Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Dio nel mondo

Siamo costretti a scegliere, per introdurre il nostro tema, una voce tra le tante che, sulla caleidoscopica scena dei sempre velocemen te riscritti (nei fondamenti) saperi della cultura contemporanea hanno conosciuto il tragico destino di poter essere soltanto dei filtri silenziosi applicati alla Trascendenza. Iniziamo, perciò, muovendo dal rifiuto che Freud opponeva alle argomentazioni mistico – religiose del pastore Pfister. In una lettera che a questi indirizzò il 9 ottobre del 1918, scrisse: «non posso che invidiarla per la Sua possibilità di ricondurre la sublimazione alla religione» [1]. Non si può che provare invidia, nell’epoca del disincanto del mondo, per quanti riescono a mantenere saldi gli ancoraggi con l’Oltre. Si tradisce, così, anche la nostalgia patita per una dimensione irrimediabilmente perduta (quella Verticale)!  La scena del mondo, se diamo per definitiva la cacciata di Dio, si impoverisce della grandiosa antropoteodrammatica che ha ispirato i temi essenziali dell’Europa: l’uomo e Dio potevano essere in conflitto, ma dialogavano. L’uomo, ormai, monologa! Freud, in un' altra opera, porta ad estrema conseguenza l’impossibilità di affidare la speranza di sensate risposte alla dimensione religiosa. La scienza spiega il mondo, ma non ci svela le ragioni per le quali ritenerlo sensato e battersi tenacemente per salvaguardarlo. Essa, infatti,

«non è rivelazione […]e difetta di quei caratteri di determinazione e infallibilità di cui il pensiero è tanto avido. Ma così com’è, essa è tutto ciò di cui disponiamo» [2].

La scienza manca (difetta) di qualcosa che il pensiero reclama con avidità, ma – per la mentalità contemporanea – essa deve bastarci in quanto unica risorsa per sopravvivere. Se è davvero tutto ciò di cui disponiamo, non si dà spazio per Dio. Kant disse di aver dovuto togliere spazio al sapere per poter ospitare nel suo sistema filosofico la fede; penso, piuttosto, che occorrerebbe trovare la fede nello spazio del sapere e dilatare il sapere trovando ad esso spazio nella fede. Si può tentare ciò solo e soltanto se si accetta che Dio abbia mostrato interesse per questo mondo. Egli, oso pensare, non poteva che scegliere il Crocifisso per venire quanto più vicino possibile alla condizione umana: la Croce, infatti, abbraccia – se la immaginiamo stesa in terra - i quattro punti cardinali e si estende – sollevata - in Verticale ed in orizzontale; inoltre, è l’unico posto, per quanto faccia orrore, sul quale il Salvatore poteva essere collocato con le braccia necessaria mente aperte a testimoniare che, se Dio è l’attesa dell’uomo, è altrettanto vero che l’uomo è atteso da Dio. L’esito sarà, ad incontro perfezionato, la coabitazione nell’escatologico, ma l’appuntamento è ai crocevia della Storia.

* * *

In una opera teatrale di Sartre, il personaggio principale, Oreste, si rivolge a Giove dichiarando che, alla legge divina, da ora in poi, sostituirà la propria e che anche se nella natura sono tracciate innumerevoli percorsi per andare al dio, lui seguirà unicamente il suo percorso. La motivazione è questa: «io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino» [3]. Essere uomo, nel nostro tempo, significa, dunque, realizzarsi solo attraverso la radicalizzazione eleuterologica? Attraverso, cioè, una libertà giocata tutta in orizzontale? L’uomo vuole restare solo e, quando non trova risposte in e da se stesso, si accorge che quanto lo circonda è surdus, ‘sordo’, che è il significato del termine ‘assurdo’. Non può offrire ascolto ciò che non è persona! Un altro autore francese del Novecento può qui assumere la funzione di accompagnamento adeguato alle dichiarazioni del personaggio sartriano. Albert Camus, in una sua opera filosofica, infatti, accoglie sotto le insegne della assurdità il mondo e l’uomo: «L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame» [4]. L’uomo solo, nel solo mondo, non fa che imbucarsi nell’assurdo perché non vi è chi ascolti e risponda alle sue istanze di senso: il trionfo del totalmente solitario (parodia inquietante del Totalmente Altro) non ascolta, è surdus, sordo!
Camus, tuttavia, ha – scrive in un’altra opera – tentato di superare quella che definiva la più profonda oscurità del nichilismo e ciò non, dichiarava, per ‘virtù’ o per «una rara elevazione dell’anima», ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza [5].

Nasciamo in una luce che ha dietro di sé millenni di adesione da parte di uomini che l’hanno salutata anche nei momenti più difficili della loro esistenza; superare il nichilismo è, in fondo, lascia intendere senza equivoci Camus, fedeltà istintiva a quella che possiamo definire senza indugio la luce della fede. Le siamo fedeli – molto potente questa precisazione – istintivamente, come se ormai fosse definitivamente radicata nel nostro essere. Quando questo genere di ‘fedeltà’ viene meno, allora, nasce in noi la nostalgia della luce millenaria che gli uomini hanno sempre salutato come benigna. Uno scrittore tedesco ha invocato espressamente il ritorno della fede quale antidoto al – diremmo con lessico nietzschiano – deserto che avanza: «È grande la nostalgia del mondo per una nuova fede, per un vincolo religioso, che, in limiti saldamente circoscritti, assicuri alla vita dell’individuo un sostegno contro il nulla abissale, contro il dubbio assoluto, le sue angosce e la sua mancanza di una norma» [6]. Dietro la nostalgia per una nuova fede, per la mancanza di un vincolo religioso non si sta materializzando una sorta di desiderio di Dio? Meglio: il desiderio che Dio torni ad abitare il mondo? Un altro autore si avvicina ancora più al centro della questione: invoca la Chiesa universale e la rivelazione del Prossimo. Nell’ autore che ora citeremo, pure compare il termine ‘nostalgia’; sì, l’uomo che voleva essere legge a se stesso, che voleva, come Oreste nel lavoro teatrale di Sartre, inventarsi il suo cammino, patisce una paralisi spirituale che gli toglie anche la possibilità di sperare nella costruzione di una comunità:

«Il segreto del mio disagio, è che non vi è più una comunità […]. Tutte le nostalgie dell’Europa, tutti i falsi acquietamenti ch’essa offre loro, per poi dolersene subito dopo, tutta la miseria dei milioni di isolati che formano le nostre folle e salutano i dittatori, tutto ciò non è altro che una preghiera inconsapevole: venga la Chiesa universale e la rivelazione del Prossimo» [7].

De Rougemont parte da una perdita apparentemente sciolta da legami Trascendenti: non sente più di vivere in una comunità; se ci sono rimedi, alla fine, non si rivelano altro che falsi acquietamenti. Potremmo anche ricorrere all’espres sione surrogati di Dio! Nella disperazione che nasce –  funesto corollario - dalle fallite soluzioni a disagi ed alla miseria (morale) in Europa, lo scrittore francese, dunque, intercetta una preghiera inconsapevole che invoca il senso da altre fonti: la Chiesa universale, la rivelazione del Prossimo. Pare che tra il tedesco Thomas Mann ed il francese De Rougemont si formi una unità di intenti e di aspettative: cancellate le tracce di Dio nel mondo, patiamo la nostalgia non soltanto di radicamenti mondani ormai perduti, ma anche soffriamo per l’assenza di giustificazioni Trascenden ti ad essi; le sole, in fondo, che possono evitarci le sabbie mobili di quelli che l’autore francese definiva sapientemente i falsi acquietamenti.

In realtà, che l’assenza di Dio dal mondo fosse una minaccia alle nostre forme di convivenza, e che per esistere l’uomo abbia bisogno di ben altri fondamenti che non false rassicurazioni, era chiaro già a Pascal:

«Bruciamo dal desiderio di trovare un fondamento solido e una base ultima e duratura per costruirvi sopra una torre che s’innalzi all’infinito. Ma tutto il nostro fondamento crolla, e la terra si apre fino agli abissi» [8].

Il problema è che si parte dal basso con la zavorra di una pretesa autonomia che è, in realtà, improponibile. Nessun fondamento umano può sopportare una costruzione che giunga al cielo. Si tratta, piuttosto, di imparare ad ascoltare nel mondo quello che Berger definiva il brusio della trascenden za educando, poi,l’occhio a percepire le tracce della Presenza. La rivelazione, infatti, esige sensibilità verso i richiami Trascendenti ed attenzione costante alle istanze immanenti. Un teologo del Novecento, a tal proposito, ha parole che meritano qui pieno diritto di cittadinanza: «La rivelazione non cade mai senza mediazioni dal cielo, per annunciare e proclamare agli uomini dall’esterno e dall’alto misteri che trascendono il mondo; Dio parla agli uomini di mezzo al mondo, partendo dalle esperienze che sono loro proprie» [9]. Le ‘realtà terrestri’ non sono in concorrenza con quelle ‘celesti’, né è corretto sostenere l’inverso; piuttosto, il mondano rappresenta la preziosa possibilità di mediare il Trascendente perché non potremmo mai reggere l’urto (schianto) di un incontro diretto. I misteri della rivelazione non sono gravati dalla tara di una indifferenza verso il mondo perché è in mezzo ad esso che Dio – per von Balthasar – ci parla! Le nostre esperienze sono il medium preferito (o il solo possibile?) da Dio per aprire un colloquio con noi. Non alla periferia, ai confini o in zone extramondane troviamo Dio, ma nel centro del mondo e saldamente incardi nato e fecondamente parlante al centro della nostra umanità. Chiude von Balthasar: l’uomo, perciò, «trova, pure nella rivelazione, Dio centralmente nell’uomo» [10].

Per divenire consapevoli della centralità di Dio nel mondo, però, occorre previamente stabilire cosa si intenda con l’espressione (di certo ardita) ‘conoscere Dio’.
Credo che il filosofo ebreo Martin Buber possa essere guida sicura per declivi tanto impervi quando precisa che (sempre prendendo con estrema cautela l’espressione) ‘conoscere Dio’ non è «un atteggiamento noetico di un soggetto pensante verso un neutrale oggetto di pensiero, ma la reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita, tra esistenze attive» [11]. Un dio pensato con un po’ di lavoro noetico può venire e può andarsene. Per riprendere una espressione dei saggi ebrei cara allo stesso Buber, si trova Dio dove Lo si lascia entrare e laddove sappiamo inaugurare una reale reciprocità: non un soggetto di fronte ad un oggetto, ma due soggetti che vivono in una reale, feconda tensione dialettica perché dialogano nella pienezza della vita e rivelano di essere esistenze attive in quanto, sia Dio che l’uomo, agiscono (interagiscono) per lasciar essere il mondo. Quando si pensa che l’uomo debba stare di fronte al divino come ad una forza estranea e che è meglio, con riti, sacrifici, con timori e tremori, rabbonire, o tirare dalla propria parte, siamo nella religione, non nell’atmosfera della fede. Il Dio ebraico – cristiano, però, nulla ha che vedere con la prima, perché chiama ad un impegnativo, reale confronto nel quale sia il Suo Essere che quello dell’uomo sono attivi. Non si tratta di attendere qualcosa da Dio, ma di contendere con Dio per non essere semplicemente qualcosa, ma qualcuno. Il dialogo con Lui è consapevolezza di un Tu reale e ci personalizza massimamente: avviene al centro del reale, del mondo coinvolgendo, poi, l’intera creazione. Paolo afferma, non a caso, che la creazione geme in attesa del riscatto escatologico.
Dio vuole venire nel mondo attraverso l’opera di uomini che preparano luoghi  santi e che agiscono da collaboratori seri e dotati di una certa autonomia. Non interessano al Dio ebraico – cristiano atti esteriori di culto o frasi di sottomissione come quelle che avrebbe richiesto una divinità qualsiasi. Non si dimentichi che Oreste, nel citato lavoro teatrale di Sartre, si ribella a Giove: sarebbe un errore grossolano pensare che quanto egli dice al dio greco possa meritarlo il Dio cristiano. Un filosofo ebreo ha scritto: «Dio non ha creato la religione, ma il mondo» [12]. Attraverso l’atteggiamento religioso si instaurano rapporti col divino che possono scadere facilmente nell’esasperazione cultuale, nella mera esteriorizzazione di un vago sentimento religio so. Incontrare Dio nel centro del mondo, o – come diceva von Balthasar – centralmente nell’uomo significa, invece,  non congelare tutto in un rapporto noetico con una sorta di aristotelico Motore Immobile, ma accendersi d’amore in un rapporto patico con un Dio che accetta di ‘vivere’ con noi – per riprendere l’espressione di Buber -  la reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita.

Il teologo E. Jüngel muoveva da una frase di Kierkegaard: si parla con tanto fervore contro gli antropomorfismi e non si pensa che la nascita di Cristo è il più grande e significativo di tutti. Sì, quando ci si sente ridicoli pensando ad un Dio dal volto umano occorrerebbe non dimenticare che, in Gesù Cristo, Egli stesso ha voluto vestirsi di carne. Il teologo tedesco, dunque, trae dalla lezione del pensatore danese, una tesi che può convincerci della necessità e della bellezza di pensare Dio nel mondo:

«Se nei testi biblici viene al linguaggio il fatto che Dio viene al mondo e se la storia della venuta al mondo di Dio raggiunge il suo scopo, nell’idea del Nuovo Testamento, nella venuta al mondo dell’essere umano Gesù e nella sua storia in questo mondo, allora la caratteristica antropomorfa del parlare umano di Dio non può essere oggettivamente inadeguata» [13].

Se seguiamo il percorso biblico (e non farlo ci porterebbe ad ancorarci a quali altre certezze?), scopriamo che la strada verso l’uomo inizia da qui: Adamo, dove sei? Questi pecca e si illude di potersi nascondere a se stesso ed a Dio che, invece di condannarlo, di accusarlo, lascia che sia lui stesso a dire dov’è (a che punto della sua esistenza è giunto). Adamo confessa di aver avuto paura e, perciò, si è nascosto! In Cristo ci viene tolta ogni possibilità di nascondimento e soprattutto nei riguardi di Dio, in quanto davvero ci conosce. Ha assunto la nostra carne e, con essa, il nostro mondo. Parlare di Dio al centro della vita e del mondo è reso possibile, dunque, dall’evento Incarnazione! Parlare di Lui come carne nostra e del mondo è possibile, cioè, grazie ad una libera scelta di Dio. La creatura è davvero l’altro per il Creatore e Questi pure è davvero Altro per lei.
Un rapporto dialettico vivo, non noetico, tra due soggetti che esistono ed agiscono. Una tensione tra Soggetto e soggetto che nulla ha che vedere con la dialettica in accezione filosofica. Hegel ha tracciato il percorso dello Spirito che finisce, malgrado ogni opposizione, col tornare e pacificarsi in Se stesso; le tappe del percorso sono, appunto, dialettica che diviene processo vivo, reale. Nel poderoso impianto hegeliano non si può parlare di vera e propria dialettica come ci è consentito, invece, nella reciprocità tra Dio ed uomo: quella di Hegel – rileva un autore contemporaneo - «era una dialettica senza linguaggio, mentre il più semplice senso letterale di dialettica postula il linguaggio […]».
Il pensatore di Jena non ne aveva bisogno, «poiché per lui tutto, compreso l’averbale e l’opaco, doveva essere spirito» [14]. In gioco non è l’avventura dello Spirito che passa nel mondo e torna a Sé; quello che accade nella rivelazione ebraico – cristiana, piuttosto, è – va memorizzata e meditata senza soste l’espressione di Buber -  una reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita. La ‘dialettica’, qui, si anima tra due parlanti. La Rivelazione chiama in causa due soggetti che si trovano realmente l’uno di fronte all’altro e, perché no?, anche uno contro l’Altro. Giobbe, rispetto ai suoi amici teologi, è più apprezzato da Dio perché non si lascia acquietare da teorie, ma vuole disputare con il Tu. Dio nel mondo significa avere la consapevolezza che si gioca una partita difficile, impegnativa non solo per noi, ma anche per il Creatore:

«non soltanto la creatura è limitata dal suo Creatore, ma anche – sebbene in senso del tutto diverso – il Creatore dalla sua creatura […]. Se la creatura è l’atto voluto da Dio, allora Dio vuole essere limitato dalla sua creatura in un senso positivo» [15].

Di un inno del Corpus Domini, “Verbum supernum prodiens” (Il Verbo che viene dall’alto) dovuto a Tommaso d’Aquino, ci interessano particolarmente due versi:
Se nascens dedit socium/convescens in edulium. (Nascendo si è dato come compagno/ mangiando si è dato come cibo).
Dio nasce attraverso Cristo nel mondo per condividere il pane con noi (compagno, viene da cum – panis, ‘condividere il pane’!). Cosa c’è di più intimo che condividere non il pane, ma lo stesso pane? Nel condividere i nutrimenti terrestri, Dio si è offerto come nutrimento celeste; Cristo è un pane vivo disceso dal cielo. Cosa c’è, inoltre, di più spezzabile di un pane? Lo si può mangiare senza frangerlo? Dio si rivela e si nasconde in qualcosa di estremamente vulnerabile come il pane. Se osserviamo le cose del mondo attraverso lo sguardo di Cristo, le tracce di Dio diventano addirittura sentieri.
Riflettere in maniera autenticamente teologica, allora, non sarà mai esercizio meramente accademico, ma consisterà, principalmente, nello sforzo di dotarci di uno sguardo cristico più che critico sul mondo esperito quotidianamente. A seminare in questo solco è un autore che è stato una delle guide spirituali più ascoltate del nostro tempo: «riflessione teologica – scrive Nouwen – significa riflessione sulle realtà dolorose o gioiose di ogni giorno, fatta con la mente di Gesù». Non siamo di fronte ad un compito da poco «dato che la presenza di Dio è […]spesso nascosta e che va riscoperta. L’assordante frastuono del mondo ci impedisce di sentire la voce dolce, gentile e affettuosa di Dio» [16]. Il mondo è il luogo nel quale rinvenire ‘tracce di Dio’, ascoltare il ‘brusio della Trascendenza’, ma in esso si possono anche cancellare quelle tracce coprendo la voce di Dio. Solo se osserveremo attentamente le realtà dolorose o gioiose giorno per giorno con la mente di Cristo sapremo cogliere i segni della Presenza ed esserne capaci ermeneuti. La fede è attenzione al mondo secondo i modi indicati  dall’insegnamento cristiano. Ci apriremo in maniera efficace al mondo se sapremo servire la verità come Cristo che, per farlo, innanzitutto serviva l’altro. A chi vive pensando la fede, va detto che

«solo una teologia attenta […]a servire la verità della rivelazione in modo critico ma aperto agli stimoli del proprio tempo può incarnare questa nuova sensibilità» [17].

Una sensibilità al mondo per come è visto da altri. Credo – per riprendere e completare Colzani – che, alla teologia che serve la verità della rivelazione in modo critico, vada affiancata la fatica quotidiana dell’amore che serve la verità in modo cristico. Per dirla con Guitton, Dio diventa visibile nel mondo quando il cristico convince il critico e, dal meramente pensato, nelle cose della fede, si passa al rischio della traduzione in prassi del dettato evangelico.

Se operiamo questo passaggio avremo ben lumeggiato le due condizioni fondamentali che possano autorizzarci a mostrare Dio nel mondo. Il primo punto ce lo dona un teologo che ha condotto una riflessione beneficamente provocatoria sul rapporto tra ‘fede’ e ‘storia’: «il nostro agire storico può […]diventare il modo di essere di Dio per gli altri nella storia. Nel nostro agire è in gioco Dio stesso» [18] . Il modo di essere di Dio si manifesta e realizza nel nostro modo di fare la storia. Dall’Incarnazione in poi, possiamo dire, Dio ha fatto tutto per il mondo; ora tocca a noi fare qualcosa per Lui. La seconda condizione la si ricava dalla penna di un filosofo ebreo del Novecento: «la gloria dell’Infinito si rivela attraverso ciò che è capace di fare nel testimone» [19]. Se, nel primo caso, il nostro agire mette in gioco la presenza di Dio nella storia esplicata nell’essere per gli altri, in questo segmento di riflessione di Lévinas, è l’Infinito stesso che rivela la propria potenza agendo nel testimone, nel fedele, nel credente…
I due momenti sono entrambi veri, complementari: l’agire di Dio nell’uomo, a partire dell’alto, per mostrare chi è Lui e l’agire dell’uomo nella storia per mostrare chi è Dio a partire, stavolta, dal basso. Risulta difficile realizzare il progetto ebraico – cristiano perché l’uomo non si stima più, né prova rispetto per il mondo. Non crede (pur avendo nostalgia del tempo in cui lo faceva con convinzione) che Dio si occupi di noi e del mondo! Fare in modo, allora, che a quanti non vedono tracce del Trascendente o sono diventati succubi del chiasso che Ne copre la voce appaia credibile che Egli è qui, significa assumersi e portare a termine due compiti: 1) ridare dignità e credibilità a se stessi ed al mondo; 2) comprendere la portata esistenziale contenuta nel credere in un Dio che si è fatto carne. Ha scritto un teologo contemporaneo riguardo al primo punto:

«l’Essere incondizionato ama incondizionatamente proprio questo mondo condizionato e gli conferisce perciò una validità che lo rende più di una realtà provvisoria e una parvenza che si dissolve dinanzi a lui» [20]. 

Non dobbiamo, allora, ossessionarci ad arredare il mondo per presentarlo a Dio perché Egli, precedendoci, lo ha amato per come è e, per questo, lo ha reso più di un groviglio di svalutate realtà transeunti. La valorizzazione del mondo, e questo ha serie implicazioni anche riguardo all’antropologia, è avvenuta quando Dio stesso si è fatto carne nel mondo ed ha toccato la realtà con mani d’uomo santificandone ogni minimo aspetto. Se non spingiamo fino alle estreme conseguenze il pensare Cristo come l’incontro totale e definitivo di Dio con la realtà, non stiamo dando al pensiero teologico quel nutrimento forte, spiazzante che lo rende proficuamente coraggioso; forse, la meditazione intorno ai temi essenziali della fede cristiana, «inclusa quella che si comprende come teologia, non ha ancora il coraggio necessario per domandarsi che significa credere in un Dio uomo» [21]. Senza questo coraggio, non si potrà mai avere del mondo una visione incoraggiante. Se crediamo davvero che Dio ha voluto camminare – da Essere incondizio nato che ama incondizionatamente questo mondo condizionato (Rahner) – sulle strade dell’uomo con passo umano, noi stessi le percorreremo – assieme agli altri - con maggiore fiducia ed impegno.
La fede è attenzione al mondo mostrata, però, attraverso lo sguardo di Cristo. Siamo giunti, così, ad un punto fermo. La categoria dell’attenzione, tuttavia, non appartiene soltanto al lessico di una pensatrice come Simone Weil, ma venne ritenuta centrale anche da uno studioso della comunicazio ne: Marshall McLuhan. Gli chiesero: - Per lei, cos’è la fede? E lui senza starci a pensare: essere attento ma, precisò, «non solo ai clichés religiosi, ma ancora e soprattutto a quello che fonda l’uomo intero, all’archetipo. Per trovare la fede bisogna pregare e stare attento» [22]. 
La preghiera ci arricchisce e costruisce introspettivamente, ma l’attenzione a quello che fonda l’uomo intero, ci arricchisce e costruisce ad extra e, nel fare ciò a noi stessi, finiamo col migliorare il mondo. Abbiamo mezzi a sufficienza, se vogliamo, per uscire dalla situazione di pericolo nella quale siamo da quando il processo di umanizzazione è stato affidato soltanto a mani d’uomo. Si tratta, però, di purificare anche le nostre facoltà. Rabbi Na’ham di Breslav diceva che la mente sviluppa tre attività: il concetto (hokhmah), la riflessione (binah), la conoscenza (da’ath); le definiva, poi, muraglie che proteggono la nostra anima contro la lordura [23]. Chi protegge l’anima dalla lordura, la proietta nel mondo senza che su di esso restino impronte sgradevoli. Dobbiamo alimentare il ‘concetto e la riflessione’, ma anche imparare a gustare la compagnia di Dio attraverso il linguaggio poetico del quale ricca è la Scrittura. Dio deve divenire, nel desiderio di farlo entrare nel mondo, come l’Amante che si attende giunga in casa. I teologi devono suscitare la fame della Parola anche attraverso la bellezza letteraria delle parole bibliche;  attraverso il poetico, il simbolico avviene la mediazione che, ricordava von Balthasar, è necessaria perché la rivelazione non cade dal cielo. Un logico, una mente filosofico – matematica del calibro di Wittgenstein, non disdegnava di abbandonare discussioni teoretiche per tentare incursioni nel poetico: «non voleva discutere dei problemi tecnici della filosofia coi membri del Circolo di Vienna e insisteva che si leggesse piuttosto della poesia, specialmente i poemi di Rabindranath Tagore» [24]. Riscoprire il lato poetico della vita aiuta a leggere il mondo con occhi che si predispongono ad accogliere anche la lezione biblica che, con la poesia, ci raggiunge in maniera più immediata.

La Chiesa universale veniva auspicata, come già riferito, da De Rougemont: il suo, in primo luogo, era il disagio di chi non ha più una comunità nella quale riconoscersi. La Chiesa mostri la struttura intima comunitaria del Dio Uno e Trino proprio nel praticare l’apertura all’altro.
Il mondo si è giovato non poco dei frutti del Concilio Vaticano II che ha mostrato di voler annunciare Dio nel rispetto delle idee e delle posizioni altrui il che non deve significare necessariamente impantanarsi in uno sterile irenismo. Ha detto un attento osservatore degli sviluppi ecclesiologici verificatisi negli ultimi anni:

«La Chiesa del Concilio mantiene un nucleo duro di identità non solo su aspetti di dottrina ma anche su altre scelte. Tuttavia questa identità è vissuta senza separazione dal proprio tempo […]. L’identità fondamentale va preservata anche dall’immobilismo. Non sempre l’immobilità salva la tradizione» [25] .

Nel 1939,  padre Congar, racconta Riccardi, fu attaccato dal conservatore card. Baudrillart: “Come si spiega che voi che siete stati l’Ordine dell’Inquisizione [26], siete oggi divenuti amici dei protestanti e d’altri?”. Il teologo rispose che era in nome dello stesso amore per la verità, solo che viene applicato diversamente. Riccardi ci ricorda una frase di Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Andare incontro al mondo, per mostrare che Dio vi abita, significa non confondere l’identità della Chiesa con l’immobilismo. Si tratta – per rendere credibile il nostro annuncio – di mantenere il nucleo duro della nostra identità senza separarlo dal nostro tempo. Per questo ogni teologo deve essere fedelmente creativo stando attento, però, a non confondere la sua libertà con il diritto a ricevere occasioni di pensiero che possano fare più male che bene ai fedeli. Molti argomenti a favore dell’espulsione di Dio dal mondo, non sono altro che pretesti rinvenuti in alcune posizioni teologiche che non hanno saputo mettere nella giusta tensione ‘identità della Chiesa’ ed ‘istanze del tempo presente’. Non occorre sbilanciarsi verso nessuno dei due poli, ma sapientemente bilanciarli.
Sono attuali, perciò, le parole di Paolo VI rivolte nel 1977 ai vescovi francesi:

«Il rispetto del magistero è un elemento costitutivo del metodo teologico. Come lo è il rispetto del popolo di Dio. Questo ha diritto a non essere turbato in modo sconsiderato da ipotesi o prese di posizione avventurose, che esso non ha la competenza di giudicare o che rischiano di essere semplificate o manipolate dai movimenti d’opinione. Il teologo è un uomo libero e responsabile, ma della libertà del cristiano, quella che si esercita in un’apertura ai lumi che assicura la fede e che garantisce la fedeltà alla Chiesa» [27].

Dobbiamo fare i conti, in più, con l’espulsione di Dio dagli orizzonti epistemici; Egli, infatti, viene considerato anche ipotesi non necessaria per spiegare l’universo. Un tempo non era così:

«Fino ai tempi di Dante, Dio testimoniava la sua presenza nell’universo; ora l’universo testimonia l’assenza di Dio. Ma Dio è più pericoloso come assenza che come presenza; Dio oggi rappresenta la grande misteriosa assenza che esiste nell’universo» [28].

Emo scolpisce un rilievo di enorme importanza: se Dio è assente dall’universo non è divenuto, per questo, un non assillo; anzi, l’assenza urla non meno forte della Presenza. Si è tentati, soprattutto nel fare riferimento a Cristo, di affermare che Egli ‘si fa presente al mondo entrando in esso’ come se il mondo rendesse reale Cristo. Un teologo ha notato il gap nel quale precipita un simile ragionamento:

«La vita in questo mondo è una vita larvale […]la vera vita è la presenza del Cristo! Non è Lui che si fa presente nel mondo, è questo mondo che appare vuoto nella Presenza del Risorto. Se si facesse presente perché entra in questo mondo, sarebbe questo mondo a far reale e presente il Cristo. Invece è la presenza del Cristo la vera realtà che fa reale il mondo, Egli è la vera presenza che fa presente la creazione» [29].
Non il mondo conferisce l’occasione a Cristo di farsi reale, ma è il Cristo che – essendo ‘vera realtà’ – fa reale il mondo. Chi non la pensa a questo modo, tuttavia, deve fare i conti con la misteriosa ed inquietante assenza di Dio rafforzando la con argomenti e discorsi, consentendo la Presenza in altro modo.

Non è negabile che Dio non è immediatamente afferrabile in questo mondo; non è un referente empirico per i nostri discorsi, per quanto ispirati ed abitati da fede sincera e convinta. Non è atteggiamento blasfemo quello di chi ammette che di Dio dobbiamo intercettare le ‘tracce’ per poter aprire un serio discorso di fede:

«Bultmann applica a Dio una bella espressione di una poesia di Rilke: ‘Il visitatore che segue sempre la sua strada’. In qualsiasi momento, Dio arriva. Non si insedia; entra continuamente e non si stabilisce mai in modo definitivo. La sua presenza è giunta e non si trasforma mai in ‘pezzo d’arredamento’, per riprendere, questa volta, un’espressione di Vahanian» [30].

Dio ci ‘visita’, ma non smette di inaugurare sentieri verso il futuro; la Sua presenza è certa, visibile (fosse pure per tracce) ma non si trasforma in ‘pezzo di arredamento’. Se la Presenza non è catturabile a partire da un dato momento, perché il nostro è sì il Dio che viene, ma anche quello che verrà, ciò non significa che il Suo esserci per noi si riduca al passaggio di un tremolante fantasma senza generare conseguenze. Ad Abramo bastò una parola ed a Mosé fu solo concesso di vedere le spalle di Dio, ma questi due momenti, nei quali Dio fu un visitatore che segue sempre la sua strada e non un pezzo d’arredamento, non furono privi di significative conseguenze. Fosse stato appena un tocco di Trascendenza a poggiarsi sul mondo e ne avessimo avuto consapevolezza, non possiamo più abitare il tempo come se quel tocco non si fosse concretizzato. Un sociologo, scrive:

«il fedele che ha comunicato col suo dio […]è un uomo che può di più. Egli sente in sé una forza maggiore per sopportare le difficoltà dell’esistenza  o per vincerle […]è sollevato al di sopra della sua condizione di uomo»[31].

Più che uomo non significa Oltreuomo (Nietzsche), ma essere uomo con Dio.

Il compito del teologo è quello di vigilare affinché nessuno, per realizzare le proprie malefiche intenzioni, pretenda di dare un volto – contrabbandandolo per definitivo – al Trascendente. Solo se tale vigilanza viene portata avanti restando fedeli alla Chiesa (allo Spirito), però, sortisce l’effetto giusto. Andiamo per gradi. Il primo sforzo va compiuto per salvaguardare il Volto di Dio dalle deformazio ni orchestrate da quanti vogliono tirarlo dalla loro parte; non solo è male non riconoscere la presenza di Dio nel mondo, ma ancora di più lo è il lasciare che se ne dia la rappresentazione che più conviene. Ecco, dunque, come si lavora in favore dell’intelligenza della fede: la teologia deve essere «una sentinella costante che difende l’incondizionato contro la pretesa delle sue proprie forme fenomeniche religiose e culturali» (P. Tillich). Perché ciò accada, in secondo luogo, si cerchino le ragioni della nostra fede in compagnia del Magistero, della Tradizione; in una parola, respirando atmosfera ecclesiale abitata dallo Spirito. Al n. 12 della Lumen Gentium, infatti, leggiamo:

«La totalità (universitas) dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere […]. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente (fideliter obsequens), di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1Ts 2, 13)».

Solo in questo modo, continua il Concilio, «il popolo di Dio aderisce in defettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita». Per annunciare al mondo la Parola di Dio resa impermeabile ad ogni sorta di manipolazione, sofisticazione, non c’è altra strada che camminare in gioiosa compagnia del Magistero a Sua volta guidato dallo Spirito.

Resta, di là di indicazioni su come tutelare la presenza del Trascendente nel mondo, che non se ne può non avvertire il desiderio e, come sopra diceva Emo, anche la Sua assenza fa problema, crea pericolo ed alimenta il mistero. In ultimo, occorre avere il coraggio di porsi una «questione decisiva: se cioè noi, indifesi, siamo incatenati ad un’inesorabile necessità oppure se c’è un Dio che regge l’universo e la cui forza, capace di piegare la natura, può essere invocata e vissuta» [32]. Nel caso accettassimo che c’è un Dio a conferire senso all’universo, riconoscendoLo nel Volto di Cristo, siamo tenuti ad ammettere che solo perché il Trascendente ha liberamente realizzato la katabasis (venuta nel mondo, abbassamento), noi possiamo godere di una anabasis. Dare il proprio consenso a Cristo significa credere reale ed efficace

«una discesa ineffabile di Dio fino agli estremi limiti della condizione decaduta della nostra umanità, fino alla morte, una discesa di Dio che apre agli uomini la via dell’ascesa, gli orizzonti illimitati dell’unione fra esseri creati e la divinità. La via discendente (katabasis) della Persona divina di Cristo rende possibile alle persone umane una via ascendente, la nostra anabasis nello Spirito Santo» [33].

Non si resta schiavi del mondo perché, accettando di discendere Dio, possiamo salire noi. Questo è un altro motivo sul quale riflettere prima di archiviare la questione della Presenza.

Un autorevole esponente di quella scuola di pensiero antiumanistica che è lo ‘Strutturalismo’, anni fa, sentenziò: «il mondo è incominciato senza l’uomo e finirà senza di lui» e, perciò, «piuttosto che di antropologia bisognerebbe parlare di ‘entropologia’ […] disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte questo processo di disintegrazione» [34]. Come nella fisica il principio di entropia (detto in soldoni) teorizza l’irrecuperabilità dell’energia che si consuma, nelle scienze umane l’entropologia è l’annuncio di un progressivo esaurirsi dell’umano. Si dà un più drastico ribaltamento del progetto genesiaco? Chi attesterà che c’è un mondo, se non l’uomo che ne è la voce, la coscienza?
La fede cristiana, invece, afferma che mondo ed uomo conosceranno un fine piuttosto che una fine: «il mondo non è ancora concluso, ma va inteso come un mondo che è impegnato nella storia. Pertanto è il mondo delle cose possibili, il mondo nel quale si può essere al servizio della verità futura» [35]. Non c’è bisogno di sottolineare con altri esempi quali aspettative ci sono concesse con Dio e quali senza di Lui: fra Lévi – Strauss e Moltmann corre una bella differenza! Il primo ha del mondo e dell’uomo una visione catastrofica; il secondo, invece, anima e spinge a sperare perché apre su di una visione escatologica.
Non solo da parte dello Strutturalismo, ma da molte altre agenzie del sapere giungono minacce per impedirci la realizzazione dell’uomo come era nelle intenzioni di Dio. Nel 1998, a tal proposito, la voce di Giovanni Paolo II, nella Lettera enciclica Fides et Ratio, si levò ferma e decisa a denunciare un attacco radicale alla creatura umana:

«Si fa […] spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell’uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine» (par. 90).

La sfida per la Chiesa (nella quale, diceva Congar siamo tutti equipaggio e nessuno passeggero), consiste nel sapere che abbiamo davanti minacce serie provenienti da potentati del pensiero, dell’economia, della politica… e non possiamo rispondere che fidando, come accadde al Padre della fede, su di una Parola! Il mondo e l’uomo saranno al riparo da certe aberrazioni se la Chiesa «saprà correre il rischio di immergersi completamente nel multiforme e complesso divenire della storia, confidando solo nella forza della Parola che le ha trasmesso duemila anni fa un errante rabbi galileo che scelse di vivere come i poveri?» [36]. Dobbiamo annunciare la salvezza di uomo e mondo confidando solo nella Parola e mettendoci dalla parte dei più deboli per non tradire l’errante rabbi galileo che, scegliendo di vivere per gli ultimi, non lascia alla Chiesa alcun dubbio su come porsi di fronte al mondo.
Occorre, dunque, se vogliamo mostrare l’agire di Dio nel mondo, farci riconoscere come mandati da Lui; non siano teorie, dottrine i trampolini dai quali ci lanciamo nel mondo, sicuri del paracadute delle ragioni innervate di Trascendenza, ma partiamo da esso per verificare le nostre posizioni. Un teologo gesuita ritiene di dover promuovere

«un approccio diverso della Chiesa ai problemi della società: anziché partire dall’affermazione teorica dei principi, per verificarne poi l’attuazione nel modello storico che se ne deduce (metodo deduttivo), si preferisce partire dalla lettura dei ‘segni dei tempi’, per interpretarli alla luce dei principi» [37].

Dobbiamo essere visibili nel nostro tempo come segno di contraddizione che rimanda ad Altro. Mi spiego rubricando una storia ebraica tratta dal Talmud:

“Rabbi Jehuda Hanasi e Rabbi Chija andarono a trovare un rabbino cieco, il quale era molto sapiente. Quando presero congedo da lui, egli disse loro: - Siete venuti a trovare uno che è visibile ma che non vede. Vi auguro di comparire un giorno davanti a colui che tutto vede ed è invisibile” [38].

Il cristiano somiglia al saggio rabbino: è uno che non vede perché Dio non può mai essere un referente empirico; dobbiamo, però, essere visibili, presenti nel mondo augurando, con ragioni forti, agli altri di vedere, un giorno, Colui che, Invisibile, tutto vede perché Custode di tutte le cose, delle creature.
Ascoltiamo due fra le più geniali menti del Novecento: il matematico Kurt Gödel ed il logico e filosofo Ludwig Wittgenstein. Il primo, nel 1961, in una lettera alla madre, ammise:

«Siamo distanti dal poter confermare scientificamente il quadro teologico del mondo, ma credo sia oggi possibile percepire con la pura ragione (senza appellarsi alla fede in una qualsiasi religione) che la concezione teologica della realtà sia del tutto compatibile con tutti i dati noti» [39].

Questo, però, interessa il versante epistemico della cosa; a livelli più accosti all’esistenziale, il secondo autore ci dice che «il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo» [40].
Le corrispondenze tra la visione teologica del mondo e le acquisizioni scientifiche non bastano se ci sfugge che il cristianesimo è, in primo luogo, un evento reale nella vita dell’uomo. Le due affermazioni devono completarsi, ma per noi è più significativa mostrare la seconda: la nostra vita cristiana deve essere un evento reale per il mondo e le persone che incontriamo. Come? Unendo le parole dell’ annuncio a concreti gesti di carità: «Un uomo che vive nel mondo e si mette al servizio del suo fratello ammalato è migliore di un eremita che non ha pietà del suo prossimo» [41]. Dio è nel mondo – ribadiamolo – solo e soltanto con la nostra testimonianza. Se non accettiamo, contra Gödel,  che la concezione teologica della realtà sia del tutto compatibile con tutti i dati noti, ci poniamo di fronte al fenomenico come alla muraglia di Montale: potessimo (ma è assurdo pensarlo) scalarla, in cima avrebbe cocci aguzzi di bottiglia a ferirci impedendoci di gettare oltre lo sguardo. Ha scritto uno scienziato francese: «La testa degli uomini è fatta per cozzare contro i muri dietro i quali non succede niente» [42].
L’uomo di fede, diciamolo, cozza spesso la testa contro un muro di immagini, inadeguate, di Dio. Lo spessore tra noi e l’Altro è costituito dai risultati, sempre insoddisfacenti, ottenuti nel tentativo di realizzare l’incontro. Facciamo tentativi su tentativi per intercettare la Presenza e, con essi, costruiamo immagini convinti, quando non rassegnati, del fatto che esse siano i soli luoghi nei quali inaugurare almeno larvati incontri. L’ha espresso poeticamente Rilke:
«Tu, Dio, sei mio coinquilino» – dice il verso d’apertura di una sua poesia! Si parte dalla certezza della coabitazione col divino. Prosegue: «e io talora/nell’interminabile notte con insistente bussare ti disturbo». L’uomo può opporre, alla interminabile notte dell’assenza di Dio, l’insistente picchiare contro la parete dell’opaco ed opacizzante fenomenico; in fondo, «solo una parete sottilissima è tra noi/che per caso per un tuo o un mio chiamare/potrebbe infrangersi d’incanto». Non muri spessi si frappongono tra noi ed il Creatore e, dunque, possono cadere; ma ciò avverrebbe soltanto d’incanto: l’incontro con l’Altro è evento, Grazia indisponibile ai nostri desiderata.
Dio viene nel mondo (dice la fede), ma non ve Lo possiamo trascinare (come tentano di fare religione, magia, ritualismo). Il muro potrebbe infrangersi per incanto e, precisa il poeta, «senza il minimo rumore». Elia sentì la voce di Dio in una leggera brezza di vento: non si possono programmare le condizioni nelle quali accadono le visite del Trascendente!
La parete sottilissima è «costruita con le tue immagini». Diveniamo atei per amore di Dio – benché l’espressione suoni in prima battuta paradossale – quando impariamo non a negare Dio, ma le Sue immagini. Il mondo non è mero specchio del Trascendente, ma luogo tormentato nel quale Dio è realmente disceso per incontrarci non per tangenza esterna, bensì condividendo la nostra condizione umana.

Daniel Day Williams propose, anni fa, la teologia del processo che sostiene l’unità di Dio e mondo. Si ispirava a tesi elaborate dal filosofo inglese A. N. Whitehead, per il quale Dio è compromesso radicalmente con l’universo:

«Io sostengo che Dio soffre quando partecipa alla vita della società dell’essere […]. Parlo della sensibilità divina. Senza di essa non riesco a comprendere l’esistenza di Dio» [43].

Il filosofo approdò a conclusioni teoretiche passando attraverso la prova del fuoco: aveva perso tragicamente il giovane figlio. Questo fece dire a Whitehead che Dio è il Grande Compagno che soffre con noi! Seminando nel solco del pensatore inglese, Williams rigetta l’antico concetto greco di apatheia caratterizzante il Motore Immobile aristotelico. In campo metafisico, Whitehead ritiene essere la realtà un ‘processo ininterrotto’ da ricondurre ad una ‘unica entità’ («natura originaria»), Dio: «Dio e il mondo si muovono reciprocamente incontro attraverso i loro processi» [44]. Da qui, infine, conia una formula: il mondo è immanente in Dio, Dio è immanente nel mondo. Come per qualsiasi altra posizione teologica o filosofica, anche questa non andrebbe esente da critiche, aggiustamenti; quanto suggerisce, però, dà a pensare. Di fronte a quello che potremmo definire il mistero a due facce (Presenza e assenza di Dio), occorre adottare l’atteggiamento di Rilke: continuare a bussare al muro delle immagini di Dio e sperare che il muro d’incanto crolli perché alla nostra voce corrisponda La Voce che – interessata alle nostre parole – dica la Parola.

Certo è che cambiano e continueranno a mutare i termini nei quali discutere simili questioni; si tratta, allora, di attendere davvero un evento, laddove i fatti non paiono dirci nulla di pienamente rivelativo. Se la notte dell’assenza di Dio pare interminabile, dobbiamo continuare a bussare per sperare in una Voce di là delle mute immagini: Dio ama essere disturbato. L’uomo Lo vuole nel mondo in cui Lui vuole entrare, ma sempre con discrezione perché non c’è vera, autentica corrispondenza amorosa se non vi è il libero consenso di due soggetti. Si rifletta a quanto è detto nell’Apocalisse: Io sto alla porta, busso, attendo. La creatura ed il Creatore, si cercano di là del muro d’immagini che li separa. La grazia che attendiamo è l’incanto del crollo del muro che avviene senza il minimo rumore. I passi di Dio nel mondo sono discreti ed esigono attento ascolto perché, avere Dio a buon mercato, renderebbe l’uomo superbo inducendolo alla tentazione di piegare il divino ai propri scopi. Attendiamo, dunque, continuando a bussare, chiamare e facendo attenzione perché potrebbe essere il Cercato a scegliere di farsi (come già avvenuto nella storia della Rivelazione) Cercante. Non conosciamo i tempi, i modi, ma dobbiamo imparare l’attesa.
Il mondo è l’unico luogo congeniale alla manifestazione piena di Dio: sul Golgota, Egli non ha rifiutato la Croce per incontrarci nel dolore più straziante che è la parte più vera di noi; infatti, diceva Paul Valéry, ciò «che ci manca, ciò che ci ferisce ci individua» [45]. Rilke insegna a considerare Dio nostro coinquilino e ci tocca conoscerlo, con i mezzi a nostra disposizione, sempre meglio. Valéry diceva che fintanto

«che la cosa che approfondiamo somiglia ancora a quella che c’era prima di questo lavoro, non abbiamo fatto nulla» [46].

Il Dio che pensiamo non deve essere uguale a come Lo pensavamo: ci deve essere il superamento delle immagini inadeguate dietro al risultato di rendere sempre più presente la Trascendenza, per come è, nel mondo. La forma che quanto troveremo assumerà, semmai la ricerca possa pacificarsi in una forma, è imprevedibile, ma ciò non ci esenta dallo sforzo di promuovere, nella maniera più autentica possibile, l’incontro col Dio che vuole venire a noi:

«Come saranno i simboli in cui si esprimerà la nuova fede, se essi assomiglieranno o meno a quelli del passato, se saranno più adeguati alla realtà che dovranno tradurre, è un problema che supera la facoltà umana di previsione» [47].

Quanto rimane, invece, fondato, indiscutibile è che, alla fine, l’uomo e Dio si incontreranno – come ha detto qualcuno – nell’amore [48].


[1] s. freud, Psicoanalisi e fede. Carteggio col pastore Pfister 1909 – 1939, Boringhieri, Torino 1970.
[2] id., La mia vita e la psicoanalisi, Mursia, Milano 1956, p. 135.
[3] Cfr., j. p. sartre, “Les mouches”, atto III, scena 2, in Théâtre complet, Gallimard, Pléiade 2005, p. 65.
[4] a. camus, “Il mito di Sisifo”, in Essais, Gallimard, Pléiade 1965, p. 113.
[5] Cfr., id., “L’enigma”, in “L’Estate”, Essais, cit. p. 865.
[6] Cfr., t. mann, Gesammelte Werke in zwölf Bänden, Frankfurt 1960, X, p. 368.
[7] denis de rougemont, Diario di un intellettuale disoccupato, Fazi editore 1997, p. 163.
[8] Cfr., b. pascal, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, framm. 72. Nella citazione pascaliana si appalesa la vera, insopprimibile esigenza dell’anima: l’infinito. Secoli dopo, ecco concordare con quella del geniale francese la tesi di uno studioso del profondo: «la domanda decisiva per l’uomo è questa: è egli rivolto all’infinito oppure no? […]. Solo se sappiamo che l’essenziale è l’illimitato, possiamo evitare di porre il nostro interesse in cose futili» (c. g. jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 361 – 362).
[9] h. u. von balthasar, “Dio parla come uomo”, in Verbum caro, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 80 – 104, qui, p. 91.
[10] Ivi, p. 96.
[11] Cfr., m. buber, Eclissi di Dio, Comunità, Milano 1983, pp. 50 ss.
[12] Cfr., f. rosenzweig, Il nuovo pensiero, Arsenale, Venezia 1983, p. 60.
[13] e. jüngel, Possibilità di Dio nella realtà del mondo. Saggi teologici, Claudiana, Torino 2005, p. 236.
[14] Cfr., th. w. adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, pp. 145 – 146.
[15] Cfr., e. jüngel, Possibilità di Dio nella realtà del mondo, cit. pp. 245 – 246. Un limitarsi reciproco che non genera rancore perché nasce dall’amore e deve condurre alla pienezza dell’Amore. Come scrive altrove lo stesso Jüngel: «Dio e l’uomo avranno l’amore come loro futuro comune» (Dio mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Queriniana, Brescia 1982, p. 504).
[16] h. j. m. nouwen, Nel nome di Gesù. Riflessioni sulla leadership cristiana, Queriniana, Brescia 1990, p. 64.
[17] Cfr., g. colzani, La teologia e le sue sfide. Aperture e dialogo, Paoline, Milano 1998, p. 178.
[18] w. kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1970, p. 140.   
[19] Cfr., e. lévinas, Etica e infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 120.
[20] k. rahner, “Il significato perenne dell’umanità di Gesù nel nostro rapporto con Dio”, in Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1967, pp. 239 – 258, qui p. 248.
[21] Cfr., m. ruggenini, “Un Dio uomo?”, in Filosofia e Teologia 13 (1999), pp. 7 – 20, qui p. 8.
[22] In d. de kerckhove, La civilizzazione video – cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, p. 113.
[23] Cit. in La sapienza ebraica. Sentenze, proverbi e parabole, a cura di judith rosa, Mondadori, Milano 1995, p. 135.
[24] Cfr., a. janik – s. toulmin, La grande Vienna, Garzanti, Milano 1984, p. 218.
[25] a. riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Editori Laterza, Roma – Bari 1996, p. 61.
[26] Congar, infatti, era domenicano.
[27] Discorso del 20 giugno 1977; cfr, Doc. Cath, n. 1723, 3 luglio 1977, pp. 602 – 603.
[28] Cfr., a. emo, La voce delle muse, Venezia 1992, p. 7.
[29] d. barsotti, Alla sera della vita. Diario 1996 – 1997, Salvatore Sciascia Editore, Caltanisetta – Roma 2001, p. 14.
[30] Cfr., a. gounelle, Parlare di Dio, Claudiana, Torino 2006, p. 107.
[31] e. durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Comunità, Milano 1982, p. 456.
[32] Cfr., a. harnack, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1980, seconda edizione 1992, p. 83.
[33] v. lossky, A immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna 1999, cap. V, p. 137.
[34] Cfr., c. lévi – strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 402s.
[35] j. moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1971, p. 347.
[36] Cfr., d.  menozzi, Li avrete sempre con voi. Profilo storico del rapporto tra Cristo e potere,  Gruppo Abele, Torino 1995, p. 197.
[37] b. sorge, Introduzione alla dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, Brescia 2006, p. 24.
[38] In La sapienza ebraica, op cit., p. 32.
[39] Cit. da g. guerriero, Kurt Gödel. Paradossi logici e verità matematiche, Le Scienze, Milano 2001, p. 98.
[40] Cfr., l. wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 59.
[41] evagrio pontico, Specchio per i monaci, n. 34 (ed. Gressmann, p. 156).
[42] Cfr., jean rostand, Inquiétudes d’un biologiste, Stock, Le livre de poche 1967, p. 90.
[43] a. n. whitehead, “Suffering and Being”, in Adventure of Ideas, Harmondsworth 1942, pp. 191 – 192.
[44] id., Process and Reality. An Essay in Cosmology, New York – Cambridge 1929, p. 494.
[45] Cfr., p. valéry, Cattivi pensieri, Adelphi, Milano 2006, p. 143.
[46] id., Cattivi pensieri, cit. p. 134.
[47] Cfr., e. durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, op. cit. pp. 467 – 468.
[48] Cfr, infra, Jüngel, nota 15.

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