Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Dove va la Teologia?


Proprio l’inesauribilità della Scrittura (più vai a fondo, più cose ci scopri: da due millenni ogni generazione trova sempre del nuovo, dietro le parole antiche), […] questa profondità che si rivela sotto espressioni apparentemente così semplici, mi è sempre sembrata una conferma del Mistero da cui giunge e che racchiude. Ma se questo lavoro di scavo e di piena comprensione consistesse nel mutare l’immutabile Parola, non sarebbe più teologia cristiana, bensì sapienza umana. Un teologo, pur grande, che si proponesse di essere “creativo”, diverrebbe un saggista, un artista, un intellettuale, ma uscirebbe dal suo ruolo, che è capire e far capire un “deposito” consegnatoci da Qualcuno, non affascinarci con dei “secondo me” […]. Come ha scritto uno che se ne intendeva: «Il peggior giudizio che si possa dare di un teologo, almeno di uno cattolico, è che le sue opere ci permettono di conoscere il suo pensiero. Suo compito è aiutare semmai a far nostro il “pensiero di Cristo”, che è custodito vivente solo nella Chiesa» (Vittorio Messori).  

Benedetto Croce, rudemente ironico, sentenziava: “La teologia è quella presunta scienza che si occupa di cose che non si sa se esistono…”. Passi pure quel ‘presunta’, ma non si può accettare che la teologia si occupi di ciò che non sa se esiste. Non che non sia – a modo suo – ‘scienza’, ma essa non può muovere un solo passo se non all’interno di una fede certa e forte. Il teologo non abbandona l’armamentario razionale, concettuale, ma lascia che lo Spirito lo visiti e lo metta al servizio della Verità rivelata per meglio illuminarla anche a quanti non hanno il dono della fede. Il dibattito al quale mi è stato chiesto di apporre qualche nota introduttiva, però, non verte sul tema ‘cos’è la teologia?’, bensì ruota attorno ad altra questione: dove va la teologia? Ho cercato di gettare sul terreno del confronto qualche seme che, di sicuro, altri condurranno a sviluppi interessanti, ma già da questo momento sento di poter dire che, come avviene per tutte le altre scienze, anche quella di cui discutiamo non potrà mai conoscere un capitolo conclusivo. Si pensi soltanto al fatto che – come diceva un genio del Cristianesimo – non è il Vangelo che muta, ma siamo noi, piuttosto, che impariamo a leggerlo meglio. Lo facciamo prendendo sul serio quanto accade nel nostro tempo; la teologia – accompagnandosi alla Parola – deve essere intelligente: leggere dentro (intus)i segni dei tempi nuove occasioni per mostrare che la Parola – come diceva Isaia – non cade mai in terra senza provocare effetti significativi e portentosi. Ad ogni modo, io contesto immediatamente quanti vorranno asserire che la teologia possa avere poco o nulla da dire ancora. Siamo, forse, davanti a contorni ben definiti, ma il disegno non è finito! Vorrei aprire con parole – scritte anni fa da Hans Urs von Balthasar – che potrebbero valere anche come conclusione del mio intervento. Prima di rubricarle, tengo a dire che, accettando la lezione del grande Ernesto Balducci, io credo che la teologia debba sempre più andare verso un’apertura ecumenica che abbia un respiro, più che ecclesiale, creaturale: aperta anche – come diremo citando in chiusura Balducci - al fiore, al ruscello, alla stella, alla rondine ed a tutti gli animali della natura. Lasciamo parlare, come anticipato, von Balthasar:

«Ad alcuni teologi sembra che la teologia (cioè la spiegazione della Rivelazione in concetti umani) abbia fatto tanto progresso da essere prossima alla conclusione. La casa sembra già costruita, le camere già tappezzate, cosicché alle generazioni future non rimane che un lavoro più modesto di rifinitura: decorare i vani già ultimati, gli spazi interni che diventano sempre più piccoli, mettere ordine nei cassetti. Alla fine c’è solo da togliere la polvere. Un’impressione del genere si ha quando si guarda alla sola tradizione. Ma se il santo (o propriamente il credente che viva in fede e grazia) confronta la tradizione con le enormi esigenze della Rivelazione, tutto ciò che è stato conseguito non si riduce forse a un misero mucchietto di pensieri e concetti, appena l’abbiccì di una vera spiegazione? […] anche il teologo più familiarizzato con le fatiche dei dotti, anzi, proprio lui, se guarda alla Rivelazione, avrà la strabiliante certezza che non si è fatto ancora quasi nulla […] interi continenti di questa mappa sono ancora in bianco. E non si tratta di demolire, disfare, disprezzare quanto è frutto di elaborazione secolare. Tutto ciò che è genuinamente vero rimane. Ma i contorni non costituiscono ancora un disegno compiuto».

Dalla citazione scelta risulta chiaro che ritengo il lavoro teologico un impegno inesauribile perché tale è il mistero del Dio in cui credo, anche se, per tracce, Si lascia assaporare nei ‘logoi’ se li lasciamo maturare – come frutti saporosi e nutrienti – alla luce della Parola.
Dove va la teologia? Di fronte a certe domande si corrono due rischi: o si finisce nelle lungaggini complesse che riducono la questione ad un confronto tutto giocato nell’orticello coltivato da pochi ingegni, o si scade nelle semplificazioni che finiscono col rendere meno chiaro finanche quanto prima ci appariva dotato di una certa sensatezza. Per evitare entrambe le derive, premetto che cercherò di rispondere, in maniera lapidaria, alle questioni (secche e taglienti, in verità) proposte. Alla fine, quello che vorrei venisse fuori è che la teologia è viva, abita ancora la “Città dell’Uomo” godendo di pieno “diritto di cittadinanza”. Solo se l’esercizio teologico diviene attività privilegiata di pochi rischia di andare verso la piena degenerazione. Un tempo, fare teologia, coincideva con la vita. Diamone una prova. Nella Costantinopoli del IV secolo, mentre si dibatteva accesamente la questione ariana, ecco cosa accadeva stando al racconto di Gregorio di Nissa:

«Se domandi informazioni sulle monete, uno ti fa una dissertazione sul generato e l’ingenerato; se chiedi il prezzo del pane, ti rispondono che il Padre è più grande e che il Figlio gli è sottomesso. Chiedi se il bagno è pronto, e uno si mette a dissertare che il Figlio è stato creato dal nulla».

La teologia andava diretta al cuore della vita e le discussioni originavano anche da situazioni non sospettabili di curvare il dialogo in simili atmosfere. Va subito detto: innervare i tessuti della vita con fibre teologiche è mostrare che la riflessione sulla fede non chiude in una torre d’avorio; la teologia, piuttosto, è il tentativo di mostrare che Dio si affaccia ancora sul giardino del mondo e della Storia e, come fece con Adamo, ci chiede: Dove sei? E, come Cristo al cieco Bartimeo, Cosa vuoi che io ti faccia? Il Dio che cerca lo smarrito uomo fin dalle origini, viene in Cristo a servirlo!
Narrare, fornendo le ragioni della speranza che origina, questa lunga (infinita) storia d’amore è il compito del teologo che, come  provocatoriamente diceva Madeleine de Jésus, deve far parlare la carità.

Va immediatamente detta un altra cosa: se è in crisi la comunità, rischia la teologia. Elaborarla a tavolino, fidando di brillanti intuizioni individuali, equivale a snaturarla. Non è difficile essere d’accordo con Barth: il “luogo della teologia” si trova «molto concretamente, nella comunità». L’ateo Albert Camus disse che se ci si vuole dare un programma per domani, lo si può sintetizzare in una drammatica alternativa: o si costruisce la città del dialogo o si mettono, significativamente e solennemente, a morte i testimoni del dialogo.  Pannenberg muove critiche severe e giustificate al solipsismo:

«Un discorrere su Dio a partire dall’uomo soltanto, da bisogni ed interessi umani, che esprima esclusivamente rappresentazioni umane della realtà divina, non sarebbe ancora “teologia”, ma mero prodotto della nostra fantasia […]. La profonda ambiguità del discorso teologico sta proprio nel fatto che potrebbe trattarsi di un mero discorso umano […]. Ciò spiega lo scetticismo che già Platone manifestava di fronte al discorrere teologico».

Il progetto inaugurato dalla modernità e spinto a conseguenze estreme dall’Illuminismo è stato quello di fare sempre più riferimento ad un mondo ed un uomo adulti. Non potendo ripercorrere le tappe di quanto da simili posizioni consegue, mi limito a segnalare qualche segmento dell’analisi del fenomeno tentata da un sociologo francese.

Peter L. Berger asserì che stiamo sperimentando una gravissima crisi teologica: «il credente o il teologo – aggiunse – sembrano ormai aggirarsi in un paesaggio di rovine fumanti». Simpatizzava per una teologia che mostrasse una «spiccatissima sensibilità empirica». Ad una attenzione per il “mondo del concreto”, va affiancato – per il nostro autore – un forte interesse per l’“antropologico”: «Anche le speculazioni più astratte sulla natura della Trinità hanno avuto origine da una preoccupazione per la salvezza dell’uomo più che da mero interesse teoretico». Non solo un sociologo del calibro di Berger, ma anche molti teologi autorevoli tendono a legare in maniera indissolubile (come fu agli inizi) “teologia” ed “esistenza concreta”. Non c’è conoscenza teologica autentica se non si conduce, innanzitutto, una “vita teologale” fedele alla Rivelazione e tradotta in una prassi della carità. Dalla teologia francese precedente il Vaticano II e dallo stesso Concilio viene pressante l’invito a tornare “alle fonti cristiane”, ai Padri! Per loro la teologia era pregata, fondata su una esperienza di vita personale e forte. A detta del gesuita Rupnik, “teologia” e “vita cristiana” si danno come due dimensioni distinte di un’unica realtà. Sul ritorno ai Padri, poi, il nostro autore, precisa:

«Raramente l’appello a tornare ai Padri, nei quali l’intelligenza era così integra e la teologia un tutt’uno con la spiritualità, porta a creare una mentalità teologica patristica. E di questo dovrebbe proprio trattarsi».

Non si tratta di “imitare” uno stile, né di un ritorno alle fonti per tangenza esterna: va importato, attualizzato, un “modello di vita cristiana” perché la teologia dei Padri non era sganciata da una vita condotta sotto l’ispirazione della fede. Dai Padri andrebbe mutuato, innanzitutto, il rapporto affettivo (non solo intellettuale) con la Parola! Heschel diceva che la Bibbia fa con «le nostre intenzioni più belle» ciò che fa uno scultore ad un blocco di marmo: pare dia espressione al mistero. La Parola non è racchiudibile nelle lettere morte scolpite sulla pagina, né è apparentabile al cadavere che l’anatomista seziona su freddo tavolo: è viva, opera ciò che dice, è “performativa” ed è, in più, colorata, un affresco vivente. Ravasi notava la discrepanza tra le narrazioni bibliche «smaltate di colore, turgide di vita, frementi di amore e passioni» ed «una teologia che assomiglia talora a una geometria divina».

Attraverso la Parola il teologo deve mostrare un percorso: dalla “Creazione” alla “Redenzione”. Una storia, vita, non concetti, idee… I rivestimenti culturali (necessari) del cristianesimo non fanno che rendere accessibile ai linguaggi umani la Rivelazione. Capita che, in questo tradurre, si finisca col tradire. Altizer diceva che teologi e biblisti non hanno saputo adeguare – al punto da renderlo significativo per la coscienza moderna – il simbolo escatologico del Regno di Dio se non sacrificandone l’originario significato storico. Il pensiero marxista, come tante altre “pasque laiche”, ha stravolto il senso escatologico del Regno provocando non pochi danni. Non poche idee hanno riconosciuto nuove funeste intenzioni nella Parola, distorcendola.
Volendo trasformare in secolarizzati modelli etici, in provocazioni per una prassi imbevuta unicamente di preoccupazioni politico – ideologiche i contenuti della fede cristiana, si è finiti con il lasciare la scena ai rivestimenti senza il “contenuto” attorno al quale erano sorti.
Schiacciando i valori cristiani su interessi meramente orizzontali, generando delusioni i tentativi di realizzare da soli il “Regno di Dio”, se ne conclude che le istanze teologiche sono dannose. Il problema è che non si è fatto altro che applicare alla fede parametri di verifica estranei ad essa. I discepoli di Emmaus, ad esempio, lamentano il fallimento “politico” del Messia; in realtà, era la loro capacità di comprensione a rivelarsi fallimentare. Si deve recuperare la “forza critica” della Parola, piuttosto che rifiutarla dopo averla applicata, con esiti disastrosi, guidati da interessi di parte.
Nella Scrittura, dice Metz, Dio si “autocomunica” con una promessa che da annuncio (Verkündigung) si fa preannuncio (Ankündigung) di ciò che sarà e, per questo, vale come disdetta (Aufkündigung), critica dell’attualità.

Non si può ignorare che “fare teologia” non è un’attività neutra: abbiamo “le teologie”! Un africano, ad esempio, porta nel proprio lavoro teologico istanze e soluzioni diverse da chi si è formato sui dibattiti di impronta Scolastica. La fede è quella, ma la si declina secondo il proprio modo di sentire. James Hal Cone, esponente autorevole della “Black Theologie”, sostiene che la “teologia cristiana” è un ben definito discorso sull’attività liberante di Dio nel mondo. Un teologo formatosi in Africa, dove sfruttamento, povertà, morte, malattie sono le parole più ricorrenti nel vocabolario quotidiano, potrebbe non parlare della Rivelazione come attività liberante di Dio nel mondo?
Si ha bisogno di riscatto, di giustizia e non di giustezza terminologico – concettuale. Un esponente della “Teologia della Liberazione” pone come primaria, nell’agenda teologica, la questione delle popolazioni latino – americane povere ed oppresse. Scrive Gutierrez: «Viene prima l’impegno di carità, di servizio. La teologia viene dopo. È atto secondo». Ad essere «luogo teologico privilegiato» - come si esprime il teologo peruviano – è la “vita”, l’“impegno storico della chiesa”; di tutto questo è formata l’intelligenza della fede. La teologia occidentale, a dire il vero, pure ha riferimenti al di fuori delle preoccupazioni accademiche. Moltmann, ad esempio, confessava di essere debitore, riguardo all’elaborazione delle “Teologia della croce”, a lezioni ascoltate nell’anno 1948/1949 a Göttingen.
Nelle aule universitarie – ricorda – prendevano posto «scossi e depressi, coloro che della mia generazione erano riusciti a sopravvivere nei campi di concentramento e negli ospedali militari. Una teologia che non fosse stata evoluta alla luce del Crocifisso, dell’abbandonato da Dio, a quel tempo non ci avrebbe toccati».

Uno scritto di Marie Dominique Chenu del 1957, ha per titolo: La théologie est – elle une science? La scienza è il regno della “verifica” (empirica); ebbene, la fede, che è primaria mentre la teologia è secondaria, cosa ha che vedere con questo? Qual è, per meglio esprimerci, la “verifica” nell’ambito della fede? Risponde Ebeling: Dio si verifica poiché ci verifica. Madre Teresa di Calcutta esortava a vivere in modo tale da essere la dimostrazione di Dio. Per la teologia vale quanto il poeta Patmore diceva riguardo alla “vera conoscenza”: può essere soltanto conoscenza nuziale. Deve esserci “relazione reale” tra noi ed il Trascendente che si fa Volto nel volto umano di Cristo; non si è teologi per “tangenza esterna” o per “svolazzi intellettuali”. Il gesuita Rupnik, dice ai religiosi:

«la nostra priorità dovrebbe essere la “santa teologia”; come la chiamavano i Padri […] quella teologia della quale ha parlato Evagrio: il vero teologo è chi prega».


La teologia, per il nostro autore, ha una verità mai indipendente dal modo con il quale la esercitiamo e dal tipo di comunicazione con la quale la diffondiamo. Non vanno discusse, per Rupnik, le “verità dogmatiche”, bensì deve far problema il fatto di tenerle isolate dal “vissuto”, dalla “spiritualità” e dalla “vita comunitaria” (ecclesiale). La fonte dell’attività teologica, conclude il gesuita, è l’amore:

«La teologia comincia con l’amore e anche la comunicazione di ciò che la teologia propone inizia quando la gente viene toccata dall’amore […]. Se la teologia si pone di fronte all’uomo contemporaneo con l’amore, questa modalità costituisce già di per sé l’iniziazione al contenuto della teologia stessa».


Non mi pare sia difficile per l’uomo contemporaneo sentirsi attratto dalla parola “amore”; anche se, va detto, purificata da aberranti semplificazioni. Se si pensasse di difendere la significatività della teologia muovendo da posizioni che nel passato diedero discrete soddisfazioni, si starebbe percorrendo la strada sbagliata. Non è superfluo, qui, ricordare la domanda di Moltmann: quale può essere il “senso” della teologia cristiana nel mondo che sta sempre più mostrando essere il “mondo dell’uomo”? Aggiungeva: «il significato della teologia nel moderno mondo scientifico sta […] nella sua crescente mancanza di significato». L’errore, a mio avviso, sta nell’avvertire una certa sudditanza nei confronti delle scienze. L’uomo non vive soltanto in un mondo “interpretato” scientificamente, affidandosi a parametri ossequianti l’empirico… Si abita anche – soprattutto – il mondo della vita. Lo scienziato stesso, quando lascia il camice bianco nel suo laboratorio, può sentire il pungolo delle domande di senso che non trovano risposte nella scienza non perché siano insensate, ma perché il loro senso staziona su di un piano diverso. Lo spirito di geometria e lo spirito di finezza dei quali parlava Pascal, insomma, sono coinquilini nella nostra interiorità. Non c’è dubbio che siano mutevoli (oggi con troppa rapidità) le forme della teologia, ma i motivi non stanno in una intrinseca debolezza, bensì nel fatto che le odierne sfide (etico – politico – tecnologiche) impongono di pensare, all’interno della “fedeltà” al sacro deposito, provocati da “nuove istanze di senso”. Questo concetto lo posso compiutamente esprimere scomodando William Hamilton: «Uno dei motivi per cui le tendenze teologiche mutano è che viene sempre il momento in cui l’uomo desidera vivere trovandosi ad affrontare nuovi tipi di difficoltà. Nel fare teologia, è come se ci si trovasse in una casa con otto finestre, ma con solo sei doppi vetri. Si è liberi di scegliere a quali sei finestre applicarli, per impedire all’aria fredda di entrare; e si può vivere benissimo per un po’ di tempo nelle stanze protette. Ma dalle finestre, prive di doppio vetro, presto o tardi, l’aria fredda passerà, e tutta la casa ne risentirà». Non possiamo difendere la “casa della teologia” dal freddo di nuove sfide proteggendone alcuni  ristretti spazi; infatti, dalle questioni insolute, nuove provocazioni entreranno a rendere difficile la permanenza nelle certezze acquisite, nelle risposte deviate su binari morti.

A partire dal Novecento è diventato assai difficile ritenere “sensato” dire Dio; il linguaggio teologico è stato colpito da gravi sospetti e da potenti critiche. Non si può riassumere qui la questione: va detto semplicemente che si è avuto un ateismo semantico. Se Dio non è da nessuna parte, se non interessa il fenomenico (ciò che appare), di cosa si parla? Qual è il “referente empirico” del termine “Dio”? Il linguaggio religioso, in generale, o è patologico, o privo di significato, o meramente poetico, consolatorio. Eppure, proprio il fatto che Dio è incoerente, non empirico può rappresentare la nostra salvezza. Come? Ciò che non si dà immediatamente come disponibile si dà per grazia. Muovendo dall’ateismo semantico, Paul Matthews van Buren, giunge ad invocare il Dio – Grazia che travalica il dire umano. In Theology Now (Ci può essere una teologia oggi?), scrive:

«Solo ciò che è impossibile ed incoerente, empiricamente insignificante ed irrilevante può liberare – solo il Dio che è grazia. È questo che noi tutti dobbiamo ricordarci, se ci deve essere una teologia oggi».

Il Dio ebraico – cristiano è venuto a nascondersi e rivelarsi nel grembo di una fanciulla di Nazaret! Non ama l’appariscente e si rende percepibile al Profeta Elia finanche in un soffio di vento! La teologia muta perché deve accettare indicazioni e correzioni: le prime dal tempo in cui si propone, le seconde dal Magistero che vede crescere sempre più la comprensione della Parola. Hans Schilling ha scritto parole illuminanti:

«la teologia […] è […] bisognevole di correzioni […]. Soltanto la fede fornisce certezze definitive, verità inoppugnabili […] le affermazioni teologiche sono […] intersoggettivamente comprov abili nell’esattezza logica propria della loro disciplina, ma non nella loro verità ontologica».

La teologia, a differenza della fede, non esibisce certezze definitive, verità inoppugnabili. Essa giunge ad affermazioni che, nel dialogo, nel confronto, si possono provare sottoponendole al vaglio dell’esattezza logica. Siamo nell’ambito del “ragionato”, dell’“atto secondo”. Non si vaglia, qui, alcuna verità ontologica. Nella fede – per esprimerci altrimenti – siamo nello spazio del Senso; nella teologia, in quello del significato. Conosciamo, però, un punto di vista che, se non diverso, almeno è da considerarsi “complementare” con quello appena illustrato.

Mi sto riferendo a Visonà che ha studiato le origini della teologia cristiana. L’idea centrale che l’orienta nell’incandescente materia è che – riguardo alla Rivelazione – non si ammette che essa prescinda dalla sua comprensione storica. L’Evento «è anche teologia, o meglio teologie». Perché il plurale? Visonà ci ricorda che si danno quattro Vangeli ricchi di fermenti teologici eterogenei. Quello che lo studioso vuole dirci è che il «teologico non è aggiunto o giustapposto al kerigmatico ma è interno ad esso […], non vi è frattura tra rivelazione e teologia».
Non c’è momento della Storia della Salvezza che non abbia necessità di venir compreso e narrato dall’uomo! Ciò che non può essere significativo “per noi” non è detto non lo sia “in sé”, ma il Dio ebraico – cristiano non ci salva senza la nostra partecipazione. Quanto sappiamo della Rivelazione, dai Vangeli e dalle antiche Scritture, è già filtrato in una teologia. C’è, tuttavia, un punto nel quale si opera davvero un “salto”: «È Cristo, o meglio la fede in lui come Dio e Figlio di Dio, l’elemento di rottura col mondo giudaico e greco e il vero punto di attacco della teologia». Questa, dunque, ha origine indubitabilmente cristologica! Kierkegaard diceva che il mondo divino e quello umano – da sempre divisi – entrano in “collisione” in Cristo; tuttavia, non ne deriva un’esplosione (mortale), bensì si collide in un abbraccio (vitale). Un rapporto con Cristo che va narrato, illustrato, rafforzato con ragioni dalla teologia, ma che – per la sua concretezza esistenziale – deve necessariamente precederla. Sant’Agostino, a tal proposito, immagina che il buon ladrone (per Giovanni Crisostomo ha rubato anche il Paradiso), stando accanto al Crocifisso, abbia detto: «non ero istruito su quelle cose, non ero preparato, non avevo studiato le Scritture, ma Gesù mi ha guardato e nel suo sguardo ho compreso ogni cosa». Il teologo vero, quello che prega (Evagrio Pontico), si lascia guardare da Cristo e, guardandoLo, trova risposte; non capisce tutto guardando nello specchio appannato della propria intelligenza, ma comprende ogni cosa fissando il Volto dell’Altro.

Alla domanda “dove va la teologia?” si affianca quella, a mio avviso, più pressante: “Dove va il cristianesimo?”. Anni fa, Mounier, disse che esso «deve ritrovare le strade della terra e le preoccupazioni quotidiane degli uomini». Non si può negare che, a partire dal Novecento, il cristianesimo si sia mosso ‘anche’ nelle direzioni indicate dal filosofo francese e, a partire dalla “Teologia delle realtà terrestri”, passando per il Vaticano II (che, però, molti ritengono sia stato in parte disatteso), di certo i sentieri teologici verso il mondo della vita non si sono del tutto interrotti. Il fatto, ad ogni modo, è che si deve imparare la lezione di Agostino: per conoscere bene, bisogna vivere bene.
Il cristianesimo lo si conosce meglio se si vive secondo le sue direttive. La teologia deve andare sempre più nella direzione di una santificazione del credente. San Bonaventura, interrogava: Utrum theologia sit contemplazionis gratia an ut boni fiamus? (Si fa della teologia per il desiderio di contemplazione o per santificarci?). La strada migliore sarebbe quella di contemplare agendo e di agire senza tralasciare la contemplazione. Essere cristiani significa vivere secondo la “logica dell’et et” e non ubbidendo alla “logica dell’aut – aut”: includere, non escludere! Fare teologia implica un potenziamento delle zone affettive che, lasciate in mano all’emotivismo, finiscono per esprimere soltanto azioni superficiali. La teologia è anche “scienza affettiva” (Halés), “un sapere che inclina alla pietà” (Alberto Magno). Una pietà anche epistemica, oserei aggiungere; una pietà che accoglie quanto le altre scienze riescono ad offrire di buono. Nella Gaudium et Spes, al n. 62, si legge: «Coloro che si applicano alle scienze teologiche nei Seminari e nelle Università, si studino di collaborare con gli uomini che eccellono nella altre scienze, mettendo in comune le loro forze e opinioni». Chi si occupa di teologia, dunque, deve condurre la propria disciplina sempre più verso gli altri, accompagnando il proprio sapere con quello delle altre agenzie deputate ad accrescere la conoscenza. Il teologo è abituato a considerare l’apprendimento come fatto “comunitario” perché non svolge le proprie ricerche in solitudine, ma in compagnia della Chiesa, della Tradizione e per il bene degli altri credenti. Chesterton, da uomo di lettere e cristiano, diceva:

«Quando mi considero da solo, mi sento un verme; ma quando mi considero membro della Chiesa, mi sento grande: partecipe dell’intelligenza di Agostino e di Tommaso».


Dicevamo, con San Bonaventura, che, inoltre, fare teologia significa andare verso la sempre più piena “santificazione”. Padre Pedro Arrupe, che fu Superiore dei Gesuiti, aveva un principio – guida che non si potrà mai invalidare: «Un santo sarà sempre più utile alla Chiesa di un’armata di Gesuiti». Chi si occupa di teologia sa bene che, Teologo per eccellenza, è Dio! Alberto Magno, infatti, sosteneva che la teologia è la scienza che è insegnata da Dio, insegna Dio e conduce a Dio. Il fine è il principio e, dunque, solo attraverso l’autentica “santificazione” l’uomo completa il percorso che non è “circolo vizioso”, bensì “virtuoso” in quanto, nel tracciarlo, si passa attraverso la Storia, gli uomini, il mondo, le micro – storie spandendo semi di santificazione. Il cristiano è (deve essere) l’uomo della Domenica, ma lo è pienamente se non rinuncia ad essere “anche” l’uomo del lunedì: «Per troppi cristiani la fede si limita a un’attività domenicale senza alcun rapporto con il lunedì» (Martin Luther King). Il teologo, nello svolgere la propria attività di studio e di preghiera (momenti inscindibili), deve assumere una “forma umana” ben definita. Un monaco del deserto, Abbà Mateos, diceva che, chi vive in comunità (comunione), non deve essere un cubo dotato di spigoli che pungono, bensì assume forma sferica per poter rotolare, andare verso tutti! Grandi responsabilità ci toccano anche per ogni parola che mettiamo in circolazione perché – ricordava Gerardus Van der Léeuw – chi pronuncia parole, mette in moto potenze. Potrebbero essere “potenze malefiche”. Stiamo attenti! Va aggiunto che la teologia deve andare sempre più anche incontro ad una modestia metodologica e ad una maggiore umiltà rispetto ai contenuti che pensa di aver portato alla luce indagando il “Sacro Deposito”. Nessun punto fermo deve rimanere tale nelle nostre ricerche perché, ciò vale in generale per la vita ed in particolare per la “vita cristiana”, noi – ricordava Cox citando Kierkegaard – stiamo sempre divenendo.

Nel suo Diario intimo, Miguel de Unamuno registrava una frase di Faber: Le date reali della vita di un uomo sono i giorni e le ore in cui gli è stata concesso di acquisire una nuova idea di Dio. Ad ogni nuova idea di Dio, infatti, per Faber, corrisponde una “nuova nascita”. Le ore dedicate al lavoro teologico devono essere sempre pronte a lasciarsi caratterizzare come quelle nelle quali erompe una “nuova idea di Dio” che, si spera, provenga dalla Scrittura e non dal laboratorio mentale dello studioso.
Le parole sono preziose per far risuonare nel mondo la Parola, ma dal loro ‘balbettio’ si deve intuire la strada che apre all’ascolto diretto della Parola stessa. Hans Jonas, scrive: «anche le incomparabili parabole dei grandi vati e uomini di fede, dei profeti e dei salmisti, erano un balbettio di fronte al mistero divino». L’umiltà deriva dal fatto che nemmeno nelle “parole bibliche” è interamente contenuto il mistero di Dio. La Parola è più grande di qualsiasi parola che “tenti” di renderLa comprensibi le. Comprendere, poi, qui, è soprattutto dono! Andare quanto più possibile “accosto al Mistero” è frutto dell’amore che, innervando di se stesso lo studio, istituisce una “relazione vitale” con l’Altro. Martin Buber diceva che, se l’uomo impara ad amare Dio, fa esperienza di una realtà che supera di gran lunga le idee. Heidegger, che non negò mai di avere un debito verso la teologia anche se, poi, la ritenne improponibile, scrisse: «l’essere posto davanti a Dio implica una conversione dell’esistenza che avviene nella e ad opera della misericordia di Dio colta attraverso la fede. La fede, dunque, si comprende solo credendoci». Concludeva: «È la teologia stessa ad essere primariamente fondata sulla fede». Il filosofo, qui, è perfettamente sintonizzato sulla Bibbia. Nel “Libro di Giuditta”, testo veterotestamentario del quale non abbiamo l’originale ebraico, al Cap. 8, vv. 12 – 14, si legge:

Indagate pure sul Signore onnipotente, ma non comprenderete niente per tutta la vita. Non sondate la profondità del cuore dell’uomo e non cogliete i ragionamenti della sua mente; allora, come riuscirete a scrutare Dio che ha fatto ciò? Come conoscerete la sua mente, come comprenderete il suo pensiero?

La teologia, dunque, prendendo sul serio questa provocazione biblica (di sapore kantiano), muove verso l’umiltà, la delicatezza, la prudenza e, così atteggiandosi, diventa più misericordiosa verso quanti hanno difficoltà a credere e nei confronti di coloro i quali stentano, pur cristiani, a far crescere la propria fede. Il primo movimento non è quello di “mettersi a ragionare”, bensì, si tratta di partire dall’“adorazione del Mistero”.
L’antico filosofo Nicola Cusano riporta un dialogo tra un pagano ed un cristiano. Il pagano chiede al suo interlocutore: - Che adori? Il cristiano: - Dio. Quale Dio? – domanda il primo. La risposta è sbalorditiva: - Non so. Il pagano, dunque, ha buon gioco a ribattere: - E come, con tanta serietà adori quel che non conosci? Il cristiano, con onestà, ammette: - Proprio perché non so adoro. Il contestatore, a questo punto, non può non provare ammirazione ed esclama: - Miracolo! Ho davanti agli occhi un uomo commosso da ciò che non sa. Inutile dire che non basta la “commozione”, ma essa può essere sufficiente ad accendere “curiosità” non becera nell’animo altrui. Dovrebbero, tutti i credenti (non esclusi i teologi) mostrare simile capacità di adorazione di fronte al non conosciuto. Il Mistero accettato, poco a poco, può suscitare domande, interrogativi ed ecco l’esercizio teologico come momento necessariamente secondo! L’esempio è importante. Più che maestri, i teologi siano testimoni del fatto che è “possibile essere santi”. Agostino, nelle Confessioni, racconta come sua madre (accadrà al vescovo africano stesso) traesse benefici dall’aver di fronte un genio del cristianesimo, il vescovo Ambrogio:

«Con più intenso zelo correva in chiesa, a pendere dalle labbra di Ambrogio, fonte di acqua zampillante per la vita eterna. Essa amava quell’uomo come un angelo di Dio».

In teologia, avere successo, non significa scrivere il libro dell’anno o essere al centro delle considerazioni di nobili intellettuali; possono esserci questi momenti, ma non sono determinanti. Ogni teologo, infatti, dovrebbe accendere in chi lo segue un più intenso zelo verso la Chiesa e porre sulle sue labbra parole (sempre memori della Parola) capaci di valere come una fonte di acqua zampillante per la vita eterna. Si ha successo quando ci considerano un angelo (messaggero) di Dio! A chi si occupa della “santa scienza” deve stare particolarmente a cuore questa convinzione di Giovanni Paolo II: «Oggi abbiamo grandissimo bisogno di santi, che dobbiamo implorare da Dio con assiduità».

Fare teologia è vivere la fede nell’incontro col mondo per dire la Parola rispettando, non sottomettendosi ad esse, le parole concesse per annunciarLa. Credere, in generale, è – spiega Moltmann – fidare nella Trascendenza superando limiti, ma, precisa, ciò va fatto «in modo da non sopprimere o saltare l’angosciosa realtà. La morte è veramente morte e la corruzione umana è davvero fetore. La colpa rimane colpa e la sofferenza rimane anche per la fede un grido senza una risposta bella e pronta».
La teologia deva andare sempre più verso l’interrogazione, l’apertura alle istanze di senso del mondo contemporaneo, pur fedele al proprio contenuto. Aveva ragione un teologo contemporaneo: l’unico futuro della teologia è convertirsi alla teologia del futuro. È scoccata, a mio avviso, da molto tempo, ormai, l’ora di una answering theology (una teologia che risponde). Sì, ma che lo fa con cautela, sempre pronta a rivedere le proprie conclusioni che restano pur sempre umane, troppo umane. Lavorare col pensiero rivolto alla Trascendenza implica la memorizzazione e la piena comprensione del monito di Guardini: noi non siamo grandi personalità religiose, noi siamo i servitori della parola. Solo i “santi” sono “grandi personalità religiose”. Anche i dotti devono mendicare l’esempio della loro vita. Diceva Congar che, per essere cristiani, è necessario essere intelligenti. Va inteso, però, in questi termini: intus – legere, leggere dentro le vite dei santi qual è il “reale contenuto” della “fede cristiana”! La Chiesa, cioè noi tutti, deve leggere dentro la realtà anche di quanti stanno fuori di essa.
Il filosofo ateo – marxista Ernst Bloch (che ha dialogato con Moltmann riguardo alla “Teologia della speranza”), sosteneva che la Chiesa sie hat ihren Gott verstaatlicht - «ha statizzato il suo Dio» e und das römische Reich beerbt unter der Maske des Gekreuzigten - «ha ereditato l’impero romano sotto la maschera del crocifisso». Accusa riduttiva, forse, ma non completamente immeritata. Il teologo, di fronte a queste non del tutto ingiuste accuse, deve far sì che il suo lavoro teologico miri sempre più a mostrare come la Chiesa svolga un triplice salvifico compito nel mondo. Il percorso lo desumiamo da Harvey Cox.
La Chiesa deve svolgere la funzione di 1) kerygma: dare, per mezzo della narrazione, un messaggio riguardo a ciò che avverrà; deve essere 2) diakonía: servire e prendersi cura del prossimo. Deve farsi diakonos, “serva” della città secolare (come titola un’opera dello stesso Cox); Infine, la Chiesa ha a cuore la koinonia, la “comunità escatologica” facendosi anticipo visibile di Speranza. Una buona teologia ecclesiale, a mio avviso, deve realizzare questo itinerario.
Le minacce, riguardo a questi nobili propositi, vengono dal vivere in una epoca fortemente scristianizzata e simpatizzante con vaghe forme di religiosità o, meglio, di “spiritualità” che hanno sempre più la forma del “fai da te” ed inclinano decisamente verso forme di becero “sincretismo”. Ramsey, introducendo un libro di Vahanian, The Death of  God (La morte di Dio), scrive che, un tempo, la “morte culturale di Dio” era qualcosa di anti – cristiano; ormai è, invece, qualcosa di post – cristiano. Il sottotitolo del libro di Vahanian, recita: The Culture of Our Post – Christian Era. Siamo nell’era della cultura post – cristiana? La teologia non può aggirare questa domanda inquietante. Deve anch’essa domandare, indagare, non vivere di rendita grazie a lasciti metafisico – dottrinali. Si allinea a questa posizione “aperta” Jürgen Werbick:

«la teologia […] aiuta la fede cristiana a rimanere una fede che domanda e che continua a interrogarsi. Solo chi continua a domandare e non si contenta del definitivamente saputo può continuare a trovare, può progredire sulla via che Egli nel suo Spirito cerca in noi e con noi percorre; sulla via su cui i credenti e quanti cercano la fede sperano di trovare se stessi, perché cercano qui con tutto il cuore il futuro di Dio, in cui sarà dato loro “tutto il resto” (Mt 6, 33)».

La teologia, allora, non può essere autentica se non ha una radice errante: “radice” costituita dalla Rivelazione; “erranza”, dovuta all’inesauribile mistero di Dio.


La teologia, per andare nella direzione giusta, deve anche preoccuparsi di comprendere quale sia il “luogo di Dio”. Va precisato che non si tratta, qui, di un concetto “spaziale”, bensì, “temporale”. Il Dio ebraico – cristiano non è necessariamente legato ad una terra, né a costumi specifici, ma si apre a tutti i popoli, si slancia verso il futuro essendo, il tempo cristiano, indirizzato al “compimento escatologico”.
La teologia deve mostrare questo télos. Il teologo e fisico teorico olandese Willem Drees propose di mettere in primo piano il “presente” come luogo primario di Dio. CollocandoLo in un passato o in un futuro assai distanti, infatti, rischiamo di renderlo “irrilevante”! Si corre il rischio di ritrovarsi con un Dio che “non è in nessun luogo” (no – where) invece che rinvenirLo nel “qui ed ora” (now – here). Il nostro autore, malgrado ciò, si rifiuta di ammettere che Dio si identifichi con il “presente”. Una soluzione, per Drees, potrebbe essere questa:

«intendere Dio come trascendenza presente, una trascendenza diversa ma intimamente connessa a ogni presente. Si potrebbe […] chiamare Dio il principio dell’“alterità” rispetto a ciascuno stato di cose».

Dio: un trascendente presente come alterità. La teologia deve andare verso una sempre maggiore chiarificazione della Trascendenza innestata nel presente che è, tuttavia, “altra” (forza critica) da esso. Né intrappolare Dio, né strapparlo dalle maglie del “presente”. Il lavoro prospettato si completa con il mostrare come Cristo sia “presente nel mondo”, ma come Altro che, piuttosto di subire le nostre critiche, merita di venir considerato come “la nostra critica” fondamentale ed immancabile.

Se dovessi, per concludere il mio intervento, decidere – tra le tracce disseminate in queste poche pagine – quale sentieri privilegiare, credo che orienterei la ricerca verso quella che Ernesto Balducci definiva l’ecumenismo creaturale. Il nostro autore era alla ricerca del Cristo del futuro. Quello che la teologia gli aveva prevalentemente fatto conoscere, invece, era il «Cristo concepito e modellato dentro la cultura della competizione e del dominio». Gli stessi “dogmi” sono sorti in atmosfera conflittuale e, per questo, azzarda Balducci, i cristiani finirono col trovarli incomprensibili. Rendere “concettuali” in maniera dilagante le convinzioni teologiche fece sì – incalza il nostro autore – che i dogmi fossero

«la via attraverso la quale il Vangelo è diventato proprietà privata dei teologi specialisti. La nostra cultura teologica è cultura sviluppata nella logica del dominio e della controversia […]. Nell’evento ultimo capiremo chi Egli è e chi noi siamo. È questo lo spirito ecumenico che ci apre ad una comunione creaturale di cui fan parte […] anche il fiore, il ruscello, la stella, la rondine e tutti gli animali della natura».
La teologia deve andare, allora, verso occasioni di incontro, non di scontro. Il “paradigma della competizione e del dominio”, dunque, va abbandonato per libderare il Vangelo dal “sequestro operato dai teologi specialisti”. Non si può privatizzare la Parola e la teologia deve essere “relazionale”, “ecumenica” aprendosi all’ascolto di tutti ed all’attenzione verso tutte le creature. Da qui, infine, discenderà una nuova “teologia ecclesiale” che muoverà decisa verso l’altro! Conclude, e noi con lui, Balducci:

«È tempo che ci liberiamo, anche come chiesa, da ogni eredità   della teologia antagonistica per costruire la chiesa della comunio ne».

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