Proprio l’inesauribilità della Scrittura (più vai a
fondo, più cose ci scopri: da due millenni ogni generazione trova sempre del
nuovo, dietro le parole antiche), […] questa profondità che si rivela sotto
espressioni apparentemente così semplici, mi è sempre sembrata una conferma del
Mistero da cui giunge e che racchiude. Ma se questo lavoro di scavo e di piena
comprensione consistesse nel mutare l’immutabile Parola, non sarebbe più
teologia cristiana, bensì sapienza umana. Un teologo, pur grande, che si
proponesse di essere “creativo”, diverrebbe un saggista, un artista, un
intellettuale, ma uscirebbe dal suo ruolo, che è capire e far capire un
“deposito” consegnatoci da Qualcuno, non affascinarci con dei “secondo me” […].
Come ha scritto uno che se ne intendeva: «Il peggior giudizio che si possa dare
di un teologo, almeno di uno cattolico, è che le sue opere ci permettono di
conoscere il suo pensiero. Suo compito è aiutare semmai a far nostro il
“pensiero di Cristo”, che è custodito vivente solo nella Chiesa» (Vittorio
Messori).
Benedetto Croce, rudemente ironico,
sentenziava: “La teologia è quella presunta scienza che si occupa di cose che
non si sa se esistono…”. Passi pure quel ‘presunta’, ma non si può accettare
che la teologia si occupi di ciò che non sa se esiste. Non che non sia – a modo
suo – ‘scienza’, ma essa non può muovere un solo passo se non all’interno di
una fede certa e forte. Il teologo non abbandona l’armamentario razionale,
concettuale, ma lascia che lo Spirito lo visiti e lo metta al servizio della
Verità rivelata per meglio illuminarla anche a quanti non hanno il dono della
fede. Il dibattito al quale mi è stato chiesto di apporre qualche nota
introduttiva, però, non verte sul tema ‘cos’è la teologia?’, bensì ruota
attorno ad altra questione: dove va la
teologia? Ho cercato di gettare sul terreno del confronto qualche seme che,
di sicuro, altri condurranno a sviluppi interessanti, ma già da questo momento
sento di poter dire che, come avviene per tutte le altre scienze, anche quella
di cui discutiamo non potrà mai conoscere un capitolo conclusivo. Si pensi
soltanto al fatto che – come diceva un genio del Cristianesimo – non è il
Vangelo che muta, ma siamo noi, piuttosto, che impariamo a leggerlo meglio. Lo facciamo prendendo
sul serio quanto accade nel nostro tempo; la teologia – accompagnandosi alla
Parola – deve essere intelligente: leggere dentro (intus)i segni dei tempi
nuove occasioni per mostrare che la Parola – come diceva Isaia – non cade mai in terra
senza provocare effetti significativi e portentosi. Ad ogni modo, io contesto
immediatamente quanti vorranno asserire che la teologia possa avere poco o
nulla da dire ancora. Siamo, forse, davanti a contorni ben definiti, ma il
disegno non è finito! Vorrei aprire con parole – scritte anni fa da Hans Urs
von Balthasar – che potrebbero valere anche come conclusione del mio
intervento. Prima di rubricarle, tengo a dire che, accettando la lezione del
grande Ernesto Balducci, io credo che la teologia debba sempre più andare verso
un’apertura ecumenica che abbia un respiro, più che ecclesiale, creaturale: aperta anche – come diremo citando in
chiusura Balducci - al fiore, al ruscello, alla stella, alla rondine ed a
tutti gli animali della natura. Lasciamo parlare, come
anticipato, von Balthasar:
«Ad alcuni teologi sembra che la teologia (cioè la
spiegazione della Rivelazione in concetti umani) abbia fatto tanto progresso da
essere prossima alla conclusione. La casa sembra già costruita, le camere già
tappezzate, cosicché alle generazioni future non rimane che un lavoro più
modesto di rifinitura: decorare i vani già ultimati, gli spazi interni che
diventano sempre più piccoli, mettere ordine nei cassetti. Alla fine c’è solo
da togliere la polvere. Un’impressione del genere si ha quando si guarda alla
sola tradizione. Ma se il santo (o propriamente il credente che viva in fede e
grazia) confronta la tradizione con le enormi esigenze della Rivelazione, tutto
ciò che è stato conseguito non si riduce forse a un misero mucchietto di
pensieri e concetti, appena l’abbiccì di una vera spiegazione? […] anche il
teologo più familiarizzato con le fatiche dei dotti, anzi, proprio lui, se
guarda alla Rivelazione, avrà la strabiliante certezza che non si è fatto ancora quasi nulla […] interi continenti di questa
mappa sono ancora in bianco. E non si tratta di demolire, disfare, disprezzare
quanto è frutto di elaborazione secolare. Tutto ciò che è genuinamente vero
rimane. Ma i contorni non costituiscono ancora un disegno compiuto».
Dalla citazione scelta risulta chiaro
che ritengo il lavoro teologico un impegno inesauribile perché tale è il
mistero del Dio in cui credo, anche se, per tracce, Si lascia assaporare nei
‘logoi’ se li lasciamo maturare – come frutti saporosi e nutrienti – alla luce
della Parola.
Dove va la teologia? Di fronte a certe domande si corrono due rischi: o si
finisce nelle lungaggini complesse che riducono la questione ad un confronto tutto
giocato nell’orticello coltivato da pochi ingegni, o si scade nelle semplificazioni
che finiscono col rendere meno chiaro finanche quanto prima ci appariva dotato
di una certa sensatezza. Per evitare entrambe le derive, premetto che cercherò
di rispondere, in maniera lapidaria, alle questioni (secche e taglienti, in
verità) proposte. Alla fine, quello che vorrei venisse fuori è che la teologia
è viva, abita ancora la “Città dell’Uomo” godendo di pieno “diritto di
cittadinanza”. Solo se l’esercizio teologico diviene attività privilegiata di
pochi rischia di andare verso la piena degenerazione. Un tempo, fare teologia, coincideva
con la vita. Diamone una prova. Nella Costantinopoli del IV secolo, mentre si
dibatteva accesamente la questione ariana, ecco cosa accadeva stando al
racconto di Gregorio di Nissa:
«Se
domandi informazioni sulle monete, uno ti fa una dissertazione sul generato e
l’ingenerato; se chiedi il prezzo del pane, ti rispondono che il Padre è più
grande e che il Figlio gli è sottomesso. Chiedi se il bagno è pronto, e uno si
mette a dissertare che il Figlio è stato creato dal nulla».
La
teologia andava diretta al cuore della
vita e le discussioni originavano anche da situazioni non sospettabili di
curvare il dialogo in simili atmosfere. Va subito detto: innervare i tessuti
della vita con fibre teologiche è mostrare che la riflessione sulla fede non
chiude in una torre d’avorio; la teologia, piuttosto, è il tentativo di
mostrare che Dio si affaccia ancora sul giardino
del mondo e della Storia e, come fece con Adamo, ci chiede: Dove sei? E, come Cristo al cieco
Bartimeo, Cosa vuoi che io ti faccia? Il
Dio che cerca lo smarrito uomo fin dalle origini, viene in Cristo a servirlo!
Narrare,
fornendo le ragioni della speranza che origina, questa lunga (infinita) storia
d’amore è il compito del teologo che, come
provocatoriamente diceva Madeleine de Jésus, deve far parlare la carità.
Va
immediatamente detta un altra cosa: se è in crisi la comunità, rischia la teologia. Elaborarla a tavolino, fidando di
brillanti intuizioni individuali, equivale a snaturarla. Non è difficile essere
d’accordo con Barth: il “luogo della teologia” si trova «molto concretamente,
nella comunità». L’ateo Albert Camus disse che se ci si vuole dare un programma
per domani, lo si può sintetizzare in una drammatica alternativa: o si
costruisce la città del dialogo o si
mettono, significativamente e solennemente, a morte i testimoni del dialogo. Pannenberg
muove critiche severe e giustificate al solipsismo:
«Un
discorrere su Dio a partire dall’uomo soltanto, da bisogni ed interessi umani,
che esprima esclusivamente rappresentazioni umane della realtà divina, non
sarebbe ancora “teologia”, ma mero prodotto della nostra fantasia […]. La
profonda ambiguità del discorso teologico sta proprio nel fatto che potrebbe
trattarsi di un mero discorso umano […]. Ciò spiega lo scetticismo che già
Platone manifestava di fronte al discorrere teologico».
Il
progetto inaugurato dalla modernità e spinto a conseguenze estreme
dall’Illuminismo è stato quello di fare sempre più riferimento ad un mondo ed un uomo adulti. Non potendo
ripercorrere le tappe di quanto da simili posizioni consegue, mi limito a
segnalare qualche segmento dell’analisi del fenomeno tentata da un sociologo
francese.
Peter
L. Berger asserì che stiamo sperimentando una gravissima crisi teologica: «il credente o il teologo – aggiunse –
sembrano ormai aggirarsi in un paesaggio di rovine fumanti». Simpatizzava per
una teologia che mostrasse una «spiccatissima sensibilità empirica». Ad una
attenzione per il “mondo del concreto”, va affiancato – per il nostro autore –
un forte interesse per l’“antropologico”: «Anche le speculazioni più astratte
sulla natura della Trinità hanno avuto origine da una preoccupazione per la
salvezza dell’uomo più che da mero interesse teoretico». Non solo un sociologo
del calibro di Berger, ma anche molti teologi autorevoli tendono a legare in
maniera indissolubile (come fu agli inizi) “teologia” ed “esistenza concreta”. Non
c’è conoscenza teologica autentica se non si conduce, innanzitutto, una “vita
teologale” fedele alla Rivelazione e tradotta in una prassi della carità. Dalla teologia francese precedente il Vaticano
II e dallo stesso Concilio viene pressante l’invito a tornare “alle fonti
cristiane”, ai Padri! Per loro la teologia era pregata, fondata su una
esperienza di vita personale e forte. A detta del gesuita Rupnik, “teologia” e
“vita cristiana” si danno come due
dimensioni distinte di un’unica realtà. Sul ritorno ai Padri, poi, il
nostro autore, precisa:
«Raramente
l’appello a tornare ai Padri, nei quali l’intelligenza era così integra e la
teologia un tutt’uno con la spiritualità, porta a creare una mentalità
teologica patristica. E di questo dovrebbe proprio trattarsi».
Non
si tratta di “imitare” uno stile, né di un ritorno alle fonti per tangenza
esterna: va importato, attualizzato, un “modello di vita cristiana” perché la
teologia dei Padri non era sganciata da una vita condotta sotto l’ispirazione
della fede. Dai Padri andrebbe mutuato, innanzitutto, il rapporto affettivo (non solo intellettuale) con la Parola!
Heschel diceva che la Bibbia fa con «le nostre intenzioni più belle» ciò che fa
uno scultore ad un blocco di marmo: pare dia espressione al mistero. La Parola non è racchiudibile nelle lettere
morte scolpite sulla pagina, né è apparentabile al cadavere che l’anatomista
seziona su freddo tavolo: è viva, opera ciò che dice, è “performativa” ed è, in
più, colorata, un affresco vivente. Ravasi notava la discrepanza tra le
narrazioni bibliche «smaltate di colore, turgide di vita, frementi di amore e
passioni» ed «una teologia che assomiglia talora a una geometria divina».
Attraverso
la Parola il teologo deve mostrare un percorso: dalla “Creazione” alla
“Redenzione”. Una storia, vita, non concetti, idee… I rivestimenti culturali
(necessari) del cristianesimo non fanno che rendere accessibile ai linguaggi
umani la Rivelazione. Capita che, in questo tradurre,
si finisca col tradire. Altizer
diceva che teologi e biblisti non hanno saputo adeguare – al punto da renderlo
significativo per la coscienza moderna – il simbolo
escatologico del Regno di Dio se non sacrificandone l’originario
significato storico. Il pensiero marxista, come tante altre “pasque laiche”, ha
stravolto il senso escatologico del Regno provocando non pochi danni. Non poche
idee hanno riconosciuto nuove funeste intenzioni nella Parola, distorcendola.
Volendo
trasformare in secolarizzati modelli etici, in provocazioni per una prassi
imbevuta unicamente di preoccupazioni politico – ideologiche i contenuti della
fede cristiana, si è finiti con il lasciare la scena ai rivestimenti senza il
“contenuto” attorno al quale erano sorti.
Schiacciando
i valori cristiani su interessi meramente orizzontali, generando delusioni i
tentativi di realizzare da soli il “Regno di Dio”, se ne conclude che le
istanze teologiche sono dannose. Il problema è che non si è fatto altro che
applicare alla fede parametri di verifica estranei ad essa. I discepoli di
Emmaus, ad esempio, lamentano il fallimento “politico” del Messia; in realtà,
era la loro capacità di comprensione a rivelarsi fallimentare. Si deve
recuperare la “forza critica” della Parola, piuttosto che rifiutarla dopo
averla applicata, con esiti disastrosi, guidati da interessi di parte.
Nella
Scrittura, dice Metz, Dio si “autocomunica” con una promessa che da annuncio (Verkündigung) si fa preannuncio
(Ankündigung) di ciò che sarà e,
per questo, vale come disdetta (Aufkündigung), critica dell’attualità.
Non
si può ignorare che “fare teologia” non è un’attività neutra: abbiamo “le
teologie”! Un africano, ad esempio, porta nel proprio lavoro teologico istanze
e soluzioni diverse da chi si è formato sui dibattiti di impronta Scolastica.
La fede è quella, ma la si declina secondo il proprio modo di sentire. James
Hal Cone, esponente autorevole della “Black Theologie”, sostiene che la
“teologia cristiana” è un ben definito discorso
sull’attività liberante di Dio nel mondo. Un teologo formatosi in Africa,
dove sfruttamento, povertà, morte, malattie sono le parole più ricorrenti nel
vocabolario quotidiano, potrebbe non parlare della Rivelazione come attività liberante di Dio nel mondo?
Si
ha bisogno di riscatto, di giustizia
e non di giustezza terminologico –
concettuale. Un esponente della “Teologia della Liberazione” pone come
primaria, nell’agenda teologica, la questione delle popolazioni latino –
americane povere ed oppresse. Scrive Gutierrez: «Viene prima l’impegno di
carità, di servizio. La teologia viene dopo.
È atto secondo». Ad essere «luogo teologico privilegiato» - come si esprime
il teologo peruviano – è la “vita”, l’“impegno storico della chiesa”; di tutto
questo è formata l’intelligenza della
fede. La teologia occidentale, a dire il vero, pure ha riferimenti al di
fuori delle preoccupazioni accademiche. Moltmann, ad esempio, confessava di
essere debitore, riguardo all’elaborazione delle “Teologia della croce”, a
lezioni ascoltate nell’anno 1948/1949 a Göttingen.
Nelle
aule universitarie – ricorda – prendevano posto «scossi e depressi, coloro che
della mia generazione erano riusciti a sopravvivere nei campi di concentramento
e negli ospedali militari. Una teologia che non fosse stata evoluta alla luce
del Crocifisso, dell’abbandonato da Dio, a quel tempo non ci avrebbe toccati».
Uno
scritto di Marie Dominique Chenu del 1957, ha per titolo: La théologie est – elle une science? La scienza è il regno della
“verifica” (empirica); ebbene, la fede,
che è primaria mentre la teologia è secondaria, cosa ha che vedere con questo? Qual è, per meglio
esprimerci, la “verifica” nell’ambito della fede? Risponde Ebeling: Dio si verifica poiché ci verifica. Madre Teresa di Calcutta esortava a vivere in modo
tale da essere la dimostrazione di Dio.
Per la teologia vale quanto il poeta Patmore diceva riguardo alla “vera
conoscenza”: può essere soltanto conoscenza
nuziale. Deve esserci “relazione reale” tra noi ed il Trascendente
che si fa Volto nel volto umano di Cristo; non si è teologi
per “tangenza esterna” o per “svolazzi intellettuali”. Il gesuita Rupnik, dice
ai religiosi:
«la
nostra priorità dovrebbe essere la “santa teologia”; come la chiamavano i Padri
[…] quella teologia della quale ha parlato Evagrio: il vero teologo è chi
prega».
La
teologia, per il nostro autore, ha una verità mai indipendente dal modo con il
quale la esercitiamo e dal tipo di comunicazione con la quale la diffondiamo.
Non vanno discusse, per Rupnik, le “verità dogmatiche”, bensì deve far problema
il fatto di tenerle isolate dal “vissuto”, dalla “spiritualità” e dalla “vita
comunitaria” (ecclesiale). La fonte dell’attività teologica, conclude il
gesuita, è l’amore:
«La
teologia comincia con l’amore e anche la comunicazione di ciò che la teologia
propone inizia quando la gente viene toccata dall’amore […]. Se la teologia si
pone di fronte all’uomo contemporaneo con l’amore, questa modalità costituisce
già di per sé l’iniziazione al contenuto della teologia stessa».
Non
mi pare sia difficile per l’uomo contemporaneo sentirsi attratto dalla parola
“amore”; anche se, va detto, purificata da aberranti semplificazioni. Se si
pensasse di difendere la significatività della teologia muovendo da posizioni
che nel passato diedero discrete soddisfazioni, si starebbe percorrendo la
strada sbagliata. Non è superfluo, qui, ricordare la domanda di Moltmann: quale
può essere il “senso” della teologia cristiana nel mondo che sta sempre più
mostrando essere il “mondo dell’uomo”? Aggiungeva: «il significato della
teologia nel moderno mondo scientifico sta […] nella sua crescente mancanza di
significato». L’errore, a mio avviso, sta nell’avvertire una certa sudditanza
nei confronti delle scienze. L’uomo non vive soltanto in un mondo
“interpretato” scientificamente, affidandosi a parametri ossequianti l’empirico…
Si abita anche – soprattutto – il mondo
della vita. Lo scienziato stesso, quando lascia il camice bianco nel suo
laboratorio, può sentire il pungolo delle domande di senso che non trovano
risposte nella scienza non perché siano insensate, ma perché il loro senso
staziona su di un piano diverso. Lo spirito
di geometria e lo spirito di finezza dei
quali parlava Pascal, insomma, sono coinquilini nella nostra interiorità. Non
c’è dubbio che siano mutevoli (oggi con troppa rapidità) le forme della teologia,
ma i motivi non stanno in una intrinseca debolezza, bensì nel fatto che le odierne
sfide (etico – politico – tecnologiche) impongono di pensare, all’interno della
“fedeltà” al sacro deposito, provocati da “nuove istanze di senso”. Questo
concetto lo posso compiutamente esprimere scomodando William Hamilton: «Uno dei
motivi per cui le tendenze teologiche mutano è che viene sempre il momento in
cui l’uomo desidera vivere trovandosi ad affrontare nuovi tipi di difficoltà.
Nel fare teologia, è come se ci si trovasse in una casa con otto finestre, ma
con solo sei doppi vetri. Si è liberi di scegliere a quali sei finestre applicarli,
per impedire all’aria fredda di entrare; e si può vivere benissimo per un po’
di tempo nelle stanze protette. Ma dalle finestre, prive di doppio vetro,
presto o tardi, l’aria fredda passerà, e tutta la casa ne risentirà». Non
possiamo difendere la “casa della teologia” dal freddo di nuove sfide
proteggendone alcuni ristretti spazi;
infatti, dalle questioni insolute, nuove provocazioni entreranno a rendere
difficile la permanenza nelle certezze acquisite, nelle risposte deviate su
binari morti.
A
partire dal Novecento è diventato assai difficile ritenere “sensato” dire Dio;
il linguaggio teologico è stato colpito da gravi sospetti e da potenti
critiche. Non si può riassumere qui la questione: va detto semplicemente che si
è avuto un ateismo semantico. Se Dio
non è da nessuna parte, se non interessa il fenomenico (ciò che appare), di
cosa si parla? Qual è il “referente empirico” del termine “Dio”? Il linguaggio
religioso, in generale, o è patologico, o privo di significato, o meramente
poetico, consolatorio. Eppure, proprio il fatto che Dio è incoerente, non
empirico può rappresentare la nostra salvezza. Come? Ciò che non si dà
immediatamente come disponibile si dà per grazia.
Muovendo dall’ateismo semantico, Paul Matthews van Buren, giunge ad
invocare il Dio – Grazia che
travalica il dire umano. In Theology Now
(Ci può essere una teologia oggi?),
scrive:
«Solo
ciò che è impossibile ed incoerente, empiricamente insignificante ed
irrilevante può liberare – solo il Dio che è grazia. È questo che noi tutti dobbiamo
ricordarci, se ci deve essere una teologia oggi».
Il
Dio ebraico – cristiano è venuto a nascondersi
e rivelarsi nel grembo di una
fanciulla di Nazaret! Non ama l’appariscente e si rende percepibile al Profeta
Elia finanche in un soffio di vento! La teologia muta perché deve accettare
indicazioni e correzioni: le prime dal tempo in cui si propone, le seconde dal
Magistero che vede crescere sempre più la comprensione della Parola. Hans
Schilling ha scritto parole illuminanti:
«la
teologia […] è […] bisognevole di correzioni […]. Soltanto la fede fornisce
certezze definitive, verità inoppugnabili […] le affermazioni teologiche sono
[…] intersoggettivamente comprov abili nell’esattezza
logica propria della loro disciplina, ma non nella loro verità ontologica».
La
teologia, a differenza della fede, non esibisce certezze definitive, verità inoppugnabili. Essa giunge ad affermazioni che, nel dialogo, nel
confronto, si possono provare sottoponendole al vaglio dell’esattezza logica. Siamo nell’ambito del
“ragionato”, dell’“atto secondo”. Non si vaglia, qui, alcuna verità ontologica. Nella fede – per esprimerci altrimenti –
siamo nello spazio del Senso; nella teologia, in quello del significato. Conosciamo, però, un punto
di vista che, se non diverso, almeno è da considerarsi “complementare” con
quello appena illustrato.
Mi
sto riferendo a Visonà che ha studiato le origini della teologia cristiana.
L’idea centrale che l’orienta nell’incandescente materia è che – riguardo alla Rivelazione – non si ammette che essa
prescinda dalla sua comprensione storica.
L’Evento «è anche teologia, o meglio
teologie». Perché il plurale? Visonà ci ricorda che si danno quattro Vangeli
ricchi di fermenti teologici eterogenei. Quello che lo studioso vuole dirci è
che il «teologico non è aggiunto o giustapposto al kerigmatico ma è interno ad esso […], non vi è frattura tra
rivelazione e teologia».
Non
c’è momento della Storia della Salvezza che non abbia necessità di venir
compreso e narrato dall’uomo! Ciò che non può essere significativo “per noi”
non è detto non lo sia “in sé”, ma il Dio ebraico – cristiano non ci salva
senza la nostra partecipazione. Quanto sappiamo della Rivelazione, dai Vangeli
e dalle antiche Scritture, è già filtrato in una teologia. C’è, tuttavia, un
punto nel quale si opera davvero un “salto”: «È Cristo, o meglio la fede in lui
come Dio e Figlio di Dio, l’elemento di rottura col mondo giudaico e greco e il
vero punto di attacco della teologia». Questa, dunque, ha origine
indubitabilmente cristologica! Kierkegaard
diceva che il mondo divino e quello umano – da sempre divisi – entrano in
“collisione” in Cristo; tuttavia, non ne deriva un’esplosione (mortale), bensì
si collide in un abbraccio (vitale). Un
rapporto con Cristo che va narrato, illustrato, rafforzato con ragioni dalla
teologia, ma che – per la sua concretezza esistenziale – deve necessariamente
precederla. Sant’Agostino, a tal proposito, immagina che il buon ladrone (per
Giovanni Crisostomo ha rubato anche il
Paradiso), stando accanto al Crocifisso, abbia detto: «non ero istruito su
quelle cose, non ero preparato, non avevo studiato le Scritture, ma Gesù mi ha
guardato e nel suo sguardo ho compreso ogni cosa». Il teologo vero, quello che
prega (Evagrio Pontico), si lascia guardare da Cristo e, guardandoLo, trova
risposte; non capisce tutto guardando nello specchio appannato della
propria intelligenza, ma comprende
ogni cosa fissando il Volto dell’Altro.
Alla
domanda “dove va la teologia?” si affianca quella, a mio avviso, più pressante:
“Dove va il cristianesimo?”. Anni fa, Mounier, disse che esso «deve ritrovare
le strade della terra e le preoccupazioni quotidiane degli uomini». Non si può
negare che, a partire dal Novecento, il cristianesimo si sia mosso ‘anche’
nelle direzioni indicate dal filosofo francese e, a partire dalla “Teologia
delle realtà terrestri”, passando per il Vaticano II (che, però, molti
ritengono sia stato in parte disatteso), di certo i sentieri teologici verso il
mondo della vita non si sono del
tutto interrotti. Il fatto, ad ogni modo, è che si deve imparare la lezione di
Agostino: per conoscere bene, bisogna
vivere bene.
Il
cristianesimo lo si conosce meglio se si vive secondo le sue direttive. La
teologia deve andare sempre più nella direzione di una santificazione del credente.
San Bonaventura, interrogava: Utrum
theologia sit contemplazionis gratia an ut boni fiamus? (Si fa della teologia per il desiderio di
contemplazione o per santificarci?). La strada migliore sarebbe quella di
contemplare agendo e di agire senza tralasciare la contemplazione. Essere
cristiani significa vivere secondo la “logica dell’et et” e non ubbidendo alla “logica dell’aut – aut”: includere,
non escludere! Fare teologia implica
un potenziamento delle zone affettive che, lasciate in mano all’emotivismo,
finiscono per esprimere soltanto azioni superficiali. La teologia è anche
“scienza affettiva” (Halés), “un sapere che inclina alla pietà” (Alberto
Magno). Una pietà anche epistemica, oserei aggiungere; una pietà che accoglie
quanto le altre scienze riescono ad offrire di buono. Nella Gaudium et Spes, al n. 62, si legge:
«Coloro che si applicano alle scienze teologiche nei Seminari e nelle
Università, si studino di collaborare con gli uomini che eccellono nella altre
scienze, mettendo in comune le loro forze e opinioni». Chi si occupa di
teologia, dunque, deve condurre la propria disciplina sempre più verso gli
altri, accompagnando il proprio sapere con quello delle altre agenzie deputate
ad accrescere la conoscenza. Il teologo è abituato a considerare l’apprendimento
come fatto “comunitario” perché non svolge le proprie ricerche in solitudine,
ma in compagnia della Chiesa, della Tradizione e per il bene degli altri
credenti. Chesterton, da uomo di lettere e cristiano, diceva:
«Quando
mi considero da solo, mi sento un verme; ma quando mi considero membro della
Chiesa, mi sento grande: partecipe dell’intelligenza di Agostino e di Tommaso».
Dicevamo,
con San Bonaventura, che, inoltre, fare teologia significa andare verso la
sempre più piena “santificazione”. Padre Pedro Arrupe, che fu Superiore dei
Gesuiti, aveva un principio – guida che non si potrà mai invalidare: «Un santo
sarà sempre più utile alla Chiesa di un’armata di Gesuiti». Chi si occupa di
teologia sa bene che, Teologo per eccellenza, è Dio! Alberto Magno, infatti,
sosteneva che la teologia è la scienza
che è insegnata da Dio, insegna Dio e conduce a Dio. Il fine è il principio
e, dunque, solo attraverso l’autentica “santificazione” l’uomo completa il
percorso che non è “circolo vizioso”, bensì “virtuoso” in quanto, nel
tracciarlo, si passa attraverso la Storia, gli uomini, il mondo, le micro –
storie spandendo semi di santificazione. Il cristiano è (deve essere) l’uomo della Domenica, ma lo è pienamente
se non rinuncia ad essere “anche” l’uomo
del lunedì: «Per troppi cristiani la fede si limita a un’attività
domenicale senza alcun rapporto con il lunedì» (Martin Luther King). Il
teologo, nello svolgere la propria attività di studio e di preghiera (momenti
inscindibili), deve assumere una “forma umana” ben definita. Un monaco del
deserto, Abbà Mateos, diceva che, chi vive in comunità (comunione), non deve
essere un cubo dotato di spigoli che pungono,
bensì assume forma sferica per poter
rotolare, andare verso tutti! Grandi responsabilità ci toccano anche per ogni
parola che mettiamo in circolazione perché – ricordava Gerardus Van der Léeuw –
chi pronuncia parole, mette in moto
potenze. Potrebbero essere “potenze malefiche”. Stiamo attenti! Va aggiunto
che la teologia deve andare sempre più anche incontro ad una modestia
metodologica e ad una maggiore umiltà rispetto ai contenuti che pensa di aver
portato alla luce indagando il “Sacro Deposito”. Nessun punto fermo deve
rimanere tale nelle nostre ricerche perché, ciò vale in generale per la vita ed
in particolare per la “vita cristiana”, noi – ricordava Cox citando Kierkegaard
– stiamo sempre divenendo.
Nel
suo Diario intimo, Miguel de Unamuno
registrava una frase di Faber: Le date
reali della vita di un uomo sono i giorni e le ore in cui gli è stata concesso
di acquisire una nuova idea di Dio. Ad ogni nuova idea di Dio, infatti, per
Faber, corrisponde una “nuova nascita”. Le ore dedicate al lavoro teologico
devono essere sempre pronte a lasciarsi caratterizzare come quelle nelle quali
erompe una “nuova idea di Dio” che, si spera, provenga dalla Scrittura e non
dal laboratorio mentale dello studioso.
Le
parole sono preziose per far
risuonare nel mondo la Parola, ma dal
loro ‘balbettio’ si deve intuire la strada che apre all’ascolto diretto della
Parola stessa. Hans Jonas, scrive: «anche le incomparabili parabole dei grandi
vati e uomini di fede, dei profeti e dei salmisti, erano un balbettio di fronte
al mistero divino». L’umiltà deriva
dal fatto che nemmeno nelle “parole bibliche” è interamente contenuto il mistero di Dio. La Parola è più grande di qualsiasi parola che “tenti” di renderLa
comprensibi le. Comprendere, poi, qui, è soprattutto dono! Andare quanto più possibile “accosto al Mistero” è frutto
dell’amore che, innervando di se
stesso lo studio, istituisce una “relazione vitale” con l’Altro. Martin Buber diceva che, se l’uomo impara ad amare Dio, fa esperienza
di una realtà che supera di gran lunga le idee. Heidegger, che non negò mai di
avere un debito verso la teologia anche se, poi, la ritenne improponibile,
scrisse: «l’essere posto davanti a Dio implica una conversione dell’esistenza
che avviene nella e ad opera della misericordia di Dio colta attraverso la
fede. La fede, dunque, si comprende solo credendoci». Concludeva: «È la teologia stessa ad essere primariamente
fondata sulla fede». Il filosofo, qui, è perfettamente sintonizzato sulla
Bibbia. Nel “Libro di Giuditta”, testo veterotestamentario del quale non
abbiamo l’originale ebraico, al Cap. 8, vv. 12 – 14, si legge:
Indagate pure sul Signore onnipotente,
ma non comprenderete niente per tutta la vita. Non sondate la profondità del
cuore dell’uomo e non cogliete i ragionamenti della sua mente; allora, come
riuscirete a scrutare Dio che ha fatto ciò? Come conoscerete la sua mente, come
comprenderete il suo pensiero?
La
teologia, dunque, prendendo sul serio questa provocazione biblica (di sapore
kantiano), muove verso l’umiltà, la delicatezza, la prudenza e, così
atteggiandosi, diventa più misericordiosa verso quanti hanno difficoltà a credere
e nei confronti di coloro i quali stentano, pur cristiani, a far crescere la
propria fede. Il primo movimento non è quello di “mettersi a ragionare”, bensì,
si tratta di partire dall’“adorazione del Mistero”.
L’antico
filosofo Nicola Cusano riporta un dialogo tra un pagano ed un cristiano. Il
pagano chiede al suo interlocutore: - Che adori? Il cristiano: - Dio. Quale Dio? – domanda il primo. La
risposta è sbalorditiva: - Non so. Il pagano, dunque, ha buon gioco a
ribattere: - E come, con tanta serietà adori quel che non conosci? Il
cristiano, con onestà, ammette: - Proprio perché non so adoro. Il contestatore,
a questo punto, non può non provare ammirazione ed esclama: - Miracolo! Ho
davanti agli occhi un uomo commosso da ciò che non sa. Inutile dire che non
basta la “commozione”, ma essa può essere sufficiente ad accendere “curiosità”
non becera nell’animo altrui. Dovrebbero, tutti i credenti (non esclusi i
teologi) mostrare simile capacità di
adorazione di fronte al non conosciuto. Il Mistero accettato, poco a poco,
può suscitare domande, interrogativi ed ecco l’esercizio teologico come momento
necessariamente secondo! L’esempio è
importante. Più che maestri, i
teologi siano testimoni del fatto che
è “possibile essere santi”. Agostino, nelle Confessioni,
racconta come sua madre (accadrà al vescovo africano stesso) traesse benefici
dall’aver di fronte un genio del cristianesimo, il vescovo Ambrogio:
«Con
più intenso zelo correva in chiesa, a pendere dalle labbra di Ambrogio, fonte
di acqua zampillante per la vita eterna. Essa amava quell’uomo come un angelo
di Dio».
In
teologia, avere successo, non
significa scrivere il libro dell’anno o essere al centro delle considerazioni
di nobili intellettuali; possono esserci questi momenti, ma non sono determinanti.
Ogni teologo, infatti, dovrebbe accendere in chi lo segue un più intenso zelo verso la Chiesa e porre
sulle sue labbra parole (sempre
memori della Parola) capaci di valere
come una fonte di acqua zampillante per
la vita eterna. Si ha successo quando ci considerano un angelo (messaggero) di Dio!
A chi si occupa della “santa scienza” deve stare particolarmente a cuore questa
convinzione di Giovanni Paolo II: «Oggi abbiamo grandissimo bisogno di santi,
che dobbiamo implorare da Dio con assiduità».
Fare
teologia è vivere la fede nell’incontro col mondo per dire la Parola
rispettando, non sottomettendosi ad esse, le parole concesse per annunciarLa.
Credere, in generale, è – spiega Moltmann – fidare nella Trascendenza superando
limiti, ma, precisa, ciò va fatto «in modo da non sopprimere o saltare
l’angosciosa realtà. La morte è veramente morte e la corruzione umana è davvero
fetore. La colpa rimane colpa e la sofferenza rimane anche per la fede un grido
senza una risposta bella e pronta».
La
teologia deva andare sempre più verso l’interrogazione, l’apertura alle istanze
di senso del mondo contemporaneo, pur fedele al proprio contenuto. Aveva
ragione un teologo contemporaneo: l’unico
futuro della teologia è convertirsi alla teologia del futuro. È scoccata, a
mio avviso, da molto tempo, ormai, l’ora di una answering theology (una
teologia che risponde). Sì, ma che lo fa con cautela, sempre pronta a
rivedere le proprie conclusioni che restano pur sempre umane, troppo umane. Lavorare col pensiero rivolto alla Trascendenza
implica la memorizzazione e la piena comprensione del monito di Guardini: noi non siamo grandi personalità religiose,
noi siamo i servitori della parola. Solo i “santi” sono “grandi personalità
religiose”. Anche i dotti devono mendicare l’esempio della loro vita. Diceva
Congar che, per essere cristiani, è
necessario essere intelligenti. Va
inteso, però, in questi termini: intus –
legere, leggere dentro le vite dei santi qual è il “reale contenuto” della
“fede cristiana”! La Chiesa, cioè noi tutti, deve leggere dentro la realtà anche di quanti stanno fuori di essa.
Il
filosofo ateo – marxista Ernst Bloch (che ha dialogato con Moltmann riguardo alla
“Teologia della speranza”), sosteneva che la Chiesa sie hat ihren Gott verstaatlicht - «ha statizzato il suo Dio» e und das römische Reich beerbt unter der
Maske des Gekreuzigten - «ha ereditato l’impero romano sotto la maschera
del crocifisso». Accusa riduttiva, forse, ma non completamente immeritata. Il
teologo, di fronte a queste non del tutto ingiuste accuse, deve far sì che il
suo lavoro teologico miri sempre più a mostrare come la Chiesa svolga un
triplice salvifico compito nel mondo. Il percorso lo desumiamo da Harvey Cox.
La
Chiesa deve svolgere la funzione di 1) kerygma:
dare, per mezzo della narrazione, un messaggio riguardo a ciò che avverrà; deve
essere 2) diakonía: servire e
prendersi cura del prossimo. Deve farsi diakonos,
“serva” della città secolare (come
titola un’opera dello stesso Cox); Infine, la Chiesa ha a cuore la koinonia, la “comunità escatologica”
facendosi anticipo visibile di Speranza. Una buona teologia ecclesiale, a mio avviso, deve realizzare questo
itinerario.
Le
minacce, riguardo a questi nobili propositi, vengono dal vivere in una epoca
fortemente scristianizzata e simpatizzante con vaghe forme di religiosità o,
meglio, di “spiritualità” che hanno sempre più la forma del “fai da te” ed
inclinano decisamente verso forme di becero “sincretismo”. Ramsey, introducendo
un libro di Vahanian, The Death of God (La morte di Dio), scrive che, un tempo,
la “morte culturale di Dio” era qualcosa di anti
– cristiano; ormai è, invece, qualcosa di post – cristiano. Il sottotitolo del libro di Vahanian, recita: The Culture of Our Post – Christian Era.
Siamo nell’era della cultura post – cristiana?
La teologia non può aggirare questa domanda inquietante. Deve anch’essa
domandare, indagare, non vivere di rendita grazie a lasciti metafisico –
dottrinali. Si allinea a questa posizione “aperta” Jürgen Werbick:
«la
teologia […] aiuta la fede cristiana a rimanere una fede che domanda e che continua a interrogarsi. Solo chi
continua a domandare e non si contenta del definitivamente saputo può
continuare a trovare, può progredire sulla via che Egli nel suo Spirito cerca
in noi e con noi percorre; sulla via su cui i credenti e quanti cercano la fede
sperano di trovare se stessi, perché cercano qui con tutto il cuore il futuro
di Dio, in cui sarà dato loro “tutto il resto” (Mt 6, 33)».
La
teologia, allora, non può essere autentica se non ha una radice errante: “radice” costituita dalla Rivelazione; “erranza”, dovuta
all’inesauribile mistero di Dio.
La
teologia, per andare nella direzione giusta, deve anche preoccuparsi di
comprendere quale sia il “luogo di Dio”. Va precisato che non si tratta, qui,
di un concetto “spaziale”, bensì, “temporale”. Il Dio ebraico – cristiano non è
necessariamente legato ad una terra, né a costumi specifici, ma si apre a tutti
i popoli, si slancia verso il futuro essendo, il tempo cristiano, indirizzato
al “compimento escatologico”.
La
teologia deve mostrare questo télos. Il
teologo e fisico teorico olandese Willem Drees propose di mettere in primo
piano il “presente” come luogo primario
di Dio. CollocandoLo in un passato o in un futuro assai distanti, infatti,
rischiamo di renderlo “irrilevante”! Si corre il rischio di ritrovarsi con un
Dio che “non è in nessun luogo” (no –
where) invece che rinvenirLo nel “qui ed ora” (now – here). Il nostro autore, malgrado ciò, si rifiuta di
ammettere che Dio si identifichi con il “presente”. Una soluzione, per Drees,
potrebbe essere questa:
«intendere
Dio come trascendenza presente, una
trascendenza diversa ma intimamente connessa a ogni presente. Si potrebbe […]
chiamare Dio il principio dell’“alterità” rispetto a ciascuno stato di cose».
Dio:
un trascendente presente come alterità.
La teologia deve andare verso una sempre maggiore chiarificazione della
Trascendenza innestata nel presente che è, tuttavia, “altra” (forza critica) da esso. Né intrappolare
Dio, né strapparlo dalle maglie del “presente”. Il lavoro prospettato si
completa con il mostrare come Cristo sia “presente nel mondo”, ma come Altro che, piuttosto di subire le nostre
critiche, merita di venir considerato come “la nostra critica” fondamentale ed
immancabile.
Se
dovessi, per concludere il mio intervento, decidere – tra le tracce disseminate
in queste poche pagine – quale sentieri privilegiare, credo che orienterei la
ricerca verso quella che Ernesto Balducci definiva l’ecumenismo creaturale. Il nostro autore era alla ricerca del Cristo del futuro. Quello che la
teologia gli aveva prevalentemente fatto conoscere, invece, era il «Cristo
concepito e modellato dentro la cultura della competizione e del dominio». Gli
stessi “dogmi” sono sorti in atmosfera conflittuale e, per questo, azzarda
Balducci, i cristiani finirono col trovarli incomprensibili. Rendere “concettuali”
in maniera dilagante le convinzioni teologiche fece sì – incalza il nostro
autore – che i dogmi fossero
«la
via attraverso la quale il Vangelo è diventato proprietà privata dei teologi
specialisti. La nostra cultura teologica è cultura sviluppata nella logica del
dominio e della controversia […]. Nell’evento ultimo capiremo chi Egli è e chi
noi siamo. È questo lo spirito ecumenico che ci apre ad una comunione
creaturale di cui fan parte […] anche il fiore, il ruscello, la stella, la
rondine e tutti gli animali della natura».
La
teologia deve andare, allora, verso occasioni di incontro, non di scontro.
Il “paradigma della competizione e del dominio”, dunque, va abbandonato per libderare
il Vangelo dal “sequestro operato dai teologi specialisti”. Non si può
privatizzare la Parola e la teologia deve essere “relazionale”, “ecumenica”
aprendosi all’ascolto di tutti ed all’attenzione verso tutte le creature. Da
qui, infine, discenderà una nuova “teologia ecclesiale” che muoverà decisa
verso l’altro! Conclude, e noi con
lui, Balducci:
«È
tempo che ci liberiamo, anche come chiesa, da ogni eredità della teologia antagonistica per costruire la
chiesa della comunio ne».
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