«La fede è un intreccio di luce/e di tenebra: possiede abbastanza splendore per ammettere,/abbastanza oscurità per rifiutare,/abbastanza ragioni per obiettare,/abbastanza luce per sopportare il buio/che c’è in essa, abbastanza speranze/per contrastare la disperazione, abbastanza amore per tollerare/la sua solitudine e le sue mortificazioni./Se non avete che luce, vi limitate/all’evidenza; se non avete che oscurità/siete immersi nell’ignoto./Solo la fede fa avanzare» (Louis Evely).
Introdurre una riflessione sulla fede, sul credere ed il rapporto che intrattengono con la “volontà”, mi porta immediatamente il ricordo di una frase del poeta tedesco Goethe: credere è il “tema più profondo della storia del mondo, l’unico vero, l’unico importante”. Il suo discorso, va detto, non mirava direttamente alla fede cristiana, ma noi possiamo innestarlo nell’impianto che ci apprestiamo ad allestire. Della fede si può parlare a partire da molte strade. Valensin, ad esempio, era convinto più dalla bellezza che dalla verità del credere; aggiungeva: credeva perché lo voleva dopo aver visto quanto basta per voler credere. C’è mai – oso già provocare – una volontà di credere che non sia decisione nostra e che non debba limitarsi a muovere da quanto basta affinché il voler credere inizi ad operare?Credere trova il proprio significato, potremmo dire, nel rendersi conto che siamo amati (Mauriac); si crede quando si ha anche la capacità di convivere con i dubbi (Guardini).
Sull’asse ideale che tracciamo unendo la tesi dello scrittore francese Mauriac a quella del teologo svizzero Guardini, matura questa convinzione: pur alimentando la nostra “volontà di credere” con la certezza di sapersi amati, la fede matura se convive con i dubbi che assalgono anche il cuore e la mente del più convinto cristiano. Schutz, a tal proposito, aveva ragione nel dire che, chi ha fede, quando dice “credo”, non può non aggiungere (come nel vangelo marciano), ‘Signore, vieni ad aiutare la mia incredulità’. La volontà di credere si rafforza non in maniera autonoma, ma aprendosi all’Altro che, per primo, sceglie di entrare in rapporto con me. Pierre Talec non sbagliava quando affermava che molti non sanno credere perché non sanno vivere: chi non si adopera a crescere come uomo morale, spirituale, non allestisce in sé quelle “strutture d’accoglienza” che Dio desidera abitare nella storia. La volontà di credere, dunque, coniuga contemplazione ed azione perché, ai crocevia della storia, Dio ci incontrerà soltanto se all’appuntamento andremo, in armoniosa compagnia, col fratello.
Perché credo? Io credo perché ne ho bisogno. Ho razionalmente bisogno di sentirmi salvo: di salvezza dall’assurdo, dal nonsenso, dal niente di senso assoluto. Ho bisogno di credere per poter sperare che il carnefice non abbia l’ultima parola sulla vittima innocente (D. Antiseri, filosofo)
C’è una domanda tesa tra due poli: uno “filosofico” e l’altro “teologico”: «È possibile riconoscere un fondamento agli enti finiti?» [1]. Filosofico in quanto si tratta di un quesito che non prescinde dalla “ragione” e teologico visto che non si può – a priori – escludere un’apertura sul Trascendente! La ragione, cioè, riconosce che, se gli enti finiti devono avere un “fondamento” che li “garantisca”, non si può rinvenirlo in quanto è, allo stesso modo di essi, “finito”. Solo il maggiore può garantire il minore. Se gli enti finiti sono autoreferenziali, allora, non resta che la disperazione: sono fatti per la morte! Si tratta, però, più che di ragionare intorno ad un fondamento non – finito, di credere in esso. Per noi cristiani, la domanda di Sequeri esige sforzo razionale, ma non rende refrattari a provocazioni Trascendenti: vogliamo credere nel Fondamento.
Che non sia “visibile”, che non sia un elemento di spicco nel catalogo del fenomenico, poco importa; per noi, il Fondamento non è qualcosa, bensì Qualcuno. Non “conoscenza” (soggetto di fronte ad oggetto), ma “relazione reale e vitale” (Soggetto di fronte ad un soggetto). Un di fronte che si gioca nella certezza dell’invisibile intimamente sentita: «Come il cieco avverte il sole senza vederlo, così l’anima Dio» [2]. Dio si avverte e questo basta a voler credere.
La fede deve essere aiutata dalla “volontà”, dall’impegno costante nel volerla aumentare. Agostino, diceva: Cetera potest homo nolens, credere non nisi volens (mentre tutte le altre cose l’uomo può fare, anche non volendolo, credere può farlo solo volendolo) [3].
La fede non è mai stata semplicemente un adattamento spontaneo all’inclinazione della esistenza umana; è stata invece sempre una decisione che chiama in causa il nucleo più profondo dell’esistenza, che esige dall’uomo una conversione di rotta ottenibile unicamente tramite una risoluta determinazione (J. Ratzinger, ora Benedetto XVI)
Anni fa, un cardinale e teologo italiano, intercettò una tra le più spinose questioni che catturano l’uomo postmoderno: «Si sente da molte parti questa domanda: che cosa possiamo ancora credere? Dopo tante teorie, tante discussioni di esegeti, di teologi e di psicologi della religione, tante reinterpretazioni del cristianesimo in chiave sociologica o psicanalitica, su che cosa possiamo ancora fondarci per credere e sperare nella nostra esistenza quotidiana?» [4]. Martini, accogliendo questa domanda che viene “da molte parti”, rafforza la domanda iniziale di Sequeri: si può credere in un fondamento che dia senso alle cose? Esegeti, psicologi, teologi e vari critici del cristianesimo hanno rovesciato sul “bisogno di credere” tanta di quella materia che pare impossibile ad un singolo uomo porsi la questione: c’è ancora qualcosa in cui credere? Su che cosa – dice il nostro autore – “possiamo ancora fondarci”? C’è, dunque, volontà di rinvenire un “fondamento affidabile” al fondo del nostro esserci.
Dibattersi tra teorie sociologiche, teologiche, psicoanalitiche inquieta e rende perennemente dubbiosi, ma questo non è del tutto negativo; infatti, il “dubbio” – sotto un certo aspetto – può valere molto per chi cerca Dio. Un filosofo e poeta basco ha parlato di agonia del cristianesimo: non intendendo dire che esso sia, ormai, agonizzante e prossimo a morire; in realtà, si vuol mostrare che esso è agonico, è “lotta”. Questo stesso autore diceva che “credere”, per lui, è “lottare con Dio”. Lotta che si svolge anche nel “dubbio” e, questo, anzi, ha molto a che vedere – anche etimologicamente – con una visione agonica del cristianesimo: «Dubitare ha la stessa radice, quella del numerale duo, due, di duellum, lotta. Il dubbio […] agonico o polemico, rispetto a quello cartesiano, o dubbio di metodo […] suppone la dualità del combattimento» [5].
Se Dio esiste, chi è? Se non esiste, chi siamo? (Gesualdo Bufalino, scrittore)
De Unamuno dice una cosa di fondamentale importanza per comprendere come la domanda sul “senso” delle cose, sul “fondamento” passi dal piano filosofico a quello teologico: il dubbio, che nella filosofia cartesiana era questione di metodo, inteso come lotta (duellum - agonia) all’interno della ricerca dell’uomo di fede, si eleva a questione di vita o di morte! La volontà di capire, sapere propria dell’uomo teoretico diviene volontà di credere nell’uomo di fede. Chi si mette nell’atmosfera agonica del cristianesimo, lotta con Dio e – laddove le difficoltà si fanno insormontabili – non rinuncia alla ragione né al sentimento; non trasforma il silenzio in indifferenza o assenza dell’Altro, perché il duellum nel quale consiste il dubitare non lascia mai feriti soltanto a nostro danno se, come Giacobbe, davvero “lottiamo con Dio” e non con un simulacro. La “volontà di credere” deve essere sempre più “volontà di credere nel vero Dio” a prescindere dalla situazione nella quale lottiamo. Un autore ebreo, riflettendo sulla difficoltà di credere dopo la Shoah, scrisse:
«Ci rimarrebbe sempre una possibilità […] che rimase anche a Giobbe di discutere con Dio confidando in lui, di dubitare mentre crediamo in lui, di cercare con l’intelletto e di sapere tuttavia col cuore. E mentre cerchiamo una risposta, lo lodiamo come gli antichi rabbini: ‘Chi è come te, nostro Dio, potente nel silenzio’» [6].
Chi vuole credere anche nelle situazioni più disperate, dunque, rinviene la particolarità (positiva) di Dio anche nella potenza del Suo silenzio!
L’atto di fede, in tal senso, ha che fare con la “volontà” il che non deve mai venir confuso con una intromissione nel credere del “volontarismo”. La volontà, qui, infatti, è illuminata dalla ragione che trova nell’esperienza storica che l’uomo fa di Dio materia per riflettere sulla possibilità di eleggere a fondamento degli enti finiti (altro modo per dire “Senso”) il Trascendente.
Per me, la prova dell’esistenza di Dio è la gioia che provo al pensiero che Dio esiste (René Le Senne)
La ragione, tuttavia, è ben formata quando sa dove arrestarsi; di fronte, insomma, a quelle ragioni del cuore – come diceva Pascal – che la ragione non intende. Ci sono più cose in cielo di quanto ne possa sapere la nostra filosofia, diceva un personaggio di Shakespeare! L’atto di fede, il credere resta sempre in tensione tra “chiarimento razionale” e “cattura da parte del mistero”. Un teologo gesuita ha precisato che «l’atto di fede è un mistero per lo stesso credente… il credente non potrà mai analizzare né razionalizzare pienamente la sua chiamata alla fede» [7].
Chi crede, pur avendo “volontà” di accrescere la propria fede, può tuttavia rimanere interdetto riguardo alle “ragioni” della sua credenza; d’altro canto, Alfaro ci dona un avverbio illuminante: pienamente! Se fosse possibile – in qualche modo e misura – “razionalizzare” la nostra “chiamata alla fede”, pure non accadrebbe “pienamente”! Non siamo in una atmosfera nella quale la “razionalità” è la sola autorizzata a respirare; anzi, può entrarci parzialmente! Quanto è “oggettivo”, qui, entra in tensione dialettica con il “soggettivo”. Il soggetto della fede trova fondamento (ne è costituito) nell’oggettivo della Rivelazione; tuttavia, il soggettivo – nella volontà di mantenersi accogliente – valorizza la grazia donante dell’oggettivo. Si tratta di un ragionamento che un teologo italiano esprime in questi termini: l’atto di fede è
«un processo dove si opera una interazione continua tra l’oggettivo, che dà la forma, e il soggettivo, che da esso è fondato e costituito… Un autentico cammino di fede cristiana è necessariamente un’esperienza nella quale non vengono ridotti né l’oggetto, né il soggetto, ma l’oggetto forma il soggetto e, quindi, si ripresenta, personalizzato, nel soggetto credente»[8].
Il fatto principale nella storia del cristianesimo sta in un certo numero di persone che affermano di aver veduto il Risorto (C. S. Lewis)
C’è – indubbiamente – uno sbilanciamento in favore del Trascendente perché Dio ci ha amati per primo! L’uomo di fede non si eleva a Dio fondando unicamente sulle proprie forze, su riti (come invece fa l’uomo religioso), ma è Dio che viene ad assumere quanto è nostro per elevarlo in forza di questa assunzione [9]. La volontà di credere ha un obiettivo lumeggiato da Agostino nel Sermone 272: essere quel che riceviamo e ricevere quel che siamo, il Corpo di Cristo! Si vuole credere per aderire a “Qualcuno” e non per dimostrare “qualcosa”. Per avere – diciamo con Paolo – gli stessi pensieri di Cristo ci si sforza di credere. Nell’Antico Testamento troviamo già la volontà di sperare, di attendere… “Speri Israele nel Signore” (Sal 131, 3); “Israele attenda il Signore” (Sal 130, 5 s.). Sperare – attendere: il binomio nel quale si sintetizza e concreta il tutto dell’uomo di fede, che vuole relazionarsi al Dio che viene. È Dio la Verità nella quale si “spera” e Colui il quale è “atteso”; una Verità, dunque, non necessitata per “via teoretica”. Se non c’è certezza razionale riguardo alla “Verità”, l’uomo di fede, mosso da una certezza ragionevole, pure la “vuole” e lo dimostra nella sua ferrea “volontà di credervi”. La “ragionevolezza” deriva dall’affidarsi a quanti sono stati testimoni oculari della salvezza concretizzatasi nella vicenda umana di Gesù. Perché rifiutare a priori quelle testimonianze? Spesso non sono né edificanti (si veda la fragilità di Tommaso nel credere in spirito e verità, le paure di Pietro a dirsi discepolo del Cristo…), né convenienti visto che vengono da ebrei vissuti in una cultura religiosa spesso in contrasto con il dettato evangelico! Riguardo, poi, all’“amore per la Verità”, valga quanto un sacerdote, filosofo e martire russo, Pavel Florenskij, confessava:
«Io non so se la verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno […]. Forse non esiste, ma io l’amo più di tutto ciò che esiste […], per lei rinuncio […] persino ai miei quesiti e ai miei dubbi» [10].
Cristo è la risposta totale di Dio alla domanda totale dell’uomo (A. Manaranche)
Che l’atto di fede esiga sforzi non da poco è dovuto al fatto che Dio non può mai apparirci come forza che possiamo manipolare; Egli è indisponibile proprio perché Amore!
Si “rende disponibile”, ma non a nostra discrezione. Un Dio, il nostro, che si fa servo (vedi Cristo nella lavanda dei piedi agli apostoli), ma non è servile; un Dio che non manca di intervenire nella Storia, ma non se ne rende l’unico protagonista, né interviene esclusivamente secondo i desiderata del fedele perché, come insegnano i profeti, i Suoi pensieri non sono i nostri. Dio è l’imprevedibile necessario. C’è, ci sarà, ma i modi nei quali si manifesterà non possono diventare materia gestibile a partire dal basso. In passi veterotestamentari, quali Michea 2, 6 – 7 ed Amos 5, 15, compare l’avverbio ebraico ulaj che, in italiano, si traduce forse. “Forse il Signore avrà pietà del resto di Giuseppe”, dice Amos… L’uomo vuole credere, ma può farlo solo giocando l’atto di fede all’interno dell’ulaj; laddove, malgrado il “forse”, la volontà di testimoniare non si arrende, c’è fede, sguardo profetico sulla Storia. Sul significativo e rivelante avverbio ebraico ha così riflettuto uno studioso italiano:
«“Forse” non è ancora tutto perduto […]. Il profeta deve fare di tutto perché duri questo “forse” […] per offrire al popolo ancora una chance […]. L’avverbio ulaj ricorre più di quaranta volte nella Bibbia ebraica […]. Quando la nave sulla quale si trova Giona sta per sfasciarsi a causa della tempesta, il capo dell’equipaggio gli si accosta e gli dice: […] Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo (Gn 1, 6). Il “forse” è sempre questione di vita o di morte» [11].
Il “dubbio” – come anticipavamo con de Unamuno – è questione teoretica in filosofia, ma nella fede in gioco c’è la vita! Lottare con Dio non è come lottare per un concetto o una idea; se un concetto o un’idea si rivelassero fallimentari, muoiono sistemi di pensiero; se il Fondamento/Dio si rivelasse impalcatura di cartapesta, invece, falliremmo il “Senso” nel quale ne va della vita. Il profeta, il credente, devono fare di tutto affinché duri il forse (ulaj) che, se da un lato ci affaccia sull’incertezza, dall’altro ci apre gli occhi sulla speranza. Sarà la volontà di credere nel Dio/Amore o nei suoi surrogati a dire da quale versante finiremo col pendere con tutto noi stessi.
Nelle intenzioni, Gesù sia il nostro fine;
negli affetti, il nostro amore;
nelle parole, il nostro argomento;
nella azioni, il nostro modello (Josemaria Escrivá de Balaguer)
Il “credere” non può essere un parapetto, una ringhiera metafisica sulla quale appoggiarci per non naufragare nel “mare agitato” del non senso! La volontà di credere in Dio la si gioca tra i marosi delle tristi vicende storiche dalle quali veniamo (e, forse, non del tutto ne siamo usciti). Un “atto di fede formale” non basta, né giova costruire ragnatele di funambolismi metafisici intorno al nome/Dio, ma si gioca il proprio credere stando nel “cuore del mondo” per compiere lo sforzo di portarlo quanto più accosto al “cuore di Dio”. Un teologo luterano che i nazisti impiccarono perché non si era limitato a fare teologia a tavolino, in una delle lettere che inviò dal suo luogo di prigionia, ci offre una lezione indimenticabile: «Non è l’atto di religioso a fare il cristiano, ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo» [12]. Si noti: Bonhoeffer non parla di atto di fede, ma di atto religioso; cioè, non è il compiere “esteriormente, formalmente” atti religiosi che rende “cristiani”, ma la condivisione del dolore di Dio gettandosi, senza risparmio, nella “vita del mondo”. Non si sta in pace, sebbene si sia uomini di pace, quando si ha la volontà di vivere nel mondo la relazione con Dio. Di per sé, poi, la fede è sancta inquietudo (San Bernardo).
Chi fa teologia non deve tralasciare lo sforzo di testimoniare Dio nel mondo immettendo in esso una forza critica corrosiva e facendo della volontà di credere una spinta sovversiva (non una rivoluzione ideologico/politica). Si tratta di attuare ciò che Karl Rahner disse in visita allo scolasticato di Pullach: «io sono venuto qui per lanciare pietre in acque stagnanti e provocare onde in acque troppo tranquille»[13].
Feconda è pure la provocazione di una teologa tedesca del Novecento: si tratta di credere in Dio in modo ateo; credere, cioè, eleggendo «un modo di vivere […] senza vantaggi metafisici nei confronti dei non cristiani» e, tuttavia, mantenendo intatta la «memoria della causa di Gesù nel mondo» [14]. Tenere viva la “volontà” di far memoria della causa di Gesù nel mondo deve avvenire senza ausili metafisici, trucchi teoretici che eliminino le asperità disseminate sul cammino della testimonianza. Un testimoniare che, come quello di Bonhoeffer, non teme di farsi martirio volontario perché, non atti religiosi ci qualificano cristiani, bensì atti di fede compiuti soffrendo con Dio nella vita del mondo. La stessa Sölle, d’altro canto, chiedeva: abbiamo imparato che una vita cristiana senza impegno politico è ipocrita? Voler credere senza anche voler prendere parte alla vita di Dio nella vita del mondo significa – saldando la lezione di Bonhoeffer a quella della Sölle – essere non “cristiani”, bensì “ipocriti”!
Quando avrai Dio nel cuore, possederai l’Ospite che non ti darà più riposo (P. Claudel, poeta)
Dal cogito cartesiano in poi, si è sempre più tentato di conferire “centralità” e “spessore” al soggetto fino a riscriverlo e configurarlo come il Soggetto. Una egologia sempre più ingombrante ha condotto alla prepotenza dell’antropologia soggettocentrica. Si è convertita la “volontà di credere” in una accesa (e, per certi versi, disperata) nietzschiana “volontà di potenza”. L’io, ogni “io”, si è imposto come “Unico”. Max Stirner, non a caso, apre la sua opera più importante con una affermazione irritante: «Non c’è nulla che mi importi più di me stesso» [15]; ebbene, la conclusione di articola in tono sommesso: «Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, e io posso dire: io ho fondato la mia causa su nulla (auf nichts)» (cit. p. 381).
Nella fede cristiana, invece, il “singolo” acquista consistenza quanto più si pone in relazione reale, vitale, con l’Altro/altro. Ci si personalizza sempre più, ma per essere in maniera crescente responsabili verso se stessi e verso gli altri: una “crescita non egologica”, insomma. C’è un passo di Ezechiele (18, 31): ‘Liberatevi da tutte le iniquità commesse e formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo’. Chi ha familiarità con i libri profetici, sa bene che, in altri, casi, è Dio stesso a promettere un cuore nuovo, un cuore di carne al posto di quello pietrificato tipico del peccatore, dell’idolatra. In questo caso, invece, è il soggetto ad accendere la volontà di cambiare che, in ambiente biblico, vale come volontà di tornare al Dio di Israele. L’uomo può evitare di convertire la “volontà di accrescersi” in atto demoniaco (come accade in Stirner) solo e soltanto se anima una “volontà di crescere come soggetto morale”. Il passo di Ezechiele veniva così commentato da un pensatore ebreo del Novecento: questo profeta
«ha superato tutti i suoi predecessori. Tutti costoro infatti hanno solamente profetizzato del cuore nuovo e dello spirito nuovo che Dio darà… Ma Ezechiele dice: fatevi da voi stessi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Ora l’individuo perviene alla piena maturazione nell’io […]. Soltanto adesso l’uomo diviene padrone di se stesso… Egli è un’unità autonoma spirituale perché morale. La capacità di conversione dal precedente cammino di vita gli conferisce il valore di questa unità sovrana» [16].
La santità è lasciare che Dio faccia riapparire nell’uomo la sua immagine (Gregorio di Nissa)
La “volontà” del soggetto è volta ad un fine buono quando appronta in sé una “struttura di accoglienza” dell’Altro; se si dà un potenziamento del soggetto “fine a se stesso”, il fine è diabolico. La Rivelazione è anche (ovvio non la si possa ridurre a ciò) un potente correttivo antropologico: impedisce che l’io giganteggi solitario tra progetti di dominio cieco ed incontrollato degli esistenti. La Rivelazione impone di mettere in conto che la volontà di accrescersi è il fondamento della volontà di credere. A noi spettano alcuni compiti, ma se siamo “uomini di fede”, sappiamo anche che senza l’intervento della Grazia possiamo ben poco:
«la capacità sistematizzatrice, costruttivo – attiva del soggetto non può essere sopravvalutata a svantaggio della forza di Dio che esprime e afferma se stessa nella sua testimonianza storica. Nel vangelo la capacità di credere dei discepoli è completamente sostenuta e operata dalla persona rivelatrice di Gesù» [17].
Nel potenziamento dell’io che avviene lontano dalle provocazioni teologiche, la “volontà” rischia di curvarsi su se stessa, ma per prendere l’abbrivio verso traguardi egologici forieri di guasti storici sperimentati particolarmente nel Novecento. Nella ricerca di una fede più salda, invece, non possiamo operare da soli ed abbiamo bisogno di affidarci. Nell’atto di fede, la “volontà” di accrescere la fede stessa, dunque, si apre all’incontro con Altri che si afferma nella storia, in Gesù, come “persona rivelatrice”. Nel rivelarsi in Cristo Dio ci rivela a noi stessi ed indica in quale direzione muovere riguardo alla volontà di essere pienamente noi stessi. Nella fede l’io si progetta arrischiandosi perché, se l’io costruito teoreticamente è un’opera del pensiero e si pretende – ad un certo punto – conclusa, l’atto di fede si mantiene aperto a continui accrescimenti che, tuttavia, sfuggono alle seduzioni di una antropologia patrocinatrice di una elefantiasi dell’io. C’è, a parte tutto, differenza tra “opera” ed “atto” e, nell’ambito della “fede”, lasciarla oscura è letale. Un teologo del Novecento ha fatto, su questo, provvidenziale chiarezza:
«Quando un uomo agisce, egli appronta certamente un’opera, si occupa di qualcosa che poi rimane acquisito. Invece l’atto esiste solo nell’agire, non è mai “acquisito”, “bell’e fatto” […]. La fede non è un’opera che si possa esibire, e non è una mia proprietà, ma un modo di realizzarsi (ein Wie) della mia esistenza storica» [18].
La fede non è ciò che si congela in un “fatto”, bensì si apre sempre al “farsi” facendo incontrare la nostra volontà di credere con la volontà di Dio di donarsi.
Comportiamoci come si conviene a templi viventi di Dio, perché si sappia bene che il Signore abita in noi (San Cipriano)
Wohlbert, suggestivamente, asserisce che Cristo viene quasi sempre raffigurato con gli occhi azzurri perché i credenti non hanno fatto mai altro che fissare gli sguardi verso il cielo! Si vuole l’Oltre… e l’Oltre ci cerca. Una volontà reciproca di “incontro” infiamma Creatore e creatura. L’iniziativa, però, è di Dio. La teologia giustifica e conduce a maturità l’antropologia, non viceversa!
Gesù, infatti, è non un uomo progressivamente divinizzato, ma un Dio progressivamente umanizzato (L. Couchoud). Qui si ha il rovesciamento della “volontà di credere dell’uomo religioso” in “volontà di credere dell’uomo di fede”: mentre il primo parte dal basso, il secondo sa che può “volere” e “fare” qualcosa perché dall’alto viene presa una iniziativa imprevedibile, inaspettata. Una volta che la Volontà divina di incontrarci si è realizzata in Cristo (storicamente), tocca a noi animare la volontà di portare sempre più lontana questa inaudita novità di Dio: il Cristo, ha scritto un gesuita geologo del Novecento, si compie a poco a poco, con la somma dei nostri sforzi individuali, attraverso l’età (P. Teilhard de Chardin). Cristo, poi, viene a porre, afferma Cacciari, domande “così radicali” da impedire alla fede di risolversi in “religione civile”.
L’opera meramente umana della costruzione di sé e del mondo tende a risolversi in una forma ritenuta finita, compiuta; l’atto di fede è, all’opposto, work in progress svolto sotto la guida di un Altro. Nessuna volontà politico – ideologica può sequestrare la volontà divina e farne la garante per i propri disegni: volontà di credere significa anche non accettare per definitiva nessuna idea, teoria che ritenga di poter trasformare l’incatturabile, libera iniziativa di Dio (sempre nuova) in una forma. Dobbiamo voler credere da “testimoni” e non da “padroni” della “Verità”. Si finisce, altrimenti, per voler noi garantire la veracità di Dio con ragionamenti, teologie che rendono ogni grido di dolore, ogni richiesta di senso da chi ha difficoltà a credere perfettamente risolvibile in schemi a priori che, in quanto opera finita, ultima, non risultano essere graditi a Dio che è sempre antico e sempre nuovo! Pur non accettando tutto della sua visione teologica, vale la pena citare il teologo modernista G. Tyrrel.
Il gesuita irlandese, in Lettera confidenziale ad un amico professore di antropologia (1906), rispose ad un collega che, assillato da dubbi di fede, gli chiedeva: si deve credere a ciò che non ammette dimostrazione? Si deve uscire dalla Chiesa? La risposta di Tyrrel – che la si condivida o no – getta un fascio di provocazioni interessanti: sì, si deve uscire dalla Chiesa,
«se l’intellettualismo teologico ha ragione, se la fede significa l’appropriazione mentale di un sistema di concetti intellettuali; se il cattolicesimo è prima di tutto una teologia, o al più un sistema di osservanze pratiche regolate da questa teologia; no, se il cattolicesimo è soprattutto una vita e la Chiesa un organismo spirituale alla cui esistenza noi partecipiamo, se la teologia non è che un tentativo di formulare e comprendere tale esistenza, tentativo che può fallire totalmente o in parte senza che ne soffra il valore e la realtà di detta esistenza» [19].
Chi ha fede, vede con gli occhi di Dio (Tommaso d’Aquino)
Cerchiamo di ripercorre i momenti della risposta di Tyrrel:
è giusto uscire dalla Chiesa e non credere se
“prevale l’intellettualismo teologico”; se “la fede si riduce a padroneggiare sistemi infarciti di concetti”; se “il cattolicesimo coincide totalmente con la teologia o con una prassi asservita ed ispirata da concetti allestiti da una teologia intelletuale”;
non è giusto uscire dalla Chiesa e non credere se
“il cattolicesimo è ‘vita’ e la Chiesa non si limita ad essere una istituzione mondana, bensì soprattutto si dà come ‘organismo spirituale’ che esige e consente la nostra partecipazione; se “la teologia è consapevole di procedere per tentativi e non elargendo certezze indiscutibili”; se “i fallimenti della teologia non valgono a togliere ‘valore e realtà’ alla ‘vita di fede’ svolta nell’agonico tentativo di rafforzare la ‘volontà di credere’”. Si tenga sempre presente una frase di Lutero che – resa impermeabile da certe esagerazioni – può costituire un ammonimento prezioso per chi svolge certe ricerche: Appena hai pronunciato la parola di Dio, il diavolo viene a cercarti in casa, per fare di te un vero teologo. Nel rafforzare la “volontà di credere” attraverso lo studio della teologia, dunque, può esserci un grande pericolo. Sopra citavo von Balthasar e, il segmento finale della sua frase, recita: Nel vangelo la capacità di credere dei discepoli è completamente sostenuta e operata dalla persona rivelatrice di Gesù.
Il teologo, il fedele, non devono mai dimenticare che questa non è squalificante dipendenza, ma amorosa assistenza divina. Chi non cammina sui sentieri della fede in compagnia della Parola, può costruire nuovi percorsi, ma rischia di finire fuori strada. Personalizzare la Parola non significa privatizzare il contenuto della Rivelazione. Gli amici di Giobbe, ad esempio, piuttosto che ammettere di essere in difficoltà davanti al “mistero del dolore, del male”, finiscono con il ritenere le loro teologie forzieri dai quali estrarre “parole ultime”. Dio darà loro torto perché le Sue parole, i Suoi pensieri non sono i nostri. Voler credere è essere sempre pronti a rivedere le nostre conquiste intellettuali. Giobbe – come ogni credente che non accetta un dio elaborato a tavolino – rimprovera gli “amici – teologi”: È per difendere Dio che dite cose false, è per la sua causa che mentite? (Gb 13, 7).
No, in teologia si rischia di mentire per difendere la “nostra causa”, perché Dio non ha bisogno di difensori! La volontà di credere che, per il teologo, è “anche” volontà di capire non deve mai corrompersi in presunzione di aver capito.
È buona cosa pregare al mattino presto, prima che il mondo si riempia di sciocchezze (detto hassidico)
Don Giuseppe Dossetti, il lunedì della Pasqua 1994, rivolse un augurio ad un giovane monaco che aveva fatto la professione solenne; ebbene, in quella occasione, pronunciò parole che dobbiamo eleggere a testo di meditazione:
«La sua fede sarà fede nuda pura come quella di Pietro in quegli inizi fondata solo sulla Sacra Scrittura, considerata interiormente […]. Non potrà attingere a niente […]. I cristiani si ricompattano solo sulla Sacra Scrittura e sull’Evangelo! […] dobbiamo abbandonare certe abitudini, certi sostegni, certi puntelli di cui anche noi possiamo aver fatto uso e goduto in quella misura in cui eravamo meno ispirati dal Signore […]. Dobbiamo contare solo su di Lui, per credere in Lui, per credere nella forza del suo Evangelo nell’eternità, nella sua Pasqua, per credere nello Spirito Santo» [20].
La volontà di credere non può essere aiutata da “sostegni, puntelli” se non in quei momenti nei quali siamo “meno ispirati dal Signore”; sì, ma poi, occorre trovare il Fondamento che non delude, non svia. Eppure, si tratta di amare, fidarsi e volere credere con tutto se stessi in Qualcuno che mai abbiamo visto, conosciuto di persona. Non sappiamo come fosse fatto, che tono di voce avesse, che sguardo… Non è facile senza una ferrea volontà di affidarsi alla Parola, a Dio. Un uomo che, non teologo, ha lottato con Dio tutta la vita è Sergio Quinzio. Fu ufficiale di Finanza per molti anni e, sebbene da giovane avesse frequentato, oltre ai corsi si ingegneria, quelli di filosofia, non diede mai un esame in questa materia che, accompagnata alla teologia, gli diede a pensare molto a partire dalla tragica scomparsa, per un brutto male, della prima moglie, Stefania. Si interrogava su come fosse possibile avere la volontà di amare un dio mai visto avendo davanti lo strazio di una persona con la quale si è condiviso tanto:
«Il Signore – scriveva fortemente provocatorio – è per noi uno sconosciuto che è morto. Si può veramente amare colui di cui non conosciamo il volto, gli occhi, la voce, di cui abbiamo con ripetizione bimillenaria consumato il ricordo di gesti e parole, o è piuttosto già un miracolo ogni istante in cui desideriamo di amarlo e sentiamo la vergogna e la pena di non esserne capaci?» [21].
Senza di te, Signore,
io sono come uno che è seduto
sulla sedia a dondolo: è sempre in movimento,
ma non va da nessuna parte (Preghiera anonima)
Precisamente qui si gioca tutto: o seguire la strada indicata da Dossetti e fidare unicamente nella Parola, in Dio, o chiederci se sia possibile amare uno sconosciuto che è morto. Se posso permettermi di modificare la frase di Quinzio, direi: il Signore non è per noi uno sconosciuto che è morto, ma uno sconosciuto che è morto per noi! Sconosciuto, inoltre, perché nessuno di noi – in prima persona – Lo ha incontrato; ma, se eleggiamo la strada indicata da Dossetti, smettiamo di avere bisogno di “sostegni, puntelli” fenomenici: ci basta la Parola (Scrittura ebraica ed Evangelo), il contare solo su di Lui, per credere in Lui. Sarà la nostra volontà di testimoniare la Parola, il Dio per come si rivela, che darà sostanza e futuro al cristianesimo. Un attento teologo, sottolinea:
«Il cristianesimo avanza, progredisce non in forza delle codificazioni, ma delle convinzioni che si radicano nel cuore dell’uomo. E quando l’incidenza, ossia la testimoni anza cristiana, è insufficiente, è inutile far ricorso alle imposizioni legislative, ai “concordati” […]. Niente di più sbagliato, di più contrario al vangelo e alla volontà di Cristo. Se il “messaggio” non attecchisce, se non fermenta, non muove la massa degli uomini e neanche la coscienza di quelli che dicono di credervi, è segno che sono venuti meno i cristiani, non le leggi cristiane. È segno che qualcosa non è andato per il verso giusto ed è da ricominc iare daccapo. Ecco la nuova evangelizzazione» [22].
Senza la volontà di rafforzare le nostre “convinzioni” di fede si fa ben poco; indeboliti nella volontà di essere testimoni si fa vanamente appello a leggi, concordati… Ad aggravare la situazione, poi, è che questi rimedi non sono graditi a Cristo, né sono in sintonia col vangelo! Se – dice Ortensio da Spinetoli – quelli che dicono di credervi non manifestano la volontà di essere testimoni, è segno che sono venuti meno i cristiani. Siamo in un mondo nel quale tale diserzione possiamo permettercela? Su questa domanda si aprono ampi scenari di discussione. Una considerazione vorrei saldare a quanto appena affermato: non nutrirsi del “mistero di Dio”, conduce a tenere discorsi vaghi intorno ad un generico sentimento religioso; come se l’etica discorsiva qui potesse fare molto! Si tratta non tanto di parlare tutti attorno ad un tavolo, quanto di essere tutti, uno per uno, più ricettivi verso quello che un sociologo francese contemporaneo definì brusio della trascendenza: accenni, tracce che Dio semina in noi, tra noi; prima di affrettarci a ricondurre tutto ad un chiarimento discorsivo – razionale, lasciamo che “tracce” ed “accenni” della Trascendenza fermentino, attecchiscano anche nella coscienza di quelli che dicono di credere.
La “volontà di credere” passa attraverso l’umiltà di ammettere, come faceva Novalis, che i “misteri” sono “nutrimenti”; le “spiegazioni”, aggiungeva, non sono altro che misteri digeriti. Prima della digestione, però, è bene ruminare a lungo i cenni inviatici dal mistero per sentirvi il sapore di Dio. Le nostre parole si arrestino, per quanto dotte, laddove ci accorgiamo davvero che, come dicevamo con Dossetti, ci si deve affidare alla Parola, a Dio stesso per credere in Lui. In uno scritto copto del VII secolo troviamo un breve, intenso dialogo:
«‘Che cosa c’è dentro ai sette veli?’. ‘Il fuoco ardente’. ‘E all’interno del fuoco?’. ‘Per questa domanda non c’è risposta’».
Resta, tuttavia, la volontà di credere nel “fuoco ardente” che, per noi cristiani, è l’Amore sempre acceso, a nostro beneficio, in quel braciere senza fondo e senza confini che è il Mistero del Dio Trinitario, dialogo interiore d’Amore fra Persone.
Conclusione
Bisogna chiedere al Signore che sia Lui stesso a muovere la nostra volontà verso ciò che è il nostro bene (M. I. Rupnik)
Nel secondo volume di guida al “discernimento” per una retta vita spirituale, Marko Ivan Rupnik, dedica il Cap. IV alle “verifiche della nostra libera adesione a Cristo”; ebbene, si lavora sulla “verifica della mentalità”, su quella dell’“amore” preceduta – ed è quanto ci interessa più da vicino – da quella che coinvolge la volontà! Il nodo centrale del discorso è costituito dal fatto che la “vera verifica”
«si compie […] in relazione a Cristo, perché è Lui che ha realizzato una volontà agapica in pienezza, cioè una volontà sacrificata alla volontà del Padre […]. E il Padre vuole la salvezza del mondo, cioè che l’umanità si scopra amata da Dio» [23].
La “nostra volontà” è indirizzata al “Bene” soltanto se il nostro “Paradigma” è Cristo. Egli, infatti, investe pienamente la propria volontà nell’agape, nell’amore gratuito ed incondizionato perché si innesta nella “Volontà del Padre”; cioè, qui non si tratta della realizzazione di Se stesso. Sacrificando la “propria volontà” al Padre, Cristo mostra che Questi ama e salva il mondo. La lezione che Rupnik ci lascia è chiarissima:
«Soltanto rinunciando alla propria volontà, facendola aderire alla volontà di Colui che non solo conosce il bene, ma è il Bene e lo possiede e per questo lo realizza, abbiamo una qualche speranza che quello che facciamo sia buono. Perché la nostra volontà, rinunciando a farla da protagonista, sacrificando se stessa, diventa il vaso preparato per la volontà dell’Amore vero, capace di realizzare una vita agapica» (cit. p. 85).
Si allontanano i rischi, le patologie della “volontà”, dunque, evitando di centrare su se stesso il soggetto; anzi, lo si deve etero – centrare nell’Altro che è Amore e, aderendo alla Sua volontà, trasformiamo l’ esistenza in una ininterrotta volontà agapica; in donazione inesauribile di sé per la “Gloria di Dio” ed a “beneficio dell’uomo” perché – come ricordava Ireneo da Lione – la “Gloria di Dio” consiste precisamente nell’“uomo vivente”.
[1] Cfr., P. A. Sequeri, L’idea della fede, Glossa, Milano 2002, pp. 219 – 220.
[2] Cfr., H. U. von Balthasar, Il chicco di grano. Aforismi, Jaca Book, Milano 1994, p. 117.
[3] Agostino, In Iohannis evangelium tractatus 26, 2 (PL 35, 1607).
[4] C. M. Martini, C’è ancora qualcosa in cui credere?, Centro Ambrosiano – Piemme, Milano 1993, p. 5.
[5] M. de Unamuno, L’agonia del cristianesimo, Piemme, Casale Monferrato (AL), 2004, pp. 38 – 39.
[6] Eliezer Berkovits, in M. Brocke – H. Jochum (edd.), Wolkensäuli und Feuerschein. Judische Theologie des Holocaust (München), Gütersloch 1993, pp. 73 – 82, qui p. 72.
[7] Cfr., J. Alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986, p. 105.
[8] G. Moioli, L’esperienza spirituale. Lezioni introduttive, Glossa, Milano 1994, pp. 60 – 61.
[9] Scrive un esegeta francese, Beauchamp: «[…] Mentre la capacità umana non può elevarsi da se stessa alla rivelazione, da parte sua la rivelazione assume tutto ciò che è dell’uomo» (Cit in L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del simposio promosso dalla Congregazione della Dottrina della Fede, LEV, Città del Vaticano 2001, p. 272, nota n. 23).
[10] Cfr., Id., La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1998, p. 106.
[11] A. Mello, La passione dei profeti. Temi di spiritualità profetica, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2000, pp. 15 – 16.
[12] Cfr., D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 441: lettera del 18 luglio 1944.
[13] Cit in B. Sesboüé, Karl Rahner, Cerf, Paris 2001, p. 32.
[14] D. Sölle, Atheistisch an Gottglauben. Beiträge zur Theologie, Olten – Freiburg 1968, p. 79.
[15] Cfr., Id., L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979, p. 13.
[16] H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (1929), Köln 1959, p. 226.
[17] Cfr., H. U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica. I, La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, p. 162.
[18] R. Bultmann, Enciclopedia Teologica. Introduzione allo studio della teologia, a cura di A. Rizzi, Marietti, Genova 1989, p. 135 s.
[19] Cit in M. Guasco, Il modernismo in Europa, «Humanitas» 72/1 (2007), pp. 4 – 136, qui p. 87.
[20] Cit in P. Brizzi, La tua Parola mi fa vivere. Introduzione alla lectio divina, Ed. Messaggero, Padova 2008, p. 98.
[21] S. Quinzio, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1993, p. 16.
[22] Cfr., Ortensio da Spinetoli, «Rendete quello che è di Cesare a Cesare (Mc 12, 13 – 17 e parall.)», in Il politico e la politica nella Bibbia, a cura di B. Tarantino, TAU Editrice, Pian di Porto, Todi (PG) 2008, pp. 59 – 75, qui p. 74.
[23] M. I. Rupnik, Il discernimento. Seconda parte: Come rimanere con Cristo, Lipa, Roma 2002, p. 84.
Feynman diceva che chi dice di capire di fis.quant.in realtà non ha capito niente,ma qui non è che andiamo più in là.....e poi in ogni caso nella prima ci sono gli apparecchi che funzionano ma nel "credere" che c è oltre la semplice consolazione di cio che ci piace credere?
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