Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Monstrare Dio nel mondo

APORIE E POSSIBILITA

Scegliamo, per introdurre il nostro tema, una voce tra le tante che, sulla caleidoscopica scena dei saperi, hanno conosciuto il tragico destino di poter essere soltanto dei filtri silenziosi applicati alla Trascendenza. Iniziamo muovendo dal rifiuto che Freud opponeva alle argomentazioni mistico – religiose del pastore Pfister. In una lettera che a questi indirizzò il 9 ottobre del 1918, scrisse: «non posso che invidiarla per la Sua possibilità di ricondurre la sublimazione alla religione» [1]. Non si può che provare invidia, nell’epoca del disincanto del mondo, per quanti riescono a mantenere saldi gli ancoraggi con l’Oltre. Si mette a nudo, così, la nostalgia patita per una dimensione irrimediabilmente perduta (quella Verticale)!  La scena del mondo, se diamo per definitiva la cacciata di Dio, si impoverisce della grandiosa antropoteodrammatica che ha ispirato i temi essenziali della nostra civiltà: l’uomo e Dio potevano essere in conflitto, ma dialogavano. L’uomo, ormai, monologa! Freud, in un' altra opera, porta ad estreme conseguenze l’impossibilità di affidarsi alla dimensione religiosa.
La scienza spiega il mondo, ma non svela le ragioni per le quali ritenerlo sensato salvaguardarlo; essa, infatti, «non è rivelazione […]e difetta di quei caratteri di determinazione e infallibilità di cui il pensiero è tanto avido. Ma così com’è, essa è tutto ciò di cui disponiamo» [2].  La scienza manca (difetta) di qualcosa che il pensiero reclama con avidità, ma – per la mentalità contemporanea – essa deve bastarci in quanto unica risorsa per sopravvivere. Se è davvero tutto ciò di cui disponiamo, non si dà spazio per Dio. Kant tolse spazio al sapere per ospitare nel suo sistema filosofico la religione; penso, piuttosto, che occorrerebbe trovare la fede nel sapere e dilatare il sapere aprendolo alla fede. Si può tentare ciò solo e soltanto se si accetta che Dio mostra interesse per il mondo. Egli, penso, non poteva che scegliere la Croce per incontrare definitivamente la condizione umana: essa, infatti, abbraccia – se la immaginiamo stesa in terra - i quattro punti cardinali e si estende – sollevata - in Verticale ed in orizzontale; inoltre, è l’unico posto, per quanto faccia orrore, sul quale il Salvatore poteva essere collocato con le braccia aperte a testimoniare che, se Dio è l’attesa dell’uomo, è altrettanto vero che l’uomo è atteso da Dio. L’esito sarà, ad incontro perfezionato, la coabitazione nell’ escatologico, ma l’appuntamento è ai crocevia della Storia.

In una opera teatrale di Sartre, il personaggio principale, Oreste, si rivolge a Giove dichiarando che, alla legge divina sostituirà la propria e, anche se nella natura sono tracciati innumerevoli percorsi per andare al dio, seguirà unicamente il suo percorso: «io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino» [3].Essere uomo, nel nostro tempo, significa realizzarsi solo nella radicalizzazione eleuterologica? Attraverso, cioè, una libertà giocata tutta in orizzontale. L’uomo vuole restare solo e, quando non trova risposte in se stesso, si accorge che quanto lo circonda è surdus, “sordo”, “assurdo”: «L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame» [4]. L’uomo solo, nel solo mondo, si imbuca nel non senso perché non vi è chi lo ascolti e gli risponda: trionfa il totalmente solitario, parodia inquietante del Totalmente Altro! Camus ha tentato di superare, scrive, la più profonda oscurità del nichilismo e ciò non per ‘virtù’ o per «una rara elevazione dell’anima», ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza [5].
Superare il nichilismo è possibile, allora, soltanto grazie alla fedeltà istintiva nei confronti della luce della fede. Siamo fedeli ad essa istintivamente, perché definitivamente radicata nel nostro essere; quando ciò viene meno, brucia in noi la nostalgia della luce millenaria di quella fede da sempre salutata come benigna. C’è chi aspetta il ritorno della fede quale antidoto al nietzschiano deserto che avanza: «È grande la nostalgia del mondo per una nuova fede, per un vincolo religioso, che, in limiti saldamente circoscritti, assicuri alla vita dell’individuo un sostegno contro il nulla abissale, contro il dubbio assoluto, le sue angosce e la sua mancanza di una norma» [6]. Si sta qui, forse, materializzando il desiderio di Dio? La speranza che Dio torni ad abitare il mondo? C’è anche chi, poi, invoca la Chiesa universale e la rivelazione del Prossimo: «Il segreto del mio disagio, è che non vi è più una comunità […]. Tutte le nostalgie dell’Europa, tutti i falsi acquietamenti ch’essa offre loro, per poi dolersene subito dopo, tutta la miseria dei milioni di isolati che formano le nostre folle e salutano i dittatori, tutto ciò non è altro che una preghiera inconsapevole: venga la Chiesa universale e la rivelazione del Prossimo» [7]. De Rougemont parte da una perdita apparentemente sciolta da legami Trascendenti: non sente più di vivere in una comunità; se ci sono rimedi, alla fine, si rivelano essere falsi acquietamenti o surrogati di Dio! Nella disperazione che ne deriva lo scrittore francese intercetta una preghiera inconsapevole che invoca il senso da altre fonti: la Chiesa universale, la rivelazione del Prossimo. Pare che, tra Thomas Mann e De Rougemont, vi sia una visione convergente della questione: cancellate le tracce di Dio nel mondo, patiamo la nostalgia di radicamenti mondani inceneriti, ma pure soffriamo l’assenza di legami Trascendenti.

Che l’assenza di Dio dal mondo fosse una minaccia alle nostre forme di convivenza, e che per esistere l’uomo abbia bisogno di ben altri fondamenti che non false rassicurazioni, era chiaro già a Pascal:  «Bruciamo dal desiderio di trovare un fondamento solido e una base ultima e duratura per costruirvi sopra una torre che s’innalzi all’infinito. Ma tutto il nostro fondamento crolla, e la terra si apre fino agli abissi» [8]. Si parte dal basso con la zavorra di una autonomia che è, in realtà, improponibile. Nessun fondamento umano sopporta una costruzione che giunga al cielo; si tratta, piuttosto, di ascoltare quello che Berger definiva il brusio della trascendenza educando, poi, l’occhio a percepire le tracce della Presenza. La Rivelazione esige sensibilità verso i richiami Trascendenti ed attenzione costante alle istanze immanenti: «La rivelazione non cade mai senza mediazioni dal cielo, per annunciare e proclamare agli uomini dall’esterno e dall’alto misteri che trascendono il mondo; Dio parla agli uomini di mezzo al mondo, partendo dalle esperienze che sono loro proprie» [9]. Le “realtà terrestri” non sono in concorrenza con quelle “celesti”, né è corretto sostenere l’inverso; piuttosto, il mondano rappresenta la preziosa possibilità di mediare il Trascendente perché non potremmo mai reggere l’urto di un incontro diretto. I misteri della rivelazione non sono gravati dalla tara dell’indifferenza verso il mondo perché è in esso che Dio ci parla! Le esperienze sono il medium preferito (il solo?) da Dio per aprire un colloquio con noi. Non alla periferia, ai confini troviamo Dio, ma nel centro del mondo e parlante al centro della nostra umanità. Chiude von Balthasar: l’uomo, perciò, «trova, pure nella rivelazione, Dio centralmente nell’uomo» [10].

Per divenire consapevoli della centralità di Dio nel mondo, però, occorre stabilire cosa si intenda con l’espressione (ardita) “conoscere Dio”. Martin Buber precisa che (sempre prendendo con estrema cautela l’espressione) “conoscere Dio” non è «un atteggiamento noetico di un soggetto pensante verso un neutrale oggetto di pensiero, ma la reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita, tra esistenze attive» [11]. Un dio pensato viene per andarsene. Per i saggi ebrei si trova Dio dove Lo si lascia entrare e laddove sappiamo inaugurare una reale reciprocità: non un soggetto di fronte ad un oggetto, ma due soggetti che vivono in una reale, feconda tensione dialettica. Quando si pensa che l’uomo debba stare di fronte al divino come ad una forza estranea che è meglio placare, ingraziarsi con riti, sacrifici, siamo nell’ambito della religione, non in quello della fede. Il Dio ebraico – cristiano, invece, chiama ad un impegnativo, reale confronto nel quale sia il Suo Essere che quello dell’uomo sono attivi. Non attende qualcosa da Dio, ma si contende con Lui per non essere semplicemente qualcosa, ma qualcuno. Il dialogo è consapevolezza di stare di fronte ad un Tu e questo autenticamente umanizza. Dio viene nel mondo attraverso l’opera di uomini che preparano luoghi santi. Non interessano al Dio ebraico – cristiano atti esteriori di culto o rituali frasi di sottomissione perché «Dio non ha creato la religione, ma il mondo» [12] e lo affida a noi esseri capaci di rispondere. Attraverso l’atteggiamento religioso si instaurano rapporti col divino che possono scadere nell’esasperazione cultuale. Incontrare Dio nel centro del mondo e centralmente nell’uomo significa, invece, non congelare tutto in un rapporto noetico con un aristotelico Motore Immobile, ma accendersi d’amore in un rapporto patico con un Dio che accetta di ‘vivere’ con noi la reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita.

Jüngel muoveva da una frase di Kierkegaard: si parla con tanto fervore contro gli antropomorfismi e non si pensa che la nascita di Cristo è il più grande e significativo di tutti. Dio, in Gesù Cristo, ha voluto vestirsi di carne: «Se nei testi biblici viene al linguaggio il fatto che Dio viene al mondo e se la storia della venuta al mondo di Dio raggiunge il suo scopo, nell’idea del Nuovo Testamento, nella venuta al mondo dell’essere umano Gesù e nella sua storia in questo mondo, allora la caratteristica antropomorfa del parlare umano di Dio non può essere oggettivamente inadeguata» [13]. Seguendo il dettato biblico scopriamo che la strada verso l’uomo inizia da qui: Adamo, dove sei? Questi pecca e si illude di potersi nascondere a Dio che, invece di condannarlo, accusarlo, lascia che sia lui stesso a dire dov’è (a che punto della sua esistenza è giunto). Adamo confessa di aver avuto paura e, perciò, si è nascosto! In Cristo ci viene tolta ogni possibilità di nascondimento. Ci ha rivelato definitivamente chi siamo nelle intenzioni di Dio. Ha assunto la nostra carne e, con essa, il nostro mondo. Parlare di Dio al centro della vita e del mondo è reso possibile, dunque, dall’Incarnazione [14]. Parlare di Lui come carne nostra e del mondo è possibile, cioè, grazie ad una libera scelta di Dio. La creatura è l’altro per il Creatore e Questi è l’Altro per lei.  Un rapporto dialettico vivo tra due soggetti. Una tensione tra Soggetto e soggetto che nulla ha che vedere con la dialettica filosofica. Hegel ha tracciato il percorso dello Spirito che finisce, malgrado ogni opposizione, col tornare e pacificarsi in Se stesso; le tappe del percorso sono, appunto, dialettica che diviene processo vivo, reale. Nel poderoso impianto hegeliano, tuttavia, manca qualcosa: quella di Hegel «era una dialettica senza linguaggio, mentre il più semplice senso letterale di dialettica postula il linguaggio […]».
Il pensatore di Jena non ne aveva bisogno, «poiché per lui tutto, compreso l’averbale e l’opaco, doveva essere spirito» [15]. In gioco è l’avventura dello Spirito che passa nel mondo e torna a Sé; nella rivelazione ebraico – cristiana, invece, accade una reale reciprocità di un contatto presente nella pienezza della vita. La “dialettica”, qui, si anima tra due parlanti. La Rivelazione chiama in causa due soggetti che si trovano realmente l’uno di fronte all’altro e, perché no?, anche uno contro l’Altro. Giobbe, rispetto ai suoi amici teologi, è più apprezzato da Dio perché non si lascia acquietare da teorie, ma vuole disputare con il Tu. Dio nel mondo significa avere la consapevolezza che si gioca una partita difficile, impegnativa non solo per noi, ma anche per il Creatore: «non soltanto la creatura è limitata dal suo Creatore, ma anche – sebbene in senso del tutto diverso – il Creatore dalla sua creatura […]. Se la creatura è l’atto voluto da Dio, allora Dio vuole essere limitato dalla sua creatura in un senso positivo» [16].

Di un inno del Corpus Domini, “Verbum supernum prodiens” (Il Verbo che viene dall’alto) dovuto a Tommaso d’Aquino, ci interessano due versi: Se nascens dedit socium/ convescens in edulium. (Nascendo si è dato come compagno/ mangiando si è dato come cibo). Dio, in Cristo, condivide il pane con noi (compagno, viene da cum – panis, ‘condividere il pane’!). Cosa c’è di più intimo? Nel condividere i nutrimenti terrestri Dio si offre come nutrimento celeste; Cristo è pane vivo disceso dal cielo. Cosa c’è, inoltre, di più fragile del pane che si spezza senza fatica? Dio si rivela e si nasconde in qualcosa di estremamente vulnerabile. Se osserviamo le cose del mondo attraverso lo sguardo di Cristo, le tracce di Dio diventano addirittura sentieri. Riflettere in maniera autenticamente teologica, allora, non sarà mai esercizio meramente accademico, ma consisterà, principalmente, nello sforzo di dotarci di uno sguardo cristico più che critico: «riflessione teologica – scrive Nouwen – significa riflessione sulle realtà dolorose o gioiose di ogni giorno, fatta con la mente di Gesù». Non siamo di fronte ad un compito da poco «dato che la presenza di Dio è […]spesso nascosta e che va riscoperta. L’assordante frastuono del mondo ci impedisce di sentire la voce dolce, gentile e affettuosa di Dio» [17]. Il mondo è il luogo nel quale rinvenire “tracce di Dio”, ascoltare il “brusio della Trascendenza”, ma in esso si possono anche cancellare quelle tracce coprendo la voce di Dio. Solo se osserveremo le realtà dolorose o gioiose giorno per giorno con la mente di Cristo sapremo cogliere i segni della Presenza ed esserne capaci ermeneuti. La fede è attenzione al mondo secondo i modi indicati  dall’insegnamento cristiano: «solo una teologia attenta […] a servire la verità della rivelazione in modo critico ma aperto agli stimoli del proprio tempo può incarnare questa nuova sensibilità» [18]. Una sensibilità al mondo per come è visto da Altri. Alla teologia, che serve la Verità in modo critico, va affiancata la fatica quotidiana dell’amore che serve la verità in modo cristico. Per dirla con Guitton, Dio diventa visibile nel mondo quando il cristico convince il critico e, dal dio meramente pensato, ci si converte al dio che apre al rischio della traduzione in prassi del dettato evangelico.

Se operiamo questo passaggio avremo ben lumeggiato le due condizioni che consentono di mostrare Dio nel mondo. La prima possiamo esprimerla in questi termini: «il nostro agire storico può […]diventare il modo di essere di Dio per gli altri nella storia. Nel nostro agire è in gioco Dio stesso» [19]. Il modo di essere di Dio si manifesta e realizza nel nostro modo di fare storia. Mostriamo il vero o il falso Volto di Dio per mezzo delle azioni che compiamo a beneficio degli altri e nelle direzioni che eleggiamo riguardo al cammino della Storia. Dio ha fatto tutto per il mondo: ora tocca a noi fare qualcosa per Lui. La seconda condizione è questa: «la gloria dell’Infinito si rivela attraverso ciò che è capace di fare nel testimone» [20]. Se, nel primo caso, il nostro agire mette in gioco la presenza di Dio nella storia intesa come esserci per gli altri, nel segmento di riflessione di Lévinas, è l’Infinito stesso che rivela la propria potenza agendo nel testimone, nel fedele, nel credente… I due momenti sono complementari: l’agire di Dio nell’uomo, a partire dell’alto, per mostrare chi è Lui e l’agire dell’uomo nella storia per mostrare chi è Dio a partire, stavolta, dal basso. Risulta ormai difficile comprendere tutto questo perché l’uomo non si stima più, né rispetta il mondo. Fare in modo che, a quanti non vedono tracce del Trascendente e sono diventati succubi del chiasso che Ne copre la voce, appaia credibile che Egli è qui, significa assumersi due compiti:
1) ridare dignità e credibilità a se stessi ed al mondo; 2) comprendere la portata esistenziale contenuta nel credere in un Dio che si è fatto carne; credere fermamente, cioè, che «l’Essere incondizionato ama incondizionatamente proprio questo mondo condizionato e gli conferisce perciò una validità che lo rende più di una realtà provvisoria e una parvenza che si dissolve dinanzi a lui» [21]. La piena valorizzazione del mondo è avvenuta quando Dio si è fatto carne nel mondo ed ha toccato la realtà con mani d’uomo santificandone ogni minimo aspetto [22]. Se non spingiamo fino alle estreme conseguenze il pensare Cristo come l’incontro totale e definitivo di Dio con la realtà, non stiamo dando al pensiero teologico quel nutrimento forte, spiazzante che lo rende proficuamente coraggioso; forse, la meditazione intorno ai temi essenziali della fede cristiana, «inclusa quella che si comprende come teologia, non ha ancora il coraggio necessario per domandarsi che significa credere in un Dio uomo» [23]. Senza questo coraggio, non si potrà mai avere del mondo una visione incoraggiante. Se crediamo che Dio ha camminato sulle strade dell’uomo con passo d’uomo, noi stessi le percorreremo – assieme agli altri - con maggiore fiducia ed impegno. La fede è attenzione al mondo mostrata attraverso lo sguardo di Cristo. La categoria dell’attenzione, dopo Simone Weil, venne ritenuta centrale anche da uno studioso canadese della comunicazione del Novecento: Marshall McLuhan. Gli chiesero: - Per lei, cos’è la fede? E lui senza starci a pensare: essere attento ma, precisò, «non solo ai clichés religiosi, ma ancora e soprattutto a quello che fonda l’uomo intero, all’archetipo. Per trovare la fede bisogna pregare e stare attento» [24]. 

Abbiamo mezzi a sufficienza, se vogliamo, per uscire dalla situazione di pericolo nella quale siamo da quando il processo di umanizzazione è stato affidato soltanto a mani d’uomo. Si tratta, però, di purificare le nostre facoltà. Rabbi Na’ham di Breslav diceva che la mente sviluppa tre attività: il concetto (hokhmah), la riflessione (binah), la conoscenza (da’ath); le definiva, poi, muraglie che proteggono la nostra anima contro la lordura [25]. Chi protegge l’anima dalla lordura, la proietta nel mondo senza che su di esso restino impronte sgradevoli. Dobbiamo alimentare il “concetto e la riflessione”, ma anche imparare a gustare la compagnia di Dio attraverso il linguaggio poetico del quale ricca è la Scrittura. Dio deve entrare nel mondo come l’Amante che viene in casa.
I teologi suscitino la fame della Parola anche attraverso la bellezza letteraria delle parole bibliche, il poetico, il simbolico: la rivelazione non cade dal cielo. Wittgenstein non disdegnava di abbandonare discussioni teoretiche per tentare incursioni nel poetico: «non voleva discutere dei problemi tecnici della filosofia coi membri del Circolo di Vienna e insisteva che si leggesse piuttosto della poesia, specialmente i poemi di Rabindranath Tagore» [26]. Riscoprire il lato poetico della vita aiuta a leggere il mondo anche attraverso la lezione biblica che, con la poesia, ci raggiunge in maniera più efficace.
La Chiesa universale veniva auspicata, come già riferito, da De Rougemont: il suo, in primo luogo, era il disagio di chi non ha più una comunità nella quale riconoscersi. La Chiesa mostri la realtà comunitaria della Trinità praticando (non soltanto predicando) l’apertura all’altro. Molto ha fatto, in tal senso, il Concilio Vaticano II:  
«La Chiesa del Concilio mantiene un nucleo duro di identità non solo su aspetti di dottrina ma anche su altre scelte. Tuttavia questa identità è vissuta senza separazione dal proprio tempo […]. L’identità fondamentale va preservata anche dall’immobilismo. Non sempre l’immobilità  salva la tradizione» [27]. Nel 1939, padre Congar, racconta Riccardi, fu attaccato dal conservatore card. Baudrillart: “Come si spiega che voi che siete stati l’Ordine dell’Inquisizione [28], siete oggi divenuti amici dei protestanti e d’altri?”. Il teologo rispose che era in nome dello stesso amore per la verità, solo che, ora, esso viene applicato diversamente. Diceva Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Andare incontro al mondo, per mostrare che Dio vi abita, significa non confondere l’identità della Chiesa con l’immobilismo: va mantenuto il nucleo duro della nostra identità senza separarlo dal nostro tempo.
Il teologo deve essere fedelmente creativo stando attento, però, a non confondere la  libertà con il diritto di accendere occasioni di pensiero che possano fare male ai fedeli. Molti argomenti a favore dell’espulsione di Dio dal mondo derivano da posizioni teologiche che non hanno saputo mettere nella giusta tensione “identità della Chiesa” ed “istanze del tempo presente”. Non sbilanciarsi verso nessuno dei due poli, ma sapientemente bilanciarli.  Paolo VI, nel 1977, disse ai vescovi francesi: «Il rispetto del magistero è un elemento costitutivo del metodo teologico. Come lo è il rispetto del popolo di Dio. Questo ha diritto a non essere turbato in modo sconsiderato da ipotesi o prese di posizione avventurose, che esso non ha la competenza di giudicare o che rischiano di essere semplificate o manipolate dai movimenti d’opinione. Il teologo è un uomo libero e responsabile, ma della libertà del cristiano, quella che si esercita in un’apertura ai lumi che assicura la fede e che garantisce la fedeltà alla Chiesa» [29].

Dobbiamo fare i conti, in più, con l’espulsione di Dio dagli orizzonti epistemici; Egli, infatti, viene considerato ipotesi non necessaria per spiegare l’universo. Un tempo non era così:  «Fino ai tempi di Dante, Dio testimoniava la sua presenza nell’universo; ora l’universo testimonia l’assenza di Dio. Ma Dio è più pericoloso come assenza che come presenza; Dio oggi rappresenta la grande misteriosa assenza che esiste nell’universo» [30]. Emo scolpisce un rilievo di enorme importanza: se Dio è assente dall’universo non è divenuto, per questo, un non assillo; anzi, l’assenza urla non meno forte della Presenza. Si impone un sottile chiarimento. Si afferma che Cristo “si fa presente al mondo entrando in esso”; è come se il mondo rendesse reale Cristo. Un teologo ha rovesciato i termini della questione: «La vita in questo mondo è una vita larvale […]la vera vita è la presenza del Cristo! Non è Lui che si fa presente nel mondo, è questo mondo che appare vuoto nella Presenza del Risorto. Se si facesse presente perché entra in questo mondo, sarebbe questo mondo a far reale e presente il Cristo. Invece è la presenza del Cristo la vera realtà che fa reale il mondo, Egli è la vera presenza che fa presente la creazione» [31].  Non il mondo conferisce l’occasione a Cristo di farsi reale, ma è il Cristo che – essendo “vera realtà” – fa reale il mondo.

Dio, ovvio, non è afferrabile in questo mondo: non è, si dice in gergo filosofico, un referente empirico. Non è sbagliato ammettere che di Dio dobbiamo intercettare le “tracce” per poter aprire un serio discorso di fede:  «Bultmann applica a Dio una bella espressione di una poesia di Rilke: “Il visitatore che segue sempre la sua strada”. In qualsiasi momento, Dio arriva. Non si insedia; entra continuamente e non si stabilisce mai in modo definitivo. La sua presenza è giunta e non si trasforma mai in “pezzo d’arredamento”, per riprendere, questa volta, un’espressione di Vahanian» [32].  Dio ci “visita”, ma non smette di inaugurare sentieri verso il futuro; la Sua presenza è certa, visibile (per tracce), ma non si trasforma in pezzo di arredamento. La Presenza non è catturabile, perché il nostro è il Dio che viene e il Dio che verrà. Già ora, in attesa del non ancora, le tracce di Dio generano enormi conseguenze. Ad Abramo bastò una parola ed a Mosé fu solo concesso di vedere le spalle di Dio, ma questi momenti, nei quali Egli fu appena un visitatore che segue sempre la sua strada, restano imprescindibili nell’imparare, oggi, a vivere un autentico percorso di fede. Fosse stato appena un tocco di Trascendenza a poggiarsi sul mondo e ne avessimo avuto consapevolezza, non possiamo più abitare il tempo come se quel tocco non si fosse concretizzato:  «il fedele che ha comunicato col suo dio […]è un uomo che può di più. Egli sente in sé una forza maggiore per sopportare le difficoltà dell’esistenza  o per vincerle […]è sollevato al di sopra della sua condizione di uomo»[33].  Più che uomo non significa Oltreuomo (Nietzsche), ma essere uomo con Dio.

Compito del teologo è vigilare affinché nessuno, per realizzare malefici progetti, pretenda di dare un volto definitivo al Trascendente. Il primo sforzo va compiuto per salvaguardare il Volto di Dio dalle deformazioni orchestrate da quanti vogliono tirarlo dalla loro parte; non solo è male non riconoscere la presenza di Dio nel mondo, ma ancora di più lo è il lasciare che se ne dia la rappresentazione che più conviene. Ecco, dunque, come si lavora in favore dell’intelligenza della fede: la teologia deve essere una sentinella costante che difende l’incondizionato contro la pretesa delle sue proprie forme fenomeniche religiose e culturali (P. Tillich). Perché ciò accada, in secondo luogo, si cerchino le ragioni della nostra fede in compagnia del Magistero, della Tradizione; in una parola, respirando atmosfera ecclesiale abitata dallo Spirito. Al n. 12 della Lumen Gentium, infatti, leggiamo:  «La totalità (universitas) dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere […]. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente (fideliter obsequens), di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1Ts 2,13)». Solo in questo modo «il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita». Per annunciare la Parola rendendola impermeabile alle nefaste manipolazioni non c’è altra strada che camminare in gioiosa compagnia del Magistero guidato dallo Spirito.

Resta, di là delle indicazioni su come tutelare la presenza del Trascendente nel mondo, che non se ne può non avvertire il desiderio; la Sua assenza fa problema. Occorre avere il coraggio di porsi una «questione decisiva: se cioè noi, indifesi, siamo incatenati ad un’inesorabile necessità oppure se c’è un Dio che regge l’universo e la cui forza, capace di piegare la natura, può essere invocata e vissuta» [34]. Ascendiamo a Dio, ad ogni modo, solo perché Egli ha liberamente realizzato la katabasis (venuta nel mondo, abbassamento); da un dono origina la nostra anabasis. Dare il proprio consenso a Cristo significa credere reale ed efficace «una discesa ineffabile di Dio fino agli estremi limiti della condizione decaduta della nostra umanità, fino alla morte, una discesa di Dio che apre agli uomini la via dell’ascesa, gli orizzonti illimitati dell’unione fra esseri creati e la divinità. La via discendente (katabasis) della Persona divina di Cristo rende possibile alle persone umane una via ascendente, la nostra anabasis nello Spirito Santo» [35].  Non si resta schiavi del mondo perché, accettando di discendere Dio, possiamo salire noi. Un autorevole esponente dello “Strutturalismo”, sentenziò: «il mondo è incominciato senza l’uomo e finirà senza di lui» e, perciò, «piuttosto che di antropologia bisognerebbe parlare di “entropologia” […] disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte questo processo di disintegrazione» [36]. Come nella fisica il principio di entropia (detto in soldoni) teorizza l’irrecuperabilità dell’energia che si consuma, nelle scienze umane l’entropologia è l’annuncio di un progressivo esaurirsi dell’umano. Si dà un più drastico ribaltamento del progetto genesiaco? Chi attesterà che c’è un mondo, se non l’uomo che ne è la voce, la coscienza?  
La fede cristiana, invece, afferma che mondo ed uomo conosceranno un fine piuttosto che una fine: «il mondo non è ancora concluso, ma va inteso come un mondo che è impegnato nella storia. Pertanto è il mondo delle cose possibili, il mondo nel quale si può essere al servizio della verità futura» [37]. Non c’è bisogno di sottolineare con esempi quali aspettative ci sono concesse con Dio e quali senza di Lui: fra Lévi – Strauss e Moltmann corre una bella differenza! Il primo ha del mondo e dell’uomo una visione catastrofica; il secondo, invece, confida nella promessa escatologica. Da troppe agenzie del sapere giungono minacce all’uomo. Nel 1998, perciò, Giovanni Paolo II, nella Lettera enciclica Fides et Ratio, denunciò: «Si fa […] spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell’uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine» (par. 90).

La sfida per la Chiesa (nella quale, per Congar, siamo tutti equipaggio e nessuno è passeggero), consiste nel sapere che abbiamo davanti minacce serie provenienti da potentati del pensiero, dell’economia, della politica… e non possiamo rispondere che fidando, come accadde al Padre della fede, su di una Parola! Il mondo e l’uomo saranno salvi se la Chiesa «saprà correre il rischio di immergersi completamente nel multiforme e complesso divenire della storia, confidando solo nella forza della Parola che le ha trasmesso duemila anni fa un errante rabbi galileo che scelse di vivere come i poveri?» [38]. Dobbiamo annunciare la salvezza confidando nella Parola e mettendoci dalla parte dei più deboli per non tradire l’errante rabbi galileo che, scegliendo di vivere per gli ultimi, non lascia alla Chiesa alcun dubbio su come porsi di fronte al mondo. Occorre, dunque, se vogliamo mostrare l’agire di Dio nel mondo, farci riconoscere come mandati da Lui; non siano teorie, dottrine i trampolini dai quali ci lanciamo nel mondo, sicuri del paracadute delle ragioni innervate di Trascendenza.
Si promuova, piuttosto, «un approccio diverso della Chiesa ai problemi della società: anziché partire dall’affermazione teorica dei principi, per verificarne poi l’attuazione nel modello storico che se ne deduce (metodo deduttivo), si preferisce partire dalla lettura dei “segni dei tempi”, per interpretarli alla luce dei principi» [39]. Dobbiamo essere visibili nel nostro tempo come segno di contraddizione che rimanda ad Altro. Mi spiego con una storia tratta dal Talmud. Rabbi Jehuda Hanasi e Rabbi Chija andarono a trovare un rabbino cieco, molto sapiente. Quando presero congedo da lui, egli disse loro: - Siete venuti a trovare uno che è visibile ma che non vede. Vi auguro di comparire un giorno davanti a colui che tutto vede ed è invisibile [40].

Il cristiano somiglia al saggio rabbino: non vede perché Dio non è un “referente empirico”; deve, però, essere visibile, presente nel mondo augurando, con ragioni forti, agli altri di vedere, un giorno, Colui che, Invisibile, tutto vede. Ascoltiamo il matematico Kurt Gödel ed il filosofo Ludwig Wittgenstein. Il primo, nel 1961, in una lettera alla madre, ammise: «Siamo distanti dal poter confermare scientificamente il quadro teologico del mondo, ma credo sia oggi possibile percepire con la pura ragione (senza appellarsi alla fede in una qualsiasi religione) che la concezione teologica della realtà sia del tutto compatibile con tutti i dati noti» [41]. Questo, però, interessa il versante epistemico della cosa; a livelli più accosti all’esistenziale, il secondo autore ci dice che «il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo» [42].
Le due affermazioni devono completarsi, ma per noi è più significativa la seconda: la vita cristiana deve essere un evento reale nel mondo e per le persone che incontriamo. Come? Unendo le parole dell’annuncio a concreti gesti di carità: «Un uomo che vive nel mondo e si mette al servizio del suo fratello ammalato è migliore di un eremita che non ha pietà del suo prossimo» [43]. Dio è nel mondo – ribadiamolo – solo e soltanto con la nostra testimonianza. Se non accettiamo che la concezione teologica della realtà sia del tutto compatibile con tutti i dati noti, ci poniamo di fronte al fenomenico come alla muraglia di Montale: potessimo scalarla, in cima avrebbe cocci aguzzi di bottiglia a ferirci impedendoci di gettare oltre lo sguardo. Ha scritto uno scienziato francese: «La testa degli uomini è fatta per cozzare contro i muri dietro i quali non succede niente» [44].

L’uomo di fede cozza spesso la testa contro un muro di immagini inadeguate di Dio. Lo spessore tra noi e l’Altro è costituito dai risultati, sempre insoddisfacenti, ottenuti proprio nel tentativo di realizzare l’incontro. Facciamo, a dispetto di qualsiasi insuccesso, tentativi su tentativi per intercettare la Presenza. L’ha espresso poeticamente Rilke: Tu, Dio, sei mio coinquilino. Si parte dalla certezza della coabitazione col divino.
Prosegue: «e io talora/nell’interminabile notte con insistente bussare ti disturbo». L’uomo può opporre, alla interminabile notte dell’assenza di Dio, l’insistente picchiare contro la parete dell’opaco ed opacizzante fenomenico; in fondo, «solo una parete sottilissima è tra noi/che per caso per un tuo o un mio chiamare/potrebbe infrangersi d’incanto». Non muri spessi si frappongono tra noi ed il Creatore e, dunque, possono cadere; ma ciò avverrebbe soltanto d’incanto: l’incontro con l’Altro è evento, Grazia indisponibile ai nostri desiderata. Dio viene nel mondo (dice la fede), ma non ve Lo possiamo trascinare (come tentano di fare religione, magia, ritualismo). Il muro potrebbe infrangersi per incanto e, precisa il poeta, «senza il minimo rumore». Elia sentì la voce di Dio in una leggera brezza di vento: non si possono programmare le condizioni nelle quali accadono le visite del Trascendente! La parete sottilissima è «costruita con le tue immagini». Diveniamo atei per amore di Dio – benché l’espressione suoni paradossale – quando impariamo non a negare Dio, ma le Sue immagini. Il mondo non è mero specchio del Trascendente, ma luogo tormentato nel quale Dio è realmente disceso per incontrarci non per tangenza esterna, bensì condividendo la nostra condizione umana.

Daniel Day Williams propose, anni fa, la teologia del processo che sostiene l’unità di Dio e mondo. Si ispirava a tesi elaborate dal filosofo inglese A. N. Whitehead, per il quale Dio è compromesso radicalmente con l’universo: «Io sostengo che Dio soffre quando partecipa alla vita della società dell’essere […]. Parlo della sensibilità divina. Senza di essa non riesco a comprendere l’esistenza di Dio» [45].  Il filosofo approdò a conclusioni teoretiche passando attraverso la prova del fuoco: aveva perso tragicamente il giovane figlio. Questo fece dire a Whitehead che Dio è il Grande Compagno che soffre con noi! Seminando nel solco del pensatore inglese, Williams rigetta l’antico concetto greco di apatheia caratterizzante il Motore Immobile aristotelico. In campo metafisico, Whitehead ritiene essere la realtà un ‘processo ininterrotto’ da ricondurre ad una ‘unica entità’ («natura originaria»), Dio: «Dio e il mondo si muovono reciprocamente incontro attraverso i loro processi» [46]. Da qui, infine, conia una formula: il mondo è immanente in Dio, Dio è immanente nel mondo. Come per qualsiasi altra posizione teologica o filosofica, anche questa non andrebbe esente da critiche, aggiustamenti; quanto suggerisce, però, dà a pensare. Di fronte a quello che potremmo definire il mistero a due facce (Presenza e assenza di Dio), occorre adottare l’atteggiamento di Rilke: continuare a bussare al muro delle immagini di Dio e sperare che il muro d’incanto crolli perché alla nostra voce corrisponda La Voce che – interessata alle nostre parole – dica la Parola.

Certo è che cambiano e continueranno a mutare i termini nei quali discutere simili questioni; si tratta, allora, di attendere un evento laddove i fatti pare dicano nulla. Se la notte dell’assenza di Dio pare interminabile, dobbiamo continuare a bussare per sperare in una Voce di là delle mute immagini: Dio ama essere disturbato. L’uomo Lo vuole nel mondo in cui Lui vuole entrare, ma sempre con discrezione perché non c’è vera, autentica corrispondenza amorosa se non vi è il libero consenso di due soggetti. La creatura ed il Creatore si cercano di là del muro d’immagini che li separa. La grazia che attendiamo è l’incanto del crollo del muro che avviene senza il minimo rumore. I passi di Dio nel mondo sono discreti ed esigono attento ascolto perché, avere Dio a buon mercato, renderebbe l’uomo superbo inducendolo alla tentazione di piegare il divino ai propri scopi. Attendiamo, dunque, continuando a bussare, chiamare e facendo attenzione perché potrebbe essere il Cercato a scegliere di farsi Cercante. Non conosciamo i tempi, i modi, ma soltanto l’attesa. Il mondo è l’unico luogo congeniale alla manifestazione piena di Dio: sul Golgota, Egli non ha rifiutato la Croce pur di incontrarci nel dolore più straziante che è la parte più vera di noi; infatti, diceva Paul Valéry, ciò «che ci manca, ciò che ci ferisce ci individua» [47]. Rilke insegna a considerare Dio nostro coinquilino e ci tocca conoscerlo, con i mezzi a nostra disposizione, sempre meglio. Valéry diceva che fintanto «che la cosa che approfondiamo somiglia ancora a quella che c’era prima di questo lavoro, non abbiamo fatto nulla» [48].
Il Dio che pensiamo non deve essere uguale a come Lo pensavamo: ci deve essere il superamento delle immagini inadeguate dietro al risultato di rendere sempre più presente la Trascendenza, per come è, nel mondo. La forma che quanto troveremo assumerà, semmai la ricerca possa pacificarsi in una forma, è imprevedibile, ma ciò non ci esenta dallo sforzo di promuovere, nella maniera più autentica possibile, l’incontro col Dio che vuole venire a noi:  «Come saranno i simboli in cui si esprimerà la nuova fede, se essi assomiglieranno o meno a quelli del passato, se saranno più adeguati alla realtà che dovranno tradurre, è un problema che supera la facoltà umana di previsione» [49].  Quanto rimane, invece, fondato, indiscutibile è che, alla fine, l’uomo e Dio si incontreranno – come ha detto Jüngel  – nell’amore.

In una delle sue, non rare, vertigini metafisiche, Blaise Pascal confessò di provare, improvvisamente, una “grande paura”: si sentiva come un uomo condotto, mentre era avvolto nel sonno, su di un’isola sconosciuta, deserta e, al risveglio, avvertiva uno spaesamento spaventoso, né riusciva a comprendere con quali mezzi avrebbe potuto lasciare quel luogo inquietante. Non aveva appigli ai quali aggrapparsi ma – scrive - «considerando come si siano più probabilità che si sia qualcosa oltre ciò che vedo, ho cercato se […] Dio ha lasciato qualche segno di sé» [50]. Il filosofo sperimenta quanto Freud teorizzerà come Das Unheimliche, il perturbante, lo spaesamento [51]. Si verifica, qui, «qualcosa di estraneo che si insinua nell’ambito dello Heim, della “casa”, della familiarità, privandolo così del carattere rassicurante che comunemente gli appartiene» [52].
Diventa difficile, dunque, percepire il reale come abitabile. La differenza tra Pascal e l’uomo contemporaneo sta in questo: il pensatore francese, non trovando appigli fenomenici, si appella al noumenico (qualcosa oltre ciò che vedo) e si dà il compito di scoprire se Dio ha lasciato qualche segno di sé! Sono i segni che, nel nostro tempo, si dispera di intercettare nei numerosi e tragici “spaesamenti” subiti per l’incapacità di orientarsi nel mondo della complessità.
D’altro canto, quella pascaliana, è un’atmosfera metafisica; mentre, per noi, la questione si gioca tutta su di un piano rigorosamente “orizzontale”.

L’ingovernabilità del mondo, dunque, non smuove più le corde del cuore, ma inquieta perché ci rivela incapaci di orientamento pratico nella realtà; o, meglio, nelle realtà (Blumenberg). Viviamo in un tempo nel quale «la macchina ha sbalzato il conducente» [53]. Gli appigli teoretici, razionali, noetici che già Pascal non riusciva a rinvenire nel trauma dello “spaesamento” non sono più possibili: la “ragione”, come sottolinea Horkheimer, si è “eclissata” dietro la nuvolaglia di una sfiducia radicale nei mezzi umani. Il discorso moderno, però, qui si arresta e non deraglia su strade metafisiche, teologiche. Pascal riteneva che ci fossero “più probabilità” nell’appellarsi a “qualcosa oltre” ciò che vediamo e si metteva in cerca delle tracce di Dio. Alla sfiducia nella “Ragione” l’uomo, ormai, affianca l’abbandono degli ancoraggi teologici. Le idee che informavano il moderno (basti citare il genocidio nazista ai danni di ebrei, zingari…), d’altronde, si sono rivelate, nella loro traduzione pratica, produttrici di lutti maculati di sangue innocente [54]. Si crede, ormai, che Dio non lasciato tracce nella Storia e ci carichiamo sulle nostre esili spalle la fatica di essere noi stessi (i totalmente solitari orfani del Totalmente Altro) [55]. Da Nietzsche in poi, infatti, si è ritenuto offensivo, limitante pensare che ci siamo ricevuti dalle mani del Trascendente: l’uomo «nega la creaturalità e reclama l’autonomia» [56]. Siamo passati dalla gioia della relazione all’assillo dell’autorealizzazione! Cristo, però, ci ha liberato dalla schiavitù del peccato; l’antropologia cristiana sostiene che, con l’Incarnazione, l’uomo è tornato ad essere com’era nelle intenzioni di Dio. Il lascito cristiano, purtroppo, per l’uomo adulto è inaccettabile: sarete come dei – aveva detto il serpente nell’Eden; ebbene, l’uomo vuole esser come Dio dal lato della potenza e non da quello dell’amore, della carità. L’umanesimo ha abraso la sua connaturata patina teologica ed è diventato ateo: L’«idea cristiana dell’uomo, che era stata accolta un tempo come liberazione, incomincia ad essere sentita come un giogo. Ecco che quello stesso Dio in cui l’uomo aveva imparato a riconoscere il sigillo della propria grandezza, incomincia a sembrargli un rivale […]. L’uomo elimina Dio […] abbatte un ostacolo per conquistare la sua libertà» [57].

Appare sempre più chiaro, insomma, che si vive in un mondo fuoriuscito da Dio [58]. Al più, ci si sente cristiani per abitudine, consuetudine… siamo cristiani come ci si infila i calzini [59]. Il cristianesimo offre una Speranza che è, allo stesso tempo, “davanti a noi” e “dietro di noi”: la memoria del cristiano è fatta di identità (la storia dalla quale veniamo, la Tradizione) e profezia (la consapevolezza che la Storia avrà una soluzione escatologica). Oggi, invece, si vive nel “puntiforme”, nell’ “immediato” e la visione profetica della Storia viene, al più, giudicata il sogno di un visionario. Se, poi, si supera la patologia della defuturizzazione, si considera il domani come il campo dell’ininterrotta sperimentazione di sé, priva di Telos! Trionfa «la pura apertura per ciò che è di volta in volta diverso e nuovo e», tale apertura, saldata all’«incessante cambiamento valgono qui come valore in sé; il futuro viene considerato come “spazio del possibile”» [60].Nell’aprirsi al futuro non si dà assolutamente credito – come invece faceva Pascal – all’ipotesi che ci siano più probabilità che ci sia qualcosa oltre ciò che vedo. Nel rintracciare segni di Trascendenza nel nostro tempo, registriamo, piuttosto, un ritorno anomalo del religioso: «la religiosità contemporanea […] sfugge a ogni interpretazione che voglia essere comprensiva a livello socio – filosofico, teologico o razionale» [61]. I cattolici, poi, non hanno più un atteggiamento cristiano a tutto tondo; infatti, vivono la fede ispirati dai propri desiderata piuttosto che in conformità, comunione con gli insegnamenti della Chiesa. Una filosofa ebrea del Novecento, che si convertì e divenne martire carmelitana dei nazisti, polemizzava: «Dalla soddisfazione di sé un “buon cattolico” che “fa il suo dovere”, legge “un buon giornale”, che “vota il partito giusto”, ma altrimenti fa quello che gli pare c’è un lungo cammino da percorrere fino a poter vivere una vita con la mano nella mano di Dio, guidata dalla sua mano, con la semplicità del bambino e l’umiltà del pubblicano. Ma chi ha percorso una volta quella strada non torna più indietro» [62]. Si vive apparentemente da cristiani e non si compie quell’atto di fiducia fondamentale in Dio che fa vivere in comunione con Lui e la Chiesa. Vincenzo Paglia, precisa: «nel Credo diciamo credo “in” Dio e non credo “che c’è” un Dio; la fede implica l’affidarsi a Dio e non semplicemente ammetterne l’esistenza» [63].

Gli studiosi delle forme contemporanee di religiosità affermano che la religione non ha più rilevanza “pubblica”: si è ritirata nell’intimo delle coscienze. I recenti fatti, però, danno a pensare in tutt’altra direzione. La recrudescenza del terrorismo islamico, ad esempio, ha riportato al centro delle questioni fondamentali del nostro tempo, il tema “Religioni e pace”. Si passa dall’incontro fra le religioni allo scontro e, non di rado, le motivazioni dei lottatori erompono da interessi tutt’altro che fideistici. Uno studioso, anni fa, pubblicava in Francia La revanche de Dieu [64]. L’autore sosteneva che, nel quindicennio 1975 – 1990, dopo la crisi della modernità, le tre grandi religioni monoteistiche conoscono un nuovo vigore e progettano di «riconquistare il mondo». Parole trasudanti speranza vengono, però, da un teologo francese. A Suo dire, l’Occidente, il mondo, pervasi da quello “spaesamento” documentato da Pascal, si sentono motivati a «prendere in considerazione l’ipotesi che solo la venuta del Cristo […] può offrire idee e forza per affrontare» le odierne sfide. Se tre dei grandi problemi del mondo moderno – continua – sono l’unità del genere umano, la capacità di autodistruzione, l’integrità della creazione, allora ci si deve riferire ai «tre dati fondamentali della rivelazione del Cristo»: la fratellanza dei figli di Adamo, la fine dei tempi e il giudizio delle genti, la creazione a beneficio dell’uomo.
Sono, dunque, queste «tre esperienze, comuni alla coscienza contemporanea» che «testimoniano la rinnovata attualità del messaggio evangelico» [65]. Kepel parla della revanche de Dieu, ma è costretto ad evidenziare, in un altro saggio, l’emergenza di un fenomeno tanto spettacolare quanto imprevisto: «mentre il rientro della religione nella sfera privata sembrava ormai un dato acquisito dal mondo moderno, l’affermazione improvvisa di gruppi politici che volevano instaurare lo Stato islamico […] proclamavano la […] guerra santa […] ha rimesso in discussione un buon numero di certezze» [66]. La religione ha lasciato il guscio della “sfera privata”, ma torna sulla “scena pubblica” in forme sinistre ed inquietanti. La teologia accetti queste sfide e, dialogando, riproponga quanto di autentico la costituisce rinunciando ad infruttuose apologie. La teologia non può essere, laddove altre religioni parlano con le armi, una macchina da guerra concettuale, bensì la proposta di un incontro ecumenico per annunciare la Speranza profumata, a partire dalla radice, di Risurrezione.

Mostrare Dio nel mondo significa soprattutto avere sguardo profetico sulla Storia per ribadire che l’ideologia (parziale, transeunte, cruenta) verrà sconfessata dall’escatologia: dal non ancora richiamato già laddove si inizia a costruire la civiltà dell’amore (Paolo VI). Adorare Dio in pace e dialogando: questo il programma della teologia nel mondo contemporaneo! Ci appaia sempre più chiaro che un «mondo senza adorazione è inumano come un mondo senza fratellanza. La vera città, dice La Pira, è quella in cui Dio ha la sua casa e l’uomo ha la sua casa» [67].
La teologia deve non limitarsi ad operare critiche ad extra, ma proporsi con atteggiamento critico anche verso il proprio patrimonio di fede e sempre pronta a retrocedere dal regno delle risposte dogmatiche al regno delle domande critiche [68]. Non si tratta, qui, di lottare per far prevalere un’etica sulle altre, ma di mostrare se la Speranza cristiana è credibile o no: «il cristianesimo non è innanzitutto una morale; è prima di tutto una speranza. La sua teologia non è innanzitutto un’etica; è prima di tutto un’escatologia» [69]. Per parlare al mondo di pace, comunione, proponiamo modelli di unità che non siano uniformità ben mascherata, né il frutto di un associazionismo mondano, ma piuttosto segno dell’unità ontologica tra “Cristo” e la “Chiesa”. Si deve proporre il messaggio evangelico prendendo seriamente in considerazione questa “unità ontologica” fondamento di ogni vera comunione che non voglia tradirsi (più che tradursi) in sospetta filantropia finendo con l’essere una rischiosa forma di proselitismo: «se prende la Chiesa sul serio, la teologia dovrà diventare, al pari di essa, una funzione del Regno di Dio nel mondo. E in questa funzione […] la teologia investe anche le sfere della vita politica, culturale, economica ed ecologica di una società» [70]. Teologia e Chiesa devono abbattere i bastioni affinché «la Chiesa scenda ad incontrare il mondo e partecipi al suo modo di sentire» [71].
Partecipare non è adozione acritica di mentalità mondane, ma sforzo di mostrare la differenza del messaggio cristiano. Si tratta di proporre orientamenti in direzione del Senso ad un mondo che sbanda:
«La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica»[72]. Una stella illumina, ma non accende roghi per chi si sottrae alla sua luce. C’è chi ha detto che, nel migliore dei casi, Dio lo si intravvede solo negli spazi intermittenti lasciati dalle nostre idolatrie (J. L. Marion).
Quei momenti sono risolutivi se ne facciamo una prospettiva nuova dalla quale considerare la fede cristiana.

La ragione, però, ritiene assai problematico, laddove non addirittura impossibile, tenere insieme bontà di Dio ed esistenza del male! Il un dialogo platonico, Trasimaco, con foga, sostiene: il giusto è l’utile del più forte. Aggiunge: «gli déi non badano alle cose umane; altrimenti non trascurerebbero il massimo dei beni fra gli uomini, la giustizia; vediamo infatti che gli uomini non l’applicano mai» (Platone, Repubblica, I, 336, 338c). L’uomo greco, però, è sottoposto ai capricci della divinità che decide, con arbitrio e volontarismo, cosa fare delle creature. Il Dio ebraico – cristiano, non può, invece, intervenire nella Storia come se noi non avessimo alcun potere decisionale. L’uomo biblico è custode delle realtà terrene; dialoga con Dio, si ribella, chiede senso… La teodicea è solo un esercizio filosofico, ma la fede ci insegna che i nostri sentieri non sono quelli di Dio, i Suoi pensieri non sono i nostri (Isaia).
A noi tocca, piuttosto, il compito di mostrare come Dio sia fecondamente presente nella nostra comunità; non dimostrare, bensì, mostrare. Se vogliamo si dia una svolta della fede, necessita che l’annuncio cristiano divenga oggi «percepibile […] là dove nella coscienza delle comunità cristiane si realizzino le parole “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20)» [73]. Si deve evidenziare, poi, la differenza che corre tra “religioso” e “fede”; mentre il primo costituisce il proprio della natura umana, la seconda è determinata dalla grazia soprannaturale. Va detto che, purtroppo, la mentalità moderna confonde – chiariva don Giussani – senso religioso e fede.
Una precisazione la devo a quanti, con affrettato allarmismo, ritengono dannoso per il cristianesimo il non incidere più di esso nelle questioni politiche, temporali: «nella società europea dell’Ancien Régime […] le strutture politico – religiose della cristianità favorivano indiscutibilmente la diffusione delle credenze e della morale cristiane. Ma, inversamente, il peso del potere politico e degli interessi economici faceva dimenticare spesso il significato del messaggio evangelico […]. Non è il caso di rimpiangere la defunta e trionfante cristianità» [74]. Va messo in gioco un nuovo linguaggio per trovare, accantonando le ceneri della defunta e trionfante cristianità, nuove strade al messaggio evangelico. Nuova linfa giunge dalle forme di cristianesimo che sorgono nel Terzo Mondo per rivendicare proprio quanto il Vangelo riteneva nostro principale dovere: l’attenzione ai meno fortunati: «Lo spostamento del cristianesimo in direzione di continenti diversi dall’Europa è impressionante. Nel 1939 i tre primi paesi cattolici del mondo erano la Francia, l’Italia e la Germania […]. Oggi sono il Brasile, il Messico e le Filippine. Il maggior numero di cattolici oggi si trova nell’America detta “latina”. Siamo dunque di fronte a un “nuovo pianeta cristiano”» [75]. In realtà, proprio la “Presenza di Dio nel mondo” con l’“Incarnazione”, mostra come il Trascendente stesso si sia relativizzato abbandonando la Sua assoluta alterità:  «Dio ha relativizzato se stesso nella storia attraverso l’incarnazione in Gesù Cristo. I teologi cristiani dovrebbero quindi domandarsi se sia giustificato assolutizzare nella dottrina colui che Dio ha relativizzato nella storia»[76].

È nel “centro della vita” che ci si mette di fronte a Dio, non alla “periferia delle questioni accademiche”. Un teologo del Novecen to, scrive: «Debbo venire a capo della vita, così come mi è stata data e quale è in realtà. E se mi adopero in tal senso in modo davvero radicale e assoluto, sono un cristiano e un uomo spirituale» [77]. Né Dio senza mondo, né mondo senza Dio! La ricerca teologica non è mera ripetizione di formule sempre uguali in contesti nuovi, ma ricerca del nuovo nei contenuti antichi perché il sempre antico e sempre nuovo che è Dio, parli in “tutti i contesti storici”, in “tutti i tempi”.
La dinamicità interna al pensare Dio è stata espressa, nel De Trinitate, da Ilario di Poitiers: «Conoscere Dio, ma in modo da sapere che egli non può essere descritto, sebbene non possa essere ignorato» (II, 7; PL 10, 57). In qualunque tempo si viva, in qualsiasi contesto ideologico, culturale, politico, questo la teologia deve comprendere: Dio non si può descrivere e, quindi, la parola ultima non spetta ai saperi umani; né può essere ignorato, perché le “istanze di Senso” superano di gran lunga quanto si realizza storicamente. Siamo abitanti della penombra ed obbligati ad una scelta. Don Giussani, riguardo all’alternativa “esistenza di Dio” e “marxismo”, sosteneva: si tratta di “assumere una posizione”. Non se ne esce con la ragione, ma attraverso una pura opzione: «Immaginiamo un uomo che sia nella penombra. Se egli volge le spalle alla luce, la penombra è l’inizio del nulla, delle tenebre; se viceversa si lascia a tergo le tenebre la penombra è l’inizio della luce. Si tratta di vedere quale posizione decide di assumere» [78].

Mostrare Dio, allora, significa assumere una posizione nella “penombra” delle aporie che tormentano l’anima dell’uomo contemporaneo. Diamo le spalle alle tenebre e muoviamo verso la luce! Negli anni 50’, Alan W. Watts, Aldo Capitini parlavano di epoca post – cristiana e dell’equivoco cattolico perché, da un lato, si causava la “crisi del moderno” e, dall’altro, si verificava il «riemergere della domanda di spiritualità in forme nuove e inusitate»; inoltre, si pagava «l’inadeguatezza o l’insufficienza della proposta cristiana e delle chiese a rispondere a questa nuova dimensione del religioso”, come scrive Valerio Burrascano [79].
A noi compete, a dispetto di tutto ciò, mostrare Dio sperimentandone la vicinanza e traducendone le conseguenze, come diceva Rahner, nel modo in cui tentiamo di venire a capo della vita. Mettiamoci davanti a Cristo e riflettiamoLo, mostrando Lo a tutti, sullo schermo della realtà. Una mistica, diceva: «[L’anima] immagini di trovarsi innanzi a Gesù Cristo, conversi spesso con lui e cerchi di innamorarsi della sua umanità, tenendola sempre presente» [80].
Dove poggiare, su quale fondamento, per animare una teologia che il mondo non abbia difficoltà ad accogliere? Nel Vangelo di Giovanni, si dice che il discepolo preferito di Gesù poggiava sul Suo petto (in ebraico, rahamim, “viscere materne”); si tratta, tenendo la lettura ebraica sotto il testo greco, di comprendere che soltanto una relazione viscerale genera la possibilità di mostrare nel “modo giusto” la Presenza di Dio nel mondo. Un antico teologo, nel Trattato Ai monaci (120), scriveva: «Petto del Signore è la conoscenza di Dio: chi è chino su di esso sarà teologo (cfr, Gv 13, 25)» [81]. Come diceva l’antico Paciano, dovremmo così presentarci agli altri: Cristiano è il mio nome e cattolico è il mio cognome. Ci si batta affinché la Chiesa sia presente ovunque donando, attraverso i Sacramenti, Dio. Parlando dei suoi viaggi, proprio questa esperienza fece Albercio, vescovo di Gerapoli: «Ho visto anche la pianura siriaca e tutte le città e Nisibe oltre l’Eufrate. Ovunque ho trovato dei confratelli… e la fede mi guidava ovunque; ovunque essa mi ha porto un pescato pesce di sorgente (il Cristo) […]; ovunque essa lo dava a mangiare agli amici; essa possiede un vino delizioso che porge con pane (l’Eucaristia)» [82].
La Chiesa deve mostrare Dio e lavorare al risanamento della “dignità dell’uomo” perché, separando i due momenti, smettiamo di renderla credibile ed occultiamo le tracce del Trascendente: «Nel perseguire il proprio fine salvifico, la Chiesa non solo comunica agli uomini la vita divina, ma in un certo senso diffonde la luce riflessa di quella vita divina su tutta la terra, specialmente nel modo in cui risana ed eleva la dignità della persona umana, nel modo in cui essa consolida la società e dona all’attività quotidiana degli uomini un senso e un significato più profondo» [83].

La capacità di “mostrare Dio nel mondo” cresce quando la nostra vita – illuminata dalle indicazioni evangeliche – si riversa nelle cose del mondo senza dimenticare il “sostrato contemplativo”. La differenza tra il “cristiano” ed il “filantropo” si gioca tutta qui: noi non agiamo per un vago sentimento di appartenenza al genere umano e perché fiduciosi (talvolta irresponsabilmente) verso progetti salvifici intramondani; piuttosto, agiamo nel mondo per portarvi la “contraddizione” della Parola e perché fidiamo nella Promessa escatologica. Il laico, in maniera particolare, agisce nelle realtà terrestri perché – tendendo alla santità – ha preso a cuore il compito di mostrare che Dio in esse opera in maniera provvidenziale, paterna, ma non paternalistica: «oggi la santità non è possibile senza impegno per la giustizia, senza solidarietà con i poveri e gli oppressi. Il modello di santità dei laici deve integrare la dimensione sociale della trasformazione del mondo secondo il piano di Dio» [84]. Ecco la differenza cristiana (Bianchi): la “trasformazione sociale” – eminentemente orizzontale – va integrata con il “piano di Dio”.
In attesa del compimento escatologico, di Dio possiamo evidenziare le tracce. Giovanni Cesare Pagazzi richiama il verso 20 del Salmo 77 che allude alla miracolosa traversata del Mar Rosso: «La Tua via passava nel mare,/i Tuoi sentieri sulle grandi acque,/ma le Tue orme non le hai mai fatto conoscere». Commento: «Le tracce lasciate da Dio durante l’attraversamento vittorioso del mare sono state cancellate dal ritorno delle acque. Non è possibile fissare sulla mappa della memoria tutti i movimenti del Signore, sicché Egli può percorrere strade non reperibili nella topografia dei ricordi, aprire sentieri che possono sorprendere e persino disorientare» [85] . Le vie di Dio – che Egli “liberamente” elegge e crea per mostrarSi – sono “sorprendenti”, “disorientanti” e, per questo, occorre andare con cautela (ma pienamente fondati sulla Rivelazione) verso gli altri per mostrare almeno le “tracce” della Trascendenza.

A precedere una critica delle forme di religiosità odierne, non intenzionate a farsi ricettive verso le tracce del Dio ebraico – cristiano, deve essere la consapevolezza che esse sono pur sempre risposte (disperate?) ad un vuoto ideologico, di pensiero: «l’odierno ritorno della religione […] si spiega con la delusione per le promesse non mantenute, e i veri e propri danni della modernizzazione […]. In particolare, poi, la società moderna […] induce nelle persone un senso di sradicamento. Anche e soprattutto a questa perdita di identità e di radici comunitarie risponderebbe la ripresa della religione» [86]. Non condanno le forme di spiritualità oggi imperanti, se aiutano a sopportare il “vuoto di senso”, ma non posso non invitare a riflettere sul fatto che l’effetto placebo dura poco. Sono d’accordo con Rahner: der Fromme von morgen wird ein “Mystiker” sein (l’uomo di fede del domani sarà un mistico) [87]; tuttavia, va precisato a che genere di spiritualità si faccia riferimento. Ho trovato in Morandini parole illuminanti:
«Se […] spiritualità è la ricerca di forme per vivere nello Spirito il proprio tempo, allora è spiritualità anche questa ricerca. Se lo Spirito di Dio si esprime anche nei segni dei tempi, allora anche la loro lettura in sintonia con le comunità ecclesiali è teologia. Se per vivere secondo la Scrittura e in una tradizione di fede dobbiamo anche interpretare la storia stessa alla loro luce, allora l’indicazione di figure di riferimento per questa pratica costituisce un compito importante per chi si dice teologo» [88].
In queste parole giace, a mio avviso, il manifesto programmatico di cosa saranno, nel XXI secolo, una sana spiritualità, una proponibile teologia. Il cristianesimo offre la Speranza della quale è possibile “dare ragione” e di certo Dio si “mostra nel mondo” come urto critico contro le salvezze proposte da forze interessate ad imporre il loro credo. Nel freddo del non senso attuale, non sappiamo da dove veniamo, né verso dove muoviamo. Raccontiamo, allora, la storia del Rabbi che in Galilea ha cambiato il modo di concepire uomo e mondo.
Concludiamo, dunque, con una storia:

 «Nell’A.D. 627 il monaco Paolino visitò Edwin nell’Inghilterra del nord, per convincerlo ad aderire al cristianesimo. Il re esitava e decise di convocare i suoi consiglieri. Alla riunione, uno di essi si alzò e disse: “Vostra maestà, quando vi sedete a tavola con i vostri signori e vassalli, d’inverno quando nel focolare arde un fuoco caldo e luminoso e di fuori urla la tempesta portando pioggia e neve, capita che un uccellino entri improvvisamente nella sala. Si infila da una porta e vola via attraverso un’altra. Per i pochi istanti che rimane dentro la sala l’uccellino non sente freddo, ma appena scompare al vostro sguardo, si immerge di nuovo nell’oscurità dell’inverno. A me sembra che la vita dell’uomo sia molto simile. Noi non sappiamo cosa è successo prima, né sappiamo cosa accadrà in futuro. Se la nuova dottrina ci potrà parlare con certezza di queste cose, è bene per noi seguirla» [89].

Un consiglio da seguire per portare un po’ di fuoco caldo e luminoso nell’oscurità di un incerto futuro affinché non sia sempre inverno.


    
       



[1] s. freud, Psicoanalisi e fede. Carteggio col pastore Pfister 1909 – 1939, Boringhieri, Torino 1970.
[2] id., La mia vita e la psicoanalisi, Mursia, Milano 1956, p. 135.
[3] Cfr., j. p. sartre, “Les mouches”, atto III, scena 2, in Théâtre complet, Gallimard, Pléiade 2005, p. 65.
[4] a. camus, “Il mito di Sisifo”, in Essais, Gallimard, Pléiade 1965, p. 113.
[5] Cfr., id., “L’enigma”, in “L’Estate”, Essais, cit. p. 865.
[6] Cfr., t. mann, Gesammelte Werke in zwölf Bänden, Frankfurt 1960, X, p. 368.
[7] denis de rougemont, Diario di un intellettuale disoccupato, Fazi editore 1997, p. 163.
[8] Cfr., b. pascal, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, framm. 72. Nella citazione si appalesa l’insopprimibile esigenza dell’anima: l’infinito. Secoli dopo, scrive uno studioso del profondo: «la domanda decisiva per l’uomo è questa: è egli rivolto all’infinito oppure no? […]. Solo se sappiamo che l’essenziale è l’illimitato, possiamo evitare di porre il nostro interesse in cose futili» (c. g. jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 361 – 362).
[9] h. u. von balthasar, «Dio parla come uomo», Verbum caro, Morcelliana, Brescia 1968, pp. 80 – 104, qui, p. 91.
[10] Ivi, p. 96.
[11] Cfr., m. buber, Eclissi di Dio, Comunità, Milano 1983, pp. 50 ss.
[12] Cfr., f. rosenzweig, Il nuovo pensiero, Arsenale, Venezia 1983, p. 60.
[13] e. jüngel, Possibilità di Dio nella realtà del mondo. Saggi teologici, Claudiana, Torino 2005, p. 236.
[14] «Il Verbo di Dio fatto uomo in Gesù di Nazareth, illumina e vivifica coloro che hanno accolto il suo avvento nella carne. L’Incarnazione appare come il punto culminante della teologia, diventa la chiave della storia» (a. durante, Vangelo secondo Giovanni, Editrice Studium, Roma 1966, p. 72).
[15] Cfr., th. w. adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, pp. 145 – 146.
[16] Cfr., e. jüngel, Possibilità di Dio nella realtà del mondo, cit. pp. 245 – 246. Un limitarsi reciproco che non genera rancore perché nasce dall’amore e deve condurre alla pienezza dell’Amore. Come scrive altrove lo stesso Jüngel: «Dio e l’uomo avranno l’amore come loro futuro comune» (Dio mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Queriniana, Brescia 1982, p. 504).
[17] h. j. m. nouwen, Nel nome di Gesù. Riflessioni sulla leadership cristiana, Queriniana, Brescia 1990, p. 64.
[18] Cfr., g. colzani, La teologia e le sue sfide. Aperture e dialogo, Paoline, Milano 1998, p. 178.
[19] w. kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1970, p. 140. Con Cristo siamo già in una storia non più soltanto “umana”: «Cristo è diventato storia affinché tutta la storia diventasse storia della salvezza» (o. cullmann, Il mistero della redenzione nella storia, Il Mulino, Bologna 1966, p. 447).
[20] Cfr., e. lévinas, Etica e infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 120.
[21] k. rahner, “Il significato perenne dell’umanità di Gesù nel nostro rapporto con Dio”, in Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1967, pp. 239 – 258, qui p. 248.
[22] «Va da sé che il mondo sia mondano, ma è pur sempre quel mondo in mezzo al quale Gesù Cristo è stato crocifisso ed è risuscitato» (k. barth, Dogmatica in sintesi, Città Nuova, Roma 1969, p. 197).
[23] Cfr., m. ruggenini, «Un Dio uomo?», in Filosofia e Teologia 13 (1999), pp. 7 – 20, qui p. 8.
[24] In d. de kerckhove, La civilizzazione video – cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, p. 113.
[25] Cit. in La sapienza ebraica. Sentenze, proverbi e parabole, a cura di judith rosa, Mondadori, Milano 1995, p. 135.
[26] Cfr., a. janik – s. toulmin, La grande Vienna, Garzanti, Milano 1984, p. 218.
[27] a. riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Editori Laterza, Roma – Bari 1996, p. 61.
[28] Congar, infatti, era domenicano.
[29] Discorso del 20 giugno 1977; cfr, Doc. Cath, n. 1723, 3 luglio 1977, pp. 602 – 603.
[30] Cfr., a. emo, La voce delle muse, Venezia 1992, p. 7.
[31] d. barsotti, Alla sera della vita. Diario 1996 – 1997, Salvatore Sciascia Editore, Caltanisetta – Roma 2001, p. 14.
[32] Cfr., a. gounelle, Parlare di Dio, Claudiana, Torino 2006, p. 107.
[33] e. durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Comunità, Milano 1982, p. 456.
[34] Cfr., a. harnack, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1980, seconda edizione 1992, p. 83.
[35] v. lossky, A immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna 1999, cap. V, p. 137.
[36] Cfr., c. lévi – strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 402s.
[37] j. moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1971, p. 347.
[38] Cfr., d.  menozzi, Li avrete sempre con voi. Profilo storico del rapporto tra Cristo e potere,  Gruppo Abele, Torino 1995, p. 197.
[39] b. sorge, Introduzione alla dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, Brescia 2006, p. 24.
[40] In La sapienza ebraica, cit., p. 32.
[41] Cit. da g. guerriero, Kurt Gödel. Paradossi logici e verità matematiche, Le Scienze, Milano 2001, p. 98.
[42] Cfr., l. wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 59.
[43] evagrio pontico, Specchio per i monaci, n. 34 (ed. Gressmann, p. 156).
[44] Cfr., jean rostand, Inquiétudes d’un biologiste, Stock, Le livre de poche 1967, p. 90.
[45] a. n. whitehead., “Suffering and Being”, in Adventure of Ideas, Harmonds worth 1942, pp. 191 – 192.
[46] a. n. whitehead., Process and Reality. An Essay in Cosmology, New York – Cambridge 1929, p. 494.
[47] Cfr., p. valéry, Cattivi pensieri, Adelphi, Milano 2006, p. 143.
[48] Ivi., p. 134.
[49] Cfr., e. durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit. pp. 467 – 468.
[50] b. pascal, Pensieri, cit. fr. 393.
[51] s. freud, «Il perturbante», in Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino 1966 – 1980, 9, pp. 77 – 118.
[52] g. berto, Freud Heidegger e lo spaesamento, Bompiani, Milano 1999, p. 1.
[53] Cfr., m. horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969, p. 113.
[54] Si legga, a tal proposito, r. conquest, Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano 1999.
[55] «la modernità democratica […] ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posti poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento» (alain ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999, p. 8). L’uomo, così, è «intimamente spossato dal compito di divenire semplicemente se stesso» (p. 13)
[56] Cfr., r. guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 951.
[57] h. de lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 18 – 19.
[58] Cfr., e. poulat, L’era postcristiana. Un mondo uscito da Dio, SEI, Torino 1996.
[59] L’espressione è in e. mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica, Bari 1979.
[60] Cfr., m. kehl, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1998, p. 32.
[61] È la sintetica analisi di a. n. terrin, Mistiche dell’Occidente. New Age, Orientalismo, Mondo Pentecostale, Morcelliana, Brescia 2001, p. 15.
[62] edith stein, La mistica della croce, Città Nuova, Roma 1985, pp. 46 – 47.
[63] In g. amatov. paglia, Dialoghi post – secolari, Marsilio Editori, Venezia 2006, p. 17.
[64] gilles kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.
[65] Cfr., j. – m. lustiger, «La novità di Cristo e la post - modernità», in Communio, 110 (1990), p. 87 ed 81.
[66] g. kepel, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islami co, Carocci, Roma 2000, p. 11.
[67] Cfr., j. daniélou, Il cristiano e il mondo moderno, Cantagalli, Siena 2004, pp. 40 – 41.
[68] Cfr., j. moltmann, «Introduzione» a e. bloch, Religione in eredità, Queriniana, Brescia 1979, p. 65.
[69] Cfr., j. b. metz, «Memoria passionis. Un incoraggiamento alla responsabilità universale», in d. miethe. schillebeeckxh. snijdewind (edd.), Cammino e visione. Universalità e regionalità della teologia nel XX secolo, Queriniana, Brescia 1996, p. 284.
[70] j. moltmann, Dio nel progetto del mondo moderno, Queriniana, Brescia 1999, p. 238.
[71] Cfr., h. u. von balthasar, Abbattere i bastioni, Borla, Torino 1966, p. 113.
[72] Giovanni paolo II, Fides et ratio. Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione, 14.9.1998, 15; cfr., Verità e Rivelazione. I filosofi moderni della «Fides et ratio», a cura di r. di ceglie, Edizioni Ares, Milano 2003.
[73] Cfr., e. biser, Svolta nella fede, Morcelliana, Brescia 1989, p. 74.
[74] Cfr., j. delumeau, Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani, Edizioni Messaggero, Padova 2005, p. 22.
[75] Cfr., j. delumeau, Il cristianesimo sta per morire? SEI, Torino 1978, p. 23. Il libro si chiude con questa ottimistica convinzione: Dio, un tempo meno vivo di quanto si credesse, oggi è meno morto di quanto si dica. Un teologo canadese si è chiesto: Siamo gli ultimi cristiani? «Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani» (j. m. tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, p. 33). Si aprono “nuovi orizzonti”. Un missiologo cattolico, parla di Terza Chiesa: «dal momento che tutti parlano di Terzo Mondo, perché non dovremmo introdurre anche il neologismo di Terza Chiesa? La Prima Chiesa» è quella “orientale”, che gode della “primogenitura”; la Seconda è quella “occidentale” che si è proposta (imposta?) sempre più come la Chiesa per “antonomasia” e madre della Terza. Questa è «quella dei nuovi paesi […] che costituiscono le sorprese del nuovo futuro» (w. bühlmann, La terza Chiesa alle porte, Edizioni Paoline, Roma 1976, pp. 19 – 20).  Uno studioso americano, aggiunge: «Il cristianesimo gode di ottima salute nel Sud del mondo; non solo sopravvive, ma si espande […]. Il cristianesimo dovrebbe godere di un boom mondiale nel nuovo secolo, ma la grande maggioranza dei credenti non sarà bianca, né europea, né euroamericana» (ph. jenkins, La terza chiesa. Il cristianesi mo nel XXI secolo, Fazi Editori, Roma 2004, pp. 4 – 5).
[76] s. j. samartha, «La croce e l’arcobaleno. Cristo in una cultura multireligiosa», in j. hickp. f. knitter (a cura di), L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994, pp. 159 – 185, qui p. 159.
[77] Cfr., k. rahner, Confessare la fede nel tempo dell’attesa. Interviste, a cura di p. imhofh. biallowous, Città Nuova, Roma 1994, p. 97.
[78] l. giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno. La «questione umana» e la novità del Cristianesimo, Rizzoli, Milano 200, p. 113.
[79] Cfr., id., «Riflessioni sulla nuova ricerca di senso», Giornale di filosofia della religione, 2006.
[80] «Vita di S. Teresa di Gesù scritta da lei stessa», XII, 2, in Opere, Roma 1985, pp. 123 – 124.
[81] Cfr., evagrio pontico, Per conoscere lui, a cura di p. bettiolo, Qiqajon, Bose, 1996.
[82] Cit in a. rétif, Cattolicità (Enciclopedia cattolica dell’uomo d’oggi, 87), Edizioni Paoline, Catania 1957, p. 8.
[83] Cfr., Gaudium et Spes, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (7 dicembre 1965), 40.
[84] sinodo dei vescovi 1987, messaggio Iam instante: Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede 21 + 3 voll. EDB, Bologna 1976 – 2002, 10/2221.
[85] Cfr., g. c. pagazzi, Il polso della verità. Memoria e dimenticanza per dire Gesù, Cittadella, Assisi 2006, p. 59.
[86] Cfr., g. vattimo, «Religione e modernità, pace fatta», La Stampa, 22 febbraio 1993; b. wilson, La religione nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna; p. valadier, «Possibilità del messaggio cristiano nel mondo di domani», Concilium 28 (1992/6); b. sesboüe, Credere. Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo, Queriniana, Brescia 2000; r. fisichella, «Una teologia davanti alle sfide della postmodernità», in Quaderni di scienze religiose, 12 (2003) 19; g. lorizio, Rivelazione cristiana, modernità, post – modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1999.
[87] Cfr., k. rahner, Nuovi saggi 2, Edizioni Paoline, Roma 1968, p. 33.
[88] s. morandini, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, EDB, Bologna 2008, p. 8.
[89] In t. kennedy, Praticare la Parola. 1. L’ascesa dell’uomo al Dio vivente, EDB, Bologna 2007, p. 26.

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