Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Dall’homo clausus all’homo reciprocus.

Appunti per un itinerario

Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attendersi una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa arriverà non tanto da teorie o da concetti, quando dalla luce incerta, vacillante, spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno accesso in ogni genere di circostanze, diffondendola sull’arco di tempo che fu loro concesso di trascorrere sulla terra H. Arendt

L’io, io!... Il più lurido di tutti i pronomi!C. E. Gadda, La cognizione del dolore.

L’io è odiosoB. Pascal, Pensieri.



Il filosofo Benedetto Croce sognava di ritirarsi in un «convento settecentesco napoletano, con le sue bianche celle e il chiostro, che ha nel mezzo un recinto d’aranci e limoni, e fuori, il tumulto della vita festosa e superba che batte invano alle sue alte muraglie». Un bisogno di ritrovarsi con se stesso senza il mondo! La vita cristiana, però, pur dando spazio al contemplare, non richiede l’isolamento, bensì la solitudine. L’io – dopo l’ubriacatura egologica moderna – (ad opera di Cartesio, Kant ed Hegel), si scopre sempre più solitario e sempre meno solidale con “altri” ed “Altri”. Dopo il “cogito”, giunge Kant a dire che «l’intelletto non deve nella logica occuparsi d’altro che di se stesso e della propria forma». Ma l’uomo non è tutto “intelletto” e non vive esclusivamente nel regno della “logica”. Da anni mi occupo di riportare al centro della riflessione filosofica (supportato dalla teologia) la categoria alterità. Ho scritto alcune cose, ma mi è stato chiesto un intervento per introdurre il tema “Dall’homo clausus all’homo reciprocus” – espressioni desunte dal saldare riflessioni di Elias e di Elena Pulcini. Qui non posso che, come si dice, affrontare per sommi capi la questione lasciando ai singoli interventi di configurarsi quasi come monografie. La ragione si è fatta sempre più “calcolante” a scapito delle sue dimensioni “anarchiche” (sogno, poesia…). Ad ogni modo, si tratta di strati ineliminabili e che solo una “scelta culturale” e non certo il “destino” ha reso meno decisivi nel parlare dell’uomo. Viviamo in tempi in cui tutto viene subordinato ad un parametro economicista e l’uomo vale in quanto consumatore e produttore. Come diceva Latouche, però, se riconduciamo alla ‘sua essenza’ la “logica economica” scopriamo che altro non è se non «un terrorismo della contabilità». Lo studioso francese ritiene che si debba rafforzare, perciò, anche l’“approccio culturale”: esso «implica tutt’altra logica […]. Nelle relazioni culturali, più si dona e più ci si arricchisce». Uscire dalle secche di una ragione che, dopo essersi resa autoreferenziale si sfalda nei rivoli di interessi di piccolo ed egoistico cabotaggio, significa comunicare realizzando l’identità polifonica che ci appartiene per statuto ontologico. Lezione, questa, che si impara e motiva soprattutto frequentando le provocazioni teologiche. L’antropologia cristiana invita a guardare in direzioni tutt’altro che egologiche. Nel mio intervento, dunque, si tratta di collocare dei semi sullo scaffale affinché – chi ne prende e ne getta nel terreno della propria intelligenza – contribuisca a sviluppare la pianta dell’alterità che, sola, dona ossigeno ad un io asfitticamente ripiegato in un narcisismo quasi non più avvertito. Il mio solco attende semina perché non c’è questione autenticamente umana che non debba porsi come accoglienza dei punti di vista altrui. Una citazione che allarghi il mio solco ed apra al lavoro di semina auspicato viene da Platone che, nelle Leggi (739 IX), scrisse che «il primo stato, il miglior reggimento e le leggi migliori sono là dove si segue per tutto lo stato, nella maniera più generale che sia possibile, l’antico proverbio, il quale dice che le cose degli amici sono veramente in comune».

* * *

La questione dell’uomo egologico parte da lontano. Muoviamo, dunque, i primi passi provocati dalla distinzione operata da Aristotele tra logos (parola) e phoné (voce). La prima è posseduta esclusivamente dall’uomo e serve ad esprimere “il giusto” e “l’ingiusto”, i “valori”; la seconda, invece, l’abbiamo in comune con tutti gli altri animali e serve ad indicare il “doloroso” ed il “gioioso”. Peculiare dell’uomo, dunque, è avere «la percezione del bene e del male» (Politica. I 2, 1253a 8 – 18). L’uomo pienamente realizzato, allora, ha la voce, ma soprattutto la “parola”; è, in una battuta, l’uomo del logos che, solo, può garantire l’espressione e la comprensione della vita etica. Logos, tuttavia, è anche “pensiero”. Aristotele non esclude che idee passino per la mente dei fanciulli, dei malati e dei pervertiti, ma chi ha senno non vi presta attenzione. Gli uni devono crescere, gli altri necessitano di cure mediche: «Sarebbe […] assurdo ragionare con persone che non intendono ragioni, ma soltanto le loro passioni». Siamo al punto: l’uomo patico (e patologico), che sia un infante o un pervertito, ha “idee” che non meritano attenzione; soltanto l’uomo logico merita ascolto e che si ragioni con lui (Eth Eud. I 3, 1214b 28 – 33). Aristotele attribuisce valore esclusivamente alla scelta deliberata (proaíresis) che avviene per mezzo del “calcolo” e della “riflessione” (proaíresis logon kaì dianoias) (Eth. Nic., III 4, 1112a 13 – 17). L’egemonia del “logos” trova riscontro anche nel rapporto col divino e, nei versi 5 e 6 del frammento 7 del Poema di Parmenide, la dea così si rivolge al filosofo: «ma con il logos giudica la prova molto discussa/che da me ti è stata fornita». Non la “fede”, ma la “ragione” deve valutare il discorso ‘divino’! La “divina mania” dei poeti non è più il luogo privilegiato del dialogo con gli dei e, nel frammento 42 di Eraclito, si legge: «Omero merita di essere espulso con la frusta dagli agoni, e Archiloco del pari». L’uomo del pathos perde sempre più terreno affinché cresca l’uomo logico che, centrandosi se stesso e annettendo al logos i luoghi del sapere e della fede, diventa ego – logico. I pathemata non sono più, come insegnava il sapere tragico, la via di accesso ai matematha. Aristotele, nel De Anima, sostiene che ‘pensare, amare, odiare’ non sono proprietà dell’intelletto, bensì di «questo determinato soggetto che lo possiede». Con la corruzione del soggetto svaniscono e l’intelletto non ne ha più notizia. Lintelletto viene considerato come «forse qualcosa di più divino e d’impassibile (theioteron kai apathes)» (I 4, 408b 25 – 29). Esso è “universale” e sta al di sopra delle passioni; la cosa migliore, dunque, è quella che si dà come apathes, estranea e refrattaria alle irruzioni del pathos. Ciò che non ha ‘pathos’ è ‘divino’ e l’uomo che vuole prendere dal dio la parte migliore ne imita l’apatia.

Il “logos”, così, oltre a divenire da ‘strumento’ qualcosa che è fine a se stesso, si dà non solo come ‘altro’ dal ‘patico’, ma soprattutto come ciò che è ‘contro’ di esso (anti – patico). L’intelletto, poi, è inteso da Aristotele come “universale”, unico per tutti. A liberare dal sequestro il soggetto sarà l’antropologia cristiana e Tommaso d’Aquino farà riferimento all’hic homo intelligit. A “conoscere intellettualmente” è questo uomo (con ‘nome e cognome’, direbbe Rosenzweig). Il pensiero cristiano, anche nel Novecento, insisterà a liberare la persona dalle catture egologiche di atavica discendenza. Un filosofo cattolico italiano, infatti, scriverà che «l’umanità dell’uomo è più della sua razionalità, ma non è senza di essa» [1]. Per il nostro autore, l’uomo del logos non è sequestrato dalla sua peculiarità, ma articola la propria essenza anche attraverso altre facoltà; uomo con il logos, non uomo “unicamente” del logos! Siamo – continua Sciacca – anche «sangue, muscoli, nervi, ossa. Il gesto della mano, il lampo delle pupille, la smorfia o il sorriso, le lacrime o la durezza, uno sguardo, una scrollata di spalle […] esprimono un pensiero, un sentimento, una repulsa, un dolore, un piacere, sempre qualcosa della sua vita affettiva, volitiva» (p. 78). L’uomo si esprime anche con gesti e, con essi, rivela qual sia la sua vita affettiva/volitiva che non è meno degna di attenzione della vita teoretica. Come si è giunti a decretare il primato dell’“uomo logico” sino a renderlo “ego – logico”? Sciacca rintraccia l’origine del problema: «Solo un intellettualismo astratto considera le “facoltà” […] ciascuna agente come se le altre non intervenissero: la verità sarebbe oggetto della sola ragione, il bello della sola sensibilità […]. La vita tutta […] procede includendo e ogni atto è sintesi: le astrazioni sono del filosofo, non dell’esistenza nella sua concretezza» (p. 22).

Da Sciacca, dunque, apprendiamo che: 1) la “razionalità” è qualcosa di cui l’uomo non può privarsi ma, allo stesso tempo, non è ciò che, da sola, lo possa caratterizzare, esaurire; 2) la corporeità, la gestualità, denunciano che va considerata anche la vita affettiva/volitiva. L’uomo ha una “vita teoretica”, ma con essa non annulla definitivamente la “vita pratica”; 3) l’intellettualismo astratto – sortilegio del filosofo spezzato dal sopraggiungere inevitabile dell’esistenza nella sua concretezza – tende a considerare come scissa la verità (appannaggio della sola ‘ragione’) dalla bellezza (che interesserebbe la sola ‘sensibilità’). Una filosofia del concreto è inclusiva ed ammette che tutte le facoltà agiscono nell’uomo e fanno sintesi. La persona, per un pensatore cristiano, non è disponibile per nessuno, nemmeno per lo Stato. La posizione aristotelica, invece, sovverte questa tesi. Nella Politica, il filosofo greco afferma che «per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte» (I, 2, 1253a 18 – 19). L’etica viene sottoposta alla politica ed il bene individuale a quello collettivo. La visione egologica dell’uomo sfocia, infine, in becero collettivismo. La concezione cristiana della persona, invece, sfugge all’assorbimento in uno dei due poli. La persona, qui, si apre alla comunità perché intimamente (ontologicamente) relazionale e non perché sia mero ingranaggio di un sistema. Il logos nega l’altro, l’uomo patico/patologico e subordina l’individuo alla collettività ossequiando l’intelletto universale che non tiene conto delle passioni individuali. Il divino, il meglio si dà sotto l’egida dell’apatico, del non passionale, proprio come il logos. Ha ragione, perciò, un teologo contemporaneo a scrivere: «Il logos non lascia spazio alcuno all’altro; identificando a sé il campo del reale […] è per definizione esclusivo e violento […] onnivoro» [2].

Buona parte del lascito greco, però, è inquinato da pericolosi fraintendimenti. Uno studioso ha chiarito la questione: «Un equivoco radicale ha sempre stravolto il senso dell’antica filosofia greca. Quest’ultima intendeva la ragione come un semplice “discorso” su qualcos’altro, un logos […] la cui natura è di esprimere un qualcosa diverso da sé. Tale origine è stata poi dimenticata […] e si è considerato il “discorso” come avesse un valore autonomo […] o addirittura fosse esso stesso una sostanza indipendente. Se […] la ragione consiste in un pensare certi oggetti […] e nel dirli, allora ciò che viene espresso da questo pensare certi oggetti e questo dire senza dubbio non è ragione. La ragione nacque invero come alcunché di complementare, la cui giustificazione stava […] fuori di essa […]. In seguito venne fraintesa come fine a se stessa, e […] si continuò ad obbedire alla struttura e alle regole del vecchio logos che era sorto come uno strumento ausiliario» [3]. Il fraintendimento che fece della “ragione”, del “logos” non più uno strumento ausiliario, bensì il criterio primario per dare senso all’uomo ed alle cose, nella modernità, con diverse accezioni, si insinuò nel pensiero di Cartesio, Kant ed esploderà con nel “panlogismo hegeliano”. Si tratterà, purtroppo, di una egemonia che causerà disastri quando l’Occidente incontrerà i popoli del Mondo Nuovo. Il teologo José de Acosta, ad esempio, convinto uomo del logos, riterrà di dover suggerire che «non bisogna perseguire le offese dei barbari allo stesso modo di quelle degli altri uomini […]»; piuttosto, «vanno trattati alla stregua dei bambini e delle femminucce» [4]. Analogo atteggiamento assumeranno Benedetto Croce e, prima di lui, Hegel. Cristoforo Colombo, di fronte alla bellissima vegetazione del Nuovo Mondo, non sapeva fare altro che paragonarla ai giardini delle “sua” Castiglia; non poteva leggere l’ignoto in se stesso, ma soltanto riferendolo al noto! I popoli primitivi – altro pregiudizio – non hanno storia; non conoscono le lotte per il progresso morale e, come i fanciulli, i pervertiti ed i malati mentali di Aristotele, non sono degni di attenzione. I pathemata, invece, non solo personalizzano e dicono la nostra unicità, ma affratellano. Lo scrittore ebreo Elie Wiesel, che conobbe il campo di concentramento, fa dire ad un suo personaggio, Pedro, che affermare Io soffro, dunque sono rende nemici dell’uomo; bisogna dire, piuttosto, Io soffro, quindi tu sei.

Nel cuore della modernità, un pensatore revoca in dubbio tutto quanto gli è stato insegnato e tenta di rintracciare il fondamento non vacillante sul quale edificare un sapere certo, incrollabile. Ecco un segmento della sua riflessione: «m’accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pure qualcosa […]». Io penso dunque sono è verità «così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici […]. Ne conchiusi essere io una sostanza, di cui tutta l’essenza o natura consiste nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale» [5]. Nella pagina culturale de La Repubblica, il 23 luglio del 1987, il sociologo Norbert Elias, riferendosi al pensiero cartesiano, sottolineò di aver parlato frequentemente dell’homo clausus: l’io senza noi! Elias afferma che l’immagine di individuo “chiuso in se stesso” si rinviene, originariamente, in Cartesio. Questi, per il nostro autore, aveva dimenticato di essere erede di un linguaggio e di un pensiero. Non c’è ‘decostruzione’ se qualcuno, prima, non ha ‘costruito’; non c’è ‘dubbio’ se qualcuno, precedendoci, non ha affermato qualche cosa ritenuta apodittica. Certi filosofi – incalza il sociologo – fanno riferimento all’uomo come se questi non fosse mai stato bambino e rimuovono l’inattaccabile convinzione che si nasce in una tradizione di conoscenze.
C’è chi, addirittura, fa derivare dall’uomo egologico l’intero processo di industrializzazione. Seguiamo questo ragionamento: «l’intero processo di industrializzazione, con la sua caratteristica centralità dei prodotti artificiali […] rispetto all’uomo e alla natura, era stato preceduto dalla valorizzazione delle procedure astratte e vuote del cogito e […] dalla riduzione della ‘carne’, e in genere del mondo naturale, a rappresentazione delle potenze del male o comunque del non senso. È attraverso la separazione dal mondo della natura, che nelle società tradizionali è anche quello del sacro che la modernità ha poi potuto rinchiudere la vita e l’esperienza dell’uomo nelle produzioni astratte di tipo scientifico, tecnologico, e intellettuale» [6]. La “mentalità calcolante” che sta alla base del progresso tecnico – scientifico, dunque, fiorisce sulle ceneri di un rapporto non più concreto col soggetto e con il mondo. Cosa è successo da quando non ci interessa più l’uomo concreto e si afferma che non c’è natura umana, ma tutto si esaurisce nella storia e nelle sue forme? Cosa accade quando si considera solo vanto dell’individuo il potenziamento delle sue capacità produttive e calcolanti? La risposta viene dal pensiero cattolico del Novecento: «Per alcuni ciò significa: tutto è possibile all’uomo, e così ritroviamo una speranza; per altri: tutto è permesso all’uomo, e abbandonano ogni freno; per altri, infine, tutto è permesso sull’uomo, ed ecco Buchenwald» (campo di sterminio nazista) [7].

Una studiosa italiana ha individuato nella modernità alcuni modelli di uomo. In primo luogo, l’homo oeconomicus – afflitto dalla “passione acquisitiva”! In Hobbes essa si declina nell’aggressività e ne deriva la necessità di ‘freni’ imposti dallo Stato. In Adam Smith, al contrario, sarà proprio la “passione acquisitiva” a produrre spontaneamente l’ordine sociale. Si tratta di teorie cadute in disgrazia. Più avanti prende corpo la filosofia di Tocqueville. A suo dire, i legami tradizionali lasceranno il posto all’uguaglianza fra gli uomini. L’individuo, così, perderà la sua specificità divenendo senza qualità e privo di passioni individualizzanti. Dall’uomo assorbito nello Stato, nell’ordine sociale, si passa all’uomo che, per una erronea interpretazione del valore ‘uguaglianza’, diviene un “uomo comune”. Preso in questa morsa di insignificanza, egli si getta nella passione acquisitiva senza limiti e nasce l’homo psicologicus, che vuol ridisegnare il mondo ossequiando unicamente i propri desiderata (narcisismo). La nostra autrice, a questo punto, suggerisce di rianimare i legami comunitari e, fondando sul pensiero di Mauss – che elegge il “dono” a categoria centrale del proprio sistema – progetta l’homo reciprocus. Un uomo che conosce i propri limiti e riconosce l’insopprimibile esigenza di stringere legami [8]. Se non lavoriamo al progetto (ambizioso) di portare sulla scena del mondo l’homo reciprocus, rischiamo di avere sempre più ‘o’ uomini depressi e sfiduciati, ‘o’ sfrenati consumatori, weberiani “gaudenti senza cuore”; o, peggio, individui che si odiano tra loro e non mostrano che astio, acredine verso la stessa esistenza. Uno scrittore e critico d’arte inglese, scomparso nel 1827, William Hazlitt, scrisse un libro inquietante: Il piacere dell’Odio (vers. it. Roma 2004). Sosteneva che la mente, il cuore umano desiderano il male perché, senza scontri e lotte, la vita diverrebbe una pozza d’acqua stagnante. Riteneva, infine, che ‘buonsenso’ e ‘bontà’ siano quanto di più raro si incontri in questo mondo. La cattiveria, l’odio sono prodotti dell’homo clausus, l’io senza ‘noi’. Un semiologo russo scriveva che la conditio sine qua non affinché si verifichi lo sviluppo creativo della propria coscienza è il contatto con un altro io (J. Lotman). Se la cultura alimenta il “piacere dell’odio” e foraggia le filosofie dell’“homo clausus” è inumana. Giovanni Paolo II, a Rio de Janeiro, nel Luglio del 1980, tenne un Discorso agli uomini di cultura: «La vera cultura è umanizzazione, mentre la non cultura e le false culture sono disumanizzanti». Sul piano economico la “non cultura” proietta teorie mortifere. Un economista e filosofo americano, che ha fondato la “Foundation on Economic Trend di Washington”, fece uno studio nel 2002. Jeremy Rifkin, è a lui che faccio riferimento, sostenne che «gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana». Quando un manzo sarà macellabile (peserà sui 475 kg) avrà consumato 1.223 chili di grano. Per avere i ricchi carne piena di grassi, conclude Rifkin, si affama un numero elevatissimo di persone. Si tratta, dice il nostro autore, di proporre una dieta vegetariana. Il percorso per formare l’homo reciprocus, allora, passa anche per una concezione etica dell’economia [9].

Evitare di impantanarsi nelle derive dell’homo clausus, dell’uomo egologico conduce a guardare a se stessi senza provare l’orrore che ci conduce ad antropologie scoraggianti la piena umanizzazione. Un filosofo ebreo del Novecento ha detto: «Essere felici vuol dire potersi accorgere di se stessi senza spavento» [10]. L’uomo stenta a riconoscersi: vorrebbe – magari – essere ‘angelo’ e si ritrova ad essere ‘bestia’. Un poeta romantico tedesco così interpretò l’intricata questione: «Diceva il grande poeta Hölderlin Ein Zeichen sind wir, deutunglos (Un segno noi siamo, deutunglos). Questa espressione deutunglos lo tradurrei: “privo di interpretazione”. Per Hölderlin, cioè, e per Heidegger, che commenta questo verso, […] l’uomo […] è un enigma» [11]. Solo nel ‘dialogo’, nella vita ‘comunitaria’ (che non è fenomeno psichico, bensì realtà ontologica) si tende verso una credibile chiarificazione del soggetto. Una filosofa ebrea del Novecento, affermava: «Il fatto che ci sia o non ci sia amicizia fra due uomini […] può in certi casi essere un elemento decisivo per il genere umano». Come si comunica la verità che nasce nello spirito di un singolo uomo? La nostra autrice risponde: chi ha qualcosa di nuovo da dire è ascoltato – in un primo tempo - «soltanto da chi lo ami»; dunque, «la circolazione della verità fra gli uomini dipende esclusivamente dallo stato dei sentimenti, e questo vale per qualsiasi genere di verità» [12]. Per i cristiani, poi, questa riflessione si apre sul mistero della Trinità. Il superamento dell’uomo egologico si ha facendo riferimento all’intima, ontologica relazione fra le Tre Persone divine. Il “mistero trinitario”, infatti, «ci indica che il fondo stesso dell’esistenza, il fondo della realtà, la forma di tutto, perché ne è l’origine, è l’amore, nel senso della comunità interpersonale. Il fondo dell’essere è una comunità di persone. Chi dice che il fondo dell’essere è la materia, chi lo spirito, chi l’uno: hanno tutti torto. Il fondo dell’essere è la comunione […]. Pare impossibile che i cristiani, in possesso di questo ultimo segreto… non siano maggiormente coscienti dell’importanza fondamentale del messaggio che devono consegnare» [13]. Per l’antropologia cristiana – decisamente antiegologica – il fondo dell’essere è la comunità. Essere cristiani nel Terzo Millennio significa possedere il “segreto” -  l’essere è comunione - facendone un messaggio da veicolare e consegnare al più presto.

Pensando in “atmosfera dialogico – comunitaria”, dunque, si evita al soggetto la deriva ‘egologica’. L’individuo stesso – a ben guardare – può considerarsi polifonico: c’è sempre una parte del nostro io (quella più profonda) che ci resta straniera. Il fatto stesso che non sia possibile rintracciare una definizione esaustiva dell’uomo è la spia della sua inafferrabilità; da qui discende che nulla e nessuno possono legittimare, sul piano politico e giuridico, prese di posizioni che si ammantano di una infallibilità che, a chi ha prudenza ed acume, appare sempre sospetta. Ha scritto un autorevole studioso: «L’uomo è un ente così vasto, vario e poliforme che ogni definizione si mostra troppo limitata. I suoi aspetti sono troppo numerosi» [14]. Il disorientamento teoretico che genera una ingovernabile congerie di ipotesi su “chi è l’uomo” provoca guasti oltre il recinto delle questioni accademiche. Una scarsa chiarezza teoretica su questo punto inquina anche la prassi sociale e – ritenendo legittime tutte le posizioni – si tende a ridurre l’uomo al suo stesso esperimento senza fine. Mettersi d’accordo sui presupposti teoretici, etici non è questione da consumare fra dotti, ma lo sforzo necessario affinché si sappia quale uomo chiede, attende risposte anche sul piano della prassi sociale.
Giovanni Paolo II affrontò questo tema e, ricorrendo ad una sua citazione, potremo dimostrare che la notazione non è priva di fondamento: «Perché la nostra prassi sociale sia corretta […] deve essere conforme a tutta la verità della realtà. Alla base della legittimità dell’azione sta la correttezza della conoscenza […]. Quindi, bisogna chiedersi prima chi è l’uomo, quale è la relazione fra persona e società, qual è la verità interiore delle diverse società e delle diverse comunità, come la famiglia o la nazione, bisogna chiedersi che cos’è il bene comune e quali siano i principi di una sua corretta interpretazione. Per agire in modo legittimo, cioè, per avere la prova interiore della verità della propria conoscenza, sia nella propria azione, sia in tutta la prassi sociale, bisogna chiedersi prima di tutto questo, bisogna avere una corretta immagine teorica di tutta la realtà nel cui contesto si svolge la nostra azione» [15]. La sfiducia antropologica causa anche, a mio avviso, il fenomeno del positivismo giuridico. Il “diritto” diviene, per lo più, una ‘tecnica sociale’ che mira all’ottenimento della condotta desiderata minacciando coercizioni da far valere nel caso di inadempienze.
Il concetto di un diritto ridotto a procedura meramente coercitiva origina dallo sganciamento dell’individuo da riferimenti naturalistici e comunitari; il diritto perde dignità ontologica e si fa meramente procedurale. La tesi è stata espressa – con maggiore chiarezza – da un insigne giurista italiano:
«Il nomos della terra è ormai pura regola del gioco, limite alla dismisura del desiderio dell’individuo che si è liberato da ogni vincolo naturalistico e comunitario. Ma […] è privo di dignità ontologica, è solo procedura che seleziona le soluzioni secondo un calcolo di convenienza e di opportunità […] il diritto diventa una pura tecnica di controllo» [16].

È Hans Kelsen il caposcuola del “Positivismo giuridico”; è lui che inquadra il diritto come tecnica sociale [17]. Il nostro autore certo muove dal “pessimismo antropologico” se giunge a non credere che la “giustizia” preceda il “diritto”: «Se vi fosse una giustizia […] il diritto positivo sarebbe allora del tutto superfluo, la sua esistenza del tutto inconcepibile» [18]. Eppure, l’antico giurista Ermogeniano sosteneva che omne ius hominum causa constitutum est (Tutto il diritto è fatto per gli uomini). Il diritto – leggiamo in una sentenza che Ulpiano attribuiva a Celso – est ars boni e aequi (arte del buono e del giusto). Ulpiano addirittura definiva i giuristi “sacerdoti” (nos sacerdotes appellet). Il giurista Gaio (II sec. D. C.) divideva lo ius in “persone”, “cose”, “azioni” ma, precisava: sed prius videamus de personis [19]. Si è smarrita la dimensione personalistica dello ius e, perciò, non è più inquadrabile come ciò che viene dopo la giustizia; anzi – secondo la posizione di Kelsen – essa è subordinata al diritto. Gli antichi giuristi erano nutriti dalla filosofia (teologia?), ma ora la questione si declina tutta in ambito procedurale e politica: «Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico, ma politico» [20].
Il problema, però, è riportare alla base della politica e della prassi sociale “valori antropologici forti” e, piaccia o no, un immenso tesoro è costituito dal lascito cristiano. Non sto suggerendo uno “Stato confessionale”, ma soltanto di provare a pensare se non vi siano valori cristiani che, pur senza esplicitamente dichiararsi cristiani, valga la pena mettere in gioco. Da cardinale, Benedetto XVI ricordava una frase di Bultmann: uno stato non cristiano è fondamentalmente possibile, ma non uno stato ateo; o, meglio: non potrebbe durare come “stato di diritto”! Ciò implica che Dio non venga relegato alla ‘sfera privata’: «la democrazia funziona unicamente se funziona la coscienza e […] questa coscienza ammutolisce se non si orienta secondo la validità dei fondamentali valori etici del cristianesimo, i quali sono realizzabili anche senza esplicita professione di cristianesimo, anzi anche nel contesto di una religione non cristiana» [21].

Siamo creature che possono realizzarsi pienamente soltanto relazionandosi agli altri, al mondo e, per chi crede, soprattutto a Dio. Esperienza – per chi è cristiano – significa tutto questo: «C’è esperienza quando l’uomo si coglie in relazione col mondo, con se stesso e con Dio» [22]. Coltivare se stessi è insufficiente e, per non impantanarsi nell’egologia, non resta che il dono di sé. La saggezza orientale, provoca: imparare senza saziarsi, istruire gli altri senza stancarsi: sono capace di questo? [23]. La persona è tale se aperta e non si può avere rispetto per essa se non se ne ha per la società e viceversa: «Il rispetto della persona è la possibilità stessa della società […]. Persona e società nascono insieme: non è possibile presupporre la persona alla società né presupporre le società alla persona» [24]. Essere radicati nella “società” significa vivere intensamente nel “proprio tempo”, ma l’essere nel flusso della storia è un’appartenenza che non ci identifica e qualifica integralmente: «l’uomo diviene – scrive ancora Pareyson in Esistenza e persona -, ma non si riduce alla sua storia […] ha storia, non è storia» (cit. pp. 198 – 199). Era stato Dilthey a leggere come predominante la categoria “storicità” nel caratterizzare l’uomo: «Dalla partizione degli alberi in un parco, dall’ordine della case in una strada, dallo strumento del lavoratore manuale fino alla sentenza in tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto […]. Mentre il tempo procede, noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, da castelli indipendenti. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di distinto dal presente per la sua distanza temporale» [25].
La “speranza cristiana”, tuttavia, anche in un mondo che rifiuti i valori evangelici, riesce – attraverso sforzo e testimonianza della persona relazionale (aperta a Dio, al mondo, agli altri) – a convertire le “ferite” della realtà in “feritoie”. Mi viene in mente una immagine di Henri de Lubac che, nel 1941, scolpiva nel saggio De la connaissance de Dieu. Pensate – diceva – al muro di enorme spessore del più oscuro carcere; ebbene, la piccola apertura di una feritoia può rivelare che c’è sole: allo stesso modo, nel mondo ‘opaco’ e ‘pesante’ basta l’incontro furtivo con un “santo” per avere la manifestazione di Dio. Ecco il punto: solo incontrando un altro (pienamente persona e cristiano) Dio si manifesta tra le opacità e le pesantezze del mondo! Necessita un riferimento Trascendente, forte perché la complessità del mondo odierno non pare possa godere di rimedi “deboli”, “ornamentali”: «Oggi i riferimenti tradizionali – i miti, gli déi, le trascendenze, i valori – sono stati erosi dal disincanto del mondo […]. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo» [26]. L’uomo ha bisogno di ancoraggi forti, affidabili ed i mali del mondo – che ci investono con la potenza di un jumbo – non si possono arginare con freni di bicicletta.

Solo l’uomo aperto, fiducioso nel valore della reciprocità può rendere operativi gli “imperativi morali” affinché fungano da freni contro i mali del mondo e non ne escano ridicolizzati per intrinseca impotenza. Solo i valori, gli imperativi morali che si fanno carne e sangue, nome e cognome sono credibili. L’uomo teoretico, egologico non ha che progetti infarciti di “astrattismo intellettuale”. L’homo reciprocus inaugura una vita sinfoniale – polifonica nella quale la varietà non scade in confusione. È l’uomo che realizza (in orizzontale ed in Verticale) l’alterità inscritta nelle profonde scaturigini della vita (anche divina) quello che costruisce la comunità intesa come fatto ontologico e non come mero fenomeno psichico. Diceva la carmelitana Edith Stein, martire dei nazisti: «[…] quando gli individui sono aperti gli uni verso gli altri, quando le prese di posizione dell’uomo non vengono respinte dall’altro, ma penetrano in lui dispiegando appieno la loro efficacia, sussiste una vita comunitaria in cui entrambi sono membri di un tutto e senza tale rapporto reciproco non può esservi una comunità» [27]. Nel cuore di una comunità autentica, poi, si può agevolmente sottoscrivere la convinzione che è bene tutto ciò che custodisce, difende, guarisce, promuove l’uomo in quanto persona; è male tutto ciò che lo minaccia, l’aggredisce, l’offende, lo strumentalizza, l’elimina (Dionigi Tettamanzi). L’uomo è fatto per personalizzarsi sempre più, ma tenendo – nel contempo – aperta, accesa, viva, la relazione con Altri/altri. Il cristiano è antiegologico anche per motivi escatologici: sa, infatti, che la sua pienezza sarà raggiunta quanto tornerà ad unirsi al Padre. Pur se polemica con la Chiesa, Simone Weil aveva intuizioni cristiane finissime. Pochi giorni prima di morire, all’amica Simone Deitz, dona questa perla di saggezza escatologica: «Tu sei, come me, un pezzo mal tagliato da Dio. Ma io, presto, non sarò più tagliata, sarò riattaccata e unita» [28]. Abbiamo bisogno di completarci anche con l’Altro. Non possiamo stare soli perché è duro portare – diceva la Weil – il “peso totale” della “pura necessità” nella quale, impotente, l’uomo si dibatte come un papillon qu’on épingle vivant sur un album (come una farfalla appuntata viva su un album). Vi si dibatte – direi con il lessico di Agostino – col “cuore inquieto”: si placa soltanto se naufraga (paradossalmente salvandosi) nell’Altro.

Uscendo dalla teologia merita una nota il lavoro di uno studioso di Psicologia della comunicazione. Il suo saggio si apre con una affermazione apodittica: «Oggi la mente monoculturale non è più sufficiente» [29]. Cosa intende Anolli con mente multiculturale? Essa «non è una mente scissa […] è una mente versatile […] una mente al plurale […] mente interculturale, poiché è in grado di stabilire le opportune connessioni fra culture differenti» (cit. p. 164). Si tratta, va aggiunto, di una “nuova forma mentis” che «vive nello scambio e nell’interazione, non in condizione di isolamento […]. Per la mente multiculturale vale il principio dell’universalità senza l’uniformità fra gli esseri umani» (p. 168). Quello che mi dà a pensare in Anolli è l’angolatura dalla quale ha colto il significato della “diversità”: «non è una proprietà oggettiva […] bensì è una qualità percepita di natura relativa e interattiva. Non si è intrinsecamente diversi ma si è diversi agli occhi di qualcun altro e rispetto a un qualche punto di vista. La diversità non è una entità ma una relazione. Occorre allora individuare mediante un confronto gli aspetti e i criteri rispetto ai quali si istituisce la diversità stessa» (p. 20). Si è “diversi” sempre gli uni rispetto agli altri; non si dà una “diversità” in se e per sé. Nel confronto, nella relazione si costituisce. Se la si confonde con una “entità” la si può ritenere – con un ragionamento decisamente manicheo – il polo negativo, il male che attenta alle nostre certezze, sicurezze…
Nel confronto in “comunità” risaltano le diversità, ma sul terreno comune della relazione. L’interattività, il relazionarsi con altri è inscritto – e ciò risulta non particolarmente ostico a chi ha una formazione teologica – nella nostra natura. Il progetto – uomo è, dall’origine, fondato sui cardini dell’alterità che si realizza nella comunicazione. Un pittore e teologo gesuita semina in questo solco: «L’uomo è un essere a cui Dio Padre stesso ha rivolto la parola. È da questo momento che egli ha cominciato ad esistere e a diventare quello che è. Tutto lo sviluppo dell’uomo è circoscritto nel paradigma della parola del Padre e nella risposta ad essa. L’uomo è pertanto un essere dialogico» [30]. Rupnik ha parlato della nostra ontologica dialogicità, ma essa è comprensibile e motivabile unicamente ripensando in “maniera corretta” la Trinità. La “mente multiculturale”  è necessità “culturale”, ma per il cristiano essa è inscritta nell’essere. Il male viene dall’aver smarrito (o, nel migliore dei casi, indebolita) una concezione “vitale” del Mistero Trinitario. Rupnik, scrive: «Purtroppo siamo abituati a parlare della Santissima Trinità in maniera astratta e disincarnata. Un approccio concettuale, prevalentemente filosofico, ha allontanato dalla nostra vita questa realtà viva e fondamentale della nostra fede, collocandola in una sfera ideale, pensata» (p. 33). È dalla vita religiosa che ci si attendono forze per spezzare il circolo infernale dell’homo clausus. La “vita religiosa”, spiega il nostro autore, rinviene il suo “cuore” nella comunità; si tratta, allora, di una vita che è «precisamente un cammino, una prassi spirituale e sociale dell’unità nel rispetto dell’individualità […]. Dato che il religioso è immerso nella vita comunitaria, dovrebbe essere facilitato nell’elaborare un pensiero che non perda il nesso con la vita. E proprio questo sarebbe il pensiero elaborato sulle categorie di una intelligenza trinitaria, perché tali categorie non possono essere mai staccate dalle persone, dal loro amore e dalla loro vita» (pp. 35 – 36). Ridando spessore al pensare la Trinità non più dentro schemi teoretici astratti e disincarnati, possiamo assumerLa quale Fondamento di una vita pienamente ed autenticamente dialogica che tragga fuori dalle ragnatele dell’egologia il soggetto.

Non basta evitare di essere homo clausus, né le derive dell’egologia; nemmeno l’uomo catturato dal freudiano “principio di realtà” può dirsi persona pienamente realizzata. L’uomo deve aprirsi all’alterità Trascendente se vuole innervare di Senso il rivolgersi all’alterità immanente. Un intellettuale del Novecento, insegna che il reale «non esaurisce tutto il possibile» [31]. I giovani attraversano un momento storico di grande confusione e vivono la costruzione del sé come una fatica insostenibile. Il disorientamento attuale di ragazzi che vivono in non – luoghi (Augé) mi fa pensare alla beat generation. Un suo esponente, diceva: «Dove andiamo, non lo so, ma dobbiamo andare» [32]. In più, ormai, i giovani vogliono andare dove non sanno con quanta più fretta possibile. Per i cristiani, invece, la direzione da eleggere per il cammino dell’uomo è questione vitale. Abbiamo i mezzi per fare proposte interessanti in un mondo nel quale, agevolare la crescita dell’homo clausus, conduce alla distruzione. Dobbiamo mostrare che la persona si realizza pienamente soltanto nella dimensione comunitaria e senza perdere le proprie specificità; anzi, le rafforza per metterle al servizio degli altri. In comunione e costituendo una comunità su fondamenti ontologici e non “emotivi o psicologici” dobbiamo tornare – come accadeva agli albori del cristianesimo – a meravigliare il mondo mostrando che ci ha mandato Dio. E questo avviene dall’amore che siamo in grado di portare agli altri. La sfida è trovare il coraggio di saltare nel futuro da cristiani dal cuore antico perché la “prudenza” non può venir confusa con motivazioni paralizzanti.
Ci marchiano a fuoco queste parole:
«Sono passati diciannove secoli da quando i giudei di Tessalonica trascinando Giasone e i suoi fratelli davanti ai politarchi, li presentavano dicendo: “Questi individui hanno messo il mondo sottosopra” (At 17, 6) […]… Uomini che hanno paura del salto, ecco cosa siamo diventati, uomini educati ad aver paura del salto. Tutti passano dall’altra parte e noi rimaniamo su questa riva degli abissi del futuro. Come faremo ad imparare di nuovo il coraggio di saltare, esattamente in quei punti in cui la prudenza ci zittisce o farfuglia?» [33]. Innanzitutto ammettendo che nessuno può tirarsi fuori dallo sforzo di far trionfare il “bene”.
Come scrive un sociologo contemporaneo, definire il bene sembra troppo pericoloso.

Lo è se muoviamo da posizioni infettate da una concezione dell’uomo che lascia pensare più alla claustrofobia che all’empatia! Per tornare ad occuparci del bene, occorre comprendere che l’uomo unicamente “razionale” difficilmente sa essere “relazionale” e, dunque, diviene sempre più robusto come intellettuale e sempre più debole in senso spirituale. Maritain diceva che il “razionalismo” uccide la “spiritualità”; appunto, il ‘razionalismo’, non la ‘razionalità’. La spiritualità non è disincarnata perché tende a tradursi in carità. Se l’uomo sa innestare sul tronco della troppo abusata razionalità il virgulto della spiritualità che anela a divenire carità, prassi, si muoverà nuovamente alla ricerca del bene. L’homo clausus e l’homo psicologicus (dediti a curarsi con quel diverso male che è il ‘narcisismo’) imparino il gusto di aprirsi all’altro per vivere gioiosamente la metamorfosi che li riedita in homo reciprocus. L’urgenza di dar vita a questa nuova “figura” antropologica è dettata, a mio avviso, dall’urgenza di riproporre il tema del “bene” ad una società che ha sempre più bisogno di “ordine” e “senso” per divenire comunità:
«Parlare di bene sembra vacuo alla mentalità prigioniera dell’orizzonte storico contemporaneo. Chi abbia seguito tutto il discorso fin qui svolto è tuttavia in grado di rendersi conto come si tratti invece in un certo senso della cosa più concreta. Il mondo attuale, dove si pretende di flessibilizzare, senza riguardo per gli scopi della vita, ogni aspetto dell’esistenza, dal lavoro (per chi lo ha) alle abitudini quotidiane, dove la circolazione del denaro, delle merci e delle informazioni è così vorticosa e priva di limiti da far mancare ogni stabile punto di riferimento esterno e interno, dove innumerevoli individui ansiosi e stupidamente competitivi, immersi in un incessante e insensato rumore di fondo, non fanno altro che produrre e consumare (da cui il mito demente della società funzionante a pieno ritmo di notte come di giorno, in modo che il consumatore notturno inebetito dai tanti canali televisivi e siti informatici, possa ordinare la pizza per telefono prima di darsi il sonno con il consumo di qualche pasticca), questo mondo, dicevamo, non può durare a lungo: gli squilibri antropologici che genera fanno dubitare che possa rimanere un minimo ordinato oltre il XXI secolo. La conoscenza del bene è allora, molto concretamente, niente altro che la conoscenza delle condizioni di una vita sociale ordinata e sensata. Tutto sta a renderla possibile, risalendo a ritroso, con il pensiero, la corrente nichilistica che ci ha condotti fino a questo punto» [34].

Con l’aiuto del sapere teologico, questa la mia proposta, cerchiamo di fare in modo che si realizzi il brillare dell’io nell’armonia della molteplicità (Bonhoeffer). In questa formula del teologo luterano, penso, si condensa il salvataggio del “soggetto” e quello della “comunità”: non si annullino reciprocamente, bensì, si integrino. Tutto nella nostra “società”, se si vuole convertire nella forma calda della “comunità”, deve educare a pensare l’altro per poterlo, poi, con retta coscienza ed illuminata intelligenza, incontrarlo. Scrive una filosofa contemporanea: «la pubblica educazione a qualsiasi livello deve coltivare la capacità di immaginare le esperienze di altri e di partecipare alle loro sofferenze» [35]. Ci può aiutare a non intendere in maniera “egologica”  il logos, proprio il Logos della “teologia giovannea”. Tommaso d’Aquino rifletteva su questo problema: perché si traduce Logos con Verbum e non con Ratio?
La Ratio è qualcosa – anticipiamo – che nasce e resta un “fatto mentale”; il verbum, invece, esce verso l’altro. Seguiamo l’Aquinate: «Ratio designa propriamente il concepire della nostra mente quale fatto mentale, anche quando con esso non si procede a nulla di esteriore; invece verbum, o parola, indica pure l’espressione esterna. E poiché l’Evangelista col vocabolo Logos voleva riferirsi non solo all’esistenza del Figlio nel Padre, ma anche alla potenza o virtù operativa del Figlio […], gli antichi hanno preferito tradurre Verbum, che include un riferimento a cose esterne, piuttosto che ratio, che denota soltanto il concetto della mente» [36]. Come vado scrivendo da tempo, è nella Parola che si rivolge all’uomo, alla Storia incarnandosi che si rintraccia la legittimità di una antropologia modulata interamente sul paradigma “alterità”. Chiudiamo scomodando la testimonianza – dopo quella di un teologo medioevale – di un teologo contemporaneo. Franco Ardusso, a Torino, nel 1998, tenne una lezione per operatori pastorali. In quella occasione, legò Fede – Parola – Alterità muovendo da questa premessa: «Il discepolo di Gesù, nella sua fede […], non è affidato solipsisticamente o narcisisticamente a se stesso. Egli […] è posto di  fronte a una alterità  […] è chiamato a entrare in una relazione. E la relazione è un rapporto profondo con l’altro, che resta altro, e non si confonde con me. La relazione non è fusione […]» [37].
Il corollario che discende da questa precisazione, diviene una sorta di manifesto programmatico per uscire dalle catture dell’homo clausus. Lasciamoci, in questo abbozzo di percorso, da dove parte Ardusso: «Nella fede noi siamo affidati: - all’alterità del Dio di Gesù Cristo: è lui che salva venendoci incontro con il suo amore; - all’alterità della sua Parola che risuona nel popolo dell’antica e della nuova alleanza; - all’alterità del testo scritto, la parola di Dio “attestata e ispirata”» (p. 9).
Come faro per illuminare il percorso, infine, accogliamo la citazione neotestamentaria che il nostro autore elegge a coronamento di quanto appena esposto: E ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di conoscere l’eredità con tutti i santificati (At 20, 32).            

     


[1] Cfr., m. f. sciacca, L’uomo questo «squilibrato», L’Epos, Palermo 2000, p. 24.
[2] a. rizzi, L’Europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 176.
[3] Cfr., g. colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1996, pp. 183 – 184.
[4] Cit da a. landi, Fede e civiltà, Messina, Firenze 1977, pp. 84 – 86.
[5] Cfr., r. cartesio, Discorso sul metodo, Laterza, Bari 1984, pp. 81 – 84.
[6] c. risé, «Movimenti nell’ombra. Il maschile rimosso e il passaggio al bosco», in c. bonvecchic. risé, L’Ombra del potere, Red Edizioni, Milano 2004, pp. 105 – 134, qui p. 122.
[7] Cfr., e. mounier, Il personalismo, Garzanti, Milano 1952, p. 111.
[8] Questo, in estrema sintesi, il cammino tracciato in e. pulcini, L’individuo senza passioni, Boringhieri, Torino 2001.
[9] j. rifkin, Sono due miliardi gli uomini che soffrono la fame, sul settimanale «L’Espresso» - numero 24 del 13 giugno 2002; cit in p. corticelli, Progressive sottrazioni di tempo, Armando, Roma 2007, pp. 92 – 93.
[10] Cfr., w. benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926 – 1927, Einaudi, Torino 1983, p. 33.
[11] r. bodei, «Cifre significanti del pensiero filosofico», in aa. vv., Exodus. Congedi dal II Millennio, Augustinus – Città Nuova, Palermo 1993, pp. 15 – 25, qui p. 22.
[12] Cfr., s. weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Leonardo, Milano 1996, p. 181.
[13] j. danielou, La Trinità e il mistero dell’esistenza, Queriniana, Brescia 1989, p. 37.
[14] Cfr., m. scheler, «Sull’idea dell’uomo», La posizione dell’uomo nel cosmo, Fabbri, Milano 1970, p. 98.
[15] k. wojtyla, La dottrina sociale della Chiesa, Lateran University Press, Roma 2003, pp. 38 – 39.
[16] Cfr., p. barcellona, Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Dedalo, Bari 1998, p. 35.
[17] Cfr., h. kelsen, «Il diritto come specifica tecnica sociale», La teoria politica del bolscevismo e altri saggi di teoria del diritto e dello Stato, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 94 – 121.
[18] id., Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 2000, p. 58.
[19] Per queste idee ed approfondimenti, vedi juan manuel blanch nougués, «Linguaggio giuridico, prassi del diritto e domanda antropologica», in Sentieri dell’umano. La domanda antropologica. 2 (a cura di g richi alberti), Marcianum Press, Venezia 2007, pp. 13 – 32.
[20] Cfr., n. bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1996, p. 16.
[21] j. ratzinger, Chiesa ecumenismo e politica, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1987, p. 219.
[22] Cfr., j mouroux, L’esperienza cristiana, Morcelliana, Brescia 1956, p. 20.
[23] Vedi f. tomassini, Testi confuciani, UTET, Torino 1974.
[24] l. pareyson, Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 1985, p. 187.
[25] w. dilthey, «La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito», in Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, p. 236.

[26] Cfr., f. volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, pp. 175 – 176.
[27] a. ales bello, «Persona e stato in Edith Stein», in Edith Stein. Una vita per la verità, massimo angelelli (a cura di), Edizioni OCD, Roma Moreno 2005, pp. 73 – 90, qui pp. 82 – 83.
[28] Cit da p. viotto, Simone Weil ossia il paradosso della condizione umana, «Vita e Pensiero», 9, 1994, pp. 607 – 628, qui p. 618.
[29] Cfr., l. anolli, La mente multiculturale, Laterza, Roma – Bari 2006, p. VIII.
[30] marko ivan rupnik, Dall’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Lipa Edizioni, Roma 2000, p. 28. Altrove il gesuita mostra come sia paradossale l’oggettività in quanto frutto della ratio del pensatore solitario: «Nelle argomentazioni si vince cercando di far valere una propria maggiore oggettività. Ma si tratta di un procedimento per certi versi paradossale: per raggiungere l’oggettività più assoluta possibile si usa il principio dell’affermazione individualista, l’abilità del proprio ragionamento. Una razionalità […] con scarsa capacità di tener conto dell’altro» (id., Dire l’uomo. Vol. I: Persona, cultura della Pasqua, Lipa Edizioni, Roma2005, pp. 25 – 26).
[31] Cfr., r. musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957, p. 439.
[32] j. kerouac, Sulla strada, Mondadori, Milano 1959, p. 72.
[33] Cfr., e. mounier, L’avventura cristiana, Ed. Fiorentina, Firenze 1953, p. 99.
[34] m. bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Edizioni C.R.T., Pistoia 1998, pp. 138 – 139.
[35] Cfr., m. nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004, p. 507.
[36] tommaso d’aquino, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 1990, § 32, p. 55.
[37] Cfr., f. ardusso, «Comprendi ciò che leggi?». Guida alla lettura e alla meditazione del testo biblico, Paoline, Milano 1999, p. 8.

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