Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

L'argilla migliore: fare Teologia


Più volte ho affrontato la questione cos’è teologia? Ho messo del mio ed ho attinto da illustri studiosi per dare risposte quanto più possibili adeguate. Il compito, però, non è stato portato a termine. Qualche anno fa, nel 2006 precisamente, però, tra le mani ho avuto un libro, pubblicato da Claudiana: Ricerca di Dio e doman da di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo. Un dialogo a due voci.La prima, è quella di Pinchas Lapide; l’altra, appartiene al padre della logoterapia, Victor E. Frankl. Lapide, a pagina 32, offre un segmento di riflessione dal quale si può agevolmente comprendere cosa è e non è teologia:

“‘teologia’ è una parola assurda, se è intesa come scienza su Dio, perché non può esistere una cosa simile. Ma se la teo – logia va intesa nell’originario significato greco, come discorso su Dio (…), come una ricerca di senso in Dio, allora, ovviamente, il termine è giustificato. Ma la teologia – ed è questa la hybris che speriamo Dio voglia perdonarle – vuole a ogni costo diventare una scienza, cosa praticamente impossibile. Al massimo, può diventarlo ricostruendo storicamente in che modo gli esseri umani nel passato hanno vissuto Dio, lo hanno cercato, o come hanno percepito un’ombra della divinità. Dio stesso non si può stipare a forza dentro una facoltà universitaria”.

La teologia può assumere una veste scientifica, dunque, soltanto se si dà come ricostruzione storica delle idee che gli uomini hanno elaborato intorno a Dio, ma ciò non è scienza di Dio, bensì esame scientifico delle cose dette su Dio. Teologia come discorso, invece, lascia spazio sia al dire che al contraddire. La teologia è un discorso e non una scienza; cerca il senso, non semplicemente il significato; ne va dell’essere dell’uomo, non dell’episteme. Per questo, nella mia breve riflessione, prendo come figura portante quella di un personaggio cinematografico: un giovane eroe! Va personalizzato il percorso, reso narrativo. Il tema, in ogni caso, è: come fare teologia? In questione, infatti, vi sono percorsi intellettuali ma strettamente relazionati a percorrenze esistenziali. Ecco cosa mi ha spinto a prendere il largo sulla piattaforma argomentativa fornita da un film di Tarkovskij, Andrei Roublev.
Protagonista è un giovane fonditore di campane, Boriška. Apprensivo ed a tratti sfiduciato, va in cerca della migliore argilla per lo stampo della campana desiderata dal principe. Aggrava la ricerca una pioggia che non dà respiro, mentre il giovane si cala in un dirupo fangoso e, sul fondo dell’avvallamento, finalmente trova quanto cercava. Le immagini ce lo mostrano quasi sepolto dalla terra limacciosa; una sepoltura accettata per giungere alla rinascita di artista – fonditore di campane. Il teologo, come il giovane Boriška, pur conscio della immane difficoltà del suo compito, deve andare alla ricerca della migliore attrezzatura linguistico – concettuale per esprimere la propria esperienza di Dio; questa è la sua argilla per formare lo stampo di una teologia che piaccia al Principe/Cristo. La pioggia di contestazioni del mondo complesso, post – moderno, non dà tregua e ci si deve calare nei dirupi fangosi della storia sempre più lontana dalle provocazioni trascendenti. Si deve scendere nel fango della storia e trovare la migliore argilla per forgiare una buona teologia. Seppellirsi nelle questioni più infuocate ed insidiose del proprio tempo è la sola occasione per risorgere come teologo capace di far risuonare la campana dell’annuncio evangelico per come è gradito al Principe/Cristo. Il teologo, come il giovane fonditore di campane di Tarkovskij, sa che la migliore argilla si trova sul fondo limaccioso del non ascolto del mondo. In fondo, come ha ricordato qualcuno, è la stessa fede ad essere “un abito oscuro e nudo” [1]. C’è un pensiero di H. U. von Balthasar, del quale mi ricordo ogni volta che mi si chiede di raccontare cos’è passione per la teologia. Cito a memoria: un teologo può seriamente esistere – si noti l’avverbio – solo se ‘prima’ si è immerso nelle misteriose strutture dell’essere creato. Non è detto che, talvolta, le ‘misteriose strutture’ non siano limacciose come l’avvallamento nel quale si cala, coraggiosamente, il giovane fonditore di campane. In fondo, l’accademia entra relativamente nelle fatiche teologiche poiché, per lo più, la teologia è – una dialettica di provocazione e risposta (Tracy) che coinvolge tutte le dimensioni della persona. Non si può avvicinare l’uomo contemporaneo, spaesato e desidero so di conoscere il senso, se – come diceva W. James – nel fare teologia il verbalismo ha preso il posto della visione ed il professionismo soppianta la vita. Dialogando con Bruno Forte, il filosofo Vincenzo Vitiello ha sostenuto che Dio, innanzitutto, è passione! Stando così le cose, conclude, “non lo si cerca senza patirlo (…). Chi cerca Dio per essere felice ha cambiato Dio con un idolo. Dio si cerca per Dio, non per altro” [2]. Se ogni credente autentico ha la passione di Dio, il teologo in cosa si distingue? Credo la risposta l’abbia data, esaurientemente, un autore francese:

“vi è in ogni cristiano una riflessione inerente alla fede (…). La teologia scientifica è il prolungamento della riflessione spontanea (…) è la fede vissuta da una mente che pensa; essa è scientificamente elaborata (…) è la fede che assume il discorso della ragione per comprendere meglio il suo oggetto” [3].

Che l’apporto delle scienze umane, linguistica, filosofia, psicologia… non basti a chiarire le ‘ragioni della speranza cristia na’ che ci abita è ovvio; infatti, da più parti si sottolinea come la fede cristiana sia in stretto rapporto col paradosso:

“La condizione cristiana è paradossale. Si è invitati a divenire se stessi, ma al prezzo di un cambiamento. Vi si accoglie la promessa di una vita ma a condizione di attraversare la morte. Si è chiamati a darsi, ma possono farlo soltanto quelli che imparano ad essere se stessi. Non si arriva alla maturità nella fede senza passare attraverso qualcosa che assomiglia alla rottura, al disorientamento, al decentramento da se stessi”[4] .

Siamo tutti, credenti e teologi, tenuti a sviluppare una fede matura; a cercare, come il giovane fonditore di campane nel film di Tarkovskij, l’argilla migliore, il metodo, il linguaggio migliori, affinché la campana del Principe, l’annuncio del Regno in e di Gesù, Principe della Storia, risuoni nelle coscienze addormentate, desolate, degli uomini del nostro tempo. Mi è rimasta impressa una frase di Walter Kasper e, come quella di Balthasar, la cito a memoria perché resta un punto fermo quando si cerca di esprimere in un linguaggio vicino agli uomini del nostro tempo le verità essenziali della nostra fede:

“Anche i concetti più centrali della teologia – dice il cardinale/teologo - , quali grazia, salvezza, peccato, Dio, sono oggi diventati in larga misura termini che non ci dicono più nulla e risentono della mancanza di una base di esperienza”.

Sì, più che discorsiva, la teologia deve presentarsi come una esperienza, pur avvolta dal rigore di un pensiero ben strutturato. Per fare ciò, occorre comprendere che, se il contenuto della fede è immutabile, i modi per comunicarlo sono storici e, dunque, soggetti a revisioni. La fede precede il pensiero teologico che la storicizza nel pieno rispetto, senza nulla snaturare di essa, delle capacità di ricezione dell’uomo al quale si rivolge [5]. Credo opportuno riportare, a tal proposito, l’esperienza del filosofo Enrico Morselli che parla dell’approccio al messaggio cristiano negli anni della sua giovinezza:
“In collegio, i veri sentimenti religiosi erano trascurati: si (…) adempivano gli obblighi rituali del Cattolicesimo, ma senza fervore (…). Disprezzavo la gerarchia chiesastica (…) per la sua ignoranza spesso accompagnata da corruzione (…). Entravo perciò nelle chiese scegliendo l’ora della solitudine e della penombra, e là mi immergevo in meditazioni dolcissime, in veri rapimenti”  [6].

Va detto, onestamente, che agli errori della gerarchia chiesastica, allo scarso valore della testimonianza dei compagni di collegio, Morselli somma un suo errore: si rifugia in una fruizione individualistica, intimista, del cristianesimo! Le chiese sono belle e confortevoli nell’ora della solitudine e della penombra, ma le meditazioni rigeneranti dal punto di vista psicologico, nulla apportano ad una fede vissuta come impegno, dono di sé, apertura alle questioni spinose del mondo. Non si risponde con un errore a degli errori. Chi vuole seriamente (come sopra dicevamo citando von Balthasar) occuparsi di questioni teologiche, non può rifugiarsi nella penombra delle chiese! La teologia ha sempre valenza ecclesiale e ciò viene ricordato ai teologi [7]. Accostarsi, da credenti o da teologi, alle provocazioni evangeliche esige sempre, per riprendere l’autorevole insegnamento del Vaticano II, la “testimonianza di una fede viva e matura (…) opportunamente educata alla capacità di guardare in faccia e con lucidità le difficoltà per superarle” (Gaudium et spes, 21, 5).
Il teologo – che si accontentasse di essere il frequentatore di chiese in penombra per un momentaneo meditare – non potrebbe annunciare la speranza della propria fede e, laddove il rifiuto del cristianesimo si fa granitico, non può smobilitare facendo proprie le parole di un personaggio di un lavoro teatrale di Albert Camus, ‘Lo stato d’assedio’ [8]:

“Addio, brava gente, capirete un giorno che non si può vivere bene sapendo che l’uomo è nulla e che il volto di Dio è tremendo”.

Se lo status della teologia, volendo piegare al nostro uso il titolo dell’opera di Camus, è di essere assediata, la risposta sia decisa e forte. Non serve insistere tautologicamente nell’annuncio di dogmi e concetti sempiterni, né esiliarsi in dolci penombre di chiese nelle quali il conflitto è azzerato, ma giova cercare – coraggiosamente – come il giovane Boriška nel film di Tarkovskij, la migliore argilla – fino a farsi seppellire dal fango – per far risuonare la campana – teologia dando ragioni e non imponendo motivazioni della speranza cristiana [9]. Non intendo sminuire l’incremento spirituale del soggetto religio so, né disconoscere il valore della contemplazione, ma credo che, innanzitutto, fare teologia sia un’attività e, dunque, qualcosa che incide profondamente nel concreto vivere! La lezione, poi, non è nuova e poggia, anzi, su pilastri tradizionali assai solidi. San Bonaventura, nel prooemium al Commentario delle Sentenze, scriveva: Utrum teologia sit contemplationis gratia an ut boni fiamus? (I Sent q. 3). Cioè: Si fa teologia per desiderio di contemplare o per santificarci? Il massimo sarebbe far convive re i due momenti. Continuava Bonaventura:

“sapere che il Cristo è morto per noi, e altre verità simili, non può non suscitare l’amore”.

Sì, meditare, cercare le ragioni della speranza cristiana in noi, significa suscitare l’amore. Illustrando la ‘morte di Cristo’ il teologo deve far cogliere il di Dio all’uomo ed alla storia che andavano nel senso contrario e, nella Risurrezione, mostrare come il sì di Dio si contrappone al nulla, alla nientificazione di uomo e mondo progettata dal Male! Ha scritto un teologo contemporaneo:

“Nella morte di Gesù il ‘sì’ di Dio che costituisce ogni essere si è esposto al ‘no’ del nulla. Nella risurrezione di Gesù Cristo questo ‘sì’ si è esposto al ‘no’ del nulla. Ed è qui che si è deciso, secondo la grazia, perché in generale vi sia l’ente e non invece il nulla. Infatti: ‘Se Egli non fosse risorto, il mondo sarebbe tramontato’ (inno ecclesiastico)” [10].

Heidegger – di cui Jüngel ascoltò le lezioni - aveva riproposto l’interrogativo della metafisica: perché è in generale l’ente e non piuttosto il nulla? A volere l’ente, che il mondo e l’uomo continuino ad esistere – ecco la differenza del teologo rispetto al filosofo – è il sì definitivo di Dio detto in Cristo morto e risuscitato! Ad una domanda filosofica, piena di stupore di fronte all’ente che vince sul nulla, la risposta è teologica. Se è vero, come dice un teologo tedesco del Novecento, che essere finiti significa essere minacciati, resta che Dio “è la risposta alla domanda implicita nella finitezza dell’uomo; egli è il nome di ciò che interessa ultimamente l’uomo” [11]. Tale interesse, però, non è pacificamente riconosciuto; occorre che si mostri all’uomo che è evidente cercare in Dio la risposta al non senso del nostro essere finiti, minacciati dal nulla. Jüngel ha ragione, per noi che crediamo: è il sì di Dio nella morte e risurrezione di Cristo detto definitivamente al no del nulla a mantenere l’ente! Ma per chi non crede? Il filosofo Popper, dialogando con l’etologo Lorenz, diceva di avere questa convinzione: la vita cerca un mondo migliore e, dunque, è scettica (nel senso del verbo greco cercare). Il termine scettico, allora, viene dal verbo cercare; a questo punto, anche il teologo che cerca l’argilla migliore per lo stampo della sua teologia è uno che cerca, uno…scettico. Lo deve essere, ma verso tutto quanto pretende di proporsi (o imporsi) come quel mondo migliore che tutti, come rilevava Popper, cerchiamo! Scettici sui modi, sui linguaggi, le metafore, non sui contenuti! In fondo, anche gli avversari più accesi (scettici?) del lavoro teologico, dei dogmi, ammettono, in rari momenti, che non tutto, dalle nostre parti, va deriso o diminuito dell’intrinseco valore. Voglio fare una citazione e, dopo, ve ne fornirò la paternità:

“quanto sembrano invidiabili, a noi uomini di poca fede, quei ricercatori che sono convinti dell’esistenza di un essere supremo! (…). Quanto comprensive, esaurienti e definitive sono le dottrine del credente in confronto ai faticosi, miseri e parziali tentativi di spiegazione che sono il massimo che noi riusciremo a mettere insieme”.

Ebbene, l’autore è colui che giudicava frutto di nevrosi, di immaturità la religione e ne pronosticava la fine parlandone come della morte di una illusione: Sigmund Freud! [12]. L’argilla migliore è quella del credente, del teologo, ma non è detto che si ottenga a buon prezzo; anzi, proprio come nel caso del personag gio di Tarkovskij, è solo rischiando la sepoltura sotto il fango dell’incomprensione umana che la si trova! Percorso doloroso per arrivare alla pregiata materia, ma altrettanta fatica costa il raccontarlo; fare storia della teologia non è asettico riferire dati e date, ma sentire nella propria carne il pungolo delle questioni decisive. Insomma, il teologo è uno che professa una scienza patica perché deve narrare la propria e l’altrui scelta di fede tappa per tappa, sofferenza per sofferenza. Non si può

“proporre la fede cristiana senza proporre parallelamente l’accesso a questa fede (…), senza dire al tempo stesso tramite quale procedimento e percorso i cristiani sono pervenuti a questa confessione (…), come è apparsa quale atto umano giustificabile agli occhi della ragione e della storia” [13].

Lo stesso autore sottolinea a chiare lettere che il percorso di fede non fu, non è e non sarà mai questione da poco, in senso temporale e morale:

“I discepoli – scrive infatti Sesboüé – non hanno creduto in Cristo nell’arco di una giornata (…). I vangeli ci aprono una finestra sulla genesi della fede dei primi testimoni dell’evento di Gesù” (p. 17).

I contributi dell’ermeneutica, dell’esegesi e, più in generale, della riflessione teologica sono stati importanti ed immancabili fin dagli albori del cristianesimo.Uno studioso ha notato:

“Storicamente non è mai esistito un Gesù non interpretato (…). Fin dai primissimi incontri con Gesù avvenuti decenni prima della stesura dei vangeli sinottici, i primi discepoli e poi quelli successivi dovettero necessariamente interpretare la persona e la loro esperienza di essa” [14].

I discepoli, ricordava Sesboüé, non sono arrivati facilmente a credere in Cristo perché, come ora aggiunge O’Collins, a loro non solo occorreva interpretare la Persona/Cristo, ma anche la personalissima esperienza del Salvatore. Toccò, l’incombenza ermeneutica, ai “primi discepoli” e poi a “quelli successivi”. La Chiesa, coi Suoi teologi, Concili, continua a chiedersi, sollecitata dalla domanda dello stesso Gesù, chi mai Lui fosse! Freud non ha del tutto ragione a ritenere che le dottrine del credente siano invidiabili. Come per ottenere la migliore argilla al giovane eroe di Tarkovskij, così a noi, per trovare argomenti a sostegno della pretesa cristiana, è richiesto un grande sacrificio. L’Antico Testamento presenta le figure di Esdra e Neemia che devono organizzare la vita, non solo cultuale, del popolo ebreo dopo l’esilio. Esdra, sacerdote e scriba, aveva capito che – come è obbligatorio per il teologo odierno – occorreva partire dalla Parola. Di lui, dice la Scrittura:

“aveva applicato il cuore a studiare (daras) la Legge (Torah) del Signore, e a praticarla (‘aśah) e ad insegnare (limmad) in Israele la Legge e gli statuti” (Esd 7, 10).

Come potete agevolmente comprendere, studiare – praticare – insegnare la Parola non è un compito da poco! Il teologo, come Esdra, deve organizzare la vita del popolo cristiano intorno a certezze di fede che si possono insegnare solo se, prima, studiate, praticate (vissute). Chi si dedica, come Esdra, con tutto il cuore all’impresa, sa che, in questo sforzo, salire di un gradino può condurre a retrocedere di due! I sapienti ebrei erano ben avvisati riguardo a ciò e, come testimonia la tradizione chassidica, non si taceva ipocritamente sulle difficoltà del fare teologia:

“Fu chiesto a Rabbi Levi Isacco: ‘Perché in tutti i trattati del Talmud babilonese, manca la prima pagina e ognuno comincia con la seconda?’. Egli rispose: ‘Per quanto un uomo abbia studiato, deve sempre ricordarsi che non è ancora arrivato alla prima pagina” [15].

Il teologo è un ricevente creativo: accoglie una Rivelazione, ma la deve rendere credibile a chi non la conosce e, mi permetto, anche all’ateo che sonnecchia in lui ed in ogni credente! È, inoltre, il meta – testimone: non può essere testimone oculare, ma appassio nato testimone di altrui testimonianze. Con lo studio, con l’accertamento dell’attendibilità storica dei testi che lo precedono, mostra che narra qualcosa di fondato e Qualcuno sul Quale si può fiduciosamente fondare la propria esistenza. Le provocazioni teologiche invitano a riflettere: è solo per intima consistenza che le cose sono, piuttosto che precipitare nel nulla? E, come aveva risposto Jüngel, il teologo deve mostrare che le cose sussistono grazie al sì di Dio. L’uomo è stanco di credere che siano un suo esclusivo progetto vita e storia. Ha scritto un autore del Novecento:

“La vita umana è stremata di servire da testa e da ragione dell’universo” [16].

Non ce la si fa più a concentrarsi interamente su se stessi; occorre de – centrarsi in Cristo per meglio centrarsi, ma ora senza ossessione, su se stessi. Bisogna essere–nel–Cristo, come insegna l’apostolo Paolo (cfr., 1Cor 1,30). L’espressione sottolineata ricor re, nell’epistolario paolino, più di 164 volte! Tale concentrazione cristologica, però,non avviene evitando la Croce, ma consegnando ad essa ogni nostro tormento, anche accademico, perché non la si addolcisce tentando di cogliere su di essa la rosa hegeliana della speculazione che dice di un felice e certo superamento (Aufhebung) del negativo. Il teologo sempre, piuttosto, è – ricordava Karl Barth – sottoposto ad un particolare Bedrängnis; termine tedesco che possiamo rendere in italiano con tormento. Qual è, dunque, per il Nostro, il tormento particolare del teologo? ‘Parlare di Dio’, ma solo  ricorrendo a ‘parole umane’. Si tratta – aggiungeva – di avere coscienza, allo stesso tempo, delle due condizioni: il ‘nostro dovere’ (Sollen) di parlare ed il ‘nostro non – potere’ (Nicht – können) farlo; si rende, proprio per questo, onore a Dio. Il teologo, dunque, per il Nostro, è situato in una ‘singolare esistenza – speciale’ (merkwürdige Sonderexistenz), tra ‘tempo’ ed ‘eternità’. Fra tutte queste lacerazioni, meglio rinunciare alla teologia? Come diceva Rahner, davvero l’intero nostro parlare di Dio non è che l’ultima parola prima del tacere? Non credo le cose stiano così. Barth concludeva che, in fondo, il tormento (Bedrängnis) del lavoro teologico è “solo il segno del tormento di tutti i compiti umani”. Appare chiaro che “rinunciare alla teologia ha tanto poco senso quanto togliersi la vita (…). Dunque, perseveriamo, niente di più. Dobbiamo sapere appunto queste due cose, la necessità e l’impossibilità del nostro compito”. Anche il giovane fonditore di campane Boriška era triste perché gli sembrava impossibile rinvenire l’argilla migliore per lo stampo della campana desiderata dal principe; tuttavia, come dice Barth, persevera, niente di più; alla fine, trova! Può accadere, continua il teologo protestante, perseverando,

“che la parola di Dio, che noi non diremo mai, abbia assunto la nostra debolezza e stortura, così che la nostra parola nella sua debolezza e stortura sia stata resa capace di essere almeno involucro e vaso di creta della parola di Dio” [17].

Una parte della mia riflessione voglio affidarla non ad un teologo, bensì ad uno scrittore che si convertì al cristianesimo avendo trovato l’argilla migliore per modellare la propria esistenza come una campana inneggiante a Dio: C. S. Lewis. Sull’importanza o, meglio, sulla necessità, di fare teologia, ecco come argomentò. Vedere l’Atlantico dalla spiaggia e, successivamente, su di una mappa, può valere, certo, come passaggio da qualcosa di reale ad altra meno reale. La mappa, d’accordo, non è l’Atlantico ma, a ben considerare, è pur sempre il prodotto della testimonianza di numerose persone che sono state sul posto; se, poi, si vuole andare da qualche parte, la mappa è necessaria:

“La teologia – conclude Lewis – è come la mappa” [18].

Le dottrine, d’accordo, non coincidono con Dio, ma fondano sull’ esperienza di tantissime persone che, rispetto a nostre sensazioni, emozioni, appare certo più solida. Se ho presentaio la figura di un giovane coraggioso fonditore di campane è per mostrare che tutti sono assetati di risposte non banali, che non si tratta del capriccio di un soggetto esaltato, ma di un anelito invincibile del cuore umano. La mappa ci dice dei percorsi di quanti hanno cercato – non senza sofferenze – l’argilla migliore per lo stampo della loro teologia affinché, in essa, come una campana, risuonasse la voce di Dio. Una teologia meramente soggettiva sarebbe soltanto (e non anche) emozionale…una ‘religione sentimentale’ attira in quanto divide il lavoro dalle emozioni. La teologia, per Lewis, si dà come “una necessità pratica”; ed aggiunge: “specialmente oggi” (p. 193). Perché? Se un tempo, risponde, l’istruzione era rara ed i dibattiti riservati a pochi specialisti, ormai tutti leggono e pretendono spazio nella discussione intorno a Dio. Il rischio è che si contrabbandino per coraggiosi - volenterosi cercatori della    migliore argilla personaggi che forgiano le loro campane facendo ne lo stampo col più scadente dei materiali. Ignorare la teologia, si dice, non rende orfani di idee riguardo a Dio; forse è così, ma di certo non ci si renderà conto che la

“gran parte delle idee su Dio che oggi si fanno passare per novità sono semplicemente idee che i veri teologi hanno esaminato, e respinto, secoli addietro” (Ibidem).

Non conoscere i percorsi teologici che hanno condotto ad una ‘certa’ purificazione della nostra fede, significa esporsi con più ingenuità alle idee inquinate di alcuni falsi profeti.Lewis definisce la teologia scienza sperimentale ‘in un certo senso’. Solo in parte, cioè, essa si può accostare ad altre scienze sperimentali. Ci viene proposto l’esempio dello geologo. Questi, può studiare le rocce soltanto se le va a cercare; esse, ovvio, non possono raggiungerlo, né fuggirlo. Soltanto il geologo può, deve prendere l’iniziativa. Uno zoologo, per fotografare animali selvatici nel loro habitat, deve andare a cercarli ma, a differenza delle rocce, gli animali possono fuggire e sottrarsi all’osservazione. L’iniziativa, cioè, non è più in mano soltanto al cercatore. Così, se vogliamo conoscere una persona, questa può sottrarsi alla nostra presenza; l’amicizia, infatti, può accendersi solo col consenso pieno di due soggetti! Chi vuol conoscere Dio, continua Lewis, deve sapere che è Lui il solo a poter prendere l’iniziativa. Si mostra a chi vuole e non per capriccio, bensì in risposta alla buona disposizione di mente e cuore del cercante:
“Così – conclude il nostro autore – come la luce del sole, pur non avendo predilezioni, non può riflettersi in uno specchio polveroso chiaramente come in uno limpido” (cit. p. 204).

Nella scienza gli strumenti utilizzati sono esterni a noi; vediamo Dio, invece, con uno strumento particolare: tutto il nostro essere. Se è opaco, la visione di Dio non potrà essere limpida. La teologia non è il frutto di una visione soggettiva di Dio, ma di una lunga, lenta, meditata, sofferta fede comunitaria. Chiude Lewis:

“il solo strumento veramente adeguato per apprendere qualcosa su Dio è l’intera comunità cristiana (…). Ecco perché tutti quei personaggi che di tanto in tanto se ne vengono fuori col brevetto di qualche loro religione semplificata da sostituire alla tradizione cristiana sono soltanto perditempo. Come un uomo che avendo per solo strumento un vecchio binocolo da campo voglia mettere in riga gli astronomi veri (…). Se il cristianesimo fosse una nostra invenzione, potremmo renderlo più facile (…). Chiunque è capace di essere semplice, se non ha una realtà di cui tener conto” (pp. 204 – 205).

Ci distingue dal fonditore di campane di Tarkovskij il fatto che la ricerca dell’argilla migliore per lo stampo della nostra teologia (affinché, come una campana faccia sentire ad ogni tocco la voce di Dio), è non avventura solitaria, bensì comunitaria. Fare teologia da soli, quasi sempre partorisce fantasmi; il cristianesimo non è facile, ma non lo si può semplificare perché – essere teologi o semplici credenti – significa sempre tenere conto di una realtà. Quale? In Cristo si mostra che Dio è esigente. Non solo sul piano dell’agire, ma anche su quello del pensare. Dunque, fare teologia non è attività senza conseguenze. Teologi e credenti si affratellano nella fede ricevuta e custodita integra dalla Chiesa, ed ammettono che parlare di Dio (da completare con il parlare a Dio e con il lasciarsi parlare da Dio) accomuna nell’umiltà di fronte ad una Parola che, direbbe Rebora, finisce con lo zittire chiacchiere nostre.

Lo studioso della teologia protestante André Gounelle, racconta due esperienze. Ecco la prima:
“Una delle mie uditrici, dopo una conferenza sulle ricerche della teologia contemporanea, mi disse: ‘Lei ha affrontato domande che mi pongono da più di vent’anni, ma che non ho mai osato esprimere, perché pensavo che un credente non dovrebbe essere preoccupato o turbato. Che sollievo sapere che dei pastori, dei preti, dei teologi ne parlano e vi riflettono. Non sono un mostro tra i cristiani’” [19].

Nella seconda, lo studioso fa comprendere che, in ogni caso, le domande teologiche sono complesse e che se ci accingessimo a chiarire, parola per parola, cosa meditamo, ci perderemmo; tuttavia, ci invita a riflettere anche sul fatto che non si possono affrontare alla leggera e velocemente questioni simili. Dobbiamo avere la pazienza di cercare l’argilla migliore per lo stampo della nostra teologia – campana affinché suoni al meglio ed offra all’ ascolto umano, quanto più pura possibile, la voce di Dio.
Ascoltiamo ancora Gounelle:

“Un giorno, sul treno, uno dei miei compagni di scompartimento, vedendo il libro che stavo leggendo, mi ha chiesto: ‘Allora, lei crede che Dio esista?’. Per essere onesto, avrei dovuto rispondere: ‘Sì e no allo stesso tempo; dipende da che cosa lei intende per Dio, dal senso che dà a esistere e da ciò che significa per lei credere’. Ho ritenuto questa risposta troppo complicata (…) e, poiché ci muovevamo ad alta velocità, ho detto: ‘Penso che egli è’. Il mio interlocutore mi avrebbe sorpreso e imbarazzato se avesse replicato: ‘Che cosa intende per pensare e per essere?’. Non lo ha fatto; la teologia ad alta velocità non va mai troppo lontano” (cit. p. 73).

Non ho affrontato – per ragioni di spazio e, lo ammetto, per imperizia – la questione se oggi la teologia è in crisi o ancora può dire molto. Ad ogni modo, cerco di lasciare una provocazione: una vera critica all’idea di Dio, al linguaggio religioso, al modus credendi cristiano non può darsi se non attraversando giudiziosa mente i sentieri stessi della teologia (o delle teologie) messe sotto esame! L’idea è stata espressa brillantemente da un filosofo polacco:
“Persino quando si scatena una conflagrazione che sembra far saltare in aria tutta la nostra eredità, l’esplosivo si trova già nel patrimonio ereditario” [20].

Nella stessa eredità teologica sono disseminate cariche esplosive e, quanto del patrimonio dogmatico - morale - esegetico abbiamo   ricevuto, è stato – a suo tempo – il consolidamento di battaglie tra teologi svoltesi durante Concili e dispute varie. Nulla è mai stato, nella teologia cattolica, frutto di comodo irenismo. La Verità – disse un poeta spagnolo del Novecento – è più alta della luna e, certo, molto al di sopra delle nostre intelligenze. Se fondere campane impone – fino a rimetterci la vita – di cercare l’argilla migliore, non diversamente stanno le cose riguardo alle fatiche teologiche; tuttavia, chi può dire di essere giunto alla fine dell’ opera? Dobbiamo cercare come se tutto dipendesse da noi, per parafrasare Ignazio di Loyola, e pensare di aver trovato come se tutto non potesse che venire da Dio.

“Uno zaddik (giusto) citato da Martin Buber disse che tutti i detti l’un l’altro contraddicentesi dei saggi ebrei sono veri nel cielo, perché nel cielo tutte le verità sono unite. Vedremo” [21].

Ecco il sano senso del limite: Vedremo! In questa vita, dunque, viaggiamo sulle fragili zattere dei nostri arrischiati logoi: la validità di essi ammette solo certificazione escatologica. Salendo faticosamente sull’albero delle nostre pericolanti imbarcazioni dogmatico-linguistiche pure possiamo, nel frattempo, raccogliere argilla per assicurarci il miglior stampo entro il quale fondere buona teologia, bei racconti in attesa dello svelamento pieno della Verità. Il teologo, consapevole dei suoi limiti è – per riprendere una bella immagine di un filosofo ebreo del Novecento – come un “naufrago alla deriva su un relitto” e che “si arrampica sulla cima dell’albero ormai fradicio. Ma di lassù” – ecco il germe di speranza da far crescere – “egli ha la possibilità di dare un segnale che lo può salvare” [22].Male sarebbe lasciare l’instabile imbarcazio ne per vegetare sulla terraferma di nozioni prive di vita o attaccarsi all’albero fradicio della zattera ritenendo inutile la fatica dell’arrampicarsi per mandare un segnale che dica la nostra volontà di essere salvati. Dobbiamo scegliere: darci coraggiosam ente al lavoro teologico facendovi entrare il soffio dello Spirito o cloroformizzare la nostra coscienza inquieta affidandoci ad idoli. Una scrittrice ebrea ha detto saggiamente:

“Sento che noi (…) tutti ci troviamo oggi a un bivio: seguire lo Spirito o tapparci gli occhi e le orecchie e inchinarci agli idoli. Poiché anche le religioni non idolatre ‘hanno’ idoli. Tutto ciò che si è pietrificato nel tempo, che è divenuto un simulacro vuoto di Spirito, o che sopravvive per imperativi estranei alla sincerità del nostro ‘essere’ oggi, tutto ciò, specie se si ammanta dell’oro finto di una religione stereotipata, noi dobbiamo distruggerlo, se vogliamo andare secondo le vie che l’Eterno ha tracciato per noi nel tempo” [23].

Il compito del teologo consiste, in buona sostanza, nel rigettare l’oro finto di una religione stereotipata e lanciarsi, costi quel che costi, come il giovane fonditore di campane, alla ricerca dell’ argilla migliore preparando uno ‘stampo impeccabile’ per il    proprio lavoro perché Dio merita che, per Lui, suonino le campa ne più squillanti.       



[1] Cfr., san giovanni della croce, ‘Salita del Monte Carmelo’, in id., Opere, Roma 1991, p. 312. Per indicare da subito un manuale che introduca alla comprensione di cosa significhi ‘fare teologia’, segnalo: z. alszeghym. flick, Come si fa la teologia. Introduzione allo studio della teologia dogmatica, Cinisello Balsamo (MI) 1990. Una particolare attenzione al termine ‘teologia’ si rinviene in c. vagaggini, “Teologia”, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di g. barbaglios. dianich, Roma 1982.
[2] Cfr., b. fortev. vitiello, Dialoghi sulla fede e la ricerca di Dio, Roma 2005, p. 19.
[3] rené latourelle, Teologia scienza della salvezza, Assisi 2005, pp. 25 – 26. Per stabilire se si possa definire ‘scientifica’ la teologia, cfr., m. d. chenu, La teologia è una scienza?, Catania 1958; Sul senso del ‘fare teologia’, poi, si può leggere g. colombo, Perché la teologia?, Brescia 1980.
[4] Cfr., paul – andré giguère, Che cosa significa fede adulta. Percorsi di ricerca per adulti, Leumann (TO) 2003, p. 102. Il teologo non deve tacere su questo intricato percorso perché, come aggiunge qualche pagina successiva il nostro autore, “questo (…) è (…) il punto fondamentale di un’autentica conversione cristiana: servire Dio invece di servirsi di Dio” (cit. p. 105).
[5] La teologia è storia ed ha una storia. Per ripercorrerla, cfr., e. vilanova, Storia della teologia cristiana, 3 voll., Roma 1991 – 1995. Per una panoramica dei cambiamenti intervenuti nella disciplina, cfr., j. moltmann, Che cos’è oggi la teologia?, Brescia 1991.
[6] Cit in g. de liguori, Il sentiero dei perplessi. Scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, Napoli 1995, pp. 50 – 51, nota 7.
[7] Sul respiro ecclesiale della teologia, vedi w. kasper, Teologia e Chiesa, Brescia 1989; per quanto riguarda gli orientamenti forniti al teologo ed ai suoi doveri, si consiglia questa lettura: congregazione per la dottrina della fede, Istruzione La vocazione ecclesiale del teologo, Città del Vaticano 1990.
[8] L’opera è stata brillantemente tradotta da Cesare Vico Lodovici in a. camus, Teatro, Milano 1960.
[9] Per sviluppare questo percorso può essere valido ausilio la lettura del libro di g. caviglia, Le ragioni della speranza cristiana (1Pt 3, 15), Leumann (TO) 1981.
[10] Cfr., e. jüngel, L’essere di Dio è nel divenire, Casale Monferrato 1986, p. 166.
[11] Cfr., p. tillich, Sistematic Theology, I, Chicago 1951, p. 211.
[12] In id., ‘L’uomo Mosé e la religione monotesistica’, Opere 11, Torino 2003, pp. 330 – 453.
[13] Cfr., b. sesboüé, Cristologia fondamentale, Casale Monferrato 1997, p. 9.
[14] Cfr., g. o’ collins, Cristologia. Uno studio biblico, storico e sistematico su Gesù Cristo, Brescia 1997, p. 57.
[15] In m. buber, I racconti dei Chassidim, Milano 1988, p. 277.
[16] g. bataille, Critica dell’occhio, Rimini 1972, p. 259.
[17] Citato in j. moltmann (ed.), Le origini della teologia dialettica, Brescia 1976, pp. 236 – 258. Perseverare nel cercare di scoprire se la Parola si introduce nel nostro debole dire può rivelare anche, in caso di conferma, la portata pratica della stessa per la vita del mondo. La teologia – sulla scorta dell’immancabile efficienza della Parola – deve assumere, direi, rilevanza pubblica. La cosiddetta Teologia politica, infatti, “vuole che la parola cristiana diventi una parola socialmente efficace. Essa cerca categorie che non servano solo alla illuminazione delle coscienze, ma anche alla loro trasformazione” (j. b. metz, Sulla teologia del mondo, Brescia 1969, p. 124).
[18] Cfr., id., Il cristianesimo così com’è, Milano 2003, pp. 191 – 192.
[19] Cfr., a. gounelle, Parlare di Dio, Torino 2006, p. 10.
[20] Cfr., l. kolakowski, Presenza del mito, Bologna 1992, p. 56.
[21] Cfr., l. kolakowski, Orrore metafisico, Bologna 1990, p. 105.
[22] Si tratta di un passo di una lettera indirizzata il 17 aprile del 1931 a Scholem da Walter Benjamin. Cfr., w. benjaming. scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933 – 1940, Torino 1987.
[23] Cfr., mirjam viterbi ben chorin, Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede, Bologna 2005, p. 82. 

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