Il Novecento teologico ha visto, dal
versante protestante, prevalere due anime: quella liberale e
quella dialettica. Adolf von Harnack,
liberale, polemizzò con Barth, dialettico, su una delicata questione:è
possibile una teologia scientifica? Barth non ne era convinto; secondo lui,
piuttosto, essere teologi era lo
stesso che fare i predicatori! Harnack, invece, sosteneva che soltanto
immergendosi nella storia comprendiamo che il regno di Dio è tra noi. Per i
dialettici, invece, la fede “non fiorisce all’interno di una cultura (…)non
deriva neppure dalla ragione (…)il passaggio dal tempo all’eternità (…)avviene
esclusivamente per iniziativa divina” – spiega Giorgio Straniero. Le posizioni
non furono così nette e, spesso, un liberale ragionava – per certi aspetti – da
dialettico ed un dialettico inclinava, a tratti, a posizioni liberali! Qui non
possiamo ripercorrere questa storia, ma solo evidenziare che una aporia
terribile squarciò il cuore del novecento teologico[i]: Dio
o mondo? O Dio e mondo? Di fronte a
questo, Gogarten si chiese se, nel Novecento, vi fossero uomini capaci di pensare
realmente Dio! Viviamo – sentenziò – fra
i tempi. Si chiedeva: la religione
minaccia la cultura o la cultura inficia il valore della religione? Radicati
totalmente nell’umano, ad ogni buon conto, abbiamo perso Dio. Eppure, fermarsi
alle realtà terrestri era un punto di
arrivo smettendola, così, di giocare a rimpiattino: divino o umano? Ormai,
concludeva, siamo davanti a Dio e non
più di fronte alla nostra saggezza. La
decisione seria è lasciare che la luce di Dio torni a brillare pura sul mondo e
che le nostre parole non siano più d’intralcio! Viene svalutato, però,
l’operato umano. L’aporia Dio o mondo, dunque, rimane! Un teologo canadese, Tillard, si è chiesto: siamo
gli ultimi cristiani? Siamo, risponde,
“gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo”. Abbiamo problematiche diverse
da quelle accesesi tra teologi liberali e dialettici? Nel mondo plurale,
multirazziale appare scandaloso che a valere assolutamente sia una sola fede
che, pretendendosi unica, si
definisce universale:”Che una cultura
particolare abbia quasi esclusivamente raccolto l’eredità di un evento unico di
salvezza, esso stesso inserito in una tradizione religiosa particolare, sembra
significhi disprezzare altre tradizioni religiose e culture dell’umanità”(J.
Dupuis). Oggi, a far problema, non è
stabilire se fra Trascendenza ed Immanenza valga l’aut – aut (principio di esclusione)o l’et
– et (principio di inclusione), bensì se è possibile che una fede possa
pretendersi vera, unica, definitiva pur avvertendo la necessità di dialogare
con altre fedi, con culture diverse. In
realtà, nemmeno dirsi – con convinzione profonda - cristiani può essere
decisione non soggetta a revisioni: “ciò che costituisce il diventare e
l’essere cristiano non è qualcosa che possa essere definito valido
atemporalmente, ma va colto costantemente sulla base delle situazioni in
mutamento e deve continuamente dar prova di sé”(N. Mette). Il tema che qui tratto – riprendendo un
percorso del sociologo Peter L. Berger – aiuta a comprendere che nel mondo,
anche per i cristiani più convinti, si sono indeboliti quelli che il sociologo
ha definito i segni della trascendenza.
Questi sono ridotti – dice Berger – a brusio, non estinti. Discutendo delle modalità con cui la fede cristiana si
potrebbe radicare nella post – modernità, Giorgio Campanini ha scritto che,
ormai, nel mondo“rimangono i segni esteriori della cristianità costituita, ma è
venuta meno la sua sostanza profonda”. Se Berger, vedremo,invita a dotarci di
un terzo orecchio per cogliere il brusio
della trascendenza, Campanini è portato a
concludere che non “si può escludere (…)che il ruolo dei cristiani nella storia
del futuro sia quello di una presenza – assenza fatta di silenzio, di umile
santità della vita quotidiana, di radicamento nella fede senza alcuna apparente
visibilità esteriore”. Berger privilegia il mondo della vita, il quotidiano per rintracciare i segni della
trascendenza e l’ascolto, il silenzio hanno un ruolo centrale in tutto
questo. Congar approva e, a suo dire, la
redenzione è salvezza del mondo. Un
domenicano, il belga Schillebeeckx, afferma che Dio si serve dei fattori
naturali mondani per rivelarsi. Cox,
infine, parla di città secolare
intendendola come luogo un cui l’uomo si assume le responsabilità delle
tumultuose tendenze del suo tempo. Uno
dei problemi più scottanti per il pensiero teologico, rimane questo: il non
credere pare capace di autolegittimarsi,
mentre credere si rivela sempre più
atteggiamento da giustificare attingendo certificazioni ad extra. La denuncia di questo fenomeno è stata
ratificata, con glaciale chiarezza, da Giovanni Paolo II nell’ esortazione
postsinodale Ecclesia in Europa: “Molti
non riescono più a integrare il messaggio evangelico nell’esperienza
quotidiana; (…)il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e
minacciato; (…)si ha l’impressione che il non credere vada da sé, mentre il
credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata”(n.
7). Si è sempre più convinti che la
salvezza sia faccenda eminentemente umana; insomma, un ritorno dello gnosticismo.
Questa tendenza filosofica diffusasi
nell’Impero romano dal II al IV secolo d. C., propugnava il sincretismo:
fondeva teorie diverse senza arrivare ad una sintesi e poneva – enfaticamente –
l’accento sulla conoscenza. Ai nostri giorni si danno forme di religiosità
simili; eppure, rileva Voegelin, “i movimenti di massa agnostici del nostro
tempo rivelano nel loro simbolismo una certa derivazione dal cristianesimo e
dalla sua esperienza di fede”[ii] . Confrontandoci col Vangelo esperiamo la
drammaticità della fede in quanto ci mettiamo in tensione tra il dato rivelato,
la verità donata e la nostra libertà. Ha
scritto Girard:“il Vangelo (…)offre due opzioni (…) libertà di scelta (…)quello che le ideologie non
permettono mai! Il Vangelo ci permette di
imitare Cristo (…)o (…)Satana”, permette sia di salvarci sia “il rischio di
autodistruggerci”. Vediamo, però, se la proposta di Berger possa avere
risonanza nelle nostre coscienze confuse. Amplificare la capacità di ascoltare
il brusio della trascendenza nei luoghi in cui viviamo le esperienze comuni –
pare insegnarci il nostro autore - evita di allontanare la teologia dall’uomo,
dal mondo e di pensare che nelle realtà terrestri debbano necessariamente risuonare solo i suoni sgraziati e
terrificanti delle ideologie, dei poteri mondani.
Il
sociologo Peter L. Berger apre la sua indagine[iii]
monitorando le posizioni di teologi che ritengono la morte di Dio un fatto storico
e conclude, sorretto da autorevoli riferimenti, che l’uomo, ormai, è
fuoriuscito da “qualsiasi terrore metafisico” [iv].
Sempre più, tra l’altro, fa problema lo svolgersi della ‘pratica religiosa
cristiana’ esclusivamente nella Chiesa. Fenomeno, questo, che ammette
complicate varianti se esaminato in riferimento alle classi sociali. Certo è
che sperimentiamo “una gravissima crisi teologica”. Il teologo, il credente,
hanno bisogno del consenso sociale.
Appare sempre più insostenibile, per la fede cristiana, il legittimarsi da sé.
La crisi teologica è avvertita in certi ambienti come ‘oscura o lontana’; in
altri, in maniera diretta, ma ancora in
fieri. Si tocca una punta drammatica quando si è costretti ad ammettere che
“il credente o il teologo sembrano ormai aggirarsi in un paesaggio di rovine
fumanti”(p. 21). La teologia protestante ha fronteggiato per prima le sfide che
le nuove conoscenze rivolgono al soprannaturalismo tradizionale. Vano
sarebbe rispondere ad esse arroccandosi nel proprio credo: la tendenza della
società, piuttosto, è di inaugurare “un campo aperto a visioni globali” e di
allestire “sistemi aperti di ‘conoscenza’” a scapito delle “strutture chiuse
entro le quali coltivare un tipo di ‘conoscenza’ largamente deviante da quella
dei più”(p. 34). Una forma di reazione a questa tendenza è la strategia della traduzione: ci si impegna a ‘tradurre’
le convinzioni religiose tradizionali in termini familiari alle nuove visioni del mondo. Un cristianesimo
secolariz zante si carica di una non lieve incombenza: mostrare che la sua
proposta religiosa, benché attenta alla mentalità dominante, offre qualcosa di particolare; perché, altrimenti,
accettare dal cristianesimo valori e proposte che, in forma più moderna, si
rinvengono nei nuovi saperi? Il teologo, pensa Berger, rischia di uscire dal
confronto col mondo nuovo solo e conservando nulla di suo! Non va
sottovalutato, però, che il sacro sopravvive, nel mondo disincantato, in forme
deviate: “Continuano ad esserci manifestazioni veramente imponenti di quel
senso di misterioso che i razionalisti moderni chiamano ‘superstizione’”(p.
40). Pensiamo al proliferare di oroscopi, maghi…
Minacciati
dal male, dalla morte, non sappiamo fare a meno di una teodicea. Berger assume il termine in accezione weberiana. Teodicea è “qualsiasi teoria intesa a
spiegare il perché del dolore e del male”(p. 41). Ve ne sono, poi, anche di
‘laiche’; ad esempio, la teoria marxista
della storia secondo la quale, grazie al compiersi dell’utopia post – rivoluzionaria, tutto avrà
pieno compimento. Quadro ottimistico ed universale sfigurato, a detta del
sociologo, quando siamo di fronte ad un uomo ammalato di cancro. Nessuna
promessa escatologica, soprattutto intramondana, lo consola.[v] La
precaria humana conditio farà sì che
“in seno alla cultura secolarizzata continueranno ad esserci delle isole
notevoli di soprannaturalismo”(p. 42). Malgrado ciò, sarebbe miope non
osservare come il teologo sia, ormai, affetto da una vertigine: in ogni società si è dovuto confrontare con problemi e
questioni scottanti, ma ciò avviene, ormai, a velocità insostenibile. I nuovi
saperi impongono una ininterrotta revisione dei capisaldi della scienza
teologica. Si pensi alla genetica: quanti nuovi interrogativi pone alla
teologia morale? Il teologo potrebbe evitare le nuove sollecitazioni pungenti ma “solo a proprio
rischio”(p. 48). Copernico, Darwin ci hanno detto: non siamo al centro
dell’Universo, non siamo stati creati come siamo, bensì, siamo il prodotto di
una lunga e casuale evoluzione. Ma le scienze fisiche in generale – secondo
Berger – hanno mosso alla teologia sfide “relativamente
blande”; al più, hanno mostrato che la Bibbia , circa le questioni cosmologiche,
scientifiche, non è attendibile. Le sfide più cocenti, invece, provengono dalle
scienze umane.
Il
sociologo esamina i problemi creati dalla ‘scienza storica’ – che legge i
convincimenti religiosi come mere produzioni
umane – e dalla ‘psicologia’ che ha picconato le pretese religiose
inquadrate come “una proiezione gigantesca delle esigenze e delle aspirazioni
umane”(p. 51). Una scia vertiginosa di relativizzazioni
calò sulle certezze del cattolicesimo ed il patrimonio teologico venne
messo in discussione totalmente “e non solo più in questa o in quella delle sue
interpretazioni”(pp. 50 – 51). Si rende manifesto il ruolo minoritario che
ormai gioca il teologo con l’elaborazione della sociologia della conoscenza nata in Germania negli anni Venti. Il
concetto base è che le nostre ‘visioni della realtà’ sono attendibili solo se
ricevono il consenso sociale. Conversando con gli altri otteniamo o perdiamo
consensi riguardo alle nostre convinzioni. Sul versante teologico consegue che
“affinché la fede cattolica si mantenga nella coscienza di una persona bisogna
che essa continui ad essere inserita entro” una struttura di attendibilità che si forma necessariamente nella comuni tà. Nell’ “ambiente sociale” di
un soggetto credente “deve esserci una comunità cattolica la quale professi in
modo continuo tale fede” (p. 57). Sarà la conversazione
permanente a consentire il permanere di una visione cattolica della realtà
che, contrariamente a quanto avveniva nelle società premoderne, non può più
legittimare se stessa! Se si verificano le condizioni richieste dalla
‘sociologia della conoscenza’, al soggetto apparirà naturale credere e riconoscerà di avere un’anima naturaliter christiana. Difficile, però,
pensare che in una ‘struttura di attendibilità’ restino inalterate le
condizioni affinché il soggetto inquadri come naturale il suo credo; perciò, la Chiesa – Istituzione attiva
‘riti, atti’ che consolidino la fede tutelandosi nei confronti di un ambiente
sociale che lavora a renderla insostenibile, non legittima.
Quando,
però, sembra che tutti i problemi si siano relativizzati e sistematizzati entro
categorie sociologiche, storiche, psicologiche, erompe – con connotati
originari - il problema della verità.
Se essa è la risultante di processi storico – sociali indagabili
scientificamente, quali affermazioni sono vere e quali false? Questa domanda è
passata attraverso il relativismo e
non la si può più affrontare con l’originaria innocenza. Bultmann sostenne
l’impossibilità, per noi che usiamo l’elettricità ed il telefono, di
considerare attendibile il ‘mondo miracolistico’ disegnato dagli autori neotestamentari [vi].
L’equivoco è questo: si pensa che il
passato sia relativizzabile, mentre noi, nel presente, vivremmo in una “indubitabile felicità
intellettuale”. Come a dire, che “chi usa l’elettricità e la radio è
intellettualmente reputato superiore all’apostolo Paolo”. È una discutibile
tesi perché viziata da irritante unilateralità.
La ‘visione del mondo’ neotestamentaria era stata allestita con strategie
simili a quelle che occorrono a noi per tracciare e giustificare la realtà
odierna! L’insana convinzione di trovarsi in una posizione conoscitiva
superiore a quella dei contemporanei di Gesù consente di squalificare la loro
visione della realtà ricorrendo, impropriamente, a nuove categorie di pensiero.
I presupposti empirici che ci fanno
ritenere in diritto di sconfessare il mondo miracolistico neotestamentario
restano validi nel ristretto perimetro “della diagnosi storico – sociologica”
che non vale come criterio assoluto, ma contiene elementi anch’essi
relativizzabili. Dunque, “possiamo convenire che la coscienza attuale non
riesce a concepire l’esistenza di angeli o di diavoli, ma rimane ugualmente da
vedere se per caso (…)non continuino ad esistere” in spregio alle nostre negazioni (p.64). Chi relativizza deve
accettare la relativiz zazione dei suoi convincimenti.
Berger
parla di pluralismo: coesistono
visioni del mondo e sono soggettivamente certe se sorrette da strutture di attendibilità. Se ciò che
le sostiene permane, ottengono diritto di cittadinanza tra le certezze
indiscutibili. Le società, però, “variano nella loro attitudine a fornire tali
solide strutture di attendibilità”(p. 65). Se nelle società arcaiche l’individuo aveva certezze di
lunga durata in quanto generalmente condivise, il soggetto moderno deve fare i
conti con strutture di attendibilità in conflitto. Berger definisce l’inconveniente moderno per eccellenza
il fatto che ci siano ‘quegli altri’
diversi che negano validità alle nostre visioni del mondo[vii].
Dirsi cattolico in una società nella quale il potere di contestazione degli
altri è minimo o pari a zero è facile; come fare, però, laddove le cose vanno
nel verso contrario? Una fede può, se
non ‘deve’, essere una scelta. Diveniamo,
dunque, eretici per necessità: “La
situazione caratterizzata dal pluralismo non solo consente al singolo una
scelta, ma lo costringe a scegliere e (…)rende molto arduo il formarsi della certezza religio sa”;
inoltre, “il significato letterale della parola haeresis è proprio quello di scelta. Se ci si attiene alla realtà
delle cose, in una situazione pluralistica, ogni comunità religiosa diventa un’eresia”(p. 67). Questo è un tema assai
caro a Berger [viii].
Nella
modernità prevale il rovesciamento della
teologia in antropologia. Berger si chiede se non sia possibile rovesciare
la convinzione che la religione sia una proiezione umana per giocare “uno
scherzo grandioso” a Feuerbach, principale responsabile di questo processo. Per
il filosofo tedesco, religione non è conversare con l’Altro, bensì monologo dell’uomo con se stesso elevato all’ennesima
potenza. Nella dialettica hegeliana, che Feuerbach ed altri si vantano di aver
capovolta, accade l’opposto: la coscienza ‘conversa’ con ciò che sta fuori di
essa e che gode di autonoma esistenza. Ebbene, ecco lo scherzo da giocare a
Feuerbach, le due prospettive possono coesistere in quanto può, ognuna di essa,
giustificarsi “entro il quadro della concezione peculiare da cui emerge”.
Quello che qui pare essere proiezione umana, là può valere come riflesso della
realtà divina. Non si tratta di dare credito ad una religione che possa stare
fuori dalla dimensione empirica, storica, sociologica, né si può pensare al meta – empirico come ad un’isola interna
al mondo empirico. Berger privilegia una teologia che – essendo il suo
cominciamento antropologico – mostri “una spiccatissima sensibilità empirica e
che” miri “a coordinare le sue conclusioni con quanto può essere empiricamente
conosciuto”(p. 71). Ogni teologia include una dimensione antropologica, in quanto le sue proposizioni interessano
il rapporto umano col divino: “Anche
le speculazioni più astratte sulla natura della Trinità hanno avuto origine da
una preoccupazione per la salvezza dell’uomo più che da mero interesse
teoretico”(p.73). Ribadiamo:venne contestato al liberalismo teologico di aver accentuato le premesse
storico/antropologiche del fatto religioso. Era possibile impiantare una
antropologia, ma non pensare che si potesse “salire induttivamente dall’antropologia alla teologia”(p.74). Barth, com’è noto, ricondusse l’impianto
teologico sui cardini del primato assoluto di Dio (il Totalmente Altro)e della Sua libera decisione di rivelarsi [ix].
Posizioni
come quella barthiana non tardarono a mostrarsi assai dure e vennero riviste da
autori come Emil Brunner che presero nuovamente a meditare sulla Rivelazione compromessa
con la condizione umana. Prevalse, poi, grazie alla cupa lezione
esistenzialista ed alla psicologia, un modello di uomo angosciato, disperato e,
perciò, bisognoso di una rivelazione [x].
Quando si rese possibile una visione antropologica più rosea, le cose non si
misero automaticamente a posto. Gli eventi storici moderni e contemporanei non
consentirono facile ottimismo e, così, volendo osservare il fenomeno in maniera
distaccata, “viene di colpo in mente quel gioco infantile che consiste nel mutare
rapidamente di smorfia dicendo: ‘ora piango, ora rido’” (p. 76). Si fa
dell’uomo un po’ quello che si vuole e ciò che conviene. Malgrado tutto, il
sociologo vuole situare nell’antropologia il punto di partenza della teologia;
questa, agganciandosi alla esperienza
fondamentale degli uomini potrebbe proteggere dalla fastidiosa mutevolezza
degli orientamenti culturali. Come? Berger lascia a teologi e filosofi
stabilire cosa deriverebbe da una simile operazione, ma non evita di fare una
proposta: la teologia – relazionandosi alla situazione umana – potrebbe
rinvenirvi i segni della trascendenza.
Si tratta di indagare i gesti umani
prototipici: “fenomeni riscontrabili nell’ambito della nostra realtà
‘naturale’, ma che sembrano riferirsi ad un’altra realtà”(p. 77). Qui il
termine trascendenza non equivale a
quanto ne dice la filosofia, ma a ciò che trascende il quotidiano. I gesti di cui il sociologo parla, poi,
sono atti, esperienze comuni che, ripetendosi, “sembrano esprimere gli aspetti
essenziali dell’essere umano”(ibidem).
Il
discorso, ora, plana su una costante dello spirito umano: l’esigenza di produrre ordine. Ogni società sente di doverlo
istituire per conferire significato e finalità (divine/umane)all’esistenza. Si
tratta di arginare le minacce del caos.
Per secoli l’ordine mondano è stato
pensato come speculare all’ordine celeste:
un ordine soprannaturale giustifica e
offre direttive ad un ordine naturale.
Berger riconosce il ruolo egemone della “fede umana nell’ordine in quanto
ordine (…)fede (…)strettamente connessa alla fondamentale fiducia che l’uomo ha
nella realtà”(p. 78). Si pensa che l’ordine sia possibile perché la realtà è in ordine. Fede, questa, empiricamente non fonda ta, ma che
trascende l’ambito empirico attraverso l’argomentazione
fondata sull’attività ordinatrice. Il sociologo fa un esempio. Un bambino
si sveglia nella notte e rimane terrorizzato dall’assenza dei contorni
amichevoli della realtà diurna ed invoca la mamma che, tranquillizzandolo,
appare come una grande sacerdotessa
dell’ordine protettivo. Lei sa
come dissipare il caos! Il gesto della madre non attinge a presupposti
religiosi, ma acquista un rilievo religioso con la domanda: la madre mente al suo bambino quando assicura che tutto va bene? Se
riteniamo che l’interpretazione religiosa dell’esistenza sia vera, la risposta
è no. Se, invece, per noi esiste
soltanto la realtà naturale, mente, anche se per amore. Il compito del genitore
è più ampio: deve assicurare che si dà un ordine
universale che consenta di dire ho
fiducia in quanto esiste. Si diventa persone sperimentando la fiducia nell’ordine della realtà. È una illusione?
Chi la alimenta ci inganna? Se la realtà è soltanto empirica, l’esperienza
dell’ordine della realtà è una illusione. La madre chiede al bambino di avere
fiducia in un mondo che lo minaccia e nel quale, un giorno, pure morirà! Resta
il gesto di grande amore della madre, ma è destinato a soccombere di fronte
alla soverchiante realtà amara del mondo: “Il volto di un amore che ci vuole
confortare piegandosi sul nostro terrore non sarà allora null’altro che una
parvenza che intende pietosamente illuderci. In tal caso, l’ultima parola sulla
religione è quella di Freud”(p. 81).
Il
compito del genitore esemplificato ha senso unicamente in un quadro concettuale religioso, soprannaturale. Il mondo naturale, qui,
è l’anticamera di un altro mondo nel quale la morte è vinta: “l’inclinazione
umana ad ordinare la realtà implica un ordine trascendente e ogni atto
ordinatore è un segno di tale trascendenza” (p. 82). Se è possibile vedere
nella religione la proiezione cosmica di
un ordine che rende impermeabili alle minacce del mondo naturale, resta da dire
che questa proiezione è, contemporaneamente, “riflesso e imitazione della
realtà suprema”. La religione, dunque, viene ad essere proiezione dell’ordine umano e suprema
ed autentica convali da dell’ordine
umano. A questo, Berger lega l’argomentazione
fonda ta sul gioco e si rifà allo storico olandese Huizinga che definisce
l’uomo come ludens. Giocando si apre
un particolare universo logico, diretto da regole che sospendono quelle che
vigono nel mondo quotidiano. Si entra in un tempo
altro, nell’eternità, sospendendo
il tempo cronologico [xi]. C.
S. Lewis ricorda che anche in mezzo alle situazioni più atipiche e minacciose
l’uomo può formulare teoremi di matematica o abbandonarsi a meditazioni
metafisiche: è la nostra natura, non ostentazione. L’estatica gioia del giocare
si dà nella realtà quotidiana pure se, a volte, brutta o minacciosa. L’attività ludica vale come segno della trascendenza, in quanto, “al
fondo di essa sta qualcosa che supera tale realtà e va oltre la ‘natura’
dell’uomo, per attingere qualcosa di ‘soprannaturale’”(p. 86). Questi argomenti
giustificano religiosamente
l’esperienza con un atto di fede che
ha valore soltanto se deriva da una fede fondata su esperienze comuni,
quotidiane e non misteriose ed imperscrutabili. Berger chiama in causa, ora, l’argomentazione fondata sulla speranza:
pensatori e teologi di varie epoche concordano sul fatto che l’uomo è aperto al futuro. Tratto tipico di
questo atteggiamento è la speranza.
Le ideologie hanno assunto il ruolo che, verso essa, aveva la religione[xii].
Tutte esperienze, queste, che denotano una cosa sola: non accettiamo che
l’ultima parola spetti alla morte. Freud criticava questo genere di speranze
giudicandole ‘infantili’; tuttavia, tali speranze sono infantili o fondate a
seconda della visione metafisica che le sottende: al “fondo della nostra humanitas pare proprio che vi sia quella
speranza che ha ragione della morte” e, pur di fronte alle smentite della ragione empirica, continuiamo a dire no alla prospet tiva di un annientamento
della persona (p. 91).
Un
altro segno della trascendenza viene
ora rintracciato nell’ argomentazione
fondata sulla dannazione. Ci sono atti criminali che non sono semplicemente
male, ma male mostruoso. Se sono possibili certi crimini, e se quelli che li
compiono hanno le loro ragioni, pure si danno due momenti: 1) condanniamo
assolutamente, senza ripensamenti; in ogni tempo e luogo. La condanna vale come
verità eterna ed universale; 2) la condanna non si ferma alla sfera mondana, ma
esige giustizia divina e reclama, perciò, l’inferno. Nessuna punizione umana
soddisfa di fronte al male mostruoso:
chi lo commette esce dalla comunità umana e da un ordine morale che lo trascende e merita la dannazione (concetto religioso). “La speranza e la dannazione sono
due aspetti della stessa valorizzazione onnicomprensiva”. Se “la speranza
religiosa ci dà una teodicea e, quindi, conforta le vittime dell’inumanità”
pure vuol dire molto “che la religione preveda la dannazione per chi di
inumanità si è reso colpevole”(p.97).L’ultima argomentazione bergeriana per
individuare nel quotidiano i ‘segni della trascendenza’ è fondata sull’umorismo. Di fatto, mentre dura,
l’umorismo sospende la tragedia: “Quando si ride sull’imprigionamento dello
spirito umano, l’umorismo ci fa capire che tale imprigionamento non è
definitivo”; verrà, cioè, trasceso
(p. 101). Berger ammette che questi esempi non sono convincenti, ma a lui
‘piacciono’. Vuole mostrare quali possibilità si danno per la teologia se
elegge, come proprio incipit, il
mondo della vita quotidiana. L’intento è far dialogare le tradizioni religiose
perché tutte contengono peculiari segni
della trascendenza. Il sociologo ha, collocandola a supporto di questa
apertura ecumenica, un’idea di natura umana non statica. Se varia è la natura
umana, non scandalizza la convivenza dei saperi. La nostra conoscenza è
impoverita da quanto non sappiamo: “è anche possibile che ci sia stata una
congrega segreta di sacerdoti aztechi che fossero a conoscenza di cose che
neanche ci sogniamo” (p. 103). Se la teologia cattolica si apre ad universi di
senso lontani, ne ricaverà buoni frutti! In un altro saggio, Berger riprende la
questione: “I nostri avi non sapevano nulla della fisica delle particelle, ma
parlavano con gli angeli. Certo, la conoscenza della fisica delle particelle ci
ha consentito di elaborare un nuovo criterio di verità. Ma non può essere che abbiamo perduto una verità quando la nostra conversazione con gli angeli si
è interrotta?”[xiii]. Finito il dialogo con
gli angeli sono andati persi molti segni della trascendenza. Eppure, nella
società complessa e multirazziale le ‘credenze altre’ chiedono il confronto, un
riconoscimento. Una contrattazione è
necessaria laddove le credenze si confrontano a pari merito. Tuttavia, il
pericolo è di essere incautamente tolleranti verso culture e credenze ‘altre’ e
severi eccessivamente con se stessi! Occorre, non solo a noi cristiani, animare
una illuminata, prudente apertura ecumenica
al credo ed alla cultura degli altri[xiv].
Il
metodo teologico suggerito da Berger
non può fare a meno, dunque, di confrontarsi con le tradizioni e con la storia!
L’esperienza umana offre contributi notevoli e non è pensabile che la teologia
se ne privi; conoscere la storia, poi, fa guadagnare tempo: potremmo attardarci
a discutere di qualcosa che già è stato sistematizzato in maniera
soddisfacente. Si deve considerare ogni momento storico nella sua immediatezza da Dio perché il passato non ha necessariamente il
connotato dell’inferiorità. La teologia deve avere un afflato ecumenico:
sappiamo molto ma, forse, abbiamo perso sapere d’altro genere e non certo di
scarsa qualità. Sembrerebbe “dunque, inconcepibile che oggi ci si mettesse a
fare della teologia senza profittare dell’attuale copiosità ecumenica”(Il brusio, p.112).Il sociologo non
propone, però, un sincretismo banale;
non incoraggia l’allestimento di un sistema piglia – tutto nel quale si
polverizzino le differenze tra le tradizioni. Mescoliamo cristianesimo e
buddismo perché, forse, poco o nulla conosciamo di entrambe le tradizioni. Chi
professa una religione, piuttosto, dovrebbe avere una conoscenza salda delle
opzioni di essa. Con i mezzi dei nuovi saperi evitiamo di conoscerle in maniera
ottusamente dogmatica: “tutte le
tradizioni, devono essere considera te per scoprire quali segni di trascendenza
possono essersi sedimentati presso di esse. Il che significa procedere ad
indagini condotte con metodologie empiriche (…)senza la remora di apriorismi
dogmatici”(Il brusio, p. 115). Berger
non ammette, però, che si parli di teologia
scientifica se si parla della trascendenza in quanto trascendenza; in gioco c’è il passaggio dall’analisi empirica alla metafisica ed è la fede a compierlo! In tutto questo il dialogo ha un peso notevole, ma non va inteso come chiacchiericcio
generico (tutti parlano pur avendo niente da dire!). Centrale deve essere la ricerca della verità. Il sociologo,
però, avverte: la religione non deve
ridursi ad una faccenda per intellettuali! L’intellettualismo non è mai stato l’asse portante della tradizione
ebraico – cristiana. La trascendenza del Dio biblico non ha impedito che si
compromettesse col mondo, con la storia [xv].
Questa considerazione lo conduce a non vedere di buon occhio la mistica
intesa come ricerca della salvezza nell’anima dell’uomo. Il Dio biblico,
invece, è fuori dell’uomo, è Altri,
pur comunicando con noi; anzi, l’alterità
è fonte e garanzia di dialogo vero, perché imprevedibile. Berger, a tal
proposito, sottolinea che, quando tentiamo di relazionarci al trascendente, la
prima difficoltà interessa il linguaggio:
radicato nelle realtà comuni, infatti, esprime meglio gli interessi pratici.
Questa problematica è sempre in atto: “La teologia, nel significato più ampio
del termine, è il tentativo di collocare l’esperienza religiosa nella
dimensione della ragione, quanto meno di formularla nel linguaggio della
ragione”(Una gloria remota, p. 131).
Il nostro umano, debole dire, dunque, pure contiene ‘segni della trascendenza’
ed è sempre proficuo studiare il rapporto linguaggio
/ fede [xvi].
In
Una gloria remota si precisa che i segni della trascendenza non si trovano
solo nella chiesa: si rinvengono, copiosi, nella
vita normale di tutti i giorni; poi, vengono riprese in sintesi le argomentazioni esposte ne Il brusio degli angeli. Anche qui non
valgono come prove inoppugnabili della trascendenza e vedervi indicazioni
valide per raggiungerla resta un atto di
fede. Fede non richiesta in una società tradizionale perché si convive con
il divino; a noi, forse, non resta che l’autoinganno per alimentarla. Berger
estremizza ed afferma che, forse, la morte resta l’unico evento che imponga –
anche ai più pragmatici – di porsi quesiti metafisici.
L’unica alternativa alla fede che meriti rispetto è lo stoicismo; il coraggio, cioè, di accettare com’è la condizione
umana. Siamo sempre davanti ad un bivio: scegliere
un mondo aperto o chiuso alla trascendenza. La prima opzione è
ricca di speranze e non è detto sia
una scelta non ragionevole perché non strettamente filosofica. La disperazione, per Berger, non ha uno status epistemologico superiore
e, dal punto di vista filosofico stesso, appare più ragionevole avere speranza.
In un ‘mondo difficile, complesso’, credo che l’argomentazione fondata sulla speranza sia al primo posto (che
Berger, invece, affida a quella fondata sul comico). Il 12 maggio 1967, in Germania, si
incontrarono il filosofo marxista Bloch ed il pensatore cattolico Marcel per
discutere sul valore della speranza. Marcel aveva rivolto particolarmente la sua attenzione a questo tema durante l’ultimo
conflitto mondiale: “Ero andato a Lione per vedere il padre de Lubac, che mi
aveva pregato di fare una conferenza per tutto il collegio dei novizi. Subito,
senza esitazione, ho detto (…) che avrei parlato della speranza. Allora, in
maniera del tutto spontanea, ho pensato ai nostri numerosissimi prigionieri di
guerra che erano in Germania. Credo che proprio questo sia stato realmente il
punto di partenza delle mie riflessioni. Pensavo che quei prigionieri vivessero
realmente di speranza. Mi sembrava che senza speranza non avrebbero potuto
sopravvivere(…). Beninteso, nel mio Journal
métaphysique avevo già annotato diverse osservazioni concernenti la speranza
(…). Ma realmente la circostanza della guerra e dei prigionieri di guerra fu
per me, in una certa misura, un fatto decisivo, un vero punto di partenza”[xvii].
Anche
il compito di Berger, rintracciare i segni della trascendenza nel mondo della
vita quotidiana, nelle esperienze comuni, origina da un fatto reale. Ad un
sacerdote impegnato in un quartiere difficile di una città europea, chiesero: perché sei qui e ti dai tanto da fare? Rispose:
affinché non svanisca del tutto il brusio
di Dio. A questo brusio non si sta molto attenti! Il brusio degli angeli – perciò - studia i “messaggeri di Dio da
identificare in tutti quegli indizi emergenti dalla realtà che rimandano alla
Sua presenza”(cit, p.130). Difficile
operare con indizi. Essere
consapevoli che partiamo da una situazione simile, però, non significa
sottostarvi: dobbiamo attentamente ascoltare brusii per vedere se significhino
qualcosa di importante. Riscoprire il soprannaturale
impone di percepire la realtà come non predefinita, non banale: “Aprendoci ai
segni della trascendenza noi riscopriamo le vere proporzioni della nostra
esistenza”(pp. 130 – 131). Questa apertura
ha valenze morali e politiche: si osserva il proprio tempo
da una prospettiva che lo trascende e lo ridimensiona relativizzando forme di potere
e proposte di salvezza che si pretendono assolute.
Chi non assolutizza un momento della sua vita (specialmente se negativo)scopre
che trascenderlo garantisce salute
morale. Chi ha compreso come l’assenza di umorismo abbia reso assassine certe
ideologie rivoluzionarie può “apprezzare pienamente la virtù che la prospettiva
religiosa possiede di restituire gli uomini alla loro umanità”(p.131). Le
ideologie si sono prese troppo sul serio e non hanno trovato in un punto di
riferimento esterno la possibilità di fare autocritica. Il risultato lo
conosciamo! L’argomentazione fondata sul
comico, saper trascendere il momento, mostra come possa essere benefico,
salvifico individuare nell’esperienza comune i segni della trascendenza.
Io non so se la verità esista o meno, ma
con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno; so che, se esiste,
per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste, ma io
l’amo più di tutto ciò che esiste, mi unisco a lei come se già esistesse (…)per
lei rinuncio (…)persino ai miei
quesiti e ai miei dubbi. Pur dubitando,
mi comporto con lei come se non dubitassi; stando sulla riva del nulla, cammino
come se già mi trovassi sull’altra riva, nel paese della realtà, della
giustificazione avvenuta, della conoscenza. Queste parole del pensatore e martire russo Florenskij dicono la
difficoltà di essere terreni pur dovendo credere nella verità, ma fanno
intravedere pure la fondata speranza di cercarla: i fatti del mondo non sono poi tutto (Wittgenstein), ma neppure niente.
Sono, direi, da intendere positivamente
penultimi: non disperiamo del finito,
non sopravvalutiamolo. Tendiamo, piuttosto, l’orecchio per tentare di percepire
segni della trascendenza che, dannoso negarlo, si dà solo come brusio. Gli accadimenti storici sono penultimi e trovano il loro significato
definitivo in qualcosa che li trascende.
Qualcosa che non è nelle nostre possibilità prevedere e, per Berger, dunque, ogni futurologia rimane impraticabile. Il quinto capitolo di Una gloria remota si chiude ragionando
al chiaroscuro: Dio sta tra ‘velamento’ e ‘svelamento’. “La fede cristiana non
solo afferma che Dio non ci abbandonerà, ma che egli ha disseminato le prove di
quella promessa in ogni luogo (…)la fede cristiana asserisce che Dio gioca a
nascondino con l’umanità, ma anche che fornisce alcune indicazioni del luogo in
cui si nasconde”(p. 138). Dio si vela e si nasconde nei luoghi in cui viviamo e nelle esperienze
comuni. Rende difficile percepire
repentine teofanie il fatto che viviamo in un mondo ignaro dell’arte del silenzio, della paziente pedagogia dell’ascolto[xviii].
Compito urgente è affinare l’udito[xix].Bisogna
stare attenti a non credere che, perché gridano più forte, esistano solo le
voci sgraziate dei poteri mondani ed abbiano consistenza unicamente i loro logoi dissennati, macabri. Il 7 aprile
del 1994, in
occasione del Concerto in Vaticano per commemorare la Shoah ,
Giovanni Paolo II invitò ebrei e cristiani a
collaborare, a soccorrere “un mondo in lotta per distinguere il bene dal
male, un mondo chiamato dal Creatore a difendere e a proteggere la vita, ma
così vulnerabile alle voci capaci di diffondere valori che recano morte e
distruzione” [xx]. A questo punto, si può conclude
con il compito affidatoci da Berger: “Questo
mondo è un luogo molto rumoroso. Il credente acquista una specie di terzo
orecchio. Tra tutti i rumori dell’esistenza mondana, con un po’ di sforzo, può
anche sentire le malinconiche note di Dio” (ibidem).
[i]
Rimando, perciò, ad un’opera esaustiva: aa.vv.,
Le origini della teologia dialettica,
Brescia 1976.
[ii]
Cfr., m. gallizioli, La religione fai da te. Il fascino del sacro
nel postmoderno, Assisi 2004.
[iii] id, Il
brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, Bologna 1995.
[iv]
Cfr., th. altizer – w. hamilton, La teologia radicale e la morte di Dio, Milano 1969; th. altizer, Il vangelo dell’ateismo cristiano,
Roma 1969; g. vahanian, La morte di Dio. La cultura della nostra
epoca post – cristiana, Roma 1966.
[v] Cfr.,
r. niebuhr, Fede e storia. Studio comparato della concezione cristiana e della
concezione moderna della storia, Bologna 1966; k. rahner, ‘Storia del mondo e storia della salvezza’, in Saggi di antropologia soprannaturale,
Roma 1965, pp. 497 – 532.
[vi]
Cfr., r. bultmann, Nuovo Testamento e mitologia. Il manifesto
della demitiz zazione, Brescia 1970; g.
miegge, L’Evangelo e il mito nel
pensiero di Rudolf Bultmann, Milano 1956.
[vii]
Cfr., j. hick – p. f. knitter, L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralistica delle
religioni, Assisi 1994; p. coda,
L’unico e i molti. La salvezza in Gesù
Cristo e la sfida del pluralismo, Roma 1997; c. geffré, ‘La singolarità del cristianesimo nell’età del
pluralismo religioso’, in Filosofia e
teologia, 8 (1992).
[viii]
Altrove, scrive: “Una società tradizionale è una società in cui la maggior
parte dell’attività umana è governata da (…)nette prescrizioni”; invece, “la modernità crea una nuova situazione in
cui scegliere diventa un imperativo”(p.
l. berger, L’imperativo eretico, Torino 1987, in particolare le
pp. 50 – 61).
[ix]
Cfr., g. casalis, Karl Barth,
Torino 1967. Berger riconosce un grande merito alla teologia protestante:
quello di essersi rivolto alle questioni teologiche utilizzando i mezzi messi a
disposizione dal rinnovato sapere umanistico (ermeneutica, filosofia
esistenziale…). Cfr., h. zahrnt, Alle prese con Dio. La teologia protestante nel XX secolo, Brescia
1969; id., Dialogo con Dio. Una antologia, Brescia 1976.
[x] Per
le vicende teologiche del Novecento: r.
van der gucht – h. vorgrimler,
Bilancio della teologia del XX secolo,
Roma 1972; r. gibellini, La teologia del XX secolo, Brescia 1999.
[xi] “Il
gioco come tale oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica: è una
funzione che contiene un senso. Al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa
l’immediato istinto a mantenere la vita”(j.
huizinga, Homo ludens, Torino
1973, p. 3). Oltrepassamento che ha
tutto in comune con il termine trascendenza
usato da Berger.
[xii]
Cfr., j. alfaro, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo,
Brescia 1972; i. mancini, Teologia, ideologia, utopia,
Brescia 1974.
[xiii]
Cfr., p. l. berger, Una gloria remota. Aver fede nell’epoca del
pluralismo, Bologna 1994, p. 19.
[xiv]
Cfr., y. congar (ed), Dizionario ecumenico, Assisi 1972; id., Saggi
ecumenici. Il movimento, gli uomini, i problemi, Roma 1986; g. pattaro, Corso di teologia dell’Ecumenismo, Brescia 1985.
[xv]
“L’esperienza di Dio non è per Israele frutto di una ricerca. Non è stato
Israele a scoprire Dio; Israele, piuttosto, è stato scoperto da Dio. La ricerca dell’uomo da parte di Dio:
questo è l’ebraismo”(a. j. heschel,
Dio alla ricerca dell’uomo, Torino
1969, pp. 456 – 458).
[xvi]
Cfr., d. antiseri, Filosofia analitica e semantica del
linguaggio religioso, Brescia 1991; f.
ferré, Linguaggio, logica e Dio,
Brescia 1972; i.t. ramsey, Il linguaggio religioso, Bologna 1971.
[xvii]
Cfr., g. marcel, Dialogo sulla speranza, Roma 1984, pp.
67 – 68.
[xviii]
Nell’ebraismo si parla dell’Hester Panim,
il ‘nascondimento da parte di Dio del Suo Volto’. L’uomo non sa e non vuole
cercare Dio o fa finta di farlo. Quest’ultimo atteggiamento viene esemplificato
in un racconto. Il nipote di Rabbi Baruch giocava con un amico a nascondino. Si
nascose ed attese, ma invano, che l’altro lo trovasse. Dopo lungo tempo,
perciò, lasciò il suo nascondino, ma il compagno se ne era andato. In realtà,
non era mai stato cercato! Corse piangendo da nonno Baruch inveendo contro lo
sleale amico. Con le lacrime agli occhi, il Rabbi, disse: Così è con Dio! Lui si nasconde, ma gli uomini fingono di cercarLo! (Cfr.,
g. scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano 1965, p. 465).
[xix]
Anche chi partecipa alla liturgia –
ritenendosi saldamente immerso nelle ‘cose della fede’ – rischia di non
cogliere appieno il messaggio cristiano se non si predispone, nel silenzio, ad accoglierlo: “La liturgia è
possibile soltanto con e dalla riflessione. Non importa molto che si parli di
testi sacri, di simboli profondi e di rinnovamento liturgico della vita, quando
mancano le prime condizioni per poter concepire seriamente queste cose. In
questo modo anche la liturgia diventa soltanto una cosa assai interessante, una
moda, per la quale per un po’ si è entusiasti, ma dopo non ci si bada più. Tra
le prime condizioni necessarie per poter celebrare vera mente la liturgia, si
richiede che lo spirito rientri in sé. Ma questo raccoglimento non viene
naturalmente, è necessario volerlo fare, come il silenzio” (r.guardini, Il testamento di Gesù. Pensieri sulla Santa Messa, Milano 1950, p.
17).
[xx]
Cfr., g. reale, Karol Wojtyla. Un pellegrino dell’Assoluto, Milano 2005.
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