Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Giacobbe dall'etica alla grazia

Giacobbe: dall’etica alla grazia
Gn 32, 23 - 32


Comprendere la Parola significa lasciarsi attraversare da una storia: quella di un uomo che – direbbe Rosenzweig – con ‘nome e cognome’ ha camminato lungo i sentieri del tempo in compagnia di Dio. La vita di un uomo spesa caparbiamente a seguire le tracce della ‘santità’ è la sola ‘ermeneutica’ convincente della Parola. Diceva Lévinas: «I sensi della Scrittura sono tanti, c’è n’è uno per ogni uomo. E se un uomo non nasce, un senso non si rivela; e questo sino alla fine del mondo». Un ‘senso’ fondamentale della Scrittura rimarrebbe non colto se noi non fossimo nati; ma i ‘sensi’ sono innumerevoli. Ci affacceremo, perciò, da una finestra dell’Antico Testamento e cammineremo con uno dei Patriarchi: Giacobbe. Lui è l’uomo che può guidarci in un percorso di fede complesso, ma finalizzato ad una grande gioia: dopo aver lottato con Dio, venirne benedetti. Ecco cosa sperimentiamo in compagnia di  Giacobbe: Dio scrive dritto su righe storte. Uno studioso, Francesco Rossi de Gasperis, osa addirittura affermare qualcosa che potrebbe mettere in secondo piano – rispetto al personaggio biblico che incontriamo – nientedimeno che il Padre della fede, Abramo: «In Giacobbe – Israele e nella sua storia travagliata, ancora più che Abramo, il popolo d’Israele si riconosce, con il suo destino ambiguo di elezione e di sofferenza, di santità e di peccato, di benedizione e di lotta incessante». La vita del credente è meglio rappresentata da chi non vive un fede tranquilla, sonnolenta, bensì agonica, dolorosa.
Parafrasando la Scrittura, direi: quello che i maestri dell’etica hanno scartato, per il Signore è diventato – nel progetto/Rivelazione – “pietra angolare”! Se dal versante etico il nostro personaggio non brilla, si vedrà sottratto alla deriva dello scacco esistenziale, solo quando Dio irrompe nella Sua vita. Giacobbe ha frodato il fratello estorcendo, complice la madre, la benedizione di Isacco, il padre cieco; approfitta del buio nel quale è immerso un non vedente, ma non potrà cavarsela con poco nel buio della notte quando, nei pressi del fiume Iabbok, dovrà lottare duramente con un Angelo per ottenere la benedizione divina. Convertirsi è un lungo e faticoso processo che – saltando i perimetri ben delineati dell’etica – accade nell’atmosfera impalpabile, misteriosa della ‘grazia’. Potremmo costruire, rifacendoci a termini greci, il percorso di conversione. Dapprima si ha un rovesciamento verso il polo del Bene di tutta la propria vita (metanoia) e, dopo, si scopre che si dipende (per amore) da Qualcuno. Si diventa, dal punto di vista dell’ego, poveri (Kenosis); paradossalmente, la povertà di spirito spinge ad accorgersi che gli altri possono ricevere qualcosa anche da un tronco secco: lasciandolo bruciare riscalda! Nasce qui l’esigenza di servire l’altro (diakonia) non per ottenere qualcosa, né per viltà, ma per dare vita ad una costruttiva amicizia (koinonia). Giacobbe, dato che ogni uomo svela un ‘senso’ della Scrittura, mostra la ‘Sua’ strada verso la conversione del cuore: alla fine, deposta la malizia, l’astuzia, scoprirà la ‘diakonia’ nel cuore della ‘koinonia’. Dinamico è il rapporto con Dio. I maestri hassidici sostengono che esso richieda: a) Hitlahavut (fervore mistico); b) Avodah (servizio di Dio); c) Kavanah (concentrazione); d) Shiflut (umiltà). Non è difficile rintracciare parentele, assonanze con i termini greci  – consoni al lessico cristiano – sopra riportati riguardo alla ‘conversione’.

L’incontro tra il Patriarca ed il Signore avviene di notte: si sa che l’ora più buia è quella più vicina all’alba e, come diceva un poeta tedesco, laddove cresce il pericolo aumenta anche la nostra possibilità di salvezza. Chi non rischia con Dio non cresce né nella fede, né sul piano della relazione interpersonale con i fratelli. Dio non è manipolabile a nostro piacimento. Il poeta Rilke, scrisse: «Dio è pieno di buio, e quando qualcuno lo prova, deve calarsi e ululare in quel baratro». Giacobbe insegna che, laddove non riesce l’etica, arriva la grazia! L’uomo greco si perfeziona acquisendo, con duri esercizi, la virtù; l’uomo biblico, invece, invano costruisce la casa del proprio essere se non costruisce sulla Roccia/Dio. Non ci si può aspettare tutto da se stessi ed occorre comprendere che dipendere da Dio non equivale a mortificare la propria umanità.  Per ottenere la ‘benedizione divina’ Giacobbe sarà costretto a portare una ferita all’anca (il testo non chiarisce se è un fatto momentaneo o definitivo); ma, d’altro canto, l’uomo mai cammina tanto speditamente come quando porta i segni di una ferita derivata dall’aver fatto una forte esperienza di Dio. Fare esperienza del divino impone un lungo tirocinio nel buio; nel testo biblico sul quale ci intratterremo, si parla di ‘una notte’, ma – in accezione spirituale – non vuol dire che una simile ‘lotta’ si esaurisca in poche ore.
Il Signore, a Silvano del Monte Athos, disse: «Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare». Sì, la maturità della fede esige una spiritualità esigente. Giacobbe, leggiamo nel testo sacro, dopo la lotta presso il fiume Iabbok con il misterioso personaggio che, poi, si rivelerà essere Dio, ‘zoppica’. Una menomazione? Non credo! È prima, nel perimetro delle convinzioni etiche che, con gran danno(a sé e ad altri), zoppica: imbroglia il padre cieco, compra astutamente la primogenitura del fratello Esaù… eppure, quando la ferita non sarà più di natura etica, bensì segno di una fede rafforzata con il mettersi da solo di fronte a Dio, pur zoppicando, saprà andare incontro al fratello con uno sguardo luminoso e capace di vedere sul volto di Esaù il Volto del Signore. Spero che questa meditazione ci fortifichi e ci lasci feriti all’anca del nostro orgoglio di voler vivere la fratellanza ed il rapporto col divino a partire dalla nostra intelligenza, dalla nostra astuzia, dalle nostre manipolazioni. Solo quando il Patriarca diviene consapevole di non poter chiedere il nome a Dio, impara l’umiltà; anzi, pronunciando il proprio nome al cospetto di Dio (‘Giacobbe’ significa ‘soppiantatore’), prende coscienza dello status esistenziale ed inizia il cammino di conversione. Dio è in agguato in ogni vita; ognuno ha il suo tempo di lotta presso il ‘gaudo dello Iabbok’. Perdere con Dio, tuttavia, è vincere: lasciare che sia Lui a decidere il nostro nome (che per la mentalità ebraica è la quintessenza dell’uomo), significa rinascere con una identità nuziale; si è così, infatti, pronti a sposare Dio ed il prossimo con fedeltà. Fermiamoci, dunque, con il Patriarca presso il guado dello Iabbok a lasciarci lavorare dalla Parola, perché è sulla Bibbia – scrive Magrassi – che «bisogna modellare la vita. Di Bibbia bisogna intessere la propria preghiera, per poi fare della Bibbia il libro della predicazione».
Misuriamo la nostra fede sulla vicenda umana e teologica di Giacobbe; preghiamo con le Sue parole per scoprire quanto di personale possiamo rintracciare nel Suo parlare a Dio, con Dio, di Dio; predichiamo la bellezza rischiosa del ‘cercare il Signore’ esponendo e meditando le vicende del Patriarca. Se ci accorgessimo che si è aperto un fossato enorme tra noi e la Parola, vuol dire che la accostiamo privandoci della ‘guida dello Spirito’. I Padri della fede ci sorreggano nel comprendere che la Parola è viva ed operante qui ed ora. Henri de Lubac, nel cuore del vivace ed eterogeneo Novecento teologico, scrisse: «Bisogna riprodurre incessantemente la lotta di Giacobbe con l’angelo».

Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene, e ogni specie di cose sarà bene (Giuliana di Norwich)

La nostra attenzione, in questo incontro con la Parola, si fermerà sulla figura di un Patriarca, Giacobbe, che occupa uno spazio considerevole nella Torah: compare in Gn 25, 26 e ci lascia in Gn 49, 33. Muoviamoci sul terreno fertile eppur insidioso del nostro percorso testuale con la speranza – per citare Gregorio Magno – che lo stesso spirito che ha toccato l’anima del Patriarca, tocchi l’anima del lettore. In modo particolare ci lasceremo catturare da quanto avviene in Gn 32, 23 – 32: una notturna misteriosa lotta che il Patriarca intrattiene con una personaggio che, inizialmente, è anonimo (un uomo, iš) e finisce col rivelarsi Dio. La materia del racconto biblico sia operativa: modifichi la nostra interiorità. Riferendosi ad un testo biblico Gregorio Magno affermava: «quanto viene narrato materialmente nel libro, facciamo in modo che intimamente sia efficace nel nostro animo». Il personaggio biblico che incontriamo ci fa comprendere, per dirla con Eliot, che l'uomo senza Dio è un seme nel vento. Dio chiede conto del nostro vissuto e, con domande sferzanti, provoca ad un confronto reale.
Un dio che provoca, aggredisce non è malvagio, ma semplicemente vivo!Soltanto chi ha a che fare con un pezzo di legno, con una statua – nell’ambito del religioso e non della fede – può credere di piegare il divino alle proprie esigenze. Il Dio ebraico – cristiano scende ad incontrarci nel vissuto, nel cuore del patico… sta ‘faccia a faccia con noi’. Se nell’ambito del religioso si può cedere al magico, in quello della fede si è in atmosfera esistenziale, nel rischio! Il Tu ed il tu, qui, si confrontano senza garanzie e senza formule rassicuranti. Un midrash, afferma: «L’idolo è vicino e lontano. Dio è lontano e vicino». L’idolo è ‘qui’, a portata di mano ma, in realtà, privo di vita, è quanto di più lontano possa esserci dall’umano; Dio, al contrario, pur essendo Trascendente, si compromette con l’immanenza per comprometterci con Lui! Heschel sottolinea che recitiamo la locuzione ‘Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe’ e non diciamo ‘Dio della verità, bontà, bellezza’. Non che questi attribuiti siano da guardare con sospetto; piuttosto, conclude il filosofo ebreo, va considerato il fatto che ‘Abramo, Isacco, Giacobbe’

non significano idee, principi e valori astratti. Essi non rappresentano dei maestri o dei pensatori e l’espressione non va intesa come se fosse “il Dio di Kant, di Hegel di Schelling”. Abramo, Isacco, Giacobbe non sono principi da comprendere, ma vite da continuare.

Non si può considerare ‘idolo’ un dio che fa la storia attraverso persone… e che – per riprendere Buber – ci spinge ad agire in modo che «ognuno deve, con la vita, diventare una Torah»

La Bibbia – attraverso figure che si rivelano umane fino al punto di manifestare i loro aspetti peggiori – mostra come Dio faccia la storia a patto che l’uomo, nche quello che dal punto di vista etica ha tare stigmatizzabili, collabori. Ricordando che Parmentier ha detto che la Bibbia narra l’esperienza di un dio che non teme di avere delle storie con degli esseri umani, se ne conclude che quanto nel testo sacro accade non può non interessarci. Solo con l’ausilio di ‘grandi personalità’ mosse verso la piena santificazione della loro esistenza possiamo davvero comprendere quanto sia efficace, potente la Parola. Gregorio Magno offre un suggerimento prezioso nello svolgere l’ermeneutica dei testi sacri:

La vita dei santi ci fa conoscere che cosa dobbiamo capire nei libri della Sacra Scrittura. Il loro gesto vissuto ci insegna il senso di quello che il testo […] ci dice.

Il senso che anima i testi biblici ha bisogno, per venir pienamente appreso, di tradursi in gesto vissuto. Nel caso nostro, i gesti, l’agire di Giacobbe svelano più sensi del testo; a noi, però, è parso decisivo eleggere questo tema: come la grazia possa santificare ciò che l’etica giudica (non a torto) riprovevole! Giacobbe, infatti, sul piano etico, è da biasimare; ma è proprio in uno come lui, nel quale giocano il meglio ed il peggio di cui un cuore sia capace, che la ricerca di Dio si fa appassionante, coinvolgente. La Sua vicenda mostra che da sola l'etica non può salvarci, né cambiare al meglio il nostro cuore. Solo la grazia può, assumendo anche la parte peggiore del nostro essere, condurci all'Altro ed al fratello. D’altro canto, mai nella Scrittura l’uomo è visto come una ‘creatura finita’; ciò, va detto, vale in un doppio senso: mai finita, perché può sempre conoscere un riscatto morale; mai finita, perché è un capolavoro al quale Dio può sempre decidere di aggiungere una nuova geniale pennellata! Genesi, Libro che ospita la figura di Giacobbe, mostra proprio questa concezione antropologica. Non è un teologo, Aldo Schiavone: è direttore dell’Istituto italiano di Scienze Umane; ebbene, sull’antropologia biblica, ha scolpito una precisazione che non esiterebbe a sottoscrivere il più fine degli esegeti:

quando la Genesi stabilisce la rassomiglianza fra l’uomo e Dio, l’assimilazio ne non va attribuita a questa o a quella figura che l’umano aveva o avrebbe assunto nel corso della sua storia evolutiva – non agli uomini che hanno scritto la Bibbia – ma all’umano come progettualità e come sviluppo […]. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l’uomo la condizione di partenza […], ma la stazione d’arrivo […] è nella potenzialità dell’uomo non “essere”, ma “poter diventare” simile a Dio.  

Come ha detto un noto esegeta, l’uomo è un gerundio: una creatura che – sempre – si va facendo.
Giacobbe viola precetti etici quando carpisce la benedizione paterna che spettava al fratello e quando lo priva, altrettanto con astuzia, delle primogenitura; ma quando estorce le benedizione di Dio, si accorge che essa, per quanto l’abbia meritata lottando, è dono!  Chiederà, vedremo, invano il nome del suo misterioso aggressore. Il rifiuto di presentarsi sta ad indicare che Dio non si può possedere, né manipolare. Perché il Patriarca rivela il proprio nome ed il Suo antagonista può fare l’opposto? Apparentemente vincitore, agendo in tal modo, il nostro personaggio si arrende a Dio: «è così che Giacobbe si arrende […], perché dare il proprio nome significa fare esplicita consegna di se stessi: […] e Giacobbe consegnandolo si affida a quel “qualcuno”» (E. Bianchi).

Il nome del Patriarca lo si fa derivare da 'aqev, ‘calcagno’. Ya'aqov, però, in Gn 27, 36, viene dal verbo 'aqav, ‘tallonatore, soppiantatore’. Una lezione diversa, tuttavia, legge Ja'acob – El, ‘Dio protegga’. Va segnalato che in ebraco ‘aqebah significa ‘inganno’. Si tratta, ad ogni modo, di un nome teoforo (che porta Dio). Per la mentalità semitica, il nome esprime quanto un uomo vive e vivrà; potremmo dire, la sua quintessenza! Giacobbe, con astuzia, inganno, carpisce la primogenitura al fratello Esaù (Gn 25, 30 – 34) e la benedizione paterna (Gn 27, 1 ss.). Isacco è cieco e, anche grazie all’inganno della moglie Rebecca, non si accorge che non benedice Esaù. Quando il Patriarca disonesto, però, lotterà con Dio, non servirà a nulla che sia notte: dovrà ottenere la benedizione divina soltanto lottando ‘corpo a corpo’. Che io intenda la modalità del confronto in questi termini è supportato dal termine ebraico abaq: significa lottare, ma anche polvere. È come se i contendenti si fossero rotolati, stretti, nella polvere. Il nostro personaggio, ad ogni modo,  passerà buona parte della propria vita a temere la vendetta del fratello. Va precisato, però, che in ebraico ‘vendicarsi’ si dice naqom; ebbene, è significativo che il verbo abbia come radice qum, risorgere’. Si fa morire il nemico facendolo risorgere come fratello. Ci sarà riconciliazione con il frodato Esaù. La distruzione del peccato, del peccatore, come avverrà anche nel Nuovo Testamento, implica necessariamente la conversione, il risorgere in una vita nuova tutta per Dio. Gesù salva l’adultera e da prostituta (qdešah) la riconduce sui sentieri della ‘santità’ (qdušah). La fede mette sempre in gioco il ‘volume totale’ (Mounier) della persona! Mi sia consentita una precisazione. Credo si debba distinguere tra personalizzare la religione ed individualizzarla; nel primo caso, diventa vita in me il fatto che ci sia inquietudine nel mio cuore che cerca l’Altro; nel secondo, invece, si fa di questa ricerca un progetto unicamente mio! Non farsi-un Dio-da-sé, ma lasciare che Dio modelli una parte del ‘senso’ che vuole trasmetterci intervenendo significativamente e visibilmente nella nostra esistenza. Sia detto per inciso: il termine ‘religione’ non c’è nella Bibbia! Si tratta, infatti, di una parola persiana entrata tardi nel lessico biblico nel quale, in verità, si ricorre al termine Emunah, ‘fiducia’. Ha precisato Pierangelo Sequeri: «Religione personalizzata non significa necessariamente religiosità fai-da-te. La polarizzazione dell’elemento religioso attorno alla forma individuale del credere non significa necessariamente interpretazione individualistica della religione e dell’etica». Giacobbe personalizza la Presenza di Dio nella storia riscrivendo la Sua storia alla luce di tale Presenza, ma non la legge con categorie inventate di sana pianta.

Da questa premessa erompe una domanda: come fare in modo che la vicenda di Giacobbe entri a ricamare nelle trame della nostra esistenza? Come far sì che, nel mentre leggiamo, si venga letti? Credo di aver trovato risposta in una usanza degli indigeni dell’America nord – occidentale. Quando un vasaio lascia la professione perché molto avanti negli anni, consegna (rito di iniziazione) ad un giovane artigiano il suo prodotto migliore. Il ricevente, però, non conserva il pezzo gelosamente, né si mette a contemplarlo, ma – gettatolo in terra – lo riduce in mille pezzi ed incorpora l'argilla che ne rimane nella propria argilla. Noi, dunque, spezzettato in momenti significativi il percorso di Giacobbe, dobbiamo inserire alcuni momenti forti del suo percorso nel nostro vissuto. Mai come oggi, infatti, si tratta di mettersi in relazione con Dio confrontandosi ‘corpo a corpo’, lottando per la Presenza che svanisce sempre più nel mondo della complessità, in una atmosfera postmoderna che vede indebolito finanche il pensiero. Eliot fotografa la situazione odierna:

ma sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai/accaduto prima: sebbene non si sappia quando,/o perché, o come, o dove/Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dei,/dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima.

L’uomo pare, oggi, in grado di fare a meno del divino tout court! Credo, invece, che avesse ragione Mauriac a scrivere che in ogni vita c'è Dio in agguato; proprio come presso il fiume Iabbok, affluente orientale del Giordano, 40 km a nord del mar Morto, era appostato per cambiare, a partire dal nome, la vita del soppiantatore Giacobbe. Ogni ebreo, ogni credente comprende che da qualche parte, in un imprecisato momento, Dio interviene a spiazzarci, a sollevarci di peso da antiche certezze. André Neher, sottolinea:

la strada ebraica non è solo orizzontale, ma anche verticale ed infinita. Ogni ebreo sa che, da Giacobbe in poi, lo Sconosciuto è in agguato a qualche bivio […] e che bisogna accettare di lottare con Lui, fino all’alba. Lotta ineguale il cui esito può essere vittorioso o micidiale, o anche indeciso, con la doppia traccia di una ferita o di una benedizione. Ma vale la pena di combattere, di accettare la sfida, di fare la scommessa sulla lotta, perché si sa che il fiero partner che vi sorprende nella notte oscura, è un riflesso luminoso dell’assoluto.

Partiamo dal momento in cui Giacobbe riesce, con grosse difficoltà, ad allontanarsi dallo zio suocero Labano che, con i suoi inganni, farà dell’ingannatore un ingannato! Giunto nei pressi di Seir, patria del fratello Esaù, viene assalito dalla paura e gli invia doni per placarlo in vista di un sicuro incontro. Siamo in un momento di grande immaturità affettiva: si pensa di poter recuperare il rapporto con l’altro attraverso le cose! Chi ha vissuto tessendo trame oscure per carpire ciò che all'altro spettava di diritto, non può non avere questa mentalità. Non ci riconosciamo in questo modus pensandi? Scende la notte. L’uomo, il viandante è solo con le stelle. Mi ha molto impressionato una riflessione dell’astrofisico Trink Xuan Thuan. A suo dire, la ‘cosmologia moderna’ mostra con chiarezza

la profonda connessione che c'è tra noi e l'universo: gli atomi del nostro corpo sono stati formati nello stesso tempo delle galassie, noi siamo fatti di polvere di stelle, intimamente legati al cosmo.  

Si tratta non tanto di corredare l’avvenimento di dati cronologici e topologici, bensì di attivare potenti richiami teologici. Secoli dopo, un grande mistico, Giovanni della Croce, parlerà delle propria esperienza spirituale nei termini di una notte oscura. In una poesia scritta dopo mesi di duro carcere a Toledo, nel convento dei suoi ex confratelli carmelitani, riconosce la fecondità dell'attraversamento delle tenebre spirituali:

Ah, notte che mi guidasti!/O Notte più cara dell’alba!/O notte che stringevi/l’Amato con l’amata/l’amata nell’Amato trasformata!

Ecco: la notte oscura della ‘lotta spirituale’ ci trasforma nell'Amato stesso. L’incontro con l’Altro è pieno; tocca non più la sfera del fenomenologico, ma si intesse nell'ontologico. In Gn 28, 11, quando il Patriarca arriva ‘per caso in un luogo (maqom)’ – si legge – vi passa la ‘notte’ perché il sole era tramontato. Claude Vigée, commenta:

In effetti, a partire da quel momento, per Giacobbe l’esiliato, il fuggitivo, il diseredato, è sempre notte fonda. Per moltissimo tempo il sole della sua vita si è ottenebrato. Stando a un […] midrash, “Dio creò il mondo affinché il giorno sia giorno e la notte, notte. Poi sopraggiunse Giacobbe che cambiò il giorno in notte”.

Questo è vero fino al momento in cui Egli è ancora giudicabile secondo l’etica; l’uomo che si arena in ciò che è degno di disapprovazione dal punto di vista etico cammina nel buio e converte in esso la stessa luce. Occorre il salto nella fede per ricevere la grazia di Dio: un ‘cuore nuovo’, una ‘nuova identità’. Si apre un percorso: dall’etica alla fede/grazia. Continua Vigéè: il ‘tempo’ del Patriarca, così, «va dall’oscurità al chiarore; la preghiera della sera nella liturgia ebraica quotidiana, destinata a farci attraversare il fiume della notte, è tradizionalmente attribuita a Giacobbe. Traghettatore dalle tenebre all’aurora, fa nascere il giorno dalla notte, il ritorno dall’esilio». Il tutto si traduce nell’incontro autentico con Dio e con il fratello. François Collange scrive che la fede nasce sempre da un incontro e ad esso conduce. Nella notte, poi, le possibilità dell’incontro con Dio sono assai concrete. Riflettendo sull’esperienza di Giovanni della Croce Romano Gambalunga, annota:
Il rapporto con la divinità [...] assume nella Notte la forma di un intreccio amoroso. Suscitare il desiderio è il primo atto di chi è appassionato d’amore e vuole legare a sé la persona amata. L’unione tra Dio e l’uomo avviene allora fuori dalla propria casa, in una uscita da sé che è anche un entrare nel proprio più profondo centro.

Durante la prigionia patita a causa della prepotenza nazista, il teologo luterano Bonhoeffer, forse presagendo una tragica fine (venne, infatti, impiccato), sentì di affidare, sperando di dissiparlo, il proprio buio interiore al Dio/Luce. Scrisse nelle carte della prigionia, raccolte in Resistenza e resa, versi che si saldano a quelli del mistico spagnolo citato sopra:

È buio dentro di me,/ma presso di te c’è la luce;/sono solo, ma tu non mi abbandoni;/sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;/sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;/in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;/io non comprendo le tue vie, ma la mia vita tu la conosci.
 
Frequentare la Parola – cosa che Bonhoeffer faceva ininterrottamente – conduce a farla parlare attraverso le nostre parole. A differenza del teologo luterano, Giacobbe lotta con Dio all’aperto, sotto le stelle, di notte ed essa è non solo – simbolicamente – momento di sofferenza priva di senso, ma indica, in positivo, l’ora preferita dagli amanti per la gioia dei loro amplessi. L’amata, nel Cantico dei Cantici, infatti, non apre all’amato che aveva insistentemente bussato alla sua porta e, dopo, disperata, si getta nella notte a cercarlo e, imbattutasi in una ronda di guardia viene scambiata, subendo umiliazioni, per una prostituta. La notte è il luogo dell’amore! La donna, nel Cantico, usa il termine ebraico dodi, diletto mio; incontriamo il termine esattamente 26 volte e, per i mistici ebrei, ciò non avviene a caso: il valore numerico che si attribuisce al sacro tetragramma YHWH (Nome impronunciabile di Dio) è proprio 26! Si cerca sempre Dio! La Bibbia è tutta un camminare. Il termine ebraico derek (via) è tradotto dai LXX con odós, sia in senso letterale che metaforico, circa 880 volte; odós traduce 18 vocaboli equivalenti e traduce l’ebraico via (derek) in 660 passi. Dati che dicono molto. Nella notte, come l’amata disperata del Cantico, Giacobbe è in cerca del Signore da solo: ha mandato oltre i suoi e quanto possiede. L’obiettivo in nessun modo trascurabile, aggirabile è vivere un passaggio! Infatti, nei versi 23 – 24 e 32 del cap 32, il verbo passare, attraversare ('abar) ricorre tre volte, mentre guado (ma'abar) soltanto una. Intratteniamoci su questo particolare attingendo da uno studio sui simboli biblici redatto da Maurice Cocagnac: «I guadi erano luoghi di passaggio, ma erano anche punti strategici, oggetto di contestazioni e di battaglie». Lo sfondo, dunque, è decisamente agonico. La lotta che Giacobbe ingaggia con il divino contendente, continua Cocagnac,

descrive un’iniziazione che comincia con la liberazione dalla paura. Chi reagisce coraggiosamente a un’aggressione supera il proprio timore. La lotta nei pressi del guado fa uscire il protagonista dal paese della paura. Giacobbe mette piede in un’altra terra, quella della fiducia.

L’accento poggia non tanto sul pericolo costituito dal guado, che pure è notevole, ma sull’opportunità, anzi, l’obbligatorietà di passare ad una vita nuova, ad una identità gradita a Dio ed al fratello. Qui l’uomo si conosce ed apre, allo stesso tempo, alla possibilità di conoscere meglio il Signore: Chi conosce se stesso, conosce il suo Signore – scriveva il mistico ebreo Ibn Arabi. L’uomo, in qualche modo, è il luogo di Dio; Questi, in assoluto, è il Luogo dell’uomo. Va detto che il termine ebraico Maqom (luogo), nella tradizione ebraica, spesso viene riferito a Dio stesso. Risuonano in sottofondo le parole di Esodo 20, 24: «In qualunque luogo dove farò ricordare il mio nome, io verrò a te e ti benedirò». Tommaso d’Aquino, suggestivamente, scrive: «Dio è immanente in noi e nello stesso tempo Egli ci contiene». Solo quando ci si relaziona con fiducia a Dio lo sentiamo Padre e, dalla lotta potremo passare, senza tormenti, al riposo. Lottare, però, è inevitabile! Appellare a Dio si può soltanto se ci si sente interpellati: «L’uomo di Israele è l’uomo interpellato […]. Il corpo a corpo sostenuto da Giacobbe nella notte in cui diviene Israele si ripete per ogni giudeo» - scrive Neher; e, aggiungo, per ogni uomo di fede. Se Dio ci diviene familiare, riposiamo in Lui. Un racconto dei Chassidim è, al proposito, istruttivo:

Il Rabbi di Rizin disse: «In alcuni libri di preghiera non è scritto: “Facci riposare, Dio nostro”, ma: “Facci riposare, padre nostro”. Perché se l’uomo pensa a Dio come Dio, della cui gloria è piena la terra, e non vi è cosa in cui egli non sia, allora si vergogna di stendersi al suo cospetto su di un letto. Se invece pensa a Dio come a suo padre, allora si sente come un debole bimbo che quando va a letto cerca il padre che lo copra bene e protegga il suo sonno.

Il passaggio dalla paura alla fiducia, va ribadito, qui, si realizza in solitudine e senza garanzie. Dionigi il Certosino, nel De vita inclusarum, scrive:

Basta che l’anima si circondi di solitudine e troverà facilmente il suo Dio.

Qui c’è una lezione sempre valida, ma molto più in un tempo, quello nostro, nel quale la ridda scomposta di voci che veicola messaggi di pseudo felicità e pseudo salvezza, rende patologico il dire e l’ascoltare. Kierkegaard affermava che lo stato attuale del mondo

la vita intera è malata... Se fossi medico e qualcuno mi chiedesse consiglio, risponderei: crea il silenzio, porta l'uomo al silenzio.

Con buona pace di Dionigi il Certosino, però, per il nostro personaggio, malgrado sia fasciato nel silenzio, non sarà affatto facile ‘fare i conti col divino’! La ‘lotta’, anzi, è inscritta nel suo essere perché, prima che nascesse, sperimenta l’alterità come rivalità. Quando Isacco, suo padre, supplica Dio di concedere un figlio a Rebecca (che sarà complice di Giacobbe nelle trame ordite ai danni di Esaù), addirittura verrà doppiamente ascoltato: nel grembo della donna si formeranno due figli. La Scrittura afferma: i figli si urtavano nel suo seno! Il conflitto tra i due risale al periodo prenatale. Accettare l'altro, vivere l’alterità è, realisticamente, descritto nella Bibbia come un percorso mai facile e reso addirittura impossibile dal non filtrare il rapporto con i fratelli (non solo quelli di sangue) attraverso Dio. Va considerato che, proprio in quanto è un ‘soppiantatore’, Giacobbe troverà la strada verso Dio lastricata di spine. Scrivendo dritto su righe storte il Signore mostra come chi è (sul piano umano) moralmente discutibile, può diventare, sul piano della fede, esemplare. I pii ebrei del movimento chassidico – per bocca del grande Magghid – arrivavano a sostenere che finanche da un ladro, chi cerca Dio, può imparare sette cose:

1. Egli lavora di notte.
2. Se in una notte non ruba nulla, tenterà in un’altra.
3. Lui e i suoi amici sono in comunione.
4. Rischia la sua vita per una bazzecola.
5. Ciò che lui prende, lo vende ad altri, anche con scarso guadagno.
6. È paziente nelle disgrazie e ricomincia.
7. Stima il suo mestiere più di ogni altro.

Basta convertire verso il polo del Bene queste qualità negative e ci si trasforma in cercatore di Dio! Laddove l’etica non esita a giudicare negative queste caratteristiche da ladro, la grazia le può trasformare in abilità utili per un percorso di fede. Giacobbe è l’uomo dell’antagonismo anche nei riguardi del Trascendente, ma la Sua tenacia gli ottiene una benedizione benefica per tutti: «Giacobbe lotta, è vincente – commenta Agostino d’Ippona - ma vuole essere benedetto da colui che egli stesso ha vinto!».  

Non l’etica, per l’uomo biblico e per il credente, forma, nutre il cuore; ciò spetta alla fede! Laddove Giacobbe mostra essere un abile calcolatore sul piano orizzontale, rivela pure essere una creatura ricettiva quando irrompe il Trascendente. Vuole fare e fa a modo suo, con astuzia; non lotta più di tanto per ottenere ciò che vuole ma, per la benedizione di Dio, dovrà mettersi in gioco fino a restare ferito (all’anca). Ha scritto sui significati possibili di questa ‘ferita’ Massimo Barbetta:

Per Osea 12, […] si tratterebbe di una lesione al cavo del calcagno (forse per lesione del tendine achilleo). Questo fatto fa dire a Robert Graves (La Dea Bianca) che il nome Giacobbe possa essere ricondotto a “Jah Aceb” = “Divinità del Tallone”. D’altro canto alcuni Biblisti ritengono che Giacobbe sia legato al culto del Dio fabbro kenita e derivi il suo nome dal termine “soppiantare”, inteso come “far inciampare qualcuno ponendogli la mano sotto il tallone”. Traccia di questo le troviamo nel termine greco “pternizw” che, nella “Septuaginta”, è usato con il senso di “far incespicare colpendo il calcagno”. È poi altrettanto vero che la cerimonia funebre per la morte di Giacobbe fu effettuata nell’Aia di Atad (Genesi 50,11) che Epifanio, un antico esegeta biblico, identifica con “Beth-Hoglah” = “il Tempio dello Zoppicante” […]. Non è tuttavia da escludere che il fatto che Giacobbe sia stato reso zoppo, sia da imputare, non ad un incidente durante la lotta con l’angelo, ma ad un vero e proprio rituale di “azzoppamento”, per consacrazione della sua regalità. Questo fatto sembra confermato dal fatto che Abramo aveva una coscia od un calcagno sacri, dal momento che, in Genesi 24, 2, invita un servo a giurare ponendo la mano proprio “sotto la sua coscia”. Importanti ripercussioni di questi fatti si hanno anche, a quanto afferma Graves, nella festività più importante per gli Ebrei, la Pasqua. Infatti il “Pesaci”, nome ebraico della Pasqua, risalirebbe, nella sua origine semantica, alla radice verbale “Psch” = “danzare zoppicando”, in ricordo degli avvenimenti connessi a Giacobbe. Non dimentichiamo poi la danza rituale (2Samuele 6,5-16) che Re Davide eseguì di fronte all’Arca dell’Alleanza “saltando e danzando di fronte al Signore” […]. Segnaliamo poi che nella Tragedia greca gli attori indossavano il coturno, antesignano forse, delle odierne scarpette da danza, che ne alzava la figura, ma li costringeva ad una andatura caracollante, del tutto simile a quella dei Re Sacri.

Dio lascia sempre un segno dopo averLo incontrato. Incontrare Dio è una di quelle cose della vita che, malgrado l’alto costo, relativizza bellezza e valore di tutto quanto altro ci possa accadere: «L’importante nella vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più». L’ha detto Kierkegaard, ma non ci si stupirebbe nel rintracciare simili espressioni sulla bocca di Giacobbe all’indomani del ‘corpo a corpo’ con Dio! Qui impariamo che la gioia di credere non è consumare un’eredità ricevuta senza alzare un dito, ma costruzione di sé in dialettica tensione con Altro dopo che Questi ci ha passati nel frantoio. Una premitura che, paradossalmente, fa sentire meglio e, dopo l’incendio della vecchia identità, ci fa mettere con gioia al lavoro per rinascere. Dice il Rabbi di Berdtischev,

l’uomo veramente gioioso è come uno a cui è bruciata la casa e che ha sofferto nell’anima la sua pena, ma poi ha cominciato a costruirne una nuova, e il suo cuore si rallegra di ogni pietra che pone.

Mi si consenta una divagazione che, alla fine, non risulterà adipe sull’ossatura di questa riflessione. Fosse finanche una ferita, è necessario per un uomo avere dei segni che facciano memoria del passaggio di Dio nella sua vita. Penso a dei versi del polacco Czeslaw Milosz. In essi si invocano segni, perché le astrazioni, le concettualizzazioni riguardo al divino possono ben poco. I segni, però, sono solo quelli umani. Che fare? Leggiamo i versi e la conclusione che il poeta offre e mostreremo quanto sia necessario avere di fronte figure come quella di Giacobbe. Scrive Milosz:

Sono solo un uomo, ho quindi bisogno di segni visibili,/il costruire scale di astrazioni mi stanca presto./Ho chiesto più volte, lo sai, che la figura in chiesa/levasse per me la mano, una volta,/un’unica volta./Capisco però che i segni possono essere soltanto umani./Desta dunque un uomo in un posto qualsiasi della terra/[...]/e permetti che guardandolo io possa ammirare Te.

Soltanto un uomo che sappia mostrare Dio nel proprio vissuto basta a chi non si appaga di segni, di qualche evento sensazionale. Un uomo significa molto per la Rivelazione. Ha scritto il teologo liberale Hadolf von Harnack: «Il regno di Dio viene, in quanto viene in singoli uomini, trova accesso alla loro anima ed essi lo accolgono. Il regno di Dio è la signoria di Dio, certo, ma è la signoria del Dio santo nei singoli cuori». Dio ha destato per noi un uomo, collocandolo presso il guado di un fiume, per mostrare, prima di manifestarsi in Cristo, che l’incontro con Lui è qualcosa che davvero può cambiarci la vita, a costo di ferirci per sempre. Non si vince con Dio, ma è un dono di inestimabile valore portare la ferita dello scontro. Elie Wiesel, afferma: «All’alba Giacobbe è un altro uomo [...]. Ha vinto la lotta? L’uomo può vincere il proprio Creatore? È impossibile, naturalmente; ma non è un privilegio essere vinti da Dio?». Il privilegio consiste nell’essere segnati per divenire segno (di benedizione e di salvezza). Si perda pure con Dio, ma se ne ottenga la benedizione. Solo così sarà lecito fare nostre le parole di Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4, 7). Quando viene – per riprendere il poeta polacco – destato un uomo come il nostro Patriarca, si scopre la gratuità di Dio, si impara ad essere dono. Giacobbe aveva soppiantato il fratello, ma ora saranno le Sue certezze, la Sua astuzia a subire l’esproprio da parte di Dio; ciò, tuttavia, non sarà riprovevole, bensì salutare per lui e per la Sua discendenza e... anche per noi che ci impegniamo a ripercorrerne i passi. Da benedetto il Patriarca diviene benedizione perché, insiste Enzo Bianchi,

comprende finalmente che la benedizione di Dio è dono gratuito, non può essere scambiata, rubata, carpita! In questa lotta […] diventa […] a tal punto portatore della benedizione che non potrà più tenerla per sé: benedirà ciascuno dei suoi figli con una benedizione particolare (Cfr. Gen 49); addirittura benedirà il faraone […] è benedetto per benedire tutte le genti; anche lui, nella sua storia così travagliata, realizza il progetto di Dio.

Qui si gioca il ‘passaggio’ dall’etica alla grazia: un uomo che ha una – dice Bianchi – storia travagliata, trovando grazia presso Dio, converte in positive doti negative dal punto di vista etico e contribuisce a realizzare il progetto di Dio. Ecco dove rintraccio l’alimento più sostanzioso per irrobustire la nostra speranza ripercorrendo i ‘sentieri di Giacobbe’. Dove si trova il Patriarca quando vive l’agonica esperienza? Presso il fiume Iabbok, in Transgiordania. Il guado è difficile e rischioso da effettuare se si desidera, poi, percorrere la valle che sale a Sichem dov’è la terra promessa. Al guado della scelta ‘Dio o io’, ci aspettano sempre difficoltà e rischi ma, innervata in essi, anche la più grande opportunità di crescere nella fede e nell’umanità. I giapponesi, per scrivere ‘crisi’, ricorrono a due caratteri: il primo, significa ‘pericolo’, ‘rovina in agguato’; il secondo, accostato all’altro, ‘momento propizio’, ‘apertura sul futuro’. In questa tensione siamo sempre tutti noi; anzi, come dice Paolo De Benedetti, siamo «ancora sul guado dello Yabbok, non è ancora spuntata l’aurora». Molte altre notti attendono un numero impressionante di uomini per continuare la lotta ed accrescere, si spera, il numero delle benedizioni. Per l’uomo (non solo quello biblico) rischio ed opportunità si stringono con forza! Il silenzio della notte, poi, è un grembo fecondo di opportunità riguardo alla crescita della fede perché, scrive Valery, ogni atomo di silenzio/è la possibilità di un frutto maturo. Al termine di una lunghissima catena di attimi silenziosi può sorprenderci Dio che arriva sempre dopo che tutte le nostre preoccupazioni per le cose sono state mandate oltre, come Giacobbe invia di là del fiume famiglia e beni. Mi dà molto a pensare che il radicale ebraico CHR origini sia achar – che significa ultimo -, sia acher che, invece, significa altro. L’altro (Altro) è colui il quale arriva per ultimo; nel senso, cioè, di non atteso, imprevisto! Dio, per certi versi, proprio come accade durante il duello presso lo Iabbok, spesso è lo Sconosciuto. La prima lettera dell’alfabeto ebraico, Alef, si può scomporre in el peh, Dio parla; se, però, leggiamo Alef al contrario, si ottiene pele’, che significa remoto, oscuro, nascosto. L’origine, dunque, rappresentata dall’Alef (che evoca Dio) ha in sé sempre qualcosa di irriducibilmente oscuro e, il minimo tentativo di procurarsi un lumicino, richiede una grande lotta.  

Nella Bibbia di solito i forestieri trovano riparo da qualche parte; ricevono prove esemplari di ospitalità. Giacobbe, invece, si trova all’aperto, sotto le stelle: dovrà contare soltanto su Dio. Quando fa il famoso ‘sgno della Scala’, si trova presso la città di Luz, ma il luogo preciso nel quale si trova è anonimo (Gn 28, 11: “capitò così in un luogo”). Uno ‘spazio vuoto’, un modo per lasciare un luogo nel quale Dio possa entrare. Un vuoto esteriore che implica il fare vuoto in sé. Solo allora quel luogo anonimo assumerà una identità. Sebbene la vita dell’uomo biblico si svolga prevalentemente all’insegna del nomadismo, la terra è importantissima: nell’Antico Testamento, con due vocaboli, la parola ricorre complessivamente 2504 volte! Solo la terra sulla quale si è fatto ‘esperienza di Dio’, però, diventa davvero la ‘casa di Dio’. Dopo il noto episodio del sonno della scala, Giacobbe, infatti, dirà: “il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gn 28, 16). Ciò fu detto, però, precisa la Scrittura, quando si svegliò dal sonno! Pianta una stele, la unge e santifica quel luogo.  Lì, per dirla con Eliot, era avvenuta una intersezione del tempo con l’eterno. I Padri della Chiesa videro nella stelle unta l’immagine del Messia, di Cristo che, come la scala vista nel sonno dal Patriarca, ha unito cielo e terra! Ora, però, concediamoci questa provocazione: quanti luoghi del quotidiano abitiamo come dormienti senza fare nulla per svegliarci e comprendere che si era in posti nei quali Dio domandava di entrare a renderli sensati? Vedremo la Presenza solo quando ci sveglieremo. Non è però privo di importanza che l'uomo ‘sogni Dio’; che, pur non avendo un’idea ben precisa di chi sia, desideri conoscerLo, farne esperienza. Si tratta di una inquietudine (ben nota ad Agostino d’Ippona) radicata nel cuore umano.  Di sapore agostiniano sono alcuni versi di Par Lagerkvist:
Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco/Uno sconosciuto lontano lontano./Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia./Perché egli non è presso di me./Perché egli forse non esiste affatto?/Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?/Che colmi tutta la terra della tua assenza?

C’è chi, opportunamente, per comprendere cosa avvenga nell’intimo di Giacobbe, ha riflettuto sul nome della città: Luz! Significa ‘mandorla’. Annick de Souzenelle, scrive:

Questa terra chiamata Luz divenne dopo l’esperienza di Giacobbe, al suo risveglio, Betel la ‘casa di Dio’. Poiché, avendo lasciato il padre e la madre, i suoi sostegni, per andare verso se stesso, aveva rotto il guscio della ‘mandorla’ e liberato il suo nome.

Chiarimenti importanti su Luz sono stati forniti anche da Massimo Barbetta:

L’Easton Bible Dictionary non ci aiuta molto affermando ciò che già abbiamo dedotto dal testo biblico: “Luz era il nome di una città sacra canaanea posta vicina a Beth-El”. Robert Graves e Raphael Patai (I miti ebraici) ci segnalano che era un luogo, chiamato attualmente Betin, posto 10 Km a nord dell’odierna Gerusalemme, e dove ricerche archeologiche recenti hanno mostrato segni di colonizzazione dal 2100 al 100 a.C. Infatti già dai tempi di Abramo, nonno di Giacobbe, questo luogo era conosciuto come sacro ed il Patriarca vi fece sacrifici propiziatori e di ringraziamento sia prima che dopo il suo viaggio in Egitto. In Giudici 20, 18 e 21, 2-4 viene detto che qui era temporaneamente custodita l’Arca. Dopo la divisione del regno di Israele esso divenne il santuario di riferimento del Regno Settentrionale. In Genesi 31, 13 viene poi detto che Giacobbe unse la pietra sacra con l’olio. D’altro canto testi rabbinici quali il Midrash Tehillim ed Pirque Rabbi Eliezer confermano che Giacobbe, dopo aver alzato la Pietra su cui aveva appoggiato la testa, “la unse con olio che era gocciolato dal cielo, e Dio affondò la pietra nel terreno tanto profondamente, che essa fu chiamata ‘Eben Shetiyyah’ = ‘Pietra di Fondazione’”. Questa “Eben Shetiyyah”, sebbene fosse situata alla profondità di 1500 cubiti, fu sollevata da Re Davide, ma, come raccontano le fonti talmudiche, fu precipitosamente rimessa al suo posto per evitare pericolose esondazioni di acque della falda freatica, che si trovavano subito sotto. Dopo Re Giosia, Luz fu idealmente localizzata con la roccia ai piedi del Monte Moriah, a Gerusalemme, dove fu poi costruito il Tempio di Salomone. La versione ebraica di Genesi 28, 18 afferma a proposito di “Beth-El”: “Luz era il nome della città in precedenza”. La versione greca della “Septuaginta” ribadisce: “Luz era il nome della città in precedenza”. In pieno accordo è anche la versione latina della Vulgata: “appellavitque nome urbis bethel, quae prius Luza vocabitur” = “E dette il nome di Bethel alla città che prima si chiamava Luz”.  Il noto esoterista francese Renè Guenon (Il Re del mondo) ci spiega che Luz era chiamata città azzurra, con lo specifico riferimento al cielo. Linguisticamente Luz significa “Mandorlo” o “Nocciolo”, considerato che un albero simile ne nascondeva l’ingresso, che avveniva attraverso un cunicolo d’accesso.  Per gli antichi saggi Luz era collegata alla particella del corpo umano cui restava legata l’anima. Non a caso ancora oggi si parla, descrivendo l’argomento od il punto chiave di una questione, di “nocciolo”. Il mandorlo od il nocciolo, come ci informa Robert Graves (La Dea Bianca) anche dai popoli celtici era considerato come albero dai poteri para-normali o non umani, considerato che i maghi usavano, si dice, una bacchetta di mandorlo, le streghe usavano manici di scopa fatti di nocciolo, e, non dimentichiamolo, ancora oggi i bastoncini dei rabdomanti sono fatti con legno di “mandorlo” o di “nocciolo”. Il mandorlo, inoltre, era l’albero da cui Aronne ricavò la sua “Verga”, che in francese viene tradotta con il termine “Crosse”. Parimenti la “Menorah”, il candelabro a 7 braccia aveva i boccioli a forma di mandorla, come raffigurazione della Verga di Aronne che germogliava. In Geremia 1, 11 il ramo di mandorlo era garanzia della visione profetica ricevuta da Dio. Il nocciolo, invece, era emblema della saggezza. Una caratteristica importante è poi che a Luz si arrestava il potere dell’Angelo della Morte, che non vi poteva entrare.

Diventiamo il ‘luogo’, la ‘casa’ capax Dei solo quando rompiamo il ‘guscio’ protettivo dei nostri averi, della nostra sclerotizzata identità. Facciamo un excursus nell’ebraismo. La gimatreya, che calcola il valore numerico di una parola sommando i valori di ogni singola lettera, rivela che Giacobbe da come valore numerico 186; ebbene, è l’equivalente di maqom, luogo. Alcuni studiosi ebrei spiegano che ham – qom designa il Creatore che viene chiamato, così, Luogo di ogni altro luogo. Cosa se ne ricava? Se essere Giacobbe è lo stesso che essere luogo (maqom) è lui a dover essere luogo di Dio; non tanto, cioè, un pezzo di terra Lo accoglie, ma l’uomo! Si narra che quando Rabbi Baruch arrivava alle parole del salmo: “Non darò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre fino a che non abbia trovato una dimora a Dio” (Salmo 132, 4), si fermava e diceva a se stesso: «fino a che trovo me stesso e faccio di me una dimora pronta ad accogliere la Shechinà» (la presenza, cioè, di Dio in mezzo al popolo). Dio, d’altro canto, essendo Luogo di ogni altro luogo è Colui che ci contiene.

Giacobbe ha mandato avanti famiglia, servi ed averi. Resta con se stesso e, perciò, può offrirsi privo di paraventi rassicuranti a quella avventura massimamente arrischiante che è l’incontro col Trascendente. I beni pare assicurino pace, tranquillità impedendo alle domande di senso, al desiderio di Dio di venirci ad inquietare; questa, però, non è la pace da augurare ad un credente. Lo insegna anche il Vangelo. Giovanni 14, 27 viene di solito tradotto “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Il termine greco che traduciamo ‘lascio’, aphíemi, significa, piuttosto, ‘togliere, ripudiare’. Si tratta, cioè, di volgere le spalle a quella pace che diventa inazione ed impedisce di andare oltre. Giacobbe vive una esperienza personale che non porterà una pace amorfa in quanto si dovrà assumere il compito di guidare il  popolo. Non a caso, in Gn 35, 1 – 3, Dio gli dice: Alzati e va a Betel; quando il patriarca si rivolge ai suoi, dice: alziamoci! Dopo l’incontro con Dio non si è più soltanto di se stessi, ma si appartiene al mondo, agli altri... Dopo la morte di Rachele, quando Giacobbe si è già visto mutare il nome in Israele, la prima sosta del primo viaggio da uomo nuovo, è a Migdal – Eder che significa ‘Torre delle Pecore’: luogo dal quale il Pastore custodisce e veglia le sue pecore. Per assumere la dignità di vigilare e guidare il popolo, Giacobbe ha dovuto superare Luz, rompere il guscio della mandorla. Se prendiamo tra le mani il libro del profeta Geremia, scopriamo che Dio usa l’immagine del mandorlo per garantire che Lui vigila affinché la Parola si compia. In ebraico, mandorlo (shaqed) suona simile a vigila (shaqad). Approfondendo, scopriamo che la parola ebraica shaqed (mandorla) è l’anagramma di qodesh, ‘santità’! Non troviamo nella Scrittura una sola parola, una sola immagine che non siano potenti, evocative e dense di significato.

La figura dei Patriarchi si avvicina, per certi versi, all’uomo postmoderno. In che senso? Siamo, è stato detto, viaggiatori senza bagaglio; cioè, le scorte del sapere tradizionale, della fede cristiana pare non ci accompagnino più perché abbiamo ritenuto tutto quanto zavorra inutile e buona soltanto a rendere difficoltoso l’andare non si sa verso dove (ateleologia postmoderna). Giacobbe lotta con Dio dopo che ha lasciato andare avanti i suoi cari e quanto possiede: è solo come l’uomo contemporaneo. La differenza, però, è che non rifugge il confronto con Dio. Solo animando tale confronto si può ottenere il ‘senso’ della nostra inquietudine, della nostra sofferenza. Isacco di Berditschev, in orazione, diceva a Dio: «Io non ti prego che tu mi sveli i misteri della tua via; non potrei sostenerli [...]. Ah, non perché io soffro voglio sapere, ma se soffro secondo la tua volontà». Ai Padri della fede interessa solo questo: sapere se tutto quanto accade è secondo la volontà del Signore! Tornando al valore attuale dell’erranza quale categoria biblica fondamentale, si può affermare, assumendo la lezione di Marchadour, che il ‘Dio dei Patriarchi’

è un Dio del viaggio. I santuari [...] non devono essere che steli di passaggio. La rivelazione sinaitica darà un nome più preciso al Dio dei Patriarchi, ma essa non eliminerà questo carattere di un Dio itinerante, che si sposta con il suo popolo.

La stessa Torah, possiamo osare, è nomade! Ai versi 10 – 16 del capitolo 26 dell’Esodo si ricevono istruzioni sul modo di costruire l’Arca che viaggia con Israele. Essa deve avere, leggiamo, quattro anelli d’oro nei quali infilare quattro stanghe di acacia rivestiti d’oro. Le stanghe, ovvio, garantivano la portabilità dell’Arca e, si precisa scrupolosamente nel testo, non saranno mai tolte. Salomone, poi, costruisce il tempio ma, collocando l’Arca nel Santo dei Santi, scopre che le stanghe sono più lunghe del luogo destinato ad accoglierla! Ebbene, fedele al comando, Salomone non le rimuove. Il filosofo Lévinas, spiega in questo modo il comando registrato in Esodo 26 e fedelmente eseguito dal re: le stanghe non vennero eliminate perché la Torah è sempre pronta al movimento, deve essere sempre in grado di camminare con il popolo. Per la mistica ebraica Dio stesso va in esilio col popolo! Pur essendo salda, definitiva, la Parola non è statica, immobile. In Qoelet 12, 11, si legge che le parole dei sapienti sono come pungoli e come chiodi piantati. I rabbini, allora, distinguono ed argomentano: mentre i primi spingono a camminare (la Parola ci pungola, ci costringe a muoverci), i secondi hanno il compito di fermare, fissare. Per i sapienti di Israele, dunque, questo è Torah:  allo stesso tempo ‘stabile’ e ‘dinamica’. La Sapienza ha una radice errante: ossimoro rivelativo e fecondo. In più, dicono i Maestri, in Qoelet, si legge “come chiodi piantati”! La Scrittura – insistono – dice “Piantàti”: come una pianta cresce e si moltiplica, così anche le parole della Torah crescono e si moltiplicano. Una ‘pianta’ è radicata non per rimanere inerte nel suolo, ma per crescere, dare frutti, espandersi; pur mantenendosi (anzi, proprio per questo) nel radicamento.

La questione dell’erranza come categoria immancabile, fondamentale della fede si slarga sugli scenari del Nuovo Testamento. Nella Prima Lettera di Pietro, Gabriele Bentoglio, rintraccia lo statuto ontologico del cristiano. Si condensa nel termine greco parepidemos: indica lo straniero che, per il momento, abita in un posto che non è la sua patria. In Genesi, nell’Esodo (Gn 17, 8; 28, 4; 36, 7; 37, 1; Es 6, 4; Ez 20, 38) si dice che la terra che Dio darà al popolo eletto è una terra di pellegrinaggio – dove si è forestieri. I verbi ebraici gar – yashav, i derivati magur, gher, toshav, la coppia gher we-toshav per i LXX vanno tradotti con paroikeô (peregrinare, soggiornare come forestiero in un paese che non è il proprio); si ha pure kai parepidêmos (colui che non appartiene al popolo in mezzo a cui abita). Come mai anche il testo neotestamentario che stiamo considerando assume queste ‘categorie’, simili ‘termini’? Bentoglio offre la sua risposta:

Al nostro autore non interessa tanto la figura dello straniero della sua epoca. Attraverso questo vocabolo vuole rievocare le figure bibliche dell’Antico Testamento […]. Il credente, in effetti, è come Abramo a Cannan, come Giacobbe  nella terra degli Aramei, come Giuseppe in Egitto… Questi modelli biblici vengono richiamati dal nostro autore per dire ai suoi lettori che il credente vive nella provvisorietà, nella instabilità.

Come si può notare, il tema è vicino al pensiero postmoderno. Molti autori contemporanei – in particolare Deleuze e Guattari – parlano di pensiero nomade, non ancorato a certezze, ma giocato nel percorso. C’è in gioco, inoltre, una promessa che tiene in tensione perché si innesta in vite che non sono moralmente ineccepibili. Continua Marchadour:

Con i Patriarchi, entriamo nella storia della terra promessa […]. I racconti patriarcali mantengono una suspense abile attorno a questa promessa che è rinnovata a ciascuno dei Patriarchi.

Anche il nostro tempo fa promesse che ci tengono col fiato sospeso. Si tratta di stabilire da chi provengono. Giacobbe ci invita allo sforzo di comprendere con chi lottiamo, da chi esigiamo benedizione. Se ci volgiamo a Dio abbandoniamo la condizione di orfani. L’uomo postmoderno si vanta di appartenere solo a se stesso e, poi, paradossalmente, muore di solitudine. Il Dio che benedice ci dona l’identità gioiosa di figli. In ebraico, infatti, il verbo benedire, barok, è composto da barfiglio – e la Kaf finale che significa tu. Tu sei Figlio: ecco cosa ci dice il Signore benedicendoci ed ecco perché Giacobbe giunge a minacciare Dio pur di ricevere, al termine della lotta, la benedizione! Immettiamoci di nuovo nel percorso perché la ricerca è l’occupazione piena, perenne di chi si nutre della Parola. Cercare è anche quanto più ci caratterizza come uomini e soprattutto come uomini di fede. Recita il versetto 12 del Salmo 85: emet me’erets titsmahla verità germoglierà dalla terra. Non è atemporale, astorica, per noi, la verità!Continuiamo a cercarla, perciò, in compagnia del nostro personaggio.

Quando Giacobbe si allontanerà da Labano, troverà sul suo percorso angeli; a detta del noto esegeta von Rad, accade perché il Patriarca avvicinandosi alla terra promessa si avvicina anche al mondo divino.  La stessa letteratura profana individua gli ‘angeli’ come ‘itineranti’. In Opere e giorni, l’antico autore greco Esiodo, scrive: «quando ebbe realizzato l’arduo inganno fatale (si fa riferimento alla creazione di Pandora), Zeus mandò a Epimeteo l’inclito Argifonte, il messaggero veloce (anghelon) per portare il dono degli dei». Proprio come l’homo viator, l’Angelo è continuamente in cammino! Prima di rinvenire ‘tracce della Trascendenza’, però, si deve sperimentare l’erranza, l’esilio!
La parola ebraica golah sta per esilio, deportazione; la parola – simile nel suono – ge’ulah, sta per redenzione. L’Alef (prima lettera dell’alfabeto ebraico e qui indicante il principio, l’origine) compare soltanto nel secondo termine; ebbene, ciò indica che la redenzione è superare l’esilio andando verso l’origine (Alef). Se non si torna a Dio ci si smarrisce; ma, va detto, solo chi si smarrisce può comprendere la necessità del viaggio, l’opportunità insita nell’esilio e gioire del ritorno. Nel percorso,  tuttavia, raccogliamo tracce, indizi… l’uomo è accerchiato da Dio! Accerchiato (nel senso di essere avvolto in un abbraccio), non schiacciato! La lotta ingaggiata dal Signore con il Suo eletto, in quella notte di travaglio per lo spirito, si svolse, dice accuratamente lo scrittore sacro, con Giacobbe e non contro. Di solito, chi lotta è contro; qui, in realtà, lo scontro è un incontro passionale, acceso di promesse e speranze. In primo luogo, il Patriarca affronta, per dirla con Jung, la propria Ombra; non si rifugia più in astuzie, giochetti, ma si mette, privo degli averi e dei sostegni parentali (li ha già mandati oltre) di fronte a se stesso ed a Dio prima di affrontare il fratello Esaù. Vedremo perché. Una illuminazione viene da Daniel Taub:

la Bibbia ci tiene a sottolineare che la lotta si svolge quando Giacobbe è solo […]. Sembra che […] si tratti di un conflitto interno […]. Ora prima di poter affrontare Esaù, Giacobbe deve affrontare se stesso […]. Prima di ingaggiare una battaglia, dobbiamo combattere dentro di noi per essere convinti della giustizia della nostra causa.

Si ha un percorso articolato in due tappe fondamentali: l’incontro con Dio e con il fratello. Prima si tratta di rompere il guscio delle nostre protezioni (identità, convinzioni, cose… ); poi, occorre collocarsi su di un luogo neutro, aperto, nella notturna solitudine con se stessi. Fare spazio a Dio per poter poi andare, mutati radicalmente nella nostra identità, incontro all’altro. Fino a quando, come Giacobbe, penseremo che la riconciliazione con l’altro passa attraverso un risarcimento fatto di cose, siamo ancora prigionieri di una idea falsa di relazione. La Bibbia è un serbatoio di insegnamenti preziosi per comprendere appieno il valore di una etica fondata sull’Altro/altro: «Tutto lo spirito della Bibbia sta nel fatto che il rapporto con il divino attraversa il rapporto con gli uomini e coincide con la giustizia sociale» - conclude Taub.

Non c’è, nella fede, alcuna solidità, forza che non si formi nell’incertezza, nella fragilità; a differenza di altri pellegrini, come dicevamo, il Patriarca, qui, alloggia in un luogo che, solo dopo, si rivelerà abitato da Dio. Ha scritto uno studioso  che, a partire dal comando dato ad Abramo di lasciare il suo paese (Gn 12, 1), si scopre qualcosa di particolarmente inquietante: ‘fragilità’ e ‘solidità’ stranno strettamente e paradossalmente assieme! Il Dio roccia provoca instabilità, ci rende mobili e ci consegna ad un ininterrotto cammino. La fede, nel nostro tempo dovrebbe apparirci una proposta non dissonante con i contesti nei quali ci muoviamo. Nomadismo, erranza, ripeto, sono categorie che finanche la più acclamata filosofia contemporanea mette al centro della scena. Giacobbe è un personaggio inquieto, itinerante, alla ricerca di una via d’uscita dalle Sue tare etiche e, per di più, ontologiche. Ha scritto Westermann:

Giacobbe scopre un luogo santo a Betel, ma non vi rimane. Gli Israeliti arrivano al Sinai, ma non vi rimangono. I profeti proclameranno la distruzione del tempio di Gerusalemme, ma la religione d’Israele continua.

Questa citazione è riportata da Marchadour in un commento teologico – pastorale su Genesi. In un riquadro, lo studioso francese ci ricorda che Betel rimase un santuario del Signore ancora fino alla caduta del regno del nord (2Re 17, 28). Con la ‘riforma di Giosia’ (622), però, il culto venne ‘centralizzato’ a Gerusalemme e inizieranno, tutti i santuari locali, a conoscere una lenta, inarrestabile decrescita. La Scrittura documenta: «Giosia demolì anche l’altare che era a Betel, il santuario che Geroboamo, figlio di Nebat, aveva costruito per trascinare Israele nel peccato» (2Re 23, 15); ebbene, cadono i ‘luoghi di culto’, finanche il Tempio – dirà Gesù – può polverizzarsi, perché il traguardo della fede matura è amare, come converrà la Samaritana nel vangelo giovanneo, Dio in spirito e verità. È il nostro cuore il ‘vero santuario’ nel quale vuole albergare il Signore. Chi dobbiamo essere perché ciò accada?

L’identità – va detto in prima battuta - non è naturale, ma conquista storica da rinegoziare nel confronto con gli altri e, per chi ha fede, con Dio. Se vogliamo avere, in questa ricerca, conforto vero, non resta che lasciarsi provocare dalla domanda del Trascendente: chi sei? Qual è il tuo nome? (come venne chiesto a Giacobbe). Quando è Dio a parlarci, non siamo di fronte ad un mero flatus vocis, ma a confronto con la Parola che davvero, essendo potente, può cambiare le cose, smuoverci a partire dalle profonde scaturigini del nostro essere. Ha detto Schillebeeckx che, per la mentalità semitica, non si possono dividere nettamente parola e parlante. La prima, infatti,

è un modo di essere della persona stessa… la forza della parola è la forza stessa della persona che la pronuncia: di qui la potenza della Parola di Dio.

Se chiediamo a qualcuno il suo nome, lo facciamo per mera curiosità e non certo perché pensiamo di coglierne la quintessenza, né per causare, nelle sue profondità radicali (positivi) cambiamenti. Che senso dare, dunque, al fatto che, durante la lotta, il misterioso assalitore, chieda a Giacobbe: ‘Come ti chiami?’. Se è Dio, ovvio che lo sappia! Chiede perché vuole che l’interlocutore divenga consapevole della propria quintessenza (che, ripeto, per gli ebrei viene espressa dal nome). Solo se io stesso riconosco chi sono inizio quella fase della vita (nuova) che il filosofo Martin Buber chiamava ritorno autentico a se stessi. Ci si riconosce solo quando rispondiamo ad un appello che, appunto, ci responsabilizza. Pronunciando ad alta voce il proprio nome, qui, il Patriarca è come dicesse: Io sono un usurpatore, uno che ha frodato il fratello. Davanti a Dio, inoltre, non si può mentire, né celarsi dietro falsa identità. Già Adamo sperimentò che nascondersi dietro i cespugli è inutile. La voce di Dio chiama non per condannare, ma per farci uscire dai nostri dannosi nascondigli. Ad Adamo, infatti, non ordina ‘Esci da dietro al cespuglio’, ma dove sei? Lo invita, cioè, ad una confessione. Come dice Buber, gli chiede: a che punto sei del tuo percorso esistenziale? A Caino chiede: dov’è tuo fratello? Non lo accusa di omicidio. A Giacobbe non dice, in tono accusatorio, sei un usurpatore, ma domanda come ti chiami? Qual è l’identità nella quale finora ti sei nascosto? Basta un accenno di risposta da parte dell’uomo caduto ed il ‘dialogo’ vivificante con il Signore è immediatamente ripristinato. Insegna la tradizione ebraica: «Dalla terra al cielo c’è un cammino di 500 anni, ma appena un uomo sospira o magari medita una preghiera, Dio è lì ad ascoltarlo».

La benedizione usurpata ai danni di Esaù, durante la notte della lotta con Dio, diventa richiesta insistente, coraggiosa. Giacobbe dice al lottatore che non lo lascerà andare senza riceverne la benedizione. Perché è così importante? In primo luogo, quella estorta al padre con l’inganno era desiderata per ricavarne privilegi, per primeggiare sul fratello; in questo caso, il Patriarca è solo! O meglio: si trova da solo in un luogo apparentemente anonimo, ma che diviene ‘casa di Dio’ (Betel). Massimo Barbetta ha importanti chiarificazioni su Betel:

Nell’antichità “Beth-El”, volgarizzato in “betilo”, era collegato a pietre meteoriche, e, più in generale, con la sacralità connessa alle manifestazioni celesti. Tracce di questo aspetto le troviamo nel mondo greco con […]la “pietra meteorica”. Esichio la indica come il Palladio a Troia, o la pietra mostrata a Delfo ed ingoiata e poi rigettata da Urano. Pausania riferisce che questa pietra era unta di olio e poi ricoperta di lana grezza, quasi con lo stesso rituale eseguito da Giacobbe. Lo storico fenicio Sanchuniaton identificava il “betel” = “pietra sacra e dimora divina”, come luogo di nascita del Dio El. Secondo Filone di Biblo il Dio El equivaleva all’ellenico Crono. Fozio, invece, parla invece di diversi antichi “Bethyl” presenti in Libano. Non mancano in questa rassegna i Latini, presso i quali il “baetulus” era la “pietra-tuono”, sacra al Dio Terminus. Il “Beth-El” aveva così il significato di pietra “Omphalos”, una sorta di “Ombelico del mondo” che collegava idealmente il Cielo alla Terra.

Torniamo all’atmosfera notturna, agonica eppur incantata che il testo biblico ci fa rivivere con Giacobbe. Di notte, sotto il firmamento… non ha forse detto Paolo VI che l’universo è l’immensa cattedrale di Dio? L’uomo biblico non sa essere felice se privo della benedizione di Dio. Non è superfluo spiegare che, nel mondo orientale, la ‘benedizione’ si dà in caso di una partenza o nel momento che precede la morte. Con essa, poi, viene trasmessa una forza vitale (fisica e spirituale). I Patriarchi credevano che la morte avesse l’ultima parola e, per questo, era indispensabile avere discendenti ai quali trasmettere una simile forza. Sebbene si rischi di scadere nella magia, resta che ad aver valore, in quel tempo, non era il lasciare ‘beni materiali’, ma donare qualcosa di profondamente personale, spirituale. Oggi pensiamo che la felicità sia fatta di cose, proprio come Giacobbe, prima di divenire Israele, pensava di poter riconquistare il fratello con inerti oggetti. Per il credente la felicità risiede nell’essere benedetti dal Signore. Il già citato Bonhoeffer amava leggere l’Antico Testamento; anzi, dichiarava di pensare con le categorie che in esso ritroviamo. In una lettera a Eberard Bethge del 28 luglio 1944 spiega che il concetto di felicità contenuto nella Torah è strettamente intrecciato alla benedizione:
Il concetto teologico che nell’Antico Testamento media tra Dio e la felicità ecc. dell’uomo, per quel che riesco a vedere, è quello di benedizione […] per esempio per i Patriarchi, non si tratta di felicità ma della benedizione di Dio, che racchiude in sé tutti i beni terreni […]. Del resto, anche nell’Antico Testamento colui che è stato benedetto deve senz’altro soffrire molto (Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe), ma questo non conduce mai […] a porre in contrapposizione assoluta felicità e sofferenza.

La benedizione non è evento magico che mette tutto a posto, ma è già un buon inizio. Giacobbe ha visto Dio, si legge, panim – el – panim, ‘faccia a faccia’. Ha sperimentato realmente la ‘forza di Dio’ e, dunque, avviene il cambio del nome, Israele che significa il Signore si mostri forte. La ‘forza di Dio’ sarà anche la sua forza. Non era un uomo retto, ma il Suo desiderio di benedizione, da occasione di frode, di prevaricazione, si converte in desiderio di ricevere la benedizione di Dio per andare verso l’altro in maniera autentica. Henri Huvelin diceva che il benpensante è uno che sperimenta la conversione con maggiori difficoltà! Di fronte al nostro Patriarca c’è davvero molto da pensare riguardo ai criteri divini di elezione: «Sembra, quasi, – scrive puntuale Rossi de Gasperis – che l’eletto da Dio sia il più maldestro nella sfera morale». Per l’etica Giacobbe è un fallito, ma di fronte al Signore anche le nostre tare ontologiche possono essere occasioni propizie. Dio legge il cuore nelle profondità precluse allo sguardo dell’etica. Siamo troppo presi dalla contemplazione della nostra vernice cristiana per accorgerci che, spesso, sotto di essa c’è una inamovibile scorza di miscredenza. Diceva Yves Congar che le nostre chiese sono ancora troppo affollate di pagani che vanno a messa. Si esce dalla chiesa e non si incontra il fratello. Non si è davvero lottato corpo a corpo con Dio, non si è conosciuto il doloroso combattimento che conduce il Signore a benedirci. Non si passa da soli la notte all’aperto, presso il guado del fiume che separa dalla terra promessa dell’amore, della carità. Non si mandano avanti affetti e beni per restare soli: si vuole sempre una garanzia, una rassicurazione mentre Dio desidera sorprenderci da soli in un luogo che diventi, a prezzo di sofferenza e lotta, il Suo Luogo. Come Giacobbe ai danni di Esaù, estorciamo benedizioni con l’astuzia di sentirci cristiani unicamente perché nati in una tradizione religiosa; si pensa di avvicinare il fratello, come inizialmente fa il nostro Patriarca, donandogli cose dopo aver avuto cura di sottrrarre al dono il Donatore. Riguardo al momento arido di immaturità affettiva, scrive Francesco Rossi de Gasperis: «Il Soppiantatore continua a nascondere la sua persona dietro alle sue cose». Si deve eliminare il filtro oscurante delle ‘cose’ dal campo visivo nel quale viene a cadere l’immagine dell’altro. Solo passando con sofferenza redentrice dalle parti di Dio, laddove Egli lotta con noi (mai contro) per renderci uomini nuovi, si può pensare di raggiungere l’altro.
Dopo l’esperienza presso lo Iabbok, allora, la modalità di relazionarsi con l’altro viene capovolta. Scrive ancora Rossi de Gasperis: «Ci si preoccupava di come incontrare “la faccia del fratello”, e ci si accorge che tra la sua e la nostra faccia si erge improvvisamente “la faccia di Dio”». Ne Il castello interiore, Teresa d’Avila esplicita tutto questo in maniera lapidaria:

La nostra natura è così cattiva che l’amore per il prossimo non sarebbe mai perfetto se non avesse la sua radice nell’amore di Dio.

C’è nel testo un ineliminabile alone di mistero riguardo all’antagonista del Patriarca: prima si pensa sia un uomo, poi un Angelo, poi si scopre che è Dio stesso… La patina di mistero, qui, non mi preoccupa. Mai si può avere una visione perfetta di Dio; l’uomo che l’avesse, (ma chi potrebbe reggere ad essa?) insuperbireb be oltre ogni misura.
Massimo il Confessore dice che Dio rimane nascosto anche nella sua epifania. Le evocazioni bibliche del ‘mistero’ possono guarirci dal nostro ostinato razionalizzare ogni cosa e, se le cose si sottraggono a tale forzatura, le battezziamo come insensate. Mi pare opportuno inserire qui l’invito di Hans Urs Von Balthasar: «Siamo arenati sulle spiagge del razionalismo, ritorniamo a tastoni alla roccia scoscesa del mysterium». Scopriamo cosa accade dopo la notte.

Il testo recita: ‘Spuntava il sole…’. Non siamo di fronte, anche questa volta, ad una mera precisazione cronologica, ma ad un fenomeno straordinario. Il tempo dell’apprendistato, della sofferenza interiore è passato. La nascita di un giorno nuovo (non soltanto di un nuovo giorno) vede la nascita di un uomo nuovo! La vicenda del Patriarca diventa paradigmatica per gli ebrei e per noi tutti: mostra come fare Teshuva, ‘ritorno a Dio’, ‘conversione’. «Tutta la storia di Giacobbe è una magnifica storia di conversione. È, anzi, la storia paradigmatica della conversione di Israele» (Rossi de Gasperis). Se di notte è difficile vedere con chi si lotta, di giorno si distinguono agevolmente le figure; nel sole della rinascita spirituale, nella luce di una identità rinnovata le cose appaiono come sono agli occhi di Dio. In Gn 33, 1, c’è una stupenda affermazione: “Poi Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù”. Ora si vede il fratello che viene verso di noi, ma non più con lo sguardo di chi sta sulla difensiva: siamo, ormai, nella condizione di chi si ha imparato l’arte dell’accoglienza. Non più cose tra noi ed il fratello col quale riconciliarci, ma un cuore nuovo, un nome nuovo possiamo offrire. Vero che dopo la lotta Giacobbe zoppica, ma mai come adesso è un uomo al quale altri potranno appoggiarsi: diventerà la guida del suo popolo. Isaia, rivolgendosi alla ‘casa di Giacobbe’, dice vi appoggiate sul Dio di Israele (Is 48, 1 – 2). Israele, nome nuovo del Patriarca, dona e testimonia il Dio sul quale appoggiarsi per non più zoppicare nella storia che va verso il compimento escatologico.
Nel Cantico dei Cantici, la sposa sale dal deserto appoggiata al suo diletto (Ct 8, 5). Mai camminiamo così sicuri, pur se feriti all’anca come Giacobbe, come quando nostro sostegno è il Signore.  Colui che zoppica diventa guida; il soppiantatore, l’uomo delle astuzie ordite ai danni del fratello, spostandosi dal piano etico a quello della fede, diventa un uomo in grado di occuparsi di altri. Un richiamo a tutto questo lo leggo nell’episodio in cui Giacobbe conosce accanto ad un pozzo la figlia di Labano, l’amata Rachele (per ottenerla in sposa, come per strappare la benedizione a Dio, dovrà molto lottare). Il pozzo è un potente simbolo teologico: esprime la sete profonda del cuore umano. Su di esso c’era una grossa pietra che, per essere spostata, esigeva cooperazione; un solo uomo non avrebbe potuto rimuoverla per attingere acqua. Ciò a dimostrazione del fatto che l’acqua è un dono per tutti, comunitario. Ebbene, per amore di Rachele, Giacobbe riesce a trovare la forza per rimuovere da solo quella pietra. Era un uomo, dunque, che non solo nell’astuzia aveva la sua forza, ma anche nell’amore. Lo stesso amore, oso pensare, che gli fornì la forza per strappare la benedizione a Dio. Per amore dei fratelli più deboli (rappresentati da Rachele), dobbiamo riuscire a trovare la forza di spostare la pietra che ostruisce il pozzo delle sacre Scritture per donare l’acqua di vita che è la Parola. Certo, la pietra della difficoltà va rimossa preferibilmente con sforzo comunitario, ma laddove si esige un singolare supplemento di forza, non tiriamoci indietro.

Giacobbe è un uomo nuovo: il sole sorge, può alzare gli occhi e vedere il fratello (non più la minaccia). Dio vuole che il cuore dell’uomo sia unificato dall’amore e nella carità e giammai bloccato nell’ambiguità. Isaia, infatti, lamentava che il Signore attende ‘giustizia’ (mišpt) e si sparge sangue (miph); si aspetta ‘rettitudine’ (sedaqa) e salgono forti le voci dolenti degli oppressi (se’qa) (5, 7). L’uomo di fede conosce bene i tormenti di un cuore diviso, non offerto interamente al Signore. Nel Salmo 88, il verso 11, recita: jahed lebaby. Tradotto letteralmente: fa’ uno il mio cuore! Lo smarrimento morale, religioso, dunque, era fortemente sofferto da Israele. Geremia lamentava: il sacerdote e il profeta si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare (14, 18). Lo smarrimento deriva dal fatto che l’uomo ha il cuore lacerato dal desiderio di Dio che, però, si declina in adorazione dell’idolo. La denuncia del profeta si attualizza nei versi di Victor Hugo:

Triste, su una panchina accostata al muro/Il vecchio prete sta chino, a stento riesce a vedere/E nell’oscura luce sillaba un libro oscuro./O prete, invano sogni, invano ti tormenti./L’uomo più non intende quel che rivela Dio.

I tempi nostri sono, dunque, altrettanto difficili per chi annuncia la Parola; anche noi dobbiamo lottare: non al guado dello Iabbok, ma a quello delle grandi e spinose questioni del mondo contemporaneo: etiche, scientifiche…

A salvare Israele è la memoria della fedeltà di Dio. Io, il Signore, ho parlato e lo farò (Ez 17, 24). Dio non ritira la Sua parola! Fare memoria di questo significa credere. Entra qui in gioco la differenza tra elezione ed alleanza. La prima dipende unicamente da Dio e non verrà mai abolita; la seconda, invece, richiede la partecipazione e la volontà dell’uomo; dunque, è a rischio! Se la condotta morale è scadente, la speranza fonda sulla incrollabile fedeltà del Signore. Quando l’alleanza, per colpe esclusivamente umane vacilla, la fede fonda sulla memoria dell’elezione: Dio sceglie il Suo popolo una volta per tutte. Ogni uomo che aderisce alla fede ebraico – cristiana deve ricamare sulla propria memoria la storia di Israele. Una leggenda ebraica narra che, passato il Mar Rosso, Israele cantava con gioia e partecipavano pure gli Israeliti dei tempi futuri. Quando i fuggiaschi, fidando unicamente in Dio, si gettarono in mare, i

ventri delle donne erano diventati cupole di cristallo trasparente, attraverso le quali i figli a venire e i figli dei figli dei figli poterono contemplare quel miracolo. Così in Giacobbe, in Abramo, Mosé, sappiamo cosa farà per noi il dio che ha già fatto cose straordinarie per chi ci ha preceduto.

Torniamo a Giacobbe. Finalmente, dicevamo, c’è un uomo nuovo che ha imparato come ci si riconcilia col fratello. Davanti ad Esaù si inchina sette volte. Il particolare desta stupore perché è un gesto di adorazione riservato al Signore. Il fatto è che, ormai, la traccia del Volto è da cogliere nel volto dell’altro. Dice Giacobbe: Io sono venuto davanti al tuo volto come si viene davanti al volto di Dio. Joseph Campbell trova ‘bellissimo’ il saluto che ci si rivolge in India: si uniscono i palmi delle mani quando si prega e, legando questo gesto all’inchino, si vuol significare che il dio che è in me sta salutando il dio che è in chi mi sta di fronte!

Ci appare sempre più chiaro che, se l’etica condanna un uomo, la grazia può, volgendo al bene ciò che vi era in lui di peggio, renderlo testimone di Dio e guida per gli altri; prima, però, occorre allontanare quanto ci protegge: arrischiare il nome (la nostra identità) presso il guado del fiume che ci separa dalla Terra Promessa che è il fratello. Solo quando la notte dell’egoismo, dell’atteggiamento astuto e rapace è passata sorge il sole da guardare con occhi nuovi.
Solo a questo punto, come accade a Giacobbe, non più l’avversario vediamo arrivare, bensì, il fratello!
Si è passati attraverso una lotta con Dio per giungere alla convinzione che il luogo nel quale siamo non è anonimo, ma è la ‘porta del cielo’, la ‘casa di Dio’.
Deve accadere ai luoghi nei quali ci tocca vivere coi fratelli quanto è accaduto presso il fiume Iabbok:

Il luogo si trasforma nel corso del racconto: dapprima è la riva di un torrente, luogo sinistro nell’ombra notturna, in cui si produce l’aggressione dello sconosciuto, luogo malefico dove si aggira la morte… Alla conclusione della lotta, il sole brilla su questo luogo ormai consacrato, diventato santuario (R. Couffignal).

L’altro luogo da cambiare (convertire) è il cuore! Dopo che il nome di Giacobbe è stato mutato in quello di Israele, come sopra dicevamo, ci si rimette in viaggio e la prima sosta è a  Migdal – Eder, Torre delle Pecore: luogo dal quale il pastore vigila e protegge le sue pecore. Dobbiamo diventare pastori che hanno cura del gregge; tutti, non soltanto i sacerdoti sono chiamati a questa vigilanza. Tutti siamo sentinelle che Dio pone a guardia della Storia. Mi piace richiamare una bella pagina del compianto vescovo di Molfetta, Tonino Bello. Scomparve nel 1993, il 20 aprile. Nella sua diocesi, alla messa di commiato, parteciparono oltre 50 mila persone! In Le mie notti insonni, edito nel 1990, Tonino Bello sgranava un rosario di domande scottanti:

C’è un passo di Isaia che dice: “Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21, 11). È l’interrogativo che mi pongo spesso anch’io. Per quanto tempo ancora, cioè, dobbiamo continuare a batterci? In questa lotta contro le forze perverse che opprimono l’uomo, c’è un traguardo che si avvicina, o siamo destinati a giocare interminabili tempi supplementari […]? […].Gli orizzonti della Terra Promessa tarderanno ancora a delinearsi? E noi li varcheremo? O ci tocca indicarli soltanto, come accadde a Mosé?

Credo – sulla scorta di quanto ha vissuto Giacobbe – di poter tentare una risposta (incoraggiante). Vinceremo le ‘forze perverse’ che ci opprimono quando sapremo celebrare, per riprendere l’espressione di un celebre autore cristiano, il sacramento del fratello! Quando sorgerà il sole, se avremo meritato la benedizione di Dio, potremo alzare gli occhi e non vedere più il nemico – Esaù, bensì il fratello e riconciliarci; ecco, qui si ‘delineano’ gli ‘orizzonti della Terra Promessa’. Tonino Bello ne ha tratteggiato pennellate significative ed ogni credente deve aggiungervi un particolare. C’è in ogni storia umana un Esaù che ci aspetta: sarà vendetta o riconciliazione? Questo il pericoloso guado che ci tocca attraversare. Pazienza se la notte è lunga e ci toccherà lottare fino al mattino con Dio; quello che conta è che, al sorgere del sole, sia luminoso il nostro sguardo che può finalmente eliminare il nemico non con astuzia, doni, ma con il dono di sé. Giacobbe, per rabbonire il danneggiato Esaù, pensava di mandare avanti doni; al guado di Iabbok, scopre, però, che il solo dono gradito a Dio ed al fratello è un cuore nuovo: la capacità di vedere tracce del Volto nei volti:

Io sono venuto davanti al tuo volto come si viene davanti al volto di Dio.

Questo è il passaggio dall’etica alla grazia: non considerare l’altro a partire dalle nostre categorie di pensiero, ma imparare a guardarlo – per riprendere Dostojevskij – per come era nelle intenzioni di Dio.

A questo punto, immaginiamo Giacobbe che vede l’Angelo (Dio), all’alba, benedirlo ed andare via. Resta solo? Lasciami andare – intima l’Angelo!
Spunta l’aurora e l’uomo deve affrontare da solo, dopo l’incontro/scontro con la Trascendenza, le questioni della vita. Dio non si può trattenere come se fosse qualcuno sul quale acquisire diritti indiscutibili. La benedizione è data, la visita di Dio è accaduta…
Guigo II il Certosino, scrive:

E così, dopo aver dato la benedizione, ferito l’articolazione del femore e mutato il nome da Giacobbe in Israele si allontana per un certo tempo lo Sposo a lungo desiderato, subito sfuggito. Si sottrae quanto alla vista di cui si è detto, quanto alla dolcezza della contemplazione; tuttavia rimane presente quanto alla sua volontà di guidarci, quanto alla grazia, quanto all’unione con noi.

Queste parole siano di augurio: dopo aver ‘lottato’ per incontrare Dio e riceverne la ‘benedizione’, rimanga presente nella nostra vita con la volontà di guidarci, di donarci la ‘grazia’ che ci riscatta se sul piano ‘etico’ siamo carenti e rimanga unito a noi per sempre.

Passando dall’etica alla grazia impariamo che la Verità non è soltanto un compito per e dell’uomo, ma soprattutto dono di Dio. Esige, tuttavia, lo sforzo della narrazione, del comunicare: è un frutto che matura nel bozzolo dell’alterità e si realizza in comunità. Giacobbe lotta da solo al guado dello Iabbok, ma il frutto del suo combattimento andrà a beneficio del popolo. Rosenzweig definì la verità (emet) Stammwort, parola – matrice. È formata dalla prima lettera dell’alfabeto ebraico Alef, da quella mediana, mem, e dall’ultima, tav. Sta a significare che la verità non esce dall’orizzonte linguistico, né dall’evento comunicativo.  
Potremmo dire: la testa (Alef), per pensare, cercare, meditare; il cuore (mem), lettera centrale dell’alfabeto per dire che Dio va cercato con il cuore che, per la mentalità semitica, è il centro della nostra più intima e vera realtà; i piedi (tav) per dire che ci si deve mettere in cammino. In tutto ciò, però, mai va perso il Principio (Alef); infatti, se togliamo la lettera alef alla parola emet, resta met che significa morte! Quale insegnamento offre – sul piano della prassi – la vicenda di Giacobbe legata, a filo doppio, a quella del conflitto col fratello? Panikkar rovescia la tradizionale esegesi e, sorprendendoci non poco, elogia Esaù. Perché?

Esaù ebbe l’audacia di dire: “La mia primogenitura, il mio futuro, la mia storia, la discendenza: tutto questo mi importa poco; preferisco il piatto di lenticchie del presente […]” […]. Finora l’occidentale è stato un figlio fedele di Giacobbe. Quindi, senza disprezzarlo, poiché ci è indispensabile per la primogenitura, la spiritualità contemporanea dovrebbe apprendere da Esaù questo voler vivere felice, gustando la gioia di ogni istante.

Va detto, però, che ciò potrebbe portare all’estremo opposto: dall’eccessiva preoccupazione per il domani, alla totale adesione ad un edonismo sfrenato.
Su questo, Panikkar ha torto: troppi, in occidente, hanno – producendo gravi guasti – preferito il piatto di lenticchie del presente. Lo stesso autore, però, corregge il tiro:

E siccome, in fin dei conti, sono fratelli gemelli, entrambi potrebbero essere per l’occidente il simbolo e lo stimolo della sua spiritualità, della spiritualità per questo nostro tempo.

In noi ci siano Giacobbe ed Esaù: in noi devono riconciliarsi; sì, proprio come avviene nelle Scritture!
Si tratta di imparare a gustare le lenticchie del momento senza disinteressarsi degli altri, assumendoci le nostre responsabilità verso il futuro.
Riconciliati in noi Giacobbe ed Esaù avremo l’uomo completo che cerca Dio non nei piaceri o di là di essi, né malgrado essi. Si cerca Dio, si costruisce il futuro, si fa la storia gustando le lenticchie e, allo stesso tempo, condividendole con chi manca del necessario per vivere con dignità!
In questo modo, sperimenteremo una vita modulata sul basso continuo della grazia che Dio ci elargisce nella benedizione faticosamente strappata al guado del fiume della Storia che ci separa dal tempo escatologico.  

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