di Dio di fluire più liberamente in noi. Giovanni della Croce, esorta: “Impara ad amare Dio come egli vuole essere amato e lascia il tuo modo di fare e di vedere”. Liberarsi di ciò che viene dal mulinare a vuoto della mente è segno di autonomia e coraggio. Chi vince gli altri è potente, chi vince se stesso è invincibile. Gli ebrei dicono che a meritare il titolo di ‘combattente valoroso’ è colui che vince sul suo lato oscuro. Solo umanizzandoci accettando e combattendo il ‘lato oscuro’ mostriamo che in noi Dio è vivo! Non lasciamo danzare in maniera dionisiaca le nostre teorie sul tappeto delle domande di senso! Un poeta mistico indù canta: Fino ad oggi io ho molto danzato…/La cintura di illusioni imprigiona la mia vita. Slacciamo il nodo troppo stretto della nostra cintura di illusioni…Chi non si umanizza rischia di perdere Dio, gli altri e se stesso. Se dobbiamo essere mendicanti della verità è per mostrare che il Dio che inquieta il nostro pensare non ammette esclusioni, discriminazioni, ma a tutto si apre senza irenismi. Buddha paragonò al  cielo la sua dottrina perché essa dava spazio a tutti – “i nobili e il volgo, i ricchi e i poveri, i potenti e gli umili”. Bisogna dialogare con tutti per mostrare che abbiamo costruito in noi una umanità che parla di un Dio accogliente e dialogante. Essere santi come Dio è crescere nell’amore. Nel Levitico, capitolo 19, v.2, si legge: ‘Siate santi perché io sono santo’. In ebraico, santo è kadosh. La donna sposata e fedele è detta mekuddeshet (radice ‘kadosh’)e matrimonio è, dalla stessa radice, kiddushin. Dio, pertanto, nel passo del Levitico non dice ‘santificatevi sul mio modello’, bensì, ‘sposatevi con me’. La santità non è insuperbire perché si hanno qualità; anzi, Agostino dice che quando Dio premia i meriti dei santi non fa altro che coronare i doni che Lui stesso elargisce. Il teologo luterano Bonhoeffer, giustiziato dai nazisti,  conclude: “La comunità dei santi non è la comunità ‘ideale’ di coloro che non hanno peccato, dei perfetti. Non è la comunione dei puri che non lasciano occasione al peccatore di pentirsi. È piuttosto (…)la comunità di coloro che sono davvero stati oggetto della costosa grazia divina e che in essa camminano in maniera degna del Vangelo, senza venderlo a prezzi scontati o rifiutarlo”. Urgente è meditare sul valore dell’attenzione, non maniacale, a se stessi, e sull’importanza della cura di sé che non va confusa col narcisismo coltivante l’io minimo (Lasch). Agostino indica una direzione: Non ti trovavo, o Signore, di fuori, perché fuori cercavo male te che stavi dentro.  Maturiamo quando riconosciamo che il progetto di Dio su di noi è in quella insoddisfazione agrodolce che ci combatte – in ogni pensiero ed in ogni atto – rendendo il cuore inquieto. La falsa pace viene dal cuore che crede di restare a lungo quieto senza Dio; la vera pace viene dal cuore inquieto che scopre che il suo riposo è in Dio che lo scuote – come fece con Giona – per inviarlo alla Ninive interiore a salvarsi e per salvare, così, la parte di mondo che gli è stata affidata.

Credo di poter affermare, con Jüngel, che Dio è il segreto del mondo: vi è presente anche se non riconoscibile. Tuttavia, continua, se proprio dobbiamo renderceLo ‘alquanto’ presente, possiamo dire che è Cristo “la definizione reale di ciò che si intende con la parola ‘Dio’”. Egli è, potremmo dire altrimenti, avvicinabile solo a partire dalla Sua umanizzazione e Lo si può degnamente testimoniare solo a partire dal grado di umanizzazione da noi raggiunta. Se nella morte di Gesù, continua Jüngel, il ‘sì’ di Dio – che fa essere e sussistere tutte le cose – si espone al ‘no’ del nulla, nella resurrezione di Cristo il ‘sì’ di Dio si oppone al ‘no’ del nulla: “Ed è qui che si è deciso, secondo la grazia, perché in generale vi sia l’ente e non invece il nulla”. Come a dire: sempre e soltanto attraverso un processo di umanizzazione (il Creatore che si incarna nel Figlio)si può opporre il ‘sì’ della vita al ‘no’ del nulla. Questa la ragione per cui umanizzarsi sempre più è la sola possibilità di far vincere la vita, laddove la morte pare debba avere l’ultima parola. Soltanto il rendersi presente nella sarx, nella ‘carne’ di Dio può davvero interessare l’uomo adulto del nostro tempo; solo se Dio si rende traccia nel mondo presente l’uomo Lo può trovare interessante. Bultmann, scrive: “Soltanto quell’idea di Dio che può cercare e trovare l’assoluto nel condizionato, l’aldilà nell’aldiqua, il trascendente nel presente, come possibilità di incontro è recepibile nell’uomo moderno”. Aggiungerei: solo se l’assoluto Lo mostriamo concretizzato nel condizionato che siamo è credibile. Sono io il condizionato per eccellenza che dimostra – attraverso il grado di umanizzazione raggiunto – che l’assoluto abita tra noi e ci interessa perché di noi si interessa. Un uomo che non voglia essere solo un aggregato di cellule, non può non sentire lo sforzo, la fatica di aprirsi al Trascendente: “l’uomo è spirituale, cioè vive la sua vita in una continua tensione verso l’Assoluto, in una apertura a Dio”. In questa tensione si danno le occasioni vere per crescere in umanità.     

Venisse,/ venisse un uomo,/ venisse un uomo al mondo, oggi, con/ la barba di luce dei/ Patriarchi: egli dovrebbe,/ se parlasse di questo/ tempo, egli/ dovrebbe/ solo balbettare e balbettare/ continuamen-, continuamen-/ te-te (Celan)

Il cristiano ha memoria del…futuro! Il progetto – Uomo presentato nella Genesi non fa riferimento ad un’età dell’oro irrimediabilmente perduta; piuttosto, mostra come siamo nella mente di Dio in un è che indica un oggi eterno. L’uomo è ad immagine per la somiglianza di Dio. Si tratta di un progetto, di una tensione inscritta nel corredo ontologico. Dicevano i Padri della Chiesa – Dio si è fatto uno di noi perché diventassimo come Lui. Avere memoria del futuro è sapere che siamo destinatari di una promessa. Per Sartre la memoria è un lusso da proprietari. Un suo personaggio lamenta di non possedere “una casa in cui mettere il”  suo passato. Non custodendo la memoria delle nostre origini, non sviluppiamo la nostra autentica identità. Agostino distingueva la memoria continens (di tipo psicologico)dalla memoria sui che è ‘consapevolezza di sé’ (memoria forte). Sopravvive, e non bene, la prima! Viviamo nell’epoca della frammentazione e l’identità è multipla: siamo ‘uno, nessuno e centomila’. Non sarà proprio la coscienza della frammentazione a farci aspirare, con più pathos, alla completezza? Scrive von Balthasar: “Ogni frammento di un pezzo di ceramica suggerisce la totalità del vaso (…). Sarà la nostra esistenza a costituire un’eccezione? Ci lasceremo persuadere forse che quello stesso frammento che è la nostra esistenza costituisce l’intero? Ma se noi facessimo questo, non significherebbe aver abbandonato l’idea di trovare un senso alla frammentarietà stessa ed esserci rassegnati al non – senso?”. Se recuperiamo la memoria diveniamo consapevoli della nostra identità. Il soggetto è divenuto – dalla modernità in poi –  problematico: dal solo soggetto si passa al soggetto solo. Schematizziamo la parabola discendente: A) visione cosmo – ontocentrica: l’uomo è al centro del cosmo; B) visione teo – antropocentrica: Dio e uomo scrivono assieme una storia di libertà e la figura del tempo non è più ciclica, ripetitività pura, ma novità (escatologia); C) visione mono – antropocentrica: dal ‘solo uomo’ all’‘uomo solo’. Dio è una ipotesi, ormai, non necessaria! Nemmeno questo significa non poter pensare teologicamente alla storia, all’uomo. Bonhoeffer scrisse a Bethge: “questo sarebbe il momento di parlare concretamente della interpretazione mondana dei concetti biblici”. I concetti biblici, cioè, nell’ora del trionfo nazista, della barbarie aiutano ad interpretare il mondo. L’identità cristiana è pensabile facendo memoria della Parola. Identità e memoria sono inscindibili. La Parola si rinnova con fedeltà creativa. Anche nei momenti storici in cui si proclama la non necessità di Dio, le anime confessano, con più veemenza, di avere sete del Trascendente. Nietzsche fece dire a Zarathustra – che aveva “tremato, sussultato” e si era “contorto a lungo”, No! Ritorna/ Con tutti i tuoi tormenti!/ Oh ritorna/ All’ultimo dei solitari/ Tutte le mie lacrime/ Scorrano per te!/ E l’ultima fiamma del mio cuore/ Arde per Te!/ Oh ritorna/ Mio Dio sconosciuto! Mio dolore!/ Mia ultima – felicità. Quando un uomo trema, sussulta, si contorce non riconoscendosi, sporge sull’orlo della Trascendenza che è un abisso, ma giammai spaventoso come quello che gela lo sguardo quando ci pieghiamo, attoniti, su noi stessi. Whitehead – come accennavamo sopra, chiamava Dio il Grande Compagno: Dio soffre col mondo. È fondato pensare che affettività ed emozione non sono corpi estranei in teologia e la stessa parola Dio fa testo: “Si pensi (…) – istruisce Terrin - che la parola Dio etimologicamente deriva dal sanscrito div- che significa luce, giorno, splendore (…); ciò fa capire chiaramente come la parola Dio non sia nata da una filosofia e da una speculazione, ma anzitutto da un’esperienza, da un sentimento, forse da un’emozione di fronte alla grandezza del mondo e dal mistero da cui è avvolto”.  Poco conta che, per interessi di parte, si sia congelato il dettato teologico in apparati politici per controllare le persone. L’emozione primigenia che innerva la parola Dio sopravvive! Ma, poi, si è davvero perso molto da quando la religione non plasma più gli ordini sociali? Andiamo con ordine. Se siamo usciti dalla religione, va pure detto che il cristianesimo è la religione dell’uscita dalla religione. Esperienze religiose se ne fanno, ma la religione, dice Gauchet, non svolge più il “ruolo di strutturazione dello spazio sociale”; piuttosto, la sua funzione da sociale si converte in soggettiva. In un ordine collettivo ed in una forma politica vivono le religioni, ma non ne sono autrici. Se il primato, in fatto di fede, spettava al ‘dato rivelato’, ora compete al ‘soggetto’. A livello collettivo e personale, immemori del lascito teologico, l’identità diviene fatto procedurale, da costruire rinegoziandone le caratteristiche volta per volta. Questo stressa, minaccia e, conclude Gauchet, destina “a vivere nella nudità e nell’angoscia ciò che ci è stato più o meno risparmiato dall’inizio dell’avventura umana per grazia degli dei”. Ma una fede – analgesico non è mai stata la traduzione fedele del messaggio centrale della proposta del Dio di Israele, né di Cristo! Il cristianesimo, insistiamo, piuttosto deve essere scandalo, novità quotidiana o ci toccherà rispondere affermativamente al quesito di Tillard: siamo gli ultimi cristiani? Nel dolore, nell’angoscia e nella morte si risveglia la memoria dell’identità cristiana domandandoci: può avere il male l’ultima parola? Benedetto Croce scrisse un saggio: Perché non possiamo non dirci ‘cristiani’. Pezzimenti lo rilegge con accenti affettivi alla luce di alcune considerazioni di Bandinelli. Questi prende in esame il periodo in cui il giovane Benedetto patì una crisi depressiva: aveva perso i suoi cari nel terremoto di Casamicciola. Pensò perfino di suicidarsi! Croce sentì la necessità di rifarsi in forma razionale una fede sulla vita. Quando la vita minacciata o la morte di chi amiamo mettono in crisi le nostre certezze, pur filtrandole con la ragione, cerchiamo schegge di senso nella nostra memoria cristiana. Pezzimenti riporta un articolo di Severino, Perché non possiamo non dirci post – cristiani uscito sul ‘Corriere della Sera’ il 27 dicembre 2002. Analizzando le accuse di ‘relativismo, scetticismo, agnosticismo’ che la Chiesa rivolge alla cultura laica, Severino conclude: l’esistenza del divenire implica necessariamente l’inesistenza di ogni Dio eterno. Dobbiamo abbandonare il progetto che prevede il raggiungimento della somiglianza con Dio essendone già l’immagine? Sembrano noiose ed accademiche questioni; invece, sul piano esistenziale, ben altro è in gioco. Scrive Pezzimenti: “Che (…)l’esistenza del divenire implica necessariamente l’inesistenza di ogni Dio eterno (…)bisognerebbe andarlo a spiegare a gente come Massimiliano Kolbe o Salvo D’Acquisto, senza i quali avremmo qualche martire in meno e tanti morti in più. Il fatto è che la fede, per buona pace dei filosofi, trova la soluzione al problema fondamentale della vita, che è quello della morte, di fronte al quale la filosofia non sa proporre soluzioni altrettanto adeguate”. Facendo memoria di Cristo, che svela l’identità dell’uomo com’è nelle intenzioni di Dio, i martiri non trovano insensato morire per salvare altre vite. Questo è l’uomo di cui custodisce il progetto la fede: dono di sé incondizionatamente. L’ho detto sopra: “la cristologia costituisce un’antropologia profetica” (Gesché). Profetizzare è cogliere nel momento storico in cui si vive tracce di una Promessa escatologica degna di fiducia. Sta finendo un modo di essere cristiani, non il cristianesimo: “Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani” (Tillard). Chi è l’uomo? La Bibbia interroga: Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi (zakar) e (…)perché te ne curi? (Salmo 8,5). Siamo il perenne ricordo di Dio; l’uomo è una creatura di cui Dio ha cura perché non la dimentica. La mentalità moderna, ancor più quella postmoderna, giudica azzardato affidarsi a questo lascito teologico. Lessing si lambiccava il cervello: L’uomo? Da dove viene? Troppo cattivo per essere opera di Dio e troppo buono per essere il prodotto del caso! L’uomo non è il burattino di Dio e collabora alla realizzazione della Storia. Quando agisce immemore della sua identità di creatura, però, fa il male. Il cristiano sa, ma senza disperazione, di essere creatura, non un absolutus. Cozzoli ha accostato Sartre a San Paolo. Il primo, afferma che siamo condannati alla libertà; il secondo, che siamo chiamati alla libertà (Gal 5,13). In Sartre prevale una concezione della libertà autistica, irrelata perché refrattaria alla verità oggettiva. Fare della libertà una idea o una cosa è grave errore. Ci crediamo situati nella finitezza o in un orizzonte che si slarga al Trascendente? “La libertà non è un’indipendenza nel vuoto, ma un’autonomia in relazione” e, relazionandosi a Dio, si fa vocazione. Si deve rispondere ad una chiamata. Non siamo stati posti in esistenza da Dio, bensì chiamati all’esistenza. La Stein fa una considerazione: Il grande mistero della libertà della persona è che Dio stesso s’arresta dinanzi ad essa. Il giovane Hegel, scrivendo una ‘vita di Gesù’ fa dire al Salvatore, mentre saluta i discepoli prima del sacrificio, parole che invitano a riflettere sulla responsabilità di essere cristiani: “Vi lascio una guida in voi stessi: io ho ridestato in voi il seme del bene che la ragione pose in voi (…)siete diventati uomini che confidano finalmente in se stessi (…). Quand’anche io non sia più con voi, sia vostra guida la vostra sviluppata moralità”. La liberazione di Israele, spiega Cozzoli, avviene per mezzo di una esperienza…esodale. Quando si parla di libertà in ambito teologico, si fa riferimento non ad una batteria di concetti, ma si fa memoria di un evento. Questo ci conduce a quanto scrive Giovanni Paolo II nel suo ultimo libro, Memoria e Identità. Il Pontefice tratta questioni sulle quali dialogò con due filosofi polacchi: meditò con loro sulle due dittature (nazismo e comunismo) che sfigurarono il volto del Novecento. Giovanni Paolo II incontrò Tischner e Michalski – fondatori dell’Istituto di scienze umane con sede a Vienna – a Castel Gandolfo nel 1993. Contrario a vedere (come ogni vero cristiano)solo il buio della notte a discapito delle stelle, il papa chiarisce: “La storia moderna dell’Europa (…)ha prodotto anche molti frutti positivi”. Il male – lezione antica – è assenza di un qualche bene e giammai un assoluto. Evocando una pagina evangelica, il papa sostiene che sempre il grano cresce assieme alla zizzania e viceversa. “La storia dell’umanità, in sintesi, è il ‘teatro’ della coesistenza del bene e del male”. Se l’uomo volta la faccia all’amore ed alla misericordia divina è perché fa di se stesso un dio. Perde se stesso perché non ha memoria della sua origine! Scrive Evagrio: Se vuoi sapere quello che sei non guardare a quello che sei stato ma all’immagine che Dio aveva nel crearti. Una immagine fatta ‘per’ la somiglianza col Creatore. Dimentichiamo facilmente, ahimé, di essere creature. Diceva Rostand che dettiamo legge “sulle cose vitali…perché siamo penetrati nei misteri della natura” e “la scienza ha fatto di noi degli dei, prima ancora che meritassimo di essere degli uomini”. Giovanni Paolo II rintraccia l’origine della ‘superbia antropologica’ in Cartesio: subordinò l’essere al cogito ed al conosco. Mettere tra parentesi Dio causa il crollo “delle basi della ‘filosofia del male’” che “può esistere soltanto in relazione al bene e, in particolare, in relazione a Dio, sommo Bene”. L’uomo rimane solo a fare la Storia! Il male, grazie a Dio, non è stata l’ultima parola in quel secolo di idee assassine che è stato il Novecento. Al nazismo, argomenta il papa, vennero concessi dodici anni di esistenza e poi il nulla. Non dimentichiamo, però, che minacce totalitaristiche ed elefantiache pretese di uomini assetati di potere non sono reperti di epoche trapassate. Il Pontefice afferma qualcosa che richiama quanto sosteneva Pezzimenti contra Severino: “Non è divenuto forse un segno di vittoria sul male il sacrificio di Massimiliano Kolbe nel campo di sterminio di Auschwitz? E non è stata tale la vicenda di Edith Stein (…)che, bruciata nel forno crematorio di Birkeneau, condivise la sorte di molti altri figli e figlie d’Israele?”. Dare la vita per altri è il massimo della libertà (anche da se stessi). Per il papa l’uso della libertà è un problema fondamentale a livello individuale e collettivo. Si tratta di distinguere tra un ‘bene giusto’, un ‘bene utile’ ed un ‘bene piacevole’; scegliendo uno dei tre troviamo il fine delle nostre azioni. Il male è che prevale la ricerca del bene fine a se stesso! La realtà è diversa per chi è memore della sua identità cristiana: “La libertà viene data all’uomo dal Creatore come dono e al tempo stesso come compito. Mediante la libertà, infatti, l’uomo è chiamato ad accogliere e a realizzare la verità sul bene”.  Compito arduo perché facciamo i conti con un dato conflittuale: l’Europa, fondata su Cristo (pietra angolare), pure Lo rifiuta. Ci si comporta come se Dio non esistesse. Una crisi d’identità europea dovuta alla desertificazione della memoria storica ed affettiva. La soluzione del Pontefice: “prima di tutto dobbiamo imparare ad andare alle radici”. Va recuperata la memoria della nostra identità cristiana! Mi riallaccio al concetto di Chiesa rubricato nel libro del papa. La Chiesa deve essere missionaria con ‘coraggio ed umiltà’ secondo l’insegnamento di Cristo. Proprio la presenza divina rende la Chiesa sempre rinnovabile pur rimanendo fedele alla Tradizione. Giovanni XXIII, nella Costituzione Humanae salutis, del 25 dicembre 1961, scrisse che essa è “sempre vivente e sempre giovane, che sente il ritmo del tempo e che in ogni secolo si orna di nuovo splendore, irradia nuove luci, attua nuove conquiste”. Inesauribile Dio, inesauribile il fermento che mette nella Chiesa: “Mistero è la Chiesa, cioè realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni”. Sono parole che Paolo VI pronunciò in apertura del Concilio Vaticano II. Pensò bene di ricordarci che non stiamo fronteggiando una questione teologica da sbrogliare a tavolino. Nella Ecclesiam suam, infatti, Paolo VI ribadì che il “mistero della Chiesa non è semplice oggetto di conoscenza teologica; deve essere un fatto di vita vissuta, di cui, ancora prima di una sua chiara nozione, l’anima fedele può avere quasi una connaturata esperienza”.  Compito della Chiesa è annunziare il Vangelo. Si fa serva sull’esempio di Cristo che, come scrive Paolo in Filippesi 2,7, heautón ekenosen ‘svuotò se stesso’. Non si può dire, scrive il Pontefice, Cristo sì, Chiesa no! Come Cristo la Chiesa agisce svolgendo la Diakonia riguardo a tutti i ministeri: annunciare la Parola, dare i sacramenti, aiutare chi è in difficoltà. La Parola si annuncia facendo memoria soprattutto di quanto Cristo operò. Come dice San Tommaso, verbum non erit perfectum sine amore (la parola non sarà perfetta senza l’amore). E la Parola è Amore. La Gloria di Dio, qui il nerbo della teologia di Giovanni Paolo II, “è il mondo perfezionato dall’uomo secondo l’amore di Dio”. L’uomo, memore di questo compito e certo della sua identità di creatura amata, comprende che la storia umana si realizza “in dimensione orizzontale” ma “attraversata da una dimensione verticale”. Ad accompagnarci nella Storia è la Chiesa, dotata di un aspetto visibile e di un aspetto invisibile. Bisogna, però, fare i conti con chi accetta Cristo ma rifiuta la Chiesa. In realtà, spiega Biffi, rinnegandola “fatalmente si altera l’identità di Cristo, e si fa del Salvatore mandato da Dio un uomo plasmato secondo i nostri gusti e (…)interessi”. La Chiesa custodisce la memoria dell’evento cristiano e, dunque, l’identità di Cristo che non è indifferente per comprendere quella umana! Ma come definire la memoria della Chiesa? Giovanni Paolo II, non ha dubbi: materna. La memoria materna della Chiesa è incarnata da Maria: “Questa memoria materna di Maria è particolarmente importante per l’identità umano – divina della Chiesa (…)alla memoria di Maria ha attinto la memoria stessa del nuovo Popolo di Dio, rivivendo nella Celebrazione eucaristica eventi ed insegnamenti di Cristo appresi anche dalle labbra della Madre. Del resto anche quella della Chiesa è una memoria materna, perché essa stessa è madre (…)che ricorda. In grande misura la Chiesa custodisce ciò che era presente nei ricordi di Maria”. Ricco il paniere di immagini che il Nuovo Testamento mette a disposizione per parlare della Chiesa. Ve ne  sono alcune legate alla vita agricola: il podere, Rm 11, 16 – 24; 1Cor 3, 6 – 9; la vigna, Mt 21, 33 – 34; Gv 15, 1 – 6; altre alla vita pastorale: l’ovile, il gregge, il pastore, Gv 10, 1 – 6; 1Pt 5, 2 – 4; alla costruzione di edifici: 1Tm 3,15; all’amore sponsale: Ef 5, 25 – 27; Ap 19, 7; e, finalmente, alla figura materna: Gal 4, 24 – 27; Ap 12, 17. La Chiesa è sorretta dallo Spirito Santo; congedandosi dagli apostoli, dice Cristo: Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto (Gv 14, 26). Il Pontefice: “La Chiesa, dunque, quando celebra l’Eucarestia che è il ‘memoriale’ del Signore, lo fa sorretta dallo Spirito Santo, il quale di giorno in giorno risveglia e orienta la sua memoria. A quest’opera tanto stupenda quanto misteriosa dello Spirito la Chiesa deve, di generazione in generazione, la sua essenziale identità”. La Chiesa può parlare sul presente e sul futuro dell’uomo, poiché – scrive Giovanni Paolo II – “custodisce in sé la memoria della storia dell’uomo sin dall’inizio: la memoria della sua creazione, della sua vocazione, della sua elevazione e caduta”. La Chiesa custodisce la memoria dell’identità umana. Rivolgendoci ad essa possiamo sapere chi siamo. Essa, insiste il Pontefice, “è madre che, a somiglianza di Maria, serba nel suo cuore la storia dei suoi figli, facendo propri tutti i problemi ad essi connaturali”. Assumersi tutti i problemi significa mettersi al servizio dell’uomo. Come scrisse Bonhoeffer, la Chiesa è pienamente se stessa soltanto se esiste per gli altri. Alla kenosi di Cristo corrisponde quella della Chiesa che fa diakonia anche in una realtà – come quella postmoderna – nella quale si vive come se Dio non esistesse. In realtà, ha scritto un teologo, Dio manca ma non è mancato. La Chiesa svolge la sua diakonia in quella che Cox chiama la ‘città secolare’ per garantirne ‘integrità e salute’ (‘salvezza’). Il Pontefice richiama la Costituzione pastorale Gaudium et spes: “il mistero dell’uomo si svela pienamente soltanto in Cristo”. L’uomo terrestre, il primo Adamo, prefigurava l’uomo celeste, il vero Adamo, Cristo (GS n. 22; 1Cor 15, 45 – 49). Di questo progetto la Chiesa è, come Maria e con Maria, custode. Senza memoria teologica è difficile darci una configurazione antropologica, una identità: “La memoria di Maria e quella della Chiesa servono (…)a far ritrovare all’uomo la propria identità a cavallo dei millenni” – dice Giovanni Paolo II. Per quanto si critichi, si contesti la Chiesa, non si può negare che custodisca la memoria di un progetto sull’uomo di rilevante spessore. Riflettendo sulla scelta di un suo amico di uscire dalla Chiesa cattolica, Carlo Carretto scrisse nel 1987: “Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle a capo (…). Ora (…)comprendo (…)che aver fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore (…)che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità. No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una pietra così debole, perché ne fonderei un’altra su una pietra ancora più debole, che sono io. E poi cosa contano le pietre? Ciò che conta è la promessa di Cristo (…)il cemento che unisce la pietra (…)lo Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo è capace di fare la Chiesa con delle pietre mal tagliate come siamo noi!”.   

 

Siamo in una epoca di dispersione della Parola, perché trionfano le parole parlate piuttosto che quelle parlanti. Essere martiri oggi equivale a farsi – per riprendere un poeta russo – crocifiggere coi chiodi delle parole contenute nella Rivelazione. Si tratta di ricondurre le parole sacre maltrattate a Dio, affinché le restauri nel loro potere si significare e di realizzare ciò che annunciano. L’esempio, pur iperbolico,  efficace per noi è quello di Rabbi Chananya, condannato al rogo dai Romani perché si ostinava ad insegnare la Torà. Per rendere il supplizio ancora più feroce, lo avvolsero nella pergamena umida di un Sefer Torà; la pergamena, così, brucia più lentamente! Gli allievi, che assistevano a quello strazio, chiedevano ‘Cosa vedi?’ Rispose il martire: Vedo le lettere della pergamena che si staccano dal testo e volano verso il cielo. Lassù il Signore le raccoglierà e ce le restituirà quando i tempi saranno migliori. Giovanni Paolo II e molti testimoni del nostro tempo, avvolti dalla e nella Parola, hanno conosciuto il rogo dei dolori: sofferenze fisiche, violenza sulla propria pelle e su quella dei deboli amati dai vri cristiani. Hanno contribuito a far volare le lettere che costituiscono la Parola, violate dalla crudeltà umana, a Dio. Se vogliamo che la Parola continui ad operare, che ci venga restituita integra e testimoniata da uomini  simili, occorre fare in modo che i tempi siano migliori. Si badi: la speranza non è un’attesa pigra e i tempi non devono essere migliori, ma dobbiamo renderli migliori. Disse il rabbino Hillel: Più Torà (Parola), più vita. E la vita, per l’ebreo, (Gesù conferma)deve essere piena e pienezza fa riferimento al senso e non all’affollare la vita di cose.     
  
Il teologico può essere, anche questo è un insegnamento di Giobbe, la via maestra per giungere al senso. C’è stata più di una voce che si è levata contro l’indebolimento dell’attenzione verso temi teologici. Giovanni Chimirri, infatti, ricorda che Hegel lamentava che, un tempo, il sapere era in primo luogo una scienza di Dio; nel moderno, invece, “il progresso di altre scienze sembra limitare questi bisogni”. Il pensatore tedesco si domandava se valga “la pena impegnarsi a conoscere ogni cosa se poi Dio è inconcepibile”. Wittgenstein, nei Quaderni, il 2 giugno 1916, scrive che del mondo sa soltanto che è e contiene un nucleo problematico: il suo senso. Un senso non mondano, ma rintracciabile altrove: Dio. Chi crede in Lui sa che i fatti del mondo non sono tutto. Chi crede in Dio vede che la vita ha un senso. Non che un sapere laico sia necessariamente sterile; resta, piuttosto, da chiarire che c’è laicismo e laicismo: si può decidere di non far pesare nel campo politico i propri convincimenti religiosi e si può scegliere anche di non dare spazio alle ragioni della fede nell’ambito strettamente personale. Importante è mantenere costante il livello di discutibilità: fare della propria fede un luogo di accoglienza e non un giardino coltivato in solitudine e in perenne stato di diffidenza verso quanto sta fuori. Senza questa premessa cercare il senso attraverso la fede traligna nella volontà di imporre agli altri un cammino. Sottrarsi alla tirannia dei ‘fatti del mondo’ non deve condurre all’errore opposto: indirizzare unicamente la ricerca del senso fuori dal mondo. Ma se i saperi positivi intendono parlare del mondo e dell’uomo saccheggiando i dizionari dei gerghi specialistici, cosa si può opporre per sostenere la ‘validità’ del lessico teologico?

Diciamo che il linguaggio ordinario e quello filosofico possono trovare innesti vivacizzanti nel vocabolario teologico. Perché? Il cardinale Newman sottolinea come in ambito religioso ci si esprima, per lo più, attraverso narrazioni, visioni. Se la storia cristiana è di tipo ‘soprannaturale’, pure si rende accessibile al logos umano descrivendo atti compiuti dal Creatore; una descrizione, per Newman, “in un certo senso teatrale”. Il testo biblico non contiene la descrizione del mondo come è; piuttosto di come potrebbe essere. Si aprono variazioni immaginative: il modello della forza può essere soppiantato da quello della donazione di sé; l’uomo ricco non ha beni, ma è un bene per l’altro, ecc…Il testo, per dirla con Ricoeur, offre “una proposta di mondo, di un mondo tale che io possa abitarlo per progettarvi le mie possibilità più proprie. In questo senso di manifestazione, il linguaggio, nella sua funzione poetica, è sede di una rivelazione”. La Bibbia è costituita da linguaggi tradizioni: è un libro di libri! C’è sempre da meditare e rimeditare. Qohelet (1,8)insegna: l’orecchio non è mai pago di ascoltare. Alla nostra sete di ascolto corrisponde l’inesauribilità della Parola donata, Parola efficace. Come spiega Vital, l’uomo giusto e pio che studia La Parola, secondo la tradizione ebraica, emette dei suoni con la bocca dai quali vengono creati ‘spiriti’ ed ‘angeli’.

Si tratta di chiarire come occuparsi delle provocazioni teologiche possa essere qualcosa che realmente interessa il soggetto che, Rosenzweig, indicava nell’uomo con nome e cognome. La sensatezza del confrontarsi con la visione teologica della vita dipende dal fatto che non è possibile pensare alla rivelazione di Dio senza, allo stesso tempo, meditare sul destinatario di essa (Alfaro). Bergson si pose una domanda: “come introdurre e far vivere in noi un pensiero altro, una vita diversa dalla nostra? (…). Come credere in quello che non si può comprendere, e a che giova crederci?”. Lo scandalo del cristianesimo sta nella richiesta ‘perentoria’ di lasciar essere un io altro che non entra a viverci per modifiche accidentali, ma per una revisione ontologica dell’io. Giobbe, in fondo, vuole spezzare le parole della tradizione teologica proprio per consentire l’urto della sua esistenza con la Parola affinché riscriva il senso della sua vita. Anche in accezione cristologica, poi, farsi invadere e pervadere dal Logos sarx, dal Verbum caro,  fa scaturire una nuova prassi: si cristifica l’io e tutto ciò su cui si riversa! Si attua una pedagogia cristiana. Il cristianesimo, secondo la lezione della Prima lettera di Clemente, è paidéia en Christô (educazione mediante Cristo). In tutto questo, bisogna stare attenti a non pensare ad un rapporto esclusivo tra Cristo e l’anima del credente. Non si fa necessariamente ‘buona teologia’ mettendo a rischio la valenza ecclesiale delle fede. C’è teologia senza Chiesa? Garante della positività di un rapporto simile è la Chiesa. Benedetto XVI, allora Prof. Ratzinger, ribadì che senza fervente attività teologica, la Chiesa diviene ‘immiserita e cieca’; ma sottolineò pure che una teologia sciolta da ogni riferimento alla Chiesa diviene infruttuosa degradandosi nell’arbitrario. Paolo descrive una esperienza personale, ma si configura anche come oggettiva realtà: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20). Il convertito ha appena, brevemente, esposto la sua vita: dagli eventi esteriori che lo hanno mutato ora passa a dire cosa – o meglio, Chi – lo ha ontologicamente rinnovato. Mentre ci viene comunicata una esperienza personale ci viene mostrata la oggettiva realtà del cristianesimo. Benedetto XVI tiene a sottolineare che in questa esperienza si inaugura un processo in cui si muore! La vecchia soggettività è soppiantata da un altro io. Blondel, come ricordato poco fa, aveva dunque ragione ad affermare che il grande e delicato problema della fede è come lasciar vivere in noi una vita che non è la nostra. Questa sconvolgente accoglienza dell’Altro senza riserve è l’esperienza personale del soggetto credente e, allo stesso tempo, ciò che tocca a chiunque voglia dirsi cristiano. Non si tratta di una esperienza mistica che interessa solo chi la fa, ma è l’oggettiva realtà di ogni battezzato. Chiediamocelo: nella società contemporanea questa esperienza paolina, personale ed oggettiva ad un tempo, ci parla ancora?

La religiosità, oggi, pare non interpretabile né a livello socio – filosofico, né teologico – razionale. Ci si affanna a collezionare frammenti delle grandi narrazioni religiose per ricavarne nuclei di senso validi per se stessi o per un gruppo ristretto di adepti. Si parla di religione fai da te. C’è un ‘ritorno della domanda religiosa’, ma pure va calato lo spegnitoio sulle iperboli fiammeggianti che si accendono intorno al fenomeno. Oggi si sperimenta una individualizzazione del sentimento religioso: i precetti religiosi più non regolano la vita delle comunità, ma ci si dà ad una variegata, multiforme ‘ricerca spirituale soggettocentrica’. A partire dal secolo XVIII, secondo Gusdorf, l’ortodossia confessionale non ha più un ruolo centrale. L’interesse per le religioni cede sempre più terreno alla ricerca esasperata della migliore terapia spirituale per sentirsi bene! L’Io tronfio ed autoreferenziale di certa filosofia moderna si ridimensiona nell’Io minimo (Lasch). Erompe un narcisismo letale: distrugge la possibilità di relazionarsi in  orizzontale col prossimo ed in verticale, con Dio. Cencini, Cantelmi ed Orlando pensano che il narcisismo origini dalla paura dell’altro e dal non accettare che all’origine della nostra vita c’è la benevolenza d’un Altro. Non significa essere miseramente subordinati ad una potenza estrinseca, ma di coltivare il ‘senso del limite’ perché creature e non creatori. Se l’unico scopo è ‘sentirci bene con noi stessi’, non solo la vita religiosa, ma anche le relazioni umane, ne escono impoverite. Hendin, studiando la popolazione giovanile americana del Novecento, parlò di età della sensazione: la maggior parte degli atti compiuto dai giovani era finalizzato a procurarsi sensazioni piacevoli ed immediate. La fede cristiana, invece, invita all’agape, al dono di sé senza pretese. Boltanski spiega che “l’agape, definita dal dono, non si aspetta un ritorno, né sotto forma di oggetti, né nella veste immateriale di amore in cambio. Il dono dell’agape ignora il controdono”. Una uscita da sé senza pretese. L’uomo, nell’ottica dell’agape, è quello con ‘nome e cognome’ e non un fantasma teoretico. L’agape si esercita nei confronti dell’uomo che si vede; questo fa sì che ci si rivolga all’altro in carne ed ossa garantendo un sano realismo nei rapporti umani. Se la ricerca religiosa non si concretizza in agape, ma si blocca nell’angusto perimetro di una soddisfacente atmosfera spirituale, si impone la tesi di Rimbaud: l’uomo ha finito, ha recitato ogni parte.

Non sorprende se qualcuno chiede: non è la ‘proliferazione dei discorsi’, come si evince nell’etica della comunicazione, a garantire un futuro? Se non tutto è stato detto, se il dialogo della comunità è infinito come si può essere pessimisti?  Santiago Zabala annuncia il cambio di prospettiva avvenuto nel lavoro filosofico: si sovverte il ‘programma platonico’ e si richiamano gli uomini unicamente alla loro storicità. Ormai, non si cerca più la verità, bensì, si tenta di giungere ad un consenso su questioni di interesse generale che appaia come verità. La metafisica è stata soppiantata dalla conversazione:  gli argomenti in discussione vanno, se possibile, accordati, armonizzati evitando il ricorso a qualsiasi autorità fuori dall’intesa dialogica. La moltiplicazione dei punti di vista, liberamente a confronto, entusiasma ma, a ben vedere, si tratta di una proliferazione sconsiderata: se le opinioni nessuna autorità superiore disciplina, nulla vieta che una di esse possa prevalere ricorrendo alla forza. Non sono del tutto d’accordo con Zabala quando sostiene che l’uomo postmoderno vive senza ansia essendo sotto il giogo leggero delle mezze verità. Positivo, invece, che queste mezze verità continuino a far discutere democraticamente e pacificamente; insomma, si salvano almeno i rapporti tra persone. Hillman afferma che la solitudine del soggetto non rappresenta una conquista di libertà, bensì una minaccia: se non mi relaziono con altri (edifici, animali, piante), non sono. Al sono perché penso subentra il sono perché partecipo. Non cogito ergo sum, ma convivo ergo sum. Bisogna aver cura non soltanto del nostro simile, ma anche del mondo: “per altri – esplicita Hillman - intendo non solamente la gente, ma l’ambiente”. Una religiosità soggettocentrica, egocentrica, distogliendoci da un rapporto autentico con i nostri simili e le realtà terrestri, avrebbe effetti distruttivi: ciò che divide è  sempre diabolico. Quale modus pensandi può, dalla specola della mentalità laica, aiutare ad affrontare questi temi? Il pericolo, in realtà, di là della tragica contrapposizione di stili di vita e di pensiero, viene dal fatto che non si pensa più in grande! In ambito religioso rigettiamo i cosmi sacri macroinglobanti per rifugiarci sotto ombrelli sacri. Lodevole è che alcune nuove religioni si occupino dell’ambiente, ma occorre tener presente che deve curarsene un uomo animato da una etica derivante da una antropologia sana e che faccia guardare al bisogno di umanizzazione piena come ad un impegno costante. L’uomo consapevole del grado di umanità raggiunto riverbera questa consapevolezza anche sull’ambiente in cui vive! Solo quando Giobbe viene ristrutturato a livello antropologico (per mezzo di una teofania)riottiene i beni materiali. Mac Luhan, lo studioso che coniò l’espressione ‘villaggio globale’, scomparve dall’università nella quale insegnava. Dopo molte ricerche, un giornalista lo ritrovò nelle Ande: stava tentando di salvaguardare i condor. Invitato a motivare la sua scelta, rispose che salvare quegli uccelli era di importanza fondamentale: non perché il fine in sé fosse quello di salvarli, ma soprattutto perché abbiamo un gran bisogno delle qualità che si devono sviluppare per salvarli, qualità che salveranno noi stessi. Era un uomo che pensava in grande, che è ben altra cosa dall’essere megalomani. 

Ma se la società è totalmente cambiata, se le problematiche sono altre, come giustificare il fatto che facciamo ancora i conti con certe questioni? Sul fondo, credo, si agitano, fossero pure filiformi ed evanescenti, inquietudini inestirpabili dal cuore umano. Ad ogni buon conto, Ricoeur a ragione manifestava grande perplessità di fronte all’abbandono delle numerose eredità occidentali: giudeo – cristiana, greco – romana, rinascimentale, illuminista…Si ricerca il nuovo solo perché si oppone al vecchio. Prevale l’atteggiamento di Hesse: bussava a quante più possibili porte del Paradiso: Bibbia, Leggende e Corano. Bisogna stare attenti a non confondere una posizione saggiamente ecumenica, con un atteggiamento di indifferente ed acritica apertura a qualsiasi proposta di pensiero o religiosa. Si risente anche in campo religioso degli sconvolgimenti apportati da quella che il sociologo Bell definì era post – industriale. Drucker parlò di età del discontinuo e, Toffler – studiando l’esagerata accelerazione dei tempi – di choc del futuro. Brzezinski parla di società tecnetronica. La parola è composta da tecno (allude al trionfo della tecnica)ed, abbreviata, elettronica: la nuova tecnologia delle comunicazioni elettroniche apre una nuova era. Le informazioni proliferano sempre più. Toffler dice che respiriamo in una nuova infosfera. Le informazioni creano una loro atmosfera nella quale vivono e si moltiplicano. Se l’era industriale divideva il tempo in ore, minuti, secondi, il computer parla di nanosecondi, millesimi di microsecondi. Come ci si può fermare e pensare l’altro/Altro, il mondo, attraverso il paradigma dell’agape? Avere il tempo di donarsi, di sviluppare la gratuità è un compito che richiede una pazienza ciclopica e certosina allo stesso tempo. Toffler sottolinea che gli sconvolgimenti epocali che ci aggrediscono mutano non solo la tecnosfera, la sociosfera, la biosfera, bensì anche la psicosfera. Una nuova fede prende il posto del grande progetto teologico: quella che Stonier e Masuda definiscono la democratizzazione delle informazioni. Sostengono che perfino la guerra può essere eliminata grazie ad essa. Possibilità di apprendere per tutti significa, a loro dire, rendere tutti aristocratici, tutti filosofi e la velocità con cui risolviamo i problemi supererà quella con cui si presentano. Si dimentica che non tutti possono (e potranno)accedere alle informazioni caricate allegramente di potenza soteriologica. Se diffondere informazioni è un business, che interesse si avrà a renderne partecipi quelli che non possono pagare? Inoltre, risolvere problemi velocemente non appaga l’uomo che si pone questioni che, come in Giobbe, provocano il mistero ed invocano il senso. Non è paradossale che, nell’era della tecnetronica, ci si rivolga a maghi, santoni e poco importa che questo oscurantismo di ritorno si concretizzi attraverso le sofisticate vie di Internet o della Tv satellitare. Il fatto è che se si annunciano come disseccate le tradizionali fonti del senso e le stesse agenzie laiche delle moderne etiche non convincono, cosa resta? Una pezzo di legno, per quanto fradicio, appare al naufrago tanto utile quanto una zattera. L’ottimismo tecnocratico non risponde alle domande di senso di cui si occupa l’escatologica cristiana accessibile a prescindere dalle potenzialità economico – socio – culturali dei destinatari. Una cosa significa essere utenti delle aziende che vendono informazioni, un'altra essere persone destinatarie di una buona notizia (Vangelo)che parla di un progetto d’amore.

Insomma, si comunica tantissimo pur restando soli? Lévinas dice che rispondere a qualcuno è già rispondere di qualcuno. Ciò vale per rapporti virtuali, costruiti in rete? Hillman si chiede: se esisto solo se sono collegato, quando sono da solo, fuori dal circuito, che sono? Niente! Non posso essere raggiunto. Esistere, oggi, vuol dire essere raggiungibile. Hillman sostiene che la ‘comunicomania’ è la sindrome del nostro tempo. L’altro è gradito solo se ha qualcosa di utile o piacevole da comunicarci. La gratuità della relazione (agape)è out. Accogliere l’altro, lo straniero, ad esempio, non è opportunismo. Si chiede Barbara Spinelli: cos’è l’ospitalità? – “una scelta morale, non naturale”. Si è quasi sempre tentati di eliminare il fastidio della presenza altrui, ma c’è una opzione che apre scenari alternativi nella proposta cristiana: l’agape! Questa è paradossale: la libertà mia cresce consegnandomi all’altro! Ma perché ci si vuole liberare dell’altro? Per il nostro invincibile bisogno di sicurezza. Sono libero se sono al sicuro. Nelle nostre società paure, fobie e rimedi ad esse si rincorrono nevroticamente. Sarebbe sensato e coraggioso, oltreché produttivo, porsi la domanda fondamentale: L’altro non è in noi? Il soggetto non è polifonico? Non abbiamo una identità se non ci pensiamo plurali. Stiegler spiega che siamo consapevoli della nostra identità restando fedeli anche a ciò che siamo stati. Gli accadimenti accidentali nella vita ci donano questa pluralità a prescindere se ne siamo o no consapevoli. A volte, accadimenti non previsti o imprevedibili, conducono ad una sterzata drastica verso modi di essere che non avremmo mai scelto. Non accade lo stesso a Giobbe? Le identità che siamo stati non sono impalcature smontate e gettate tra ferri arrugginiti appena raggiunto un certo livello di costruzione di se stessi, ma operano in noi tuttora. Questo è teologicamente fondato. Gesù incontra Pietro intento al suo lavoro: nella vita del futuro apostolo c’è un evento non provocato da lui, imprevedibile. Ebbene, per diventare pescatore di uomini, Pietro non deve fare altro che attingere all’esperienza lavorativa fino a quel punto svolta: quella di pescatore, appunto. L’altro, il pescatore di uomini è già nel vecchio pescatore di professione. Io, in questo senso, sono già l’altro. L’altro fuori di me mi disturba, impaurisce perché mi ricorda che in me c’è uno straniero. Non vogliamo conoscerci e ci sfilacciamo nel divertimento o ci fasciamo nei pannicelli caldi di sensazioni piacevoli, di una armonia a basso costo col cosmo. Tutte panacee garantite dalle religioni fai da te. Goethe scrisse: Conosci te stesso! E che ci guadagno? Se mi conosco, devo sparire subito/È come se venissi a un ballo mascherato/per togliermi subito la maschera. Progresso, invece, sarà quando avremo il coraggio di passare dalla maschera al volto.


Ed il progetto antropologico della teologia può, a mio avviso, se rettamente inteso, favorire questo mutamento. Baget Bozzo sottolinea che la potenza umanizzante del cristianesimo deve operare proprio quando l’uomo è invaso da ciò che lo snatura. Le religioni divengono sempre più interessanti quanto più veniamo occupati da quella ‘potenza straniera’ che è la tecnologia. Per Baget Bozzo il segreto dell’uomo è custodito proprio dalle religioni. Un suo pensiero da meditare recita che se la religione vive nell’ombra in Occidente è anche vero che la religione è vissuta come ombra dall’Occidente. Un’ombra da non disconoscere. Le provocazioni teologiche, come certi valori, si sono privatizzate non polverizzate. Farneti sostiene che il canone assoluto di riferimento del moderno è il soggetto autonomo e ciò è sembrato ‘naturale’. Giobbe, invece, ha mostrato che il rapporto con gli altri, pur conflittuale, serve anche a confrontarsi per stabilire il modo più giusto di rapportarsi a Dio; inoltre, illustra la fecondità contenuta nell’atto – apparentemente blasfemo - di rivolgere il proprio grido di dolore al Trascendente. Giobbe è l’antitesi del soggetto moderno che tutto, anche l’anelito religioso, chiude nei limiti della ragione (Kant). Farneti, inoltre, ritiene che fare dell’individuo autonomo e razionale un canone moderno di assoluta evidenza è una potente finzione sostenuta da chi ha interesse a vedere realizzati i propri obiettivi di teoria politica. L’io teologico, uscendo da questa potente finzione, racconta la sua dipendenza da Altri. Sarà bene, ad ogni modo, tenere conto, come fa Hillman, che tra ‘paganesimo’ e ‘Cristianesimo’ c’è un quotidiano urtarsi nella psiche occidentale. Ricuperare la nostra identità cristiana non deve farci dimenticare che l’Europa ha intrecciate con essa anche schegge di ebraismo, frammenti di cultura islamica, greca e romana. E se prevale l’atteggiamento di fuggire da una religione ritenuta aspramente dogmatica resta che, col Cristianesimo come con altri nutrimenti storico/spirituali europei, siamo costretti a fare i conti. A Laura Pozzo, Hillman ha detto che dieci ore di conversazione basterebbero appena per una superficiale esposizione degli effetti che millenni di cristianesimo hanno in ogni persona che lui, da psicologo, incontra. Chiaro che ciò non basta a dirsi ‘veramente’ cristiani. Le tracce devono diventare percorsi significativi se non si vuole rischiare di fare del cristianesimo un cascame di un atteggiamento meramente nostalgico o un invitato non gradito nella sala già movimentata della nostra psiche.


Si ottiene qualcosa di buono attaccando chi vivacchia nel supermarket delle religioni? Non amo il verbo ‘attaccare’ e, prima di stigmatizzare quanti si servono al supermarket delle religioni, chiediamoci sul serio cosa può il Cristianesimo dirci per umanizzarci. Ci si rivolge alle religioni orientali perché danno molto spazio al corpo (yoga), dicono gli esperti. Il cristianesimo, invece, appare interessato solo all’anima ed è pregno di opinioni negative  circa la sessualità. Vero? In primo luogo, oggi sul valore del corpo ci si pronuncia con troppa enfasi. In realtà, il Cristianesimo, ponendo a fondamento del suo discorso la ‘dignità della persona’ (anima/corpo e non ‘anima e corpo’), insegna a curarsi del corpo evitando le secche di un estetismo deleterio. Cosa stanno diventando, in realtà, i corpi? Donna Haraway ha scritto che la distinzione tra ‘naturale ed artificiale’ tende a scomparire perché i corpi non nascono, si fanno; stiamo diventando dei cyborg: il corpo viene ad essere sempre più costituito da innesti di hardware e protesi. La studiosa conclude che è in gioco la fine dell’uomo in senso ‘occidentale. Siamo certi che per opporsi a questo basti una solitaria, egoistica e narcisistica cura del proprio corpo? La proposta cristiana non è deficitaria in merito alle esigenze dell’uomo incarnato. Già Ireneo precisava che l’uomo, e non una parte dell’uomo, riceve il dono di essere ad immagine e somiglianza di Dio; il Creatore impresse questa somiglianza alla creatura perché essa riuscisse l’immagine di Dio anche nel suo aspetto esteriore. Tertulliano ribadì che tutto quello che è stato provveduto e promesso all’uomo non è dovuto alla sola anima, ma anche alla carne. La teologia biblica non propone una antropologia non dicotomica. Giobbe riceve una soddisfazione morale nella teofania, ma ritrova pure la salute ed i beni materiali. Il messaggio della fede ci dice che il grido dell’uomo viene preso sul serio soprattutto quando è dalla carne straziata che sorge! Dio ristabilisce la giustizia non attingendo ad un codice, ma traendo la risposta alle iniquità all’interno di se stesso. E dentro, ha l’amore. Ecco perché Heschel sostiene che la sorgente della giustizia è Dio, ma non è amministrata con freddezza: “il suo pathos è etico”. Dio è personale e, dunque, l’ethos è ricco di pathos. Nella storia di Israele, ma anche di singoli credenti, la giustizia divina non è mai separata da un coinvolgimento affettivo di Dio. Non c’è mai giustizia arbitraria in Dio, ma essa è sempre attenta alla condizione nella quale opera l’uomo. Conclude Heschel: “l’ethos è inerente al pathos”. La giustizia non viene mai amministrata con freddezza ed insensibilità. Altro luogo comune da sfatare: non è vero che l’uomo di fede ricerchi ed osanni il male fisico o ne sminuisca le conseguenze! Il cristiano può e sa essere realista. Turoldo, pur riconoscendo una valenza positiva al dolore, ne sottolineò il carattere disumano. Confessò che nelle notti in cui il male che l’affliggeva era davvero forte, gli era parso persino più chiaro il motivo che spingeva molti ad invocare l’eutanasia. Detto da un sacerdote non è poco! Non è insensato, concludeva, attingere a parole di consolazione quando qualcuno soffre, ma se il dolore si fa davvero crudele, la sola soluzione è il silenzio. L’uomo di fede non finge che il dolore, la sofferenza siano dolciumi. Il cardinale Villot, arcivescovo di Parigi, soffriva atrocemente per un cancro in fase terminale; ebbene, confessò: Noi sappiamo dire belle frasi sulla sofferenza. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non parlarne, se non per conoscenza diretta: noi ignoriamo ciò che essa è fino a quando, come è successo a me, non ne piangiamo.


Non è che le sacre Scritture aiutano la nascita di certi equivoci? Il danno deriva, credo, piuttosto dal fatto che le leggiamo in malafede. Si accusa spesso la Bibbia di essere la causa delle prepotenze che l’uomo infligge all’ambiente e solo perché Dio gli affida la terra e quanto contiene. Il tema meriterebbe più spazio, ma chiarisco subito un punto: l’uomo viene eletto signore nella creazione, non della creazione. La sua signoria è finalizzata alla diaconia (servizio). L’uomo è in relazione col creato e non gode di una tirannica superiorità su di esso. Il credente eredita un mondo che Dio ama. Come giustamente scrive Heschel, “Dio e l’uomo hanno un compito in comune e anche una reciproca responsabilità”. Giobbe, ad esempio, chiamando insistentemente Dio in causa, lascia capire che non si può affrontare il tema dell’armonia del creato, intaccata dal tarlo del male, facendo perno solo su di un ego cartesiano. Dio è responsabile quanto noi del mondo e condivide con noi il compito di far vincere il ‘sì’ della vita contro il ‘no’ del nulla. Per questo, la tradizione ebraica sostiene che Dio creò e costituì il mondo con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, la bet perché è segno di benedizione (in ebraico, berakah). Anche se l’alef è la prima lettera ed è quella del segreto più alto, non venne scelta perché concorre a formare la parola ‘arur che significa ‘maledetto’. Per non far posto alla ‘parte maledetta’, l’alef non venne scelta. Segno d’amore di Dio per il mondo. C’è relazione profonda tra uomo e mondo nella fede ebraica che, sappiamo, costituisce la ‘radice’ della fede cristiana. Nello Zohar si dice che ogni organo nell’uomo ha la sua controparte nel mondo e che il corpo umano ed il corpo terrestre sono l’immagine della Torah. Con le lettere della Torah Dio ha creato: ogni lettera emana una energia vitale ed una particolare potenza individuale. Si dice, ispirandosi a Genesi 1,6 (Ci sia un firmamento), che i cieli furono creati proprio per mezzo di queste parole! Tutta la Torah non è che un unico nome di Dio. Passa, nell’ebraismo, l’idea che Dio protegga il proprio Nome non per orgoglio, per gelosia, per conservare il privilegio dell’Onnipotenza, ma per fare esistere il mondo e le creature. Il mistico Abulafia diceva che ‘HWY è il vero originario Nome di Dio che neppure la Torah rivela; YHWH, invece, è una protezione, un involucro del Nome segreto. Perché? La tradizione mistica dice pure che Elohim fosse un involucro protettivo del Nome vero. Elohim indica e la ‘potenza’ e il ‘ritirarsi’; il suo valore numerico - gli ebrei riconoscono alle lettere un valore numerico – (gematria)corrisponde a ha – teva’ ‘la natura’. Ritirandosi, Dio lascia essere le cose e le creature. Un nascondersi che salva! La protezione del Nome vero si dà affinché (luce e forza vitale del Nome)non si rivelino alle creature e non le cancellino dalla realtà. Tale potenza e tale ritrarsi sono anche aspetti della clemenza su cui è edificato il mondo: (…)potenza racchiusa nella clemenza (Zalman). Se la potenza divina si esplica senza omettere la misericordia, può pretendere l’uomo di esprimere una incontrollabile volontà di potenza? La crudeltà umana verso natura ed animali, dunque, non deriva dal dettato biblico.


La grandezza dell’uomo, dunque, qui sarebbe ben dosata con i suoi limiti? Penso così! Ma completo il pensiero espresso poco fa: secondo la gematria le singole lettere del sacro Tetragramma YHWH danno la cifra 17 che è lo stesso valore numerico della parola tov ‘ciò che è bene, ciò che è buono’. Si tratta della parola con la quale Dio approva quanto ha creato! YHWH stesso è bene e non può che vedere il bene in ciò che crea. Sarebbe concesso all’uomo il contrario? Si vuole dall’uomo un comportamento umile e non titanico! Si dice che il Mondo futuro è stato creato con lo yod che ha la forma di un accento, una forma ricurva: oltre che a simboleggiare la piccolezza, la modestia, indica che – come la sua forma è ricurva – così si curveranno e prostreranno i superbi nel Mondo futuro. La lezione teologica ci ricorda, se vogliamo umanizzarci e rendere sempre più umano il mondo, che dobbiamo lasciare, direi con Lévinas, i cespugli di Adamo. Dopo aver disubbidito a Dio, Adamo – sentendosi chiamare dal Creatore – si nascose: aveva paura di Lui, dell’Altro! Tutti, dice Lévinas, hanno cespugli dietro i quali occultarsi per non affrontare le proprie responsabilità. Quello che ci fa crescere in umanità, invece, è una esposizione estrema alla convocazione attraverso Altri. Lévinas comunica la sua esperienza: Io sono stato da sempre esposto alla convocazione della responsabilità, come posto sotto un sole di piombo, senza ombra protettrice. Se qualcuno attribuisce alla Bibbia quello che Huizinga definì lo scempio del mondo, rifletta: le interpretazioni fanno agire (operazione non innocente)gli stessi testi in maniera differente in epoche ed in circostanze diverse. Maalouf opera una riflessione che voglio leggere da questi appunti fedelmente: “Tutte le società umane hanno saputo trovare, nel corso dei secoli, le citazioni sacre che sembravano giustificare le loro pratiche del momento (…). Il testo non cambia, è il nostro sguardo a cambiare. Ma il testo non agisce sulle realtà del mondo che tramite il nostro sguardo. Il quale si ferma a ogni epoca su certe frasi e sorvola su altre (…). Per tale ragione, non mi sembra che serva a nulla interrogarsi su ‘ciò che dicono veramente’ il cristianesimo, l’islam (…)non è l’essenza della dottrina che bisogna prendere in considerazione, ma i comportamenti nel corso della Storia, di coloro che le invocano”. Questo autore sente forte il bisogno di precisare anche che “le peggiori calamità del XX secolo in materia di dispotismo, di persecuzione (…)non sono imputabili al fanatismo religioso ma a fanatismi (…)che si atteggiavano a nemici della religione (…)stalinismo (…)nazismo (…)dottrine nazionalistiche (…). Il XX secolo ci avrà insegnato che nessuna dottrina è, di per sé, necessariamente liberatrice (…). Nessuno ha il monopolio del fanatismo e nessuno (…)quello dell’umano”.


Cosa proporre per tentare una conclusione (pur sempre provvisoria)? Siamo in una epoca che privilegia il fare e non si preoccupa di comprendere, invece, cosa valga la pena fare. Anche fare una scelta in ambito religioso non è questione da poco, né faccenda completamente privata. Shakespeare sostenne che se saper cosa sarebbe bene fare fosse semplice quanto il fare, le case dei poveri sarebbero dei palazzi principeschi. Se, nelle scelte di fede come nelle questioni politiche, la difficoltà di pensare e giudicare viene utilizzata per giustificare il disimpegno intellettuale e pratico, sottoscriveremo i versi di Kavafis: Mi alzavano muri, e non vi feci caso/Mai un rumore, una voce, però di muratori/Murato fuori del mondo e non vi feci caso. Si può finire, come in sonno, nella trappola di un sistema politico totalitario e non è escluso che i mattoni di una fede religiosa (non pensata nei presupposti e non giudicata per le sue degenerazioni)concorrano all’innalzamento di muri occultanti letali menzogne. Bisogna, perciò, coltivare la modestia teologica; sì, quella che manca agli amici di Giobbe. L’uomo è ammirevole perché tenta, con tutte le sue forze, di arrivare quanto più vicino a Dio, ma se non vuole scivolare nel demoniaco, se non vuole perdersi in un delirio di onnipotenza, deve aver chiaro che cercare l’Onnipotente, ad un certo punto, è cammino che si arresta affinché l’Onnipotente possa cercarlo. Ha detto van der Leeuw: “L’homo religiosus segue la strada dell’onnipotenza, dell’onnicomprensione, del senso ultimo; cerca costantemente nuove superiorità, tanto che alla fine raggiunge il limite e vede che non raggiungerà mai la superiorità ultima, ma che essa raggiunge lui, in modo incomprensibile, misterioso”. Giobbe giunge fin dove si proietta il suo grido, ma è Dio che, laddove lo sforzo umano non poté, si rivelo. Giobbe non otterrà una ‘prova dell’esistenza di Dio’, ma si vedrà donare una ‘prova dell’esistenza dell’amore di Dio’.

Mi sono spesso chiesto, elaborando questo saggio, se la parola teologica può umanizzare il linguaggio e la prassi  politica. La prima cosa da sottolineare è che – parafrasando quanto Hölderlin dice dell’uomo – Dio è un colloquio. La pericoresi è la vita intratrinitaria di Dio: le Tre Persone sono in perenne comunione. Questo dialogo interno al divino deve diventare un modello antropologico che faccia comprendere che anche noi, come effettivamente diceva il poeta tedesco, siamo un colloquio. Se prevale la figura del Dio solo, unico, sovrano assoluto, la politica può farne, secolarizzandone il modello, la giustificazione più ferrea e suadente delle proprie aberrazioni. Con chiarezza invidiabile l’ha spiegato Moltmann: “Solo quando la dottrina trinitaria supererà la concezione monoteistica del grande Monarca universale che vive in cielo (…)nessun sovrano, dittatore e tiranno di questa terra potrà trovare un qualche archetipo religioso che lo giustifichi”. Quando Giobbe non consente che il mistero di Dio venga sequestrato totalmente entro le pur giustificate teologie dei suoi amici, combatte preventivamente contro tutte le possibili catture mondane e politiche di Dio. Lui dice di conoscere quanto gli amici adducono a chiarificazione del suo stato di sofferenza e non disprezza quel sapere se non quando pretende di essere esaustivo e di aver catturato tutte le modalità possibili nelle quali il divino può agire. Un Giobbe contemporaneo griderebbe anche contro una politica che dimentica di avere, quale proprio ‘centro’, l’Uomo? Bonhoeffer dona una frase che invita a pensare sul serio a cosa debba significare far parlare nelle proprie parole (in ambito teologico e politico)la Parola: Si deve pronunciare la Parola di Dio in modo che il mondo sia rinnovato. Il mondo conoscerà il riscatto dell’uomo quando non saranno più i centri di potere e di interesse a parlarne, ma griderà l’umanità che è in noi un definitivo alla vita piena ed autentica. Trovano, ormai, più spazio le parole avvelenate degli interessi partitici fortemente contrapposti che non la Parola dell’uomo di Nazareth che disse dell’uomo in riferimento al progetto di Dio. Nelle parole parlate e non parlanti riversate con opprimente abbondanza nella nostra stressata capacità d’ascolto, non compaiono i nomi dei più deboli e non si fa volentieri riferimento ai loro diritti. L’ideologia partitica risente di un linguaggio privato del vocabolario etico teologico: il povero, l’orfano, la vedova, lo straniero…Chi se ne occupa davvero? Chi, però, vuole pronunciare con sincerità la Parola di Dio e vuole essere credibile, non può non fare ogni sforzo affinché il mondo sia rinnovato; non può non lottare affinché sia l’Uomo e non i centri del potere (politico ed economico)a parlare di umanità ed umanizzazione. Un Giobbe contemporaneo, alle lamentele elevate per una teologia che non prende sul serio angoscia e sofferenza, accompagnerebbe un grido per denunciare le offese arrecate all’uomo da certa politica. Un poeta russo che ha dovuto fare i conti con l’inumanità di un regime ci ha lasciato dei versi illuminanti: Non avevano un partito Adamo e Eva,/l’arca fu ideata dall’apartitico Noè./Tutti i partiti con sorrisetto maligno/L’inventò il diavolo – ha cattivo gusto./E forse nel cuore della mela stessa,/qual verme era racchiusa – verme e serpente in una –/la politica – professione di origine diabolica –/e gli uomini sono inverminiti poi./La politica inventò la polizia,/la politica inventò i capi/contò la persona viva con l’unità/e suddivise gli uomini in partiti./Dov’è della vedova il partito, del mutilato, del pellegrino,/del bambino e della famiglia il partito dov’è?/Un giorno, un giorno, un giorno,/ai trisnipoti dei tempi odierni tutti i partiti/verranno a mente come remota cosa,/come selvaggia, stragrande Babilonia./ E un mondo ci sarà senza mutilati sul sagrato,/senza storpi morali al potere,/e un unico partito in esso:/il suo semplice nome – uomo. (Evtusenko, Monologo dell’uomo di dopodomani). Un novello Giobbe non dovrebbe solo spezzare una teologia incapace di fare i conti con le esigenze patiche dell’uomo, ma anche una politica incapace di ascoltare il grido del sofferente mentre attorno a lui molti si inebrino con le immagini di una economia globale che universalizza non solo opportunità, ma anche ingiustizie

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