Mi chiedete, amici cari convenuti a Pompei, di spendere qualche parola sulla fede! Difficile teorizzare su questa dimensione dell’uomo che – benché orientata intrinsecamente al proprio fine (Dio) – passa attraverso paludi come attraverso limpidi specchi d’acqua; un viaggio che conosce le albe rosate ed i tramonti tenebrosi.
Più che di ‘fede’, perciò, onde evitare di circumnavigare a vuoto un continente dai contorni indecifrabili, converrebbe parlare della propria esperienza di fede che è apertura dialogante all’Altro – che si fa traccia negli altri – e, perciò, rischio bello. Rischio perché il dialogo autentico non dà garanzie a nessuno dei due interlocutori: nessuno sa cosa l’altro può dire, rispondere o se ha voglia, in primo luogo, di dialogare; bello perché le parole passano dall’io al tu in maniera sensata se ispirate alla Parola; ‘bello’ perché non si ha altro compito nella vita, in attesa della sera, che raccontare la ricerca di Dio attraverso le terre degli uomini.
La grazia, in tutto questo, consiste nel riuscire a cogliere finanche un bagliore della Luce cercata e, per chi davvero ha fede e si apre alla possibilità di ricevere il dono del senso, ciò può accadere anche nell’ora estrema della vita. Nel romanzo di Tolstoj, La morte di Ivan Illych, l’omonimo protagonista, prossimo a lasciare il mondo, chiede: Perché queste sofferenze? A rispondere è la ‘voce della sua coscienza’: ‘Per nessuna ragione – è così – e basta’. Non c’è nulla, né oltre né sotto questa dichiarazione che possa fare chiarezza. Pochi secondi prima della fine, però, ecco cosa accade ad Ivan: “All’improvviso una forza sconosciuta lo colpì nel petto, nel fianco, gli soffocò il respiro con accresciuta energia; ed egli precipitò nella buca. Laggiù, in fondo alla buca, s’illuminò qualcosa”. Anche nei momenti non estremi accade che, precipitando nella buca del non senso, ‘qualcosa si illumina’. Molto dipende, in verità, dalla capacità dell’uomo di farsi domande circa il senso. Ivan, infatti, si interroga a livello metafisico.
La fede è feconda se è aperta costantemente al Mistero, se sviluppa una disponibilità a farsi visitare da esso. La categoria dell’attesa e quella, parimenti amata da Simone Weil, dell’attenzione possono molto nell’esperienza della fede che consiste nel correre il rischio di stare di fronte all’Altro in un rapporto di libertà. Il ‘rischio’, per usare un linguaggio platonico, è bello quanto mai in questo caso, perché l’Altro è Amore! Agli inizi il cristianesimo fu accoglienza del mistero della semplicità. Un episodio tratto dalla Passio Sanctorum Scilitanorum ce lo spiega. Nell’anno 180, il martire Speratus, così rispose al console Saturnino che gli chiedeva cosa fosse il cristianesimo: Si tranquillas praebueris aures tuas, dico misterium semplicitatis (Se manterrai gli orecchi attenti, ti rivelerò il mistero della semplicità). È la corretta apertura all’ascolto che può farci comprendere cos’è il cristianesimo. Leonardo Boff chiosa l’affermazione di Speratus:
“Cos’è questo mistero della semplicità? Mistero della semplicità fu il nome iniziale del cristianesimo per testimoniare il Dio – Comunione, che è entrato nella nostra storia come Padre – e – Madre amorosi, che ci hanno affidato il loro Figlio incarnato nella nostra miseria, nella forza e nell’entusiasmo dello Spirito vivificatore. L’esperienza vera e profonda di Dio ci convince di quanto questo mistero divino è semplice e di come debba essere semplice la nostra relazione con lui. È, in fondo, l’esperienza radicale di noi stessi, aperta e resa possibile da Dio stesso”. L’esperienza piena ed autentica (radicale) che l’uomo può avere di se stesso, dunque, è dono di Dio, apertura su noi stessi operata da Dio.
Come si espresse Rilke, siamo arrischiati: andiamo accompagnati da ‘questo’ rischio e, addirittura, lo ‘vogliamo’! Siamo, talvolta, più arrischianti della vita stessa. La nostra custodia – paradossale – è proprio l’essere senza protezione. Sul piano della fede: di fronte al Dio ebreo – cristiano che spiazza con il Suo imprevedibile agire, siamo arrischiati perché tentiamo, in tutti i modi, di far entrare l’Eccedente nelle nostre categorie di pensiero che sono, al più, un letto di Procuste. Questi, secondo la mitologia, era un locandiere assai ospitale, ma aveva un’ossessione: a chi non si adattava perfettamente alla misura dei suoi letti, tagliava le gambe o le braccia. Costringere il Trascendente entro il ‘letto di Procuste’ del pensiero è pericoloso non per Dio, ma per noi: il rischio, l’essere senza protezione davanti al sempre – sfuggente Dio è ciò che ci custodisce perché, ricordandoci il nostro limitato status ontologico, impedisce di muoverci nell’ontico con tracotanza. Se non ci fosse la consapevolezza della non – protezione di fronte a quanto ci eccede, l’hybris condurrebbe ad un delirio d’onnipotenza che, fondato su di un errato presupposto ontologico, si traduce in devastante ‘prassi’, in disastro ontico. Il poeta T. S. Eliot, battezzato il 29 giugno del 1927, già adulto, cresimato il giorno successivo, nel 1924, ammetteva la necessità di arrendersi a qualcosa al di fuori di noi stessi. Il sottotitolo della mia riflessione si ispira ad una affermazione contenuta nel ‘Fedone’ platonico: “il rischio è bello!”. Il rischio della fede, il non poter padroneggiare l’Eccedente è bello perché rivela la nostra fragilità, terrestrità che, rendendoci ‘altro’ da Dio, permette il dialogo che può esistere soltanto se avviene tra soggetti non identici. La ‘diversità’ tra creatura e Creatore è massimamente arrischiante; tuttavia, custodisce il dialogo perché divergenti esperienze incoraggiano sempre la comunicazione.
Jung sostenne che la vita ha pieno valore soltanto se la si vive con entusiasmo; ebbene, la radice greca del vocabolo, enthousiazo, significa ‘essere abitati, ispirati da Dio’. L’uomo che vive una fede aperta, esodale, arrischiante, vive con entusiasmo perché sa che l’Arché di una vita animata da una zetetica teologica è Dio ed il Telos è sempre Dio, ma stavolta incontrato con maggiore consapevolezza. Come recita un proverbio cinese: ‘Chi non conosce il paese da cui proviene, non troverà mai il paese che cerca’. La fede come ricerca non è un vagare ateleologico, ma cammino perfettamente orientato. Se capita che qualche positiva acquisizione nel cammino di fede entra in crisi, non bisogna subito pensare che siamo finiti fuori strada; infatti, in una fede intesa come apertura (disponibilità) al Mistero, anche le deviazioni fanno parte di un percorso rettilineo. Lo studioso russo Bachtin, diceva splendidamente:
“niente muore in maniera definitiva; ogni significato avrà la sua festa di bentornato a casa”.
Niente di quanto acquisiamo durante la nostra arrischiata vita di cercatori di Dio morirà del tutto; potrà, al più, intorpidirsi, ma verrà salutato con gioia quando tornerà ad essere centrale nella nostra esistenza. La teologia, che in un percorso di fede deve pure svolgere la propria parte, non ci deve condurre, però, verso distorsioni pericolose, verso un rischio non bello: credere che il sapere le cose della fede basti! La fede è fatta non di curiosità (che si può soddisfare intellettualmente), ma, per lo più, di connaturalità (fonda su di un rapporto diretto e vitale con Dio). In questo, il compito del teologo, è fare compagnia al fratello che cerca fuori dai recinti del sapere. Si tratta di mostrare, con tatto e con limpidi argomenti, che, per dirla con Kafka, “il nutrimento che sta sulla terra viene dall’alto”. La fede è un’apertura bella ed arrischiante all’Altro ed il racconto di questa zetetica arrischiante e che pure custodisce, si consolida, poi, in teologia.
Il teologo, consapevole che il suo è un dire su Dio, secondo a quello che è il dire di Dio (Parola originaria), ha lo stesso compito che Federico Garcia Lorca riconosceva obbligatorio per il poeta: essere un’ombra luminosa che cammina cercando di allacciare gli uomini a Dio. Il filo di sutura adoperato dal teologo è certo un ‘filo cognitivo’, ma che non è possibile non intrecciare con un ‘filo affettivo/emotivo’. La fede aperta al Mistero deve essere polifonica perché occorrono tutte le intonazioni vocali, tutte le lingue e tutti i dialetti per appena sussurrare il nome ‘Dio’. L’ossimoro ombra/luminosa riferito al poeta (e da noi al teologo), infine, così si spiega: ‘ombra’, in quanto mai si deve dimenticare che la sapienza teologica, la più sopraffina, non alleggerisce minimamente la nostra condizione mortale, il non – sapere; ‘luminosa’ perché questa ignoranza non è disperante, in quanto si espongono le parole alla luce della Parola.
Lo scrittore libanese Gibran definiva la fede una ‘conoscenza nel cuore’ che oltrepassa il potere della dimostrazione. Non che il cuore conosca in maniera inequivocabile ed irrevocabile; solo che, mentre la dimostrazione pretende di aver dato definitiva forma a quanto indagato, il desiderio ha una sete che non si spegne mai e tiene aperta, in tensione – perciò viva – la fede. L’uomo anela a Dio e non sa acquietarsi – come diceva Pascal – che una mezz’ora nelle prove dell’esistenza di Dio; dopo, il credente torna a combattere con l’ateo che è in lui. Secondo la logica umana, argomentava Kierkegaard, più pensiamo ad una cosa e più la comprendiamo; nelle cose della fede, invece, più si pensa ad esse e meno le si comprende. La fede, impossibilitata a ridursi a logica è, piuttosto, una dialogica. Rosenzweig diceva che, in un dialogo non filosofico, cioè non scritto da un solo autore, c’è una altissima percentuale di rischio: non so mai, non posso prevedere la risposta dell’altro e nemmeno sapere, a priori, se accetterà di rispondere. La fede aperta è, per il cristiano, autentica fede; infatti, se presupponessimo che Dio non può non volerci rispondere, se presupponessimo come risponderà e cosa farà, la Sua prevedibilità farebbe pensare di essere di fronte ad un idolo, non al Dio vivente. Se esaminiamo le Sacre Scritture, ci accorgiamo che molto in esse o ci urta o ci pare non corrispondere allo schemino che ci siamo, ad usum Delphini, tracciato per assicurarci il nostro dio – geometrico, euclideo. Fu Kierkegaard a definire ‘chiacchiere’ l’argomento di chi sostiene che, essendo sacre, nelle Scritture dovrebbe esserci “anche accordo perfetto fin nelle cose minime”. Si è prigionieri, in questo caso, di una fede chiusa, bloccata su di un’idea ‘umano, troppo umana’, del Trascendente. Per il filosofo e teologo danese, invece, la Scrittura esige la ‘fede’ e, proprio per questo, essa deve contenere discordanze, “in modo che la scelta della Fede possa aver luogo ovvero diventi una scelta, e la possibilità dello scandalo metta in tensione la Fede ”. Scegliamo di credere solo e soltanto se non tutto il contenuto della Rivelazione è esposto ubbidendo a canoni di esattezza umanamente prefissati. La Scrittura , più che essere una esposizione more geometrico demonstrata, procede per frattali.
Le discordanze bibliche per Kierkegaard, dunque, aiutano a far sì che la scelta di Fede avvenga liberamente e non perché costretta dall’evidenza. Il pensiero, la ragione, allora, non contano? Per dirla con Jaspers, la dimostrazione filosofica di Dio non riesce, ma “le prove di Dio possono riuscire come vie per lo slancio del pensiero”. Catalizzatori, non di più! Strumenti che accelerano il pensiero muovendolo verso la Trascendenza e null’altro. La fede, aggiungeva Jaspers, non è un sapere di qualcosa che ho, bensì, la “certezza che mi guida”, la forza che mi rende certo di me per una ragione “che posso ben difendere ma non stabilire”. Se nel conoscere, concludeva, la fede acquista sempre più luminosità, non è, però, giammai dimostrata dal conoscere. La fede non è possedere qualcosa di dimostrato e, perciò, direbbe Wittgenstein, trasferibile su di un binario morto; la fede è forza che guida, essere certi di se stessi, non convinzione da codificare in sistema; piuttosto, mi abita una certezza da difendere perché ‘vitale’ e non ‘intellettuale’. Il conoscere getta fasci di luce sulla fede, ma non potrà mai dimostrarne la validità. Rosenzweig riteneva indimostrabili Dio, Mondo, Uomo. Il sapere, ignorando questa lezione, “necessariamente si perde nel nulla”. Al sapere non resta che procedere “seguendo il cammino dell’indimostrabile”; andare, dunque, ossequiando il rischio che è bello perché, svelando i nostri limiti ontologici, apre spazi nell’ontico alla Presenza di Altri. Quando, poi, fede è ricerca comunitaria, accogliendo l’Altro celebra, loda, e nasce la Chiesa che, diceva Paolo VI, è il progetto visibile dell’amore di Dio per l’umanità.
Un progetto, tuttavia, che può non trovare accoglienza. Ne Le varie forme dell’esperienza religiosa, William James, si occupa del ‘religioso malinconico’ che sperimenta, in se stesso, un conflitto fra due ‘Io diversi’, nemici mortali. Se la ‘voce interna’ che affaccia dubbi inquieta il credente, la voce della ‘virtù’, parimenti, assilla la mente del miscredente. James riporta l’esperienza di una donna che, a sedici anni, scegliendo di aderire alla Chiesa, alla domanda ‘ami Dio?’, rispose affermativamente; ebbene, con una mossa repentina e sconvolgente, ecco cosa accade: “Ma improvvisamente – James riporta fedelmente le parole della donna -, come un lampo, qualcosa parlò entro di me: ‘No, non dovete’”. È la caratteristica di ogni fede autentica: la luce, qui, non sta senza l’ombra. Mettersi sui sentieri della fede, fare teologia, significa attuare il percorso indicato da Riccardo di San Vittore. Ispirandosi ad una lezione agostiniana ed ai Salmi, affermava: Quaerite faciem eius semper ‘cercate sempre il suo volto’. Quando era Professore, Benedetto XVI, spiegava: “qualunque cosa si acquisterà in nuove conoscenze, con questo non saranno e non dovranno essere cancellate le parole con le quali Agostino commenta questo versetto del salmo: ‘Questo è senza dubbio il ‘cercate sempre il suo volto’, cioè, che non il trovare pone fine a questa ricerca che caratterizza l’amore, ma insieme all’amore crescente cresce anche la ricerca nell’amato. Il compito della teologia rimane nel tempo di questo mondo necessariamente non concluso. Esso consiste precisamente nella ricerca sempre nuova del volto di Dio ‘fino a quando egli viene’, ed egli stesso è la risposta ad ogni domanda”. Teologi, credenti hanno un compito necessariamente non concluso da svolgere nel tempo di questo mondo; con l’apertura della fede (arrischiante), devono caldeggiare finanche l’apertura del dubbio, la possibilità della rinuncia alla Chiesa. Sicurezza e fede non vanno necessariamente assieme. Relazioni come quella Dio/uomo si svolgono nel pieno rispetto di due libertà che rischiano l’incomprensione, la separazione.
Nessuno è veramente cristiano se è convinto di possedere certezze da trasmettere e non anche convinzioni suscettibili di passare dal noto al nuovo attraverso il confronto – vitale non intellettuale – con una diversa chiave ermeneutica. Ci sono, poi, chiavi ermeneutiche che, pur appartenendo alla storia, alla tradizione ebraico – cristiana, vengono coperte dalle ombre del cascame accademico che interviene, troppo spesso, sull’organismo vivente del cristianesimo con l’atteggiamento di chi viviseziona un cadavere. Il missionario comboniano, Padre Alex Zanotelli, invece, ha sperimentato che, tra gli ermeneuti più accreditati ad aprirci al messaggio evangelico, ci sono i poveri. La differenza tra la sua posizione e quella di chi si dichiara expressis verbis esponente della teologia della liberazione, a mio avviso, sta in questo: Zanotelli ammette che, interpretato diversamente ma non in maniera difforme dalla tradizione cristiana, ha ricevuto nuovamente il Vangelo dagli ‘ultimi’; il teologo che propone Cristo per un riscatto politico – economico degli oppressi ritiene ancora di poter, in modo paternalistico, portare una Parola secondo una propria chiave interpretativa. Nel primo caso si riceve; nel secondo, si offre. Il missionario comboniano, intervenendo al 56° Congresso Nazionale della FUCI, anni fa, raccontò la sua lunga esperienza a Korogocho, una baraccopoli di Nairobi. Lunga appena un Km e mezzo e larga uno, la baraccopoli è affollata da 100. 000 persone. Il dono, dice il missionario, che ha ricevuto da quei poveri “è stato la lettura della Bibbia” che, nel cuore, gli aveva provocato una rivoluzione biblica; un mutamento di prospettiva ermeneutica radicale:
“Leggere un testo di Marco in una bella villa di Roma, o leggerlo in una baracca di Korogocho vogliono dire due cose veramente diverse. Non esiste una Bibbia neutra. Sono comunità, quelle che hanno scritto la Bibbia , perseguitate e oppresse e sono (…) proprio queste comunità a darci la chiave di volta su tante cose”.
I dubbi di fede vengono declinati in maniera intellettuale negli ambienti in cui la fede non viene giocata come vero e proprio rischio perché non deve sostenere lo sguardo dell’uomo sfigurato! La Parola , calata in contesti come quelli frequentati da Zanotelli, conosce una ricezione diversa. Non c’è una Bibbia neutra, un modo neutro di vivere la fede: tutto acquista senso dal contesto vitale nel quale viene a calarsi. La fede, la teologia vanno spalancate su ogni forma di realtà: mai per adattarsi allo status quo, bensì per declinarsi in quante più forme possibili essendo, la Parola , inesauribile di per sé.
Hölderlin, poetava: ‘Ciò che cerchi è vicino, ti viene già incontro’. Heidegger, commentava:
“Arrivando, colui che ritorna a casa non ha ancora raggiunto la patria (…) anche chi arriva resta ancora uno che cerca. Ma ciò che cerca gli viene già incontro. È vicino. Ma il cercato non è ancora trovato, se trovare significa potersi appropriare del bene ritrovato per abitarvi come nella propria proprietà”.
Non si fatica a percepire, in quanto corre sull’asse Hölderlin – Heidegger, un tono agostiniano; tuttavia, si va più lontano: cosa significa che il cercato non è ancora trovato? Si gira a vuoto? L’itinerario animato dall’uomo di fede è ateleologico, sconsiderato? No! Significa che (spostiamo il discorso sul teologico) quanto di Dio siamo riusciti a trovare, diviene tanto più insignificante quanto più lo consideriamo come un potersi appropriare del bene ritrovato per abitarvi come nella propria proprietà. Padre Zanotelli, come sopra richiamato, non ha nei confronti della Parola un atteggiamento da proprietario ed ammette che, più che donare loro la Bibbia , l’ha ricevuta dagli ultimi. Il missionario comboniano ha compreso che, un conto è studiare/predicare la Parola , un altro seminarla sulle strade refrattarie ad accoglierla. Aristotele distingueva semainomenon – il significato delle cose stabilito dall’intelletto – da pathos - il senso che, relazionandosi in maniera vitale con le cose - l’anima esperisce. I credenti, i teologi che seguono la strada di Zanotelli, non si fermano al ‘semainomenon’, al significato che è guadagno del freddo intelletto (non che esso non serva del tutto!), ma si lasciano attraversare dallo strale infuocato del senso che è un dono del rapporto patico con la Parola gettata nell’arena del disagio umano. Non è detto si debba ‘pensare teologicamente’ soltanto ‘tra libri’. Si tratta, per animare una fede dinamica – nella quale il ‘rischio’ c’è, ma è ‘bello’ – di riprendere una lezione di Nietzsche: pensare all’aria aperta nel mentre si salta, si cammina, si sale, si danza frequentando “monti solitari”, o sostando “sulla riva del mare, laddove”, insomma, “sono le vie stesse a farsi meditabon de”. Nei luoghi, non solitari in verità, come Korogocho e in tante altre arie gravemente depresse del pianeta, si può pensare la fede all’aria aperta, perché i luoghi stessi sono teologicamente meditabondi.
Tra le vite offese, mutilate dall’ingiustizia e dalle miserie, acquista un senso diverso questa riflessione di Agostino: Dio si è fatto uomo; che cosa diventerà l’uomo, se per lui, Dio si è fatto uomo? L’Incarnazione ci responsabilizza: si deve – aprendo verso le umane sofferenze i contenuti della fede cristiana – mostrare che non senza frutto Dio si è fatto come noi. Che progetti grandiosi dovremmo avere per l’uomo (in particolar modo per quello sfigurato da ingiustizie e miserie) se pensiamo che Dio ha eletto la carne, debole, mortale, per mostrarci come sviluppare la nostra somiglianza con Lui?
Il cristianesimo è capace di aprire verso dimensioni nuove la ragione facendole perdere (smarrire momentaneamente) la pretesa autoreferenziale. La manifestazione che Gesù propone di Dio, per Duquoc, è inaudita persino per la stessa religione, in quanto “l’annuncio inaugurale colloca la trascendenza nel cuore della più totale somiglianza con la realtà umana banale (…) sprovvista di potere e di reputazione”. La nostra fede è intrinsecamente aperta verso ogni possibilità di accedervi; non vi sono solo le vie del profondo pensare, ma anche quelle del quotidiano testimoniare. Dio è raggiungibile da ogni parte! Questa è fede; religione, invece, può intendersi come obbligo rituale, necessità di compiere precisi gesti, di proferire codificate parole per accedere al divino. La Parola si dona innanzitutto attraverso il Libro aprendosi a tutti. Gregorio Magno, non a caso, paragonava la Bibbia ad un ‘fiume’ planus et altus, in quo et agnus ambulet et elephos natet; cioè, ad un fiume tanto piano da consentire ad un agnellino di passarlo, ma altrettanto profondo da permettere ad un elefante di nuotarvi. Gli uomini che devono convergere verso la Parola possono essere ‘agnellini’ o ‘elefanti’: la Scrittura , dopo tutto, è un fiume aperto ad ogni capacità di attraversamento. Più in generale, l’uomo stesso ha, per volontà divina, una struttura aperta. L’antropologia cristiana, d’altro canto, non è pensabile al di fuori del modello della pericoresi intratrinitaria. Le Tre Persone sono in comunione ed in dialogo e, proprio per la Sua anima trialogica, la Trinità può aprirsi al mondo riversando su noi le proprie grazie. L’uomo, in questa luce, viene colto a partire da una struttura tripartita: ‘corpo, anima, spirito’. Teresa d’Avila rintracciava in questa triade la relazione tra le varie componenti che formano il soggetto:
l’uomo terroso, il corpo; la faccia rivolta verso noi stessi (riflessione, introspezione), l’anima; infine, la faccia rivolta verso Dio, lo spirito.
All’interno di un soggetto, poi, possiamo rinvenire quelli che Pascal denominava i ‘tre ordini’:
1) l’ordine dei corpi che tendono a conquistare le cose (Pascal vede, come modello, conquistatori come Alessandro); 2) l’ordine degli intelletti: ad esempio, gli inventori; 3) l’ordine della carità esemplificato dal tipo del ‘santo’ ed in maniera suprema da Gesù. Se questi sono gli elementi cardine della antropologia che privilegiamo, va da sé che possiamo considerare – modellato com’è sulla Trinità – l’uomo in quanto dimora possibile di Dio (perché a Lui aperta). Nell’Antico Testamento, Balaam elogia la bellezza delle tende di Giacobbe e le dimore di Israele; ebbene, il termine ebraico per dire ‘la tua dimora’ è mishkenotecha. Accoglie l’identica radice di Shekhinah (Shk), ‘Dio è in mezzo al popolo’! Presenza, apertura, accoglienza…categorie teoretiche? No, qui troviamo il vivere come sincerità, esposizione decisa al mondo, alla Trascendenza. Quando testimoniamo la nostra fede come apertura, ricordiamo ciò che Leonardo Boff dice di Gesù: “non si presenta come un teologo che riflette ed espone una dottrina su Dio. Egli agisce con l’assoluta immediatezza ed evidenza di Dio” che, perciò, “non è frutto di ragionamenti”; Gesù “non legge il mondo in modo profano, ma sempre in riferimento a Dio”. Il mondo, per il cristiano, va interpretato come attesa del senso che viene da Dio.
Apertura al Trascendente significa che, chi crede, ha la forza, la pazienza, il desiderio di aspettare che Dio gli chiarisca il senso e non vive nella frenesia di ricevere – dalla propria ricerca intellettuale – un significato. L’uomo che ha una fede autentica (aperta) è, per riprendere termini aristotelici usati sopra, capace di sostare nel pathos perché sa bene che le vittorie riportate nel semainomenon – nel significato – appagano l’intelletto, non l’anima. Si deve saper vivere in un tra che è tensione declinata, però, in termini fiduciari e non disperati. Duquoc parlava, in questo caso, di sinfonia differita: la storia, cioè, non può mostrare quella che sarà la perfetta unità escatologica. Il carattere differito di tale unità, dunque, “offre ai frammenti la possibilità di esprimere la loro originalità e la loro ricchezza”. Quanto troviamo, qui ed ora, di Trascendente, è sì appena un Suo frammento; tuttavia, essendo, per noi cristiani, il senso qualcosa che si compie in dimensione escatologica, possiamo celebrare – senza scadere nell’idolatria – i frammenti acquisiti rispettandone il valore temporaneo. Il già non è disprezzato se si ammette – al suo fianco – il non ancora.
La ricchezza fenomenologica non distrae dall’indagine sul valore ontologico di essa, né nega la valorizzazione dell’esistente in chiave escatologica.
Quanto rientra nell’ambito del fenomenologico è in trepida attesa di trovare redenzione nel compimento escatologico-soteriologico. L’uomo, che non accetta di ricevere la pienezza dalla mano di Altri, replica: perché procrastinare quanto pienamente realizza noi ed il creato?
Sant’Ireneo, proprio rispondendo a chi gli chiedeva perché Dio non avesse creato, fin dall’inizio, l’uomo perfetto, spiegava che, proprio in quanto il Creatore è Onnipotente, la creatura non poteva non essere imperfetta. Sarà Dio stesso, continuava, che la condurrà gradualmente alla perfezione agendo come una madre “che deve in primo luogo allattare il figlio neonato, e gli darà, mano a mano che cresce, l’alimento di cui necessita”. La superbia antropologica, invece, proprio questo rigetta: che l’uomo abbia bisogno di svilupparsi gradualmente e che la pedagogia divina sia indispensabile per muoversi in maniera corretta nella storia. Nel bambino si ripete la storia dell’umanità. Secondo Heinrich Haeckel – ricorda lo psichiatra Vittorino Andreoli - il “primitivo è nella storia della filogenesi (e perciò dell’evoluzione della specie) quello che il bambino è nella ontogenesi (cioè nello sviluppo individuale)”. L’ontogenesi riassume la filogenesi. La storia di un singolo uomo ripercorre quella dell’intera evoluzione.
Sviluppo, crescita graduale, evoluzione, paiono accettabili categorie in atmosfera scientifica; se le si trapianta in etica teologica, in antropologia teologica, sembra che la proposta ebraico – cristiana, utilizzandole, voglia mortificare l’uomo. Ammettere una crescita graduale, un’apertura al nutrimento Trascendente, non significa tenere l’uomo lungamente in fasce; si tratta, invece, di donare la verità alle creature tenendo conto della loro – sempre mutevole – capacità di riceverla! La vita spirituale è agonica: si può avere, mentre la si svolge con le migliori intenzioni, anche un regresso.
Diceva il cardinale John Henry Newman, che siamo nati per ‘grandi destini’ e, perciò, ci tocca rispondere a ‘grandi rischi’. Bisogna, cioè, vivere aperti al rischio perché l’esperire è necessario. Esperienza viene da ex – perior, ‘andare verso’. Il verbo perior è radice sia di peritus che di periculum ‘rischio’. L’esperto non è colui che ‘sa’, bensì l’uomo che si confronta con le cose conoscendole per contatto diretto. Il verbo peirao significa anche ‘attraversare, navigare’. Il tedesco Erfahren, poi, si può far derivare da Land fahren, ‘attraversare il paese’. Peri, poi, significa ‘nei dintorni, intorno’. Esperienza, allora, è pure ciò che si è raccolto approssimandosi più volte all’oggetto (stando peri, nei paraggi di esso). Rischio, sostiene qualche autorevole studioso, è una parola coniata nei secoli XVI e XVII da esploratori portoghesi o spagnoli che navigavano in acque non tracciate su carte nautiche. Anche l’uomo di fede corre il bel rischio di navigare nel mare magnum delle questioni di vita senza mappe. Abramo – anche se non attraversò mari – lasciò la sua terra e senza che Dio gli consegnasse una mappa chiara e dettagliata che indicasse la meta. Fare esperienza della propria fede equivale ad aprirsi al rischio che è bello solo se, attraversare i sentieri di Dio, incide realmente sul mondo. Freud diceva che i cristiani sono mal battezzati. Spiegava Marcuse: sebbene accettino ed obbediscano agli insegnamenti in favore dell’altro enunciati dal Vangelo, lo fanno “solo in una forma altamente sublimata, che lascia la realtà senza libertà come prima”.
Ecco il punctum dolens: esperire la vita cristiana, aperta al rischio di navigare nelle acque della storia senza mappe nautiche (Dio rispetta la libertà dell’uomo), non può avvenire senza modificare, poco o molto, la realtà. Freud aveva ragione: si è mal battezzati se non si ha il senso della missione. Ispirati da Raimund Panikkar, immergiamoci in tre fiumi che assurgono a luoghi teologici: il Giordano (Israele), il Tevere (Cristianità romana), il Gange (eclettismo spirituale indiano).
Il primo fiume evoca la singolare vicenda di Gesù. Solo chi si immerge in esso ha la salvezza (dimensione esclusivista). Il secondo fiume, invece, evoca l’espansione del cristianesimo e la penetrazione di esso nell’universo culturale – politico – giuridico. Le acque del fiume romano, così, si sono riversate nelle altre (politica di espansione) rendendole in tutto simili a quelle del fiume cristiano. La diversità dei fiumi delle terre conquistate da Roma si dissolve nel riversarsi interamente nel Tevere cristianizza to (concezione inclusivista). Il fiume indiano, infine, per Panikkar, ha le proprie fonti sia nella neve sciolta delle montagne, sia nelle nuvole (neve e nuvole producono acqua pur non essendo acqua). Il Gange, allora, esiste solo perché costituito da altro: neve, nuvole che, a loro volta, sono dissimili. Non c’è, in questo caso, nulla da cui difendersi (non c’è esclusione), né alcunché da assorbire del tutto (non c’è inclusione).
Il cristianesimo, argomenta Panikkar, va inteso come superamento della cristianità (che è, per lo più, una ‘forma di civiltà’) per configurarsi come cristiania. Il termine lascia intendere che si tratta di “confessare una fede personale, adottando un atteggiamento simile a quello di Cristo”, il Quale, “rappresenta il simbolo centrale della vita (…). La cristiania sta per l’esperienza della vita di Cristo dentro di noi, l’apice nella comunione, senza confusione, con tutta la realtà”. La cristianità non deve rinchiudersi in una forma di civiltà da proteggere ad ogni costo e contro tutti, ma aprirsi disponendosi ad essere cristiania, cioè una dinamica che informa la propria vita assimilata all’esempio di Cristo. Possiamo aprire ad un percorso simile proprio perché, sia che ci si immerga nel Giordano, sia che ci si cali nel Tevere o nel Gange, esclusivista o inclusivista che sia il nostro modello di fede, resta che l’apertura costitutiva all’Altro non può, prima o poi, non diventare apertura decisiva ad altri.
Ha scritto Lonergan: “La domanda intorno a Dio si trova entro l’orizzonte dell’uomo. La soggettività trascendentale dell’uomo è mutilata o soppressa se questi non si protende verso l’intelligibile, l’incondizionato (…). La portata non di ciò che egli raggiunge, ma di ciò verso cui tende è illimitata. Entro il suo orizzonte si trova una regione per il divino, un santuario per la santità ultimale. Questo non può essere ignorato. L’ateo lo potrà dichiarare vuoto. L’agnostico potrà insistere nell’asserire che la sua ricerca non è approdata a nessuna conclusione (…) ma tutte queste negazioni presuppongono la scintilla entro la nostra argilla, il nostro orientamento innato verso il divino”.
Marcel stigmatizzò l’anima alla quale “manchi totalmente l’inquietudine di sé”; essa è, per il pensatore francese, sclerotizzata.
L’inquietudine che introduce in un’anima l’interrogazione religiosa, Trascendente, è non scissa dall’esperienza umana; per dirla con lo psicologo Allport, la ‘dimensione religiosa’ è una concezione unificatrice della vita. Unificare non è uniformare; non si produce una chiusura, ma un’apertura non ateleologica, bensì diretta ad un identificato Telos! Coltivare la dimensione religiosa significa aprirsi all’Altro che, in qualche modo presente tra noi, è comunque Oltre. Si apre non un vuoto, ma uno spazio in cui si articola una tensione, una spinta vitale a tutto l’essere che anela all’Essere. Ebner, sintetizza: “Vincolato alla terra guardare al cielo: questa è la situazione della vita umana nel mondo. Tutta la vita è un ‘sotto’ che postula però un ‘Sopra’ verso cui muove”. Importante è che la fede non si pacifichi – più per pigrizia che per certezza – in sistema che pretenda di gestire, manipolare il Trascendente deviando su di un binario morto dubbi ed inquietudini.
Dal versante scientifico, L. von Bertalanffy parla dei sistemi aperti, mentre la fisica classica eleggeva quelli ‘chiusi’. I sistemi viventi, gli organismi viventi, non si trovano “in uno stato di equilibrio chimico e termodinamico”; stanno, invece, in uno ‘stato stazionario’ che non è ‘equilibrio’! La cellula, l’organismo, per lo studioso, non sono ‘strutture’, bensì ‘processi’ perché ciò che li costituisce viene, senza sosta, destrutturato e rigenerato. La vita stessa, per von Bertalanffy, “non è il mantenimento o il ristabilimento dell’equilibrio, ma consiste (…) nel mantenimento di squilibri (…). Il raggiungimento dell’equilibrio significa la morte e il conseguente decadimento”.
Se il fenomeno della vita viene ridotto allo schema S/R (Stimolo – Risposta), è la vita umana che lo contesta; con esso, infatti, come spiegare le attività spontanee come ‘gioco, creatività…’? Certo, la tensione non deve superare una certa soglia. Se, subite le esterne perturbazioni la vita avesse ritrovato l’equilibrio omeostatico, saremmo rimasti all’ameba che è “la creatura meglio adattata di questo mondo – essa è infatti sopravvissuta per milioni di anni, dall’oceano primevo sino ai nostri giorni”. Von Bertalanffy conclude:
“La vita non è un confortevole acquietarsi nella routine (…); è un élan vital”.
Il nostro autore, come sopra riportato, sostenne saggiamente che la tensione non deve superare una certa soglia: l’apertura, il riorganizzarsi della vita – delle acquisizioni nel cammino di fede – non giustificano un disordinato desiderare, il tendere al vago in maniera irrequieta.
La fede è aperta e ci fa correre il ‘bel rischio’ perché, diceva Pascal, in queste cose, c’è abbastanza luce per coloro che desiderano vedere e c’è abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria. Se accogliamo, nei raccoglimenti parziali concessici dal nostro cercare, Dio nel cuore e non ci comportiamo come se avessimo sigillato finestre e sprangato porte, sperimenteremo il traboccare del Contenuto verso gli altri; anche se saldo in noi, quanto acquisito da e di Dio non deve bloccarsi nell’ego!
Hesse, annotò:
“Noi possiamo portare Dio dentro il cuore e, a volte, quando siamo intimamente ricolmi di lui, può avvenire che egli si affacci dai nostri occhi e dalle nostre parole e parli anche ad altri, che non lo conoscono o che non vogliono conoscere”.
Avere una fede aperta fa ben sperare che sia anche aperta – per nostra scelta amorosa - verso altri. D’altro canto, la nostra stessa struttura fisica è decisamente pro alterità. Come scrive Giancarlo Bruni, se il cuore è più o meno evangelizzato, si dice in sensi altrettanto più o meno evangelizzati:
“L’occhio è per vedere l’altro, l’orecchio è per ascoltare l’altro, la bocca è per parlare all’altro, la mano è per aprirsi all’altro e i piedi sono per andare all’altro prolungando nei confronti dell’altro la benevolenza di Dio in Cristo”.
Siamo, insomma, aperti con tutti i sensi affinché l’Altro giunga – attraverso noi – ad altri! Dio si incanala in noi credenti per trovare chi ne è lontano. Più si lascia agire Dio attraverso la nostra ‘apertura’, più lo conosciamo e più cresce in noi e negli altri il desiderio di conoscerLo perché, scriveva Tommaso d’Aquino, la conoscenza della fede non appaga il desiderio, bensì lo acuisce. Il Vescovo Tonino Bello insisteva sull’integrazione tra fede e vita che, per non cadere nel minimalismo etico, impone di “sporgersi audacemente dai balconi della sacrestia”!
Conclusione
Tonino Bello raccontava che nel duomo vecchio di Molfetta venne portato un grande Crocifisso di terracotta, dono di uno scultore del posto. Il parroco, non avendo ancora deciso dove sistemarlo, l’addossò alla parete della sacrestia apponendovi un cartoncino con la scritta Sistemazione provvisoria. Bello pensò, in un primo momento, che fosse il titolo della scultura e lo riteneva ispirato provvidenzialmente. Pregò il parroco, perciò, di non spostare il Crocifisso da quella sistemazione precaria e di non togliere l’ingiallito cartoncino con la scritta che lo aveva impressionato:
“Collocazione provvisoria. Penso non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce: non solo quella di Cristo (…). Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa (…) ‘Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra’ (…). Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce”.
La croce si slancia verso tutte le direzioni perché l’orrore del Cristo sacrificato interessa il mondo intero, ma anche perché la salvezza è offerta a tutti. Sulla Croce Cristo deve allargare le braccia e – aprendosi in ogni direzione – mostra che Dio accoglie l’uomo a prescindere dalla proveninenza. Pensavano di chiudere la Sua avventura fermandolo sulla Croce e Lui donò lo Spirito al Padre e Maria al discepolo amato (dunque, alla Chiesa) ed il perdono agli uomini che non sapevano cosa stessero facendo; trovò il tempo di portare con sé in Paradiso un ladrone! Dal fianco squarciato – da un’apertura, cioè, - scaturirono acqua e sangue e sappiamo bene cosa significhi!
La fede è vedere le stelle laddove altri della notte riescono a sottolineare soltanto il buio.
La fede è l’apertura costante e fiduciosa ad Altri che ci fa credere saldamente nella realtà del mondo, alla positività delle cose create. Se ai futuri abitatori di questo pianeta, se ai giovani si vuole ricordare qualcosa che invogli ad animare una fede aperta alla vera Speranza, non resta che ricorrere a questi versi di Czesław Miłosz del 1943:
La speranza c’è quando uno crede/ che non un sogno, ma un corpo vivo è la terra/ e che vista, tatto e udito non mentono./ E tutte le cose che qui ho conosciuto/ son come un giardino, quando stai sulla soglia,/ entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro/ se guardassimo meglio e più saggiamente/ un nuovo fiore ancora e più di una stella/ nel giardino del mondo scorgeremmo./ Taluni dicono che l’occhio ci inganna/ e che non c’è nulla, solo apparenza/ ma proprio questi non hanno speranza/ pensano che appena l’uomo volta le spalle/ il mondo intero dietro a lui più non sia,/come da mano di ladro portato via./
L’uomo che non volta le spalle a Cristo non smarrisce il mondo e lo interpreta alla luce del Senso donato dal Trascendente. Cristo, per salvarci, non ci ha sottratto il mondo o tirato fuori di esso, ma lo ha aperto all’irruzione di Dio; il Dio vivente ama la terra perché essa è un corpo vivo.
Il compito di tutti noi è fare in modo che rimanga tale perché aprendo, santificandola, la realtà a Dio, Gli si consenta di abitarla.
Insegna la sapienza ebraica:
Dio è là dove lo si lascia entrare!
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