Più
volte ho affrontato la questione cos’è
teologia? Ho messo del mio ed ho attinto da illustri studiosi per dare
risposte quanto più possibili adeguate. Il compito, però, non è stato portato a
termine. Qualche anno fa, nel 2006 precisamente, però, tra le mani ho avuto un
libro, pubblicato da Claudiana: Ricerca
di Dio e doman da di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo. Un
dialogo a due voci.La prima, è quella di Pinchas Lapide; l’altra, appartiene al
padre della logoterapia, Victor E.
Frankl. Lapide, a pagina 32, offre un segmento di riflessione dal quale si può
agevolmente comprendere cosa è e non è teologia:
“‘teologia’
è una parola assurda, se è intesa come scienza su Dio, perché non può esistere
una cosa simile. Ma se la teo – logia va intesa nell’originario significato
greco, come discorso su Dio (…), come una ricerca di senso in Dio, allora,
ovviamente, il termine è giustificato. Ma la teologia – ed è questa la hybris che speriamo Dio voglia
perdonarle – vuole a ogni costo diventare una scienza, cosa praticamente
impossibile. Al massimo, può diventarlo ricostruendo storicamente in che modo
gli esseri umani nel passato hanno vissuto Dio, lo hanno cercato, o come hanno
percepito un’ombra della divinità. Dio stesso non si può stipare a forza dentro
una facoltà universitaria”.
La
teologia può assumere una veste scientifica, dunque, soltanto se si dà come ricostruzione storica delle idee che gli
uomini hanno elaborato intorno a Dio, ma ciò non è scienza di Dio, bensì esame
scientifico delle cose dette su Dio. Teologia come discorso, invece, lascia spazio sia al dire che al contraddire.
La teologia è un discorso e non una scienza; cerca il senso, non semplicemente il significato;
ne va dell’essere dell’uomo, non dell’episteme. Per questo, nella mia breve
riflessione, prendo come figura portante quella di un personaggio
cinematografico: un giovane eroe! Va personalizzato il percorso, reso
narrativo. Il tema, in ogni caso, è: come
fare teologia? In questione, infatti, vi sono percorsi intellettuali ma strettamente
relazionati a percorrenze
esistenziali. Ecco cosa mi ha spinto a prendere il largo sulla piattaforma
argomentativa fornita da un film di Tarkovskij, Andrei Roublev.
Protagonista
è un giovane fonditore di campane, Boriška. Apprensivo ed a tratti sfiduciato,
va in cerca della migliore argilla per lo stampo della campana desiderata dal
principe. Aggrava la ricerca una pioggia che non dà respiro, mentre il giovane
si cala in un dirupo fangoso e, sul fondo dell’avvallamento, finalmente trova
quanto cercava. Le immagini ce lo mostrano quasi sepolto dalla terra
limacciosa; una sepoltura accettata per giungere alla rinascita di artista –
fonditore di campane. Il teologo, come il giovane Boriška, pur conscio della
immane difficoltà del suo compito, deve andare alla ricerca della migliore
attrezzatura linguistico – concettuale per esprimere la propria esperienza di
Dio; questa è la sua argilla per formare lo stampo di una teologia che piaccia
al Principe/Cristo. La pioggia di
contestazioni del mondo complesso, post – moderno, non dà tregua e ci si deve
calare nei dirupi fangosi della storia sempre più lontana dalle provocazioni
trascendenti. Si deve scendere nel fango della storia e trovare la migliore
argilla per forgiare una buona teologia. Seppellirsi nelle questioni più
infuocate ed insidiose del proprio tempo è la sola occasione per risorgere come
teologo capace di far risuonare la campana dell’annuncio evangelico per come è
gradito al Principe/Cristo. Il
teologo, come il giovane fonditore di campane di Tarkovskij, sa che la migliore argilla si trova sul fondo limaccioso del non ascolto del
mondo. In fondo, come ha ricordato qualcuno, è la stessa fede ad essere “un abito oscuro e nudo” [1]. C’è
un pensiero di H. U. von Balthasar, del quale mi ricordo ogni volta che mi si
chiede di raccontare cos’è passione per
la teologia. Cito a memoria: un
teologo può seriamente esistere – si noti l’avverbio – solo se ‘prima’ si è immerso nelle misteriose strutture
dell’essere creato. Non è detto che, talvolta, le ‘misteriose strutture’
non siano limacciose come l’avvallamento nel quale si cala, coraggiosamente, il
giovane fonditore di campane. In fondo, l’accademia entra relativamente nelle
fatiche teologiche poiché, per lo più, la teologia è – una dialettica di provocazione e risposta (Tracy) che coinvolge
tutte le dimensioni della persona. Non si può avvicinare l’uomo contemporaneo,
spaesato e desidero so di conoscere il senso,
se – come diceva W. James – nel fare teologia il verbalismo ha preso il posto della visione ed il professionismo
soppianta la vita. Dialogando con
Bruno Forte, il filosofo Vincenzo Vitiello ha sostenuto che Dio, innanzitutto, è passione! Stando così le cose, conclude,
“non lo si cerca senza patirlo (…). Chi cerca Dio per essere felice ha cambiato
Dio con un idolo. Dio si cerca per Dio, non per altro” [2]. Se
ogni credente autentico ha la passione di
Dio, il teologo in cosa si distingue? Credo la risposta l’abbia data,
esaurientemente, un autore francese:
“vi
è in ogni cristiano una riflessione inerente alla fede (…). La teologia
scientifica è il prolungamento della riflessione spontanea (…) è la fede
vissuta da una mente che pensa; essa è scientificamente elaborata (…) è la fede
che assume il discorso della ragione per comprendere meglio il suo oggetto” [3].
Che
l’apporto delle scienze umane, linguistica, filosofia, psicologia… non basti a
chiarire le ‘ragioni della speranza cristia na’ che ci abita è ovvio; infatti,
da più parti si sottolinea come la fede
cristiana sia in stretto rapporto col paradosso:
“La
condizione cristiana è paradossale. Si è invitati a divenire se stessi, ma al
prezzo di un cambiamento. Vi si accoglie la promessa di una vita ma a
condizione di attraversare la morte. Si è chiamati a darsi, ma possono farlo
soltanto quelli che imparano ad essere se stessi. Non si arriva alla maturità
nella fede senza passare attraverso qualcosa che assomiglia alla rottura, al
disorientamento, al decentramento da se stessi”[4] .
Siamo
tutti, credenti e teologi, tenuti a sviluppare una fede matura; a cercare, come il giovane fonditore di campane nel
film di Tarkovskij, l’argilla migliore,
il metodo, il linguaggio migliori, affinché la campana del Principe, l’annuncio del Regno in e di Gesù, Principe
della Storia, risuoni nelle coscienze addormentate, desolate, degli uomini del
nostro tempo. Mi è rimasta impressa una frase di Walter Kasper e, come quella
di Balthasar, la cito a memoria perché resta un punto fermo quando si cerca di
esprimere in un linguaggio vicino agli uomini del nostro tempo le verità essenziali della nostra fede:
“Anche
i concetti più centrali della teologia – dice il cardinale/teologo - , quali
grazia, salvezza, peccato, Dio, sono oggi diventati in larga misura termini che
non ci dicono più nulla e risentono della mancanza di una base di esperienza”.
Sì,
più che discorsiva, la teologia deve
presentarsi come una esperienza, pur
avvolta dal rigore di un pensiero ben strutturato. Per fare ciò, occorre
comprendere che, se il contenuto della
fede è immutabile, i modi per
comunicarlo sono storici e, dunque,
soggetti a revisioni. La fede precede il pensiero teologico che la storicizza
nel pieno rispetto, senza nulla snaturare di essa, delle capacità di ricezione dell’uomo al quale si rivolge [5].
Credo opportuno riportare, a tal proposito, l’esperienza del filosofo Enrico
Morselli che parla dell’approccio al messaggio cristiano negli anni della sua
giovinezza:
“In
collegio, i veri sentimenti religiosi erano trascurati: si (…) adempivano gli
obblighi rituali del Cattolicesimo, ma senza fervore (…). Disprezzavo la
gerarchia chiesastica (…) per la sua ignoranza spesso accompagnata da
corruzione (…). Entravo perciò nelle chiese scegliendo l’ora della solitudine e
della penombra, e là mi immergevo in meditazioni dolcissime, in veri rapimenti”
[6].
Va
detto, onestamente, che agli errori della gerarchia
chiesastica, allo scarso valore della testimonianza
dei compagni di collegio, Morselli somma un suo errore: si rifugia in una
fruizione individualistica, intimista, del cristianesimo! Le chiese sono belle
e confortevoli nell’ora della solitudine
e della penombra, ma le meditazioni
rigeneranti dal punto di vista psicologico, nulla apportano ad una fede vissuta
come impegno, dono di sé, apertura alle questioni spinose del mondo. Non si
risponde con un errore a degli errori. Chi vuole seriamente (come sopra dicevamo citando von Balthasar) occuparsi di
questioni teologiche, non può rifugiarsi nella penombra delle chiese! La
teologia ha sempre valenza ecclesiale e ciò viene ricordato ai teologi [7].
Accostarsi, da credenti o da teologi, alle provocazioni evangeliche esige
sempre, per riprendere l’autorevole insegnamento del Vaticano II, la
“testimonianza di una fede viva e matura (…) opportunamente educata alla
capacità di guardare in faccia e con lucidità le difficoltà per superarle” (Gaudium et spes, 21, 5).
Il
teologo – che si accontentasse di essere il frequentatore di chiese in penombra
per un momentaneo meditare – non potrebbe annunciare la speranza della propria
fede e, laddove il rifiuto del cristianesimo si fa granitico, non può
smobilitare facendo proprie le parole di un personaggio di un lavoro teatrale
di Albert Camus, ‘Lo stato d’assedio’ [8]:
“Addio,
brava gente, capirete un giorno che non si può vivere bene sapendo che l’uomo è
nulla e che il volto di Dio è tremendo”.
Se
lo status della teologia, volendo piegare
al nostro uso il titolo dell’opera di Camus, è di essere assediata, la risposta sia decisa e forte. Non serve insistere tautologicamente nell’annuncio di dogmi
e concetti sempiterni, né esiliarsi in dolci penombre di chiese nelle quali il
conflitto è azzerato, ma giova cercare – coraggiosamente – come il giovane
Boriška nel film di Tarkovskij, la migliore
argilla – fino a farsi seppellire dal fango – per far risuonare la campana – teologia dando ragioni e non imponendo motivazioni della speranza cristiana [9]. Non
intendo sminuire l’incremento spirituale del soggetto religio so, né disconoscere
il valore della contemplazione, ma credo che, innanzitutto, fare teologia sia
un’attività e, dunque, qualcosa che incide profondamente nel concreto vivere!
La lezione, poi, non è nuova e poggia, anzi, su pilastri tradizionali assai
solidi. San Bonaventura, nel prooemium al Commentario delle Sentenze, scriveva:
Utrum teologia sit contemplationis gratia
an ut boni fiamus? (I Sent q. 3). Cioè: Si fa teologia per desiderio di contemplare o per santificarci? Il
massimo sarebbe far convive re i due momenti. Continuava Bonaventura:
“sapere
che il Cristo è morto per noi, e altre verità simili, non può non suscitare
l’amore”.
Sì,
meditare, cercare le ragioni della speranza cristiana in noi, significa suscitare l’amore. Illustrando la ‘morte
di Cristo’ il teologo deve far cogliere il sì
di Dio all’uomo ed alla storia che andavano nel senso contrario e, nella
Risurrezione, mostrare come il sì di Dio si contrappone al nulla, alla nientificazione di uomo e mondo
progettata dal Male! Ha scritto un
teologo contemporaneo:
“Nella
morte di Gesù il ‘sì’ di Dio che costituisce ogni essere si è esposto al ‘no’
del nulla. Nella risurrezione di Gesù Cristo questo ‘sì’ si è esposto al ‘no’
del nulla. Ed è qui che si è deciso, secondo la grazia, perché in generale vi
sia l’ente e non invece il nulla. Infatti: ‘Se Egli non fosse risorto, il mondo
sarebbe tramontato’ (inno ecclesiastico)” [10].
Heidegger
– di cui Jüngel ascoltò le lezioni - aveva riproposto l’interrogativo della
metafisica: perché è in generale l’ente e
non piuttosto il nulla? A volere l’ente, che il mondo e l’uomo continuino
ad esistere – ecco la differenza del teologo rispetto al filosofo – è il sì definitivo di Dio detto in Cristo morto e risuscitato! Ad una domanda filosofica, piena di stupore di
fronte all’ente che vince sul nulla, la risposta è teologica. Se è vero, come dice un teologo tedesco del Novecento,
che essere finiti significa essere minacciati, resta che Dio “è la
risposta alla domanda implicita nella finitezza dell’uomo; egli è il nome di
ciò che interessa ultimamente l’uomo” [11].
Tale interesse, però, non è pacificamente riconosciuto; occorre che si mostri
all’uomo che è evidente cercare in
Dio la risposta al non senso del nostro essere finiti, minacciati dal nulla.
Jüngel ha ragione, per noi che crediamo: è il sì di Dio nella morte e risurrezione di Cristo detto definitivamente al
no del nulla a mantenere l’ente! Ma per chi non crede? Il filosofo Popper,
dialogando con l’etologo Lorenz, diceva di avere questa convinzione: la vita
cerca un mondo migliore e, dunque, è scettica
(nel senso del verbo greco cercare).
Il termine scettico, allora, viene
dal verbo cercare; a questo punto,
anche il teologo che cerca l’argilla
migliore per lo stampo della sua
teologia è uno che cerca, uno…scettico. Lo deve essere, ma verso tutto
quanto pretende di proporsi (o imporsi) come quel mondo migliore che tutti,
come rilevava Popper, cerchiamo! Scettici sui modi, sui linguaggi, le metafore,
non sui contenuti! In fondo, anche gli avversari più accesi (scettici?) del lavoro teologico, dei
dogmi, ammettono, in rari momenti, che non tutto, dalle nostre parti, va deriso
o diminuito dell’intrinseco valore. Voglio fare una citazione e, dopo, ve ne fornirò
la paternità:
“quanto
sembrano invidiabili, a noi uomini di poca fede, quei ricercatori che sono
convinti dell’esistenza di un essere supremo! (…). Quanto comprensive,
esaurienti e definitive sono le dottrine del credente in confronto ai faticosi,
miseri e parziali tentativi di spiegazione che sono il massimo che noi
riusciremo a mettere insieme”.
Ebbene,
l’autore è colui che giudicava frutto di nevrosi, di immaturità la religione e
ne pronosticava la fine parlandone come della morte di una illusione: Sigmund
Freud! [12]. L’argilla migliore è quella del credente, del teologo, ma non è detto
che si ottenga a buon prezzo; anzi, proprio come nel caso del personag gio di
Tarkovskij, è solo rischiando la sepoltura sotto il fango dell’incomprensione
umana che la si trova! Percorso doloroso per arrivare alla pregiata materia, ma
altrettanta fatica costa il raccontarlo; fare storia della teologia non è
asettico riferire dati e date, ma sentire nella propria carne il pungolo delle
questioni decisive. Insomma, il teologo è uno che professa una scienza patica perché deve narrare la
propria e l’altrui scelta di fede tappa per tappa, sofferenza per sofferenza.
Non si può
“proporre
la fede cristiana senza proporre parallelamente l’accesso a questa fede (…),
senza dire al tempo stesso tramite quale procedimento e percorso i cristiani
sono pervenuti a questa confessione (…), come è apparsa quale atto umano giustificabile
agli occhi della ragione e della storia” [13].
Lo
stesso autore sottolinea a chiare lettere che il percorso di fede non fu, non è
e non sarà mai questione da poco, in senso temporale e morale:
“I
discepoli – scrive infatti Sesboüé – non hanno creduto in Cristo nell’arco di
una giornata (…). I vangeli ci aprono una finestra sulla genesi della fede dei
primi testimoni dell’evento di Gesù” (p. 17).
I
contributi dell’ermeneutica, dell’esegesi e, più in generale, della riflessione teologica sono stati importanti
ed immancabili fin dagli albori del cristianesimo.Uno studioso ha notato:
“Storicamente
non è mai esistito un Gesù non interpretato (…). Fin dai primissimi incontri
con Gesù avvenuti decenni prima della stesura dei vangeli sinottici, i primi
discepoli e poi quelli successivi dovettero necessariamente interpretare la
persona e la loro esperienza di essa” [14].
I
discepoli, ricordava Sesboüé, non sono arrivati facilmente a credere in Cristo perché, come ora
aggiunge O’Collins, a loro non solo occorreva interpretare la
Persona /Cristo, ma anche la personalissima esperienza del Salvatore. Toccò,
l’incombenza ermeneutica, ai “primi discepoli” e poi a “quelli successivi”. La Chiesa , coi Suoi teologi,
Concili, continua a chiedersi, sollecitata dalla domanda dello stesso Gesù, chi mai Lui fosse! Freud non ha del tutto ragione a
ritenere che le dottrine del credente
siano invidiabili. Come per ottenere la
migliore argilla al giovane eroe di
Tarkovskij, così a noi, per trovare argomenti a sostegno della pretesa
cristiana, è richiesto un grande sacrificio. L’Antico Testamento presenta le
figure di Esdra e Neemia che devono organizzare la vita, non solo cultuale, del
popolo ebreo dopo l’esilio. Esdra, sacerdote e scriba, aveva capito che – come
è obbligatorio per il teologo odierno – occorreva partire dalla Parola. Di lui, dice la Scrittura :
“aveva
applicato il cuore a studiare (daras) la Legge (Torah) del Signore, e a praticarla
(‘aśah) e ad insegnare (limmad) in
Israele la Legge
e gli statuti” (Esd 7, 10).
Come
potete agevolmente comprendere, studiare
– praticare – insegnare la Parola non è un
compito da poco! Il teologo, come Esdra, deve organizzare la vita del popolo
cristiano intorno a certezze di fede che si possono insegnare solo se, prima,
studiate, praticate (vissute). Chi si dedica, come Esdra, con tutto il cuore all’impresa, sa che, in questo sforzo, salire di
un gradino può condurre a retrocedere di due! I sapienti ebrei erano ben
avvisati riguardo a ciò e, come testimonia la tradizione chassidica, non si
taceva ipocritamente sulle difficoltà del fare teologia:
“Fu
chiesto a Rabbi Levi Isacco: ‘Perché in tutti i trattati del Talmud babilonese,
manca la prima pagina e ognuno comincia con la seconda?’. Egli rispose: ‘Per
quanto un uomo abbia studiato, deve sempre ricordarsi che non è ancora arrivato
alla prima pagina” [15].
Il
teologo è un ricevente creativo:
accoglie una Rivelazione, ma la deve rendere credibile a chi non la conosce e,
mi permetto, anche all’ateo che sonnecchia in lui ed in ogni credente! È,
inoltre, il meta – testimone: non può
essere testimone oculare, ma appassio nato testimone
di altrui testimonianze. Con lo studio, con l’accertamento dell’attendibilità
storica dei testi che lo precedono, mostra che narra qualcosa di fondato e Qualcuno sul Quale si può fiduciosamente
fondare la propria esistenza. Le provocazioni
teologiche invitano a riflettere: è solo per intima consistenza che le cose
sono, piuttosto che precipitare nel nulla? E, come aveva risposto Jüngel, il
teologo deve mostrare che le cose sussistono grazie al sì di Dio. L’uomo è stanco di credere che siano un suo esclusivo
progetto vita e storia. Ha scritto un autore del Novecento:
“La
vita umana è stremata di servire da testa e da ragione dell’universo” [16].
Non
ce la si fa più a concentrarsi interamente su se stessi; occorre de – centrarsi in Cristo per meglio
centrarsi, ma ora senza ossessione, su se stessi. Bisogna essere–nel–Cristo, come insegna l’apostolo Paolo (cfr., 1Cor 1,30). L’espressione sottolineata
ricor re, nell’epistolario paolino, più di 164 volte! Tale concentrazione cristologica, però,non avviene evitando la Croce , ma consegnando ad
essa ogni nostro tormento, anche accademico, perché non la si addolcisce
tentando di cogliere su di essa la rosa
hegeliana della speculazione che dice di un felice e certo superamento (Aufhebung) del negativo. Il teologo
sempre, piuttosto, è – ricordava Karl Barth – sottoposto ad un particolare Bedrängnis; termine tedesco che possiamo
rendere in italiano con tormento.
Qual è, dunque, per il Nostro, il tormento
particolare del teologo? ‘Parlare di Dio’, ma solo ricorrendo a ‘parole umane’. Si tratta –
aggiungeva – di avere coscienza, allo stesso tempo, delle due condizioni: il
‘nostro dovere’ (Sollen) di parlare ed
il ‘nostro non – potere’ (Nicht – können)
farlo; si rende, proprio per questo, onore a Dio. Il teologo, dunque, per il
Nostro, è situato in una ‘singolare esistenza – speciale’ (merkwürdige Sonderexistenz), tra ‘tempo’ ed ‘eternità’. Fra tutte
queste lacerazioni, meglio rinunciare alla teologia? Come diceva Rahner,
davvero l’intero nostro parlare di Dio
non è che l’ultima parola prima del tacere? Non credo le cose stiano così.
Barth concludeva che, in fondo, il tormento
(Bedrängnis) del lavoro teologico è
“solo il segno del tormento di tutti i compiti umani”. Appare chiaro che
“rinunciare alla teologia ha tanto poco senso quanto togliersi la vita (…).
Dunque, perseveriamo, niente di più. Dobbiamo sapere appunto queste due cose, la necessità e l’impossibilità del
nostro compito”. Anche il giovane fonditore di campane Boriška era triste
perché gli sembrava impossibile rinvenire l’argilla migliore per lo stampo
della campana desiderata dal principe; tuttavia, come dice Barth, persevera, niente di più; alla fine, trova! Può accadere, continua il teologo
protestante, perseverando,
“che
la parola di Dio, che noi non diremo mai, abbia assunto la nostra debolezza e
stortura, così che la nostra parola nella sua debolezza e stortura sia stata
resa capace di essere almeno involucro e vaso di creta della parola di Dio” [17].
Una
parte della mia riflessione voglio affidarla non ad un teologo, bensì ad uno
scrittore che si convertì al cristianesimo avendo trovato l’argilla migliore per modellare la
propria esistenza come una campana
inneggiante a Dio: C. S. Lewis. Sull’importanza o, meglio, sulla necessità, di fare teologia, ecco come argomentò. Vedere l’Atlantico dalla
spiaggia e, successivamente, su di una mappa, può valere, certo, come passaggio
da qualcosa di reale ad altra meno reale. La mappa, d’accordo, non è l’Atlantico
ma, a ben considerare, è pur sempre il prodotto della testimonianza di numerose
persone che sono state sul posto; se, poi, si vuole andare da qualche parte, la
mappa è necessaria:
“La
teologia – conclude Lewis – è come la mappa” [18].
Le
dottrine, d’accordo, non coincidono con Dio, ma fondano sull’ esperienza di tantissime persone che, rispetto
a nostre sensazioni, emozioni, appare certo più solida. Se ho presentaio la
figura di un giovane coraggioso fonditore di campane è per mostrare che tutti
sono assetati di risposte non banali, che non si tratta del capriccio di un
soggetto esaltato, ma di un anelito invincibile del cuore umano. La mappa ci
dice dei percorsi di quanti hanno cercato – non senza sofferenze – l’argilla migliore per lo stampo della loro teologia affinché, in
essa, come una campana, risuonasse la voce
di Dio. Una teologia meramente soggettiva sarebbe soltanto (e non anche) emozionale…una ‘religione sentimentale’
attira in quanto divide il lavoro dalle
emozioni. La teologia, per Lewis, si
dà come “una necessità pratica”; ed aggiunge: “specialmente oggi” (p. 193). Perché? Se un tempo, risponde,
l’istruzione era rara ed i dibattiti riservati a pochi specialisti, ormai tutti
leggono e pretendono spazio nella discussione intorno a Dio. Il rischio è che si
contrabbandino per coraggiosi -
volenterosi cercatori della migliore
argilla personaggi che forgiano le loro campane facendo ne lo stampo col
più scadente dei materiali. Ignorare la teologia, si dice, non rende orfani di
idee riguardo a Dio; forse è così, ma di certo non ci si renderà conto che la
“gran
parte delle idee su Dio che oggi si fanno passare per novità sono semplicemente
idee che i veri teologi hanno esaminato, e respinto, secoli addietro” (Ibidem).
Non
conoscere i percorsi teologici che hanno condotto ad una ‘certa’ purificazione
della nostra fede, significa esporsi con più ingenuità alle idee inquinate di
alcuni falsi profeti.Lewis definisce la teologia scienza sperimentale ‘in un certo senso’. Solo in parte, cioè, essa si può accostare ad altre scienze
sperimentali. Ci viene proposto l’esempio dello geologo. Questi, può studiare le rocce soltanto se le va a cercare;
esse, ovvio, non possono raggiungerlo, né fuggirlo. Soltanto il geologo può, deve
prendere l’iniziativa. Uno zoologo,
per fotografare animali selvatici nel loro habitat, deve andare a cercarli ma,
a differenza delle rocce, gli animali possono fuggire e sottrarsi
all’osservazione. L’iniziativa, cioè, non è più in mano soltanto al cercatore.
Così, se vogliamo conoscere una persona, questa può sottrarsi alla nostra
presenza; l’amicizia, infatti, può accendersi solo col consenso pieno di due
soggetti! Chi vuol conoscere Dio,
continua Lewis, deve sapere che è Lui il solo a poter prendere l’iniziativa. Si
mostra a chi vuole e non per capriccio, bensì in risposta alla buona
disposizione di mente e cuore del cercante:
“Così
– conclude il nostro autore – come la luce del sole, pur non avendo
predilezioni, non può riflettersi in uno specchio polveroso chiaramente come in
uno limpido” (cit. p. 204).
Nella
scienza gli strumenti utilizzati sono
esterni a noi; vediamo Dio, invece,
con uno strumento particolare: tutto il
nostro essere. Se è opaco, la visione
di Dio non potrà essere limpida. La teologia non è il frutto di una visione soggettiva di Dio, ma di una lunga,
lenta, meditata, sofferta fede
comunitaria. Chiude Lewis:
“il
solo strumento veramente adeguato per apprendere qualcosa su Dio è l’intera
comunità cristiana (…). Ecco perché tutti quei personaggi che di tanto in tanto
se ne vengono fuori col brevetto di qualche loro religione semplificata da
sostituire alla tradizione cristiana sono soltanto perditempo. Come un uomo che
avendo per solo strumento un vecchio binocolo da campo voglia mettere in riga gli
astronomi veri (…). Se il cristianesimo fosse una nostra invenzione, potremmo
renderlo più facile (…). Chiunque è capace di essere semplice, se non ha
una realtà di cui tener conto” (pp. 204 – 205).
Ci
distingue dal fonditore di campane di Tarkovskij il fatto che la ricerca dell’argilla migliore per lo stampo
della nostra teologia (affinché, come una campana faccia sentire ad ogni tocco
la voce di Dio), è non avventura solitaria, bensì comunitaria. Fare teologia da soli,
quasi sempre partorisce fantasmi; il
cristianesimo non è facile, ma non lo
si può semplificare perché – essere teologi o semplici credenti – significa
sempre tenere conto di una realtà.
Quale? In Cristo si mostra che Dio è esigente. Non solo sul piano dell’agire, ma anche su quello del pensare. Dunque, fare teologia non è attività senza conseguenze. Teologi e credenti si
affratellano nella fede ricevuta e
custodita integra dalla Chiesa, ed ammettono che parlare di Dio (da completare con il parlare a Dio e con il lasciarsi
parlare da Dio) accomuna nell’umiltà di fronte ad una Parola che, direbbe Rebora, finisce con lo zittire chiacchiere nostre.
Lo
studioso della teologia protestante André Gounelle, racconta due esperienze.
Ecco la prima:
“Una
delle mie uditrici, dopo una conferenza sulle ricerche della teologia
contemporanea, mi disse: ‘Lei ha affrontato domande che mi pongono da più di
vent’anni, ma che non ho mai osato esprimere, perché pensavo che un credente
non dovrebbe essere preoccupato o turbato. Che sollievo sapere che dei pastori,
dei preti, dei teologi ne parlano e vi riflettono. Non sono un mostro tra i
cristiani’” [19].
Nella
seconda, lo studioso fa comprendere che, in ogni caso, le domande teologiche sono complesse
e che se ci accingessimo a chiarire, parola per parola, cosa meditamo, ci perderemmo; tuttavia, ci
invita a riflettere anche sul fatto che non si possono affrontare alla leggera
e velocemente questioni simili. Dobbiamo avere la pazienza di cercare l’argilla migliore per lo stampo della nostra teologia
– campana affinché suoni al meglio ed offra all’ ascolto umano, quanto più pura possibile, la voce di Dio.
Ascoltiamo
ancora Gounelle:
“Un
giorno, sul treno, uno dei miei compagni di scompartimento, vedendo il libro
che stavo leggendo, mi ha chiesto: ‘Allora, lei crede che Dio esista?’. Per
essere onesto, avrei dovuto rispondere: ‘Sì e no allo stesso tempo; dipende da
che cosa lei intende per Dio, dal
senso che dà a esistere e da ciò che
significa per lei credere’. Ho
ritenuto questa risposta troppo complicata (…) e, poiché ci muovevamo ad alta
velocità, ho detto: ‘Penso che egli è’. Il mio interlocutore mi avrebbe
sorpreso e imbarazzato se avesse replicato: ‘Che cosa intende per pensare e per essere?’. Non lo ha fatto; la teologia ad alta velocità non va mai
troppo lontano” (cit. p. 73).
Non
ho affrontato – per ragioni di spazio e, lo ammetto, per imperizia – la
questione se oggi la teologia è in crisi o ancora può dire molto. Ad ogni modo,
cerco di lasciare una provocazione: una vera critica all’idea di Dio, al
linguaggio religioso, al modus credendi cristiano
non può darsi se non attraversando giudiziosa mente i sentieri stessi della
teologia (o delle teologie) messe sotto esame! L’idea è stata espressa
brillantemente da un filosofo polacco:
“Persino
quando si scatena una conflagrazione che sembra far saltare in aria tutta la
nostra eredità, l’esplosivo si trova già nel patrimonio ereditario” [20].
Nella
stessa eredità teologica sono
disseminate cariche esplosive e, quanto del patrimonio dogmatico - morale - esegetico abbiamo ricevuto, è stato – a suo tempo – il
consolidamento di battaglie tra teologi svoltesi durante Concili e dispute
varie. Nulla è mai stato, nella teologia cattolica, frutto di comodo irenismo. La Verità
– disse un poeta spagnolo del Novecento – è
più alta della luna e, certo, molto al di sopra delle nostre intelligenze. Se
fondere campane impone – fino a rimetterci la vita – di cercare l’argilla
migliore, non diversamente stanno le cose riguardo alle fatiche teologiche;
tuttavia, chi può dire di essere giunto alla fine dell’ opera? Dobbiamo cercare come se tutto dipendesse da noi,
per parafrasare Ignazio di Loyola, e pensare
di aver trovato come se tutto non
potesse che venire da Dio.
“Uno
zaddik (giusto) citato da Martin Buber disse che tutti i detti l’un l’altro
contraddicentesi dei saggi ebrei sono veri nel cielo, perché nel cielo tutte le
verità sono unite. Vedremo” [21].
Ecco
il sano senso del limite: Vedremo! In questa vita, dunque, viaggiamo
sulle fragili zattere dei nostri arrischiati logoi: la validità di
essi ammette solo certificazione escatologica.
Salendo faticosamente sull’albero delle nostre pericolanti imbarcazioni dogmatico-linguistiche pure possiamo,
nel frattempo, raccogliere argilla per assicurarci il miglior stampo entro il
quale fondere buona teologia, bei racconti
in attesa dello svelamento pieno della Verità. Il teologo, consapevole dei suoi
limiti è – per riprendere una bella immagine di un filosofo ebreo del Novecento
– come un “naufrago alla deriva su un relitto” e che “si arrampica sulla cima
dell’albero ormai fradicio. Ma di lassù” – ecco il germe di speranza da far crescere – “egli ha la possibilità di dare
un segnale che lo può salvare” [22].Male
sarebbe lasciare l’instabile imbarcazio ne per vegetare sulla terraferma di
nozioni prive di vita o attaccarsi all’albero fradicio della zattera ritenendo
inutile la fatica dell’arrampicarsi
per mandare un segnale che dica la
nostra volontà di essere salvati. Dobbiamo scegliere:
darci coraggiosam ente al lavoro teologico facendovi entrare il soffio dello
Spirito o cloroformizzare la nostra coscienza
inquieta affidandoci ad idoli.
Una scrittrice ebrea ha detto saggiamente:
“Sento
che noi (…) tutti ci troviamo oggi a un bivio: seguire lo Spirito o tapparci
gli occhi e le orecchie e inchinarci agli idoli. Poiché anche le religioni non
idolatre ‘hanno’ idoli. Tutto ciò che si è pietrificato nel tempo, che è
divenuto un simulacro vuoto di Spirito, o che sopravvive per imperativi
estranei alla sincerità del nostro ‘essere’ oggi, tutto ciò, specie se si
ammanta dell’oro finto di una religione stereotipata, noi dobbiamo
distruggerlo, se vogliamo andare secondo le vie che l’Eterno ha tracciato per noi
nel tempo” [23].
Il
compito del teologo consiste, in buona sostanza, nel rigettare l’oro finto di una religione stereotipata e lanciarsi,
costi quel che costi, come il giovane fonditore di campane, alla ricerca dell’ argilla migliore preparando
uno ‘stampo impeccabile’ per il proprio
lavoro perché Dio merita che, per Lui, suonino le campa ne più squillanti.
[1] Cfr., san
giovanni della croce, ‘Salita del Monte Carmelo’, in id., Opere,
Roma 1991, p. 312. Per indicare da subito un manuale che introduca alla
comprensione di cosa significhi ‘fare teologia’, segnalo: z. alszeghy – m. flick, Come si fa
la teologia. Introduzione allo studio della teologia dogmatica, Cinisello
Balsamo (MI) 1990. Una particolare attenzione al termine ‘teologia’ si rinviene
in c. vagaggini, “Teologia”, in Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di g. barbaglio
– s. dianich, Roma 1982.
[2] Cfr., b. forte
– v. vitiello, Dialoghi sulla fede e la ricerca di Dio,
Roma 2005, p. 19.
[3] rené latourelle,
Teologia scienza della salvezza,
Assisi 2005, pp. 25 – 26. Per stabilire se si possa definire ‘scientifica’ la
teologia, cfr., m. d. chenu, La teologia è una scienza?, Catania
1958; Sul senso del ‘fare teologia’, poi, si può leggere g. colombo, Perché la teologia?, Brescia 1980.
[4] Cfr., paul –
andré giguère, Che cosa significa
fede adulta. Percorsi di ricerca per adulti, Leumann (TO) 2003, p. 102. Il
teologo non deve tacere su questo intricato percorso perché, come aggiunge
qualche pagina successiva il nostro autore, “questo (…) è (…) il punto
fondamentale di un’autentica conversione cristiana: servire Dio invece di
servirsi di Dio” (cit. p. 105).
[5] La teologia è storia
ed ha una storia. Per ripercorrerla,
cfr., e. vilanova, Storia della teologia cristiana, 3
voll., Roma 1991 – 1995. Per una panoramica dei cambiamenti intervenuti nella
disciplina, cfr., j. moltmann, Che cos’è oggi la teologia?, Brescia
1991.
[6] Cit in g. de
liguori, Il sentiero dei
perplessi. Scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da
Nietzsche a Pirandello, Napoli 1995, pp. 50 – 51, nota 7.
[7] Sul respiro ecclesiale della teologia, vedi w. kasper, Teologia e Chiesa, Brescia 1989; per quanto riguarda gli
orientamenti forniti al teologo ed ai suoi doveri, si consiglia questa lettura:
congregazione per la dottrina della fede,
Istruzione La vocazione ecclesiale del
teologo, Città del Vaticano 1990.
[8] L’opera è stata brillantemente tradotta da Cesare Vico
Lodovici in a. camus, Teatro, Milano 1960.
[9] Per sviluppare questo percorso può essere valido
ausilio la lettura del libro di g.
caviglia, Le ragioni della
speranza cristiana (1Pt 3, 15), Leumann (TO) 1981.
[10] Cfr., e. jüngel,
L’essere di Dio è nel divenire,
Casale Monferrato 1986, p. 166.
[11] Cfr., p. tillich, Sistematic Theology, I, Chicago 1951, p. 211.
[12] In id.,
‘L’uomo Mosé e la religione monotesistica’, Opere
11, Torino 2003, pp. 330 – 453.
[13] Cfr., b. sesboüé,
Cristologia fondamentale, Casale
Monferrato 1997, p. 9.
[14] Cfr., g. o’
collins, Cristologia. Uno studio
biblico, storico e sistematico su
Gesù Cristo, Brescia 1997, p. 57.
[15] In m. buber,
I racconti dei Chassidim, Milano
1988, p. 277.
[16] g. bataille,
Critica dell’occhio, Rimini 1972, p.
259.
[17] Citato in j.
moltmann (ed.), Le origini della
teologia dialettica, Brescia 1976, pp. 236 – 258. Perseverare nel cercare
di scoprire se la Parola si introduce
nel nostro debole dire può rivelare anche, in caso di conferma, la portata pratica della stessa per la vita del mondo. La teologia
– sulla scorta dell’immancabile efficienza
della Parola – deve assumere, direi, rilevanza
pubblica. La cosiddetta Teologia
politica, infatti, “vuole che la parola cristiana diventi una parola socialmente efficace. Essa cerca
categorie che non servano solo alla illuminazione delle coscienze, ma anche
alla loro trasformazione” (j. b. metz,
Sulla teologia del mondo, Brescia
1969, p. 124).
[18] Cfr., id.,
Il cristianesimo così com’è, Milano
2003, pp. 191 – 192.
[19] Cfr., a.
gounelle, Parlare di Dio,
Torino 2006, p. 10.
[20] Cfr., l.
kolakowski, Presenza del mito,
Bologna 1992, p. 56.
[21] Cfr., l. kolakowski,
Orrore metafisico, Bologna 1990, p.
105.
[22] Si tratta di un passo di una lettera indirizzata il 17
aprile del 1931 a Scholem da Walter Benjamin. Cfr., w. benjamin – g.
scholem, Teologia e utopia.
Carteggio 1933 – 1940, Torino 1987.
[23] Cfr., mirjam
viterbi ben chorin, Verso l’Uno.
Una lettura ebraica della fede, Bologna 2005, p. 82.
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