Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Fede Cristiana e Culture

Un certo tipo di «missione» tende sempre a inghiottire l’altro, l’ecumenismo vero cerca i punti comuni e ciò che è diverso lo si rispetta.
Frère R. Schutz

Il tuo Cristo è ebreo e la tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese e il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo, non rimproverare il tuo vicino di essere… straniero.
Graffito Munich

Bisogna amare le porte perché sono il posto dove nessuno si ferma, il posto da dove si passa, da dove si parte, dove avvengono tutti gli incontri. Bisogna odiare le porte chiuse, chiuse agli incontri.
Abbé Pierre.







Il compito di introdurre una serie di interventi sul tema ‘Fede e culture’ mi rende particolarmente felice perché mi induce a planare, necessariamente, su di un tema a me caro da sempre: l’alterità. Si tratta di imparare, nel tempo del ‘pluralismo’, del ‘multiculturalismo’ (non solo religiosi), a pensare al plurale, ma solo dopo aver riattraversato – con lucidità mai rancorosa – la storia della nostra cultura occidentale. Raccogliersi nella cittadella teologica a dibattere simili questioni (esagero a definirle epocali?), per me, inizia dal prendere molto sul serio la lezione del teologo e filosofo contemporaneo Italo Mancini. Era lui che, coraggiosamente e con chiarezza adamantina, alcuni anni fa, invocava un rovesciamento di cultura e di mentalità quali previe ed irrinunciabili condizioni per passare dalla conoscenza alla responsabilità; dall’io sono all’eccomi; ed, infine, dall’umanesimo ego – logico all’umanesimo etero – logico: “essere per gli altri a partire dal volto dell’altro” – questo l’assioma manciniano che porrei a fondamento della mia riflessione introduttiva. La ‘conoscenza’ della propria cultura, religione, è necessaria; ma, a dirla tutta, serve a poco (scade ad infruttuosa erudizione) se non inaugura una nuova capacità di rispondere (responso – abile) alle istanze di senso provenienti dagli ‘altri’. Iniziamo, dunque, il nostro breve percorso augurandoci di lanciare nell’arena qualche seme destinato a svilupparsi in riflessioni che illuminino per una prassi animata dallo scambio delle storie, dalla condivisione delle memorie e dal desiderio di camminare assieme a partire da dove i sentieri – per una errata comprensione delle differenze – si erano interrotti.



La cultura moderna, con maggiore incisività quella postmoderna, hanno cancellato – per riprendere la lezione di Schreiner, il timore di Dio, ma soltanto per sostituire esso con l’angoscia del mondo. Il nostro tempo, così, ha tratti che mostrano una smorfia di disgusto. Al culto della civiltà, poi, subentra il disgusto per essa e finisce che il “porto oscuro di ogni secolarizzazione è il pessimismo[1]. Non è più possibile ammettere, per riprendere un teologo luterano, che il cristianesimo sia la ‘forma’ (la sola vera, forse) della ‘religione’. Se si venisse a scoprire – l’ipotesi del teologo si è già realizzata – che esso non era altro che una forma d’espressione umana storicamente condizionata, che ne verrà? Cos’è una vita cristiana in un mondo non - religioso? Si deve parlare di Dio senza gli atavici presupposti metafisici; come parlarne ‘mondanamente’(weltlich)? [2]. Quello che cambia nella postmodernità, però, è che si parla di Dio mondanamente in un mondo che è divenuto globale, un villaggio nel quale risuonano ‘voci altre’, proclami religiosi decisamente differenti.
La fede cristiana, cioè, deve misurarsi con le culture e non più unicamente con quella occidentale di per sé già frammentata e profondamente in crisi. Un segnale importante, per calare subito un riferimento significativo, si ebbe all’inizio del XX secolo quando Pio XI permise che, nelle terre di missione, divenissero vescovi i sacerdoti locali. Un punto fermo: non è più possibile avere una visione unilaterale della Chiesa! Penso al titolo di un libro di A. Dulles del 1992: Models of the Church; si badi: modelli, non modello di Chiesa [3]. Sullo sfondo, tuttavia, spinge il superamento di un modello di cultura ingiustamente eurocentrico. Era l’Europa, fino a non molto tempo fa, il modello sul quale cartografare il mondo ma, ora, tocca al pensiero (anche quello teologico) “far parlare la storia di nuovo alla luce di un’altra storia, vale a dire in presenza di un altro” [4]. L’altro, le varie forme di culto, costringono ad una revisione delle vecchie cartografie prigioniere dell’ autocelebrazione occidentale. Anacronistico (impossibile?) affermare, come faceva un gigante del pensiero filosofico tedesco dell’Ottocento, che “la storia mondiale procede da Oriente a Occidente, poiché l’Europa è senz’altro la fine della storia” [5].
Con questa convinzione si incenerisce anche la pretesa di ‘dire Dio’ unicamente entro categorie linguistico – concettuali europee; piuttosto, per dirla col titolo di un libro di John Hick uscito a Philadelphia nel 1982, si deve ammettere che God has many names (Dio ha molti nomi): “Può darsi – ha scritto uno degli esponenti della ‘teologia della morte di Dio’ – che il nome che emergerà non sarà la parola di tre lettere Dio, ma questo non dovrebbe costernarci” [6].
L’uomo è alla ricerca del Trascendente e non è detto che debba farlo su di una sola strada. Un teologo che ha passato ben trentasei anni in India, aperto alla religiosità degli altri, sottolinea che Gesù stesso fu ricettore della rivelazione e, nei Vangeli, Lo vediamo in ricerca: “la coscienza umana di Gesù – continua -, pur essendo quella del Figlio, resta umana e limitata. Ora, nessuna coscienza umana, nemmeno quella di Dio, può esaurire il mistero divino” [7]. Ci vogliono tutte le verità per avvicinarsi, quanto più possibile, alla Verità!

Dovremmo fare tesoro di una distinzione operata da un teologo americano fra il termine truly (veramente) ed only (esclusivamente): quanto diciamo di ‘affermare veramente’ (truly), cioè, non è detto valga ‘esclusivamente’(only) [8]. Ciò che è vero ha sempre delle implicazioni assai profonde con la persona che enuncia quanto per lei vale veramente. Una regola d’oro, per fare interagire positivamente ed in maniera feconda ‘fede cristiana’ e ‘culture’, è questa: non c’è dialogo fra due religioni, ma solo tra persone che praticano e vivono la propria religione (J. Dupuis). Si tratta di superare la pretesa, come si esprime Panikkar, di missionarizzare gli ‘altri’; va aperta una ‘stagione dialogica’ dopo la fine dell’‘ordine politico coloniale’.
Registriamo, così, “un nuovo andamento verso l’indigeniz zazione (…), un maggiore rispetto per le altre religioni” e se “il cristianesimo è in crisi”, però, “il simbolo Cristo rimane efficace” [9]. Non si tratta, in fondo, tanto di battersi per il cristianesimo (che, riguardo alle sue forme storiche è decisamente in crisi), ma di testimoniare pienamente Cristo che rimane efficace.
La nostra riflessione muove anche dall’accettazione piena, convinta dell’articolo 4 della Dichiarazione universale dell’ UNESCO sulla diversità culturale del 2001. La prima frase, recita:
“La difesa della diversità culturale è un imperativo etico”. Spostando questa affermazione assiomatica in ambito teologico, credo che siano davvero finiti i tempi nei quali si poteva dire, con Cartesio, di avere la religione della propria balia e del proprio re. Va pensata una, direi, verità eucaristica, da spezzare e distribuire a tutti in dono.
Dice Agostino (Confessioni XII, 25, 34): “La Tua verità non è mia né di questo o quello, bensì, di noi tutti”. Nel vescovo africano, però, intercettiamo un ottimismo che non è più giustificato in un mondo che ha rivelato tante realtà culturali – religiose un tempo o inesistenti o completamente sconosciute:
“Stando a quello che si dice, sono ormai pochissime e molto remote le genti a cui (il Vangelo) non è ancora stato predicato”(De Natura et Gratia, II, 2).
In primo luogo, ammettiamolo, noi cristiani sappiamo ancora molto poco della Bibbia ed ancor meno della storia della Chiesa. Quanti – anche se assidui nelle funzioni religiose – hanno letto, ad esempio, qualche documento del Concilio Vaticano II? Essere cattolici oggi esige un continuo contatto con quanto la Chiesa sta facendo ed ha fatto nel nostro tempo; l’annuncio autentico ed efficace presuppone sempre una conoscenza forte e chiara del messaggio filtrato attraverso la nuova sensibilità ecclesiastica. Qualcuno ha davvero ragione ad affermare che non c’è da arrossire, ma occorre essere addirittura orgogliosi, del fatto che il cattolicesimo non si debba oggi identificare con quello delle origini: “allo stesso modo che la quercia adulta non è totalmente identica alla minuscola ghianda” [10]. Essere cristiani in grado di aprirsi agli altri mantenendo saldi i contatti con l’essenziale del messaggio evangelico, significa conoscere la ghianda del cattolicesimo antico e la quercia; cioè, le nuove forme da esso recepite.

Che atteggiamento assumere verso le altre forme di credenze religiose? Concordo con una filosofa e studiosa della fenomenologia: preferire al criterio della tolleranza il criterio dell’accoglienza [11]. Nel primo caso, pare quasi che si accetti con sufficienza e con malcelata rassegnazione l’altro; nel secondo, invece, si tiene seriamente in conto quanto l’altro veicola della propria esperienza (non solo religiosa). D’altro canto, ‘accogliere’ non significa che quanto l’altro espone vada – per facile e sterile irenismo – accettato come valido a priori; si tratta, in realtà, di riconoscere una parità che interessa la dignità dell’altro, a prescindere dalla validità dottrinale del suo credo.
Questo punto ha trovato una precisa chiarificazione al n. 22 della Dichiarazione Dominus Jesus (6 agosto 2000) della congregazione per la dottrina della fede: “la parità che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali”. La pluralità dei punti di vista non va ‘accettata’ perché si cede sui contenuti; piuttosto, va ‘ascoltata’ perché si rispetta (ed ‘accoglie’ e non ‘tollera’) l’altro in nome della sua indiscutibile ‘dignità’. C’è da precisare, come ha fatto qualcuno nella teologia americana, che si deve parlare di soft pluralism (pluralismo debole) e di hard pluralism (pluralismo forte); il primo, cioè, ammette una radice comune alle differenze religiose; il secondo, invece, ritiene che la realtà ultima sia plurale o che vada assolutamente oltre tutte le nostre esperienze o, all’estremo, non esiste [12]. Tutta la spinosa questione di rapporti che intercorrono tra fede cristiana e culture (religiose e no) si snoda su questi due livelli. C’è da augurarsi, ad ogni modo, che resti un dibattito acceso, ma senza danni agli attori che lo animano. In questo caso, un cristiano, riguardo a questa ‘speranza’ deve fare proprie le parole di Tommaso d’Aquino: bonum futurum arduum possibili [13].

Un aiuto prezioso nel confrontarci con altri, a mio avviso, risiede nell’evitare di incontrare, piuttosto, l’altro da noi inventato; ad ogni buon conto, non è ozioso fermarsi a riflettere sulla provocazione rivoltaci da uno studioso del fenomeno: “Ma si può davvero pensare la differenza senza rapportarla alla (…) cultura di riferimento?” [14]. Siamo in grado, in altre parole, di distanziarci da noi per pensare sul serio la differenza? Non è facile (quasi impossibile), ammettiamolo!
Nella questione sulla quale stiamo riflettendo, diciamocelo, giova assai non nascondersi alcuna verità; le verità regionali vanno esaminate tutte perché molte, forse, possono fare tanto per la Verità. Mi viene in mente, repentinamente, quanto al Concilio Vaticano II esprimeva, in latino, il vescovo Butler: ne timeamus quod veritas veritati noceat (non c’è da avere paura che alla verità sia di danno la verità!). Un altro grande protagonista del Concilio, Padre Congar, poi, confessava di amare la verità allo stesso modo e con la stessa intensità con la quale amava una persona. Se per noi cristiani la Verità è Cristo, non possiamo tenere disgiunte Verità e Persona. Su questo punto, però, occorre essere chiari: non si deve risolvere interamente la teologia in antropologia, né ridurre la fede, il Vangelo ad una etica.
Uno studioso italiano del cattolicesimo postmoderno, giustamente, tiene a sottolineare che non si deve correre il rischio che una Chiesa umanistica, non teistica conduca all’oblio dell’escatologia divenendo capace di parlare all’uomo ma incapace, se non balbettando, di tenere un discorso su Dio [15]. La storia, i fenomeni non devono annullare il dovere della Chiesa (essendo anche teistica e non soltanto – seppur giustamente – umanistica) di parlare dell’escatologia e di Dio. Sarebbe, infine, un atteggiamento insensato accogliere la differenza altrui e non proporre la propria; ciò che differenzia la proposta cristiana è certo la portata escatologica del Suo annuncio che relativizza quanto – non sempre disinteressatamente – viene assolutizzato sul piano storico-politico-religioso-culturale.

Mentre preparavo appunti per questa riflessione, mi è capitato, per caso, un libro tra le mani che avevo letto qualche anno addietro. Si tratta di una opera di un intellettuale di Lovanio dal titolo inquietante: Nuovo disordine mondiale. Siamo nell’epoca del disordine, della disgregazione a tutti i livelli e su scala planetaria; ad inquietarmi maggiormente, però, è il sottotitolo del libro: La grande trappola per ridurre il numero di commensali alla tavola dell’umanità [16]. I cristiani sono chiamati a vigilare sì sulla purezza dottrinale del loro credo, ma – nutriti della fiducia escatologica nella realizzazione del Regno di Dio – devono fare in modo che la trappola non funzioni. Intollerabile deve apparirci l’attacco sferrato contro il debole, il povero; non per rivendicazioni di stampo ideologico, ma perché il cristiano entra nella storia degli altri per difenderne – a prescindere dai contenuti e dalle forme delle loro credenze religiose – la dignità. Apparteniamo ad una fede che annovera, tra i più attendibili dei suoi testimoni, Giovanni Crisostomo. Questo straordinario Padre della Chiesa ha detto due cose che, nell’annuncio ai cristiani ed ancor più a quanti non lo sono, costituiscono punti fermi e consigli preziosi: 1) il cristiano è un uomo a cui Dio ha affidato tutti gli uomini; 2) non viene considerato tanto quel che diciamo quanto quel che facciamo. 1) Il cristiano è responsabile degli altri; responso – abile: capace, cioè, di dare una risposta motivata della speranza che è in lui e che deve condividere con chi ancora non la conosce; 2) Il cristiano risponde non soltanto con l’annuncio e con la Parola, ma anche con atti concreti di carità e fratellanza. La verità – come diceva Paolo – davvero va fatta nella carità!

Più volte nel mio intervento (apparirò stucchevole?) ho sottolineato che sappiamo cosa dovremmo fare, ma non sempre siamo in grado di farlo davvero; ci sentiremo sempre inadeguati di fronte all’obiettivo: la santità alla quale ogni cristiano è chiamato.
Ad ogni buon conto, inviterei, per una iniezione di coraggio e fiducia, a rileggere quanto – commentando i Salmi – insegnava Agostino: perfino i poveri possono aiutarsi fra loro; infatti, argomentava il vescovo africano, uno può prestare le sue gambe allo zoppo, l’altro gli occhi al cieco per guidarlo ed altri possono essere di compagnia ai malati. Lo scrittore francese Saint – Exupéry affermava, giustamente, che coloro i quali scambiano niente, niente diventano. Proprio nello scambio di doni, nel mettere in gioco ed a servizio degli altri le cose, le qualità (non importa quali e di che livello) che abbiamo impariamo a scambiarci le memorie, le storie, le aspettative, le credenze. Scolpiamo, finalmente, due punti fermi che volevo venissero fuori nella mia riflessione: 1) fare la verità nella carità; 2) non realizzare l’unità nell’uniformità. Benedetto XVI, il 19 agosto 2005, nell’incontro ecumenico a Colonia, stigmatizzò, tra i numerosi modelli di unità, quello che definì ecumenismo del ritorno. Disse, insomma, no all’uniformità in teologia, liturgia, spiritualità
La formula papale, piuttosto, suona così: unità nella molteplicità e molteplicità nell’unità. Per inculturare senza danni la fede cristiana queste sono indicazioni che potremmo inquadrare come vie obbligatorie sulle quali attraversare la storia del cattolicesimo del Terzo Millennio. Il termine inculturazione, va precisato, apparve verso il 1975, ma solo a partire dal 1977 si trovò nei testi ufficiali della chiesa cattolica. Le gerarchie cristiane, cioè, devono abbandonare le desuete posizioni centralizzatrici. Nell’ Enciclpedia universalis (2001), si legge:
“Rimane da sapere se il messaggio cristiano non è troppo definito dalla sua prima inculturazione, quella che gli ha impresso il suo timbro occidentale, per assumere volti così radicalmente nuovi. E se i custodi, in particolar modo i custodi europei, della sua identità potranno consentirle variazioni così grandi” [17].
La sfida per il cattolicesimo (per il cristianesimo) del Terzo Millennio è proprio questa: consentire al messaggio cristiano di assumere volti radicalmente nuovi. Non è un ‘tradimento’ perché il cristianesimo ha nel proprio taglio escatologico fiducia ed amore per il futuro. Nella Parola è detto: ecco, io faccio nuove tutte le cose! La stessa Bibbia è attualizzata dalla prassi del credente e, per questo, non è un documento storico inerte, né questione di mera archeologia. Uno scrittore italiano cattolico, scomparso nel 1990, in un suo libro riporta un brano dal Fabulario di Gerardo da Siena (XV secolo). Un pagano irrideva i cristiani: come può un sol libro bastare in eterno a tanta gente? La risposta, attribuita allo stesso Gesù, fu questa: “tu non sai che il popol mio lo riscrive ogni dì” [18]. Cristo vuole che il Suo Libro sia un compito quotidiano di riscrittura affidato a ciascuno di noi!

Nel far incontrare la fede cristiana con le altre culture (ripeto, ‘religiose e no’) occorre molta prudenza e giammai si può avere fretta. Diceva S. Tommaso che è preferibile zoppicare sulla retta via piuttosto che correre fuori strada; nel primo caso, infatti, pur non coprendo grandi distanze, ci si avvicina comunque alla meta; nel secondo, invece, più si corre e più ci si allontana dal traguardo [19]. Quello che conta sapere, ad ogni buon conto, è che Dio deve essere necessariamente una Potenza coesiva; deve, cioè, unire. Mi rifaccio sempre, quando esprimo questo concetto, ad Agostino il quale, diceva che, al termine omnipotens (Onnipotente), è da preferirsi quello di omnitenens (Colui che tiene tutto assieme).
Noi cristiani cattolici, poi, fatti ad ‘immagine e somiglianza’ dell’Omnitenens, dobbiamo operare per la concordia, per tenere tutto e tutti assieme. Sono queste le premesse per evitare il fallimento dell’inculturazione che consiste, precis amente, nel “piantare il germe della fede in una cultura e farlo sviluppare, esprimersi secondo le risorse e il genio di quella cultura” (Y. Congar).

A questa frase del grande teologo francese va saldata una sua denuncia che, passasse inascoltata, può causare gravi danni alla già disastrosa – come sottolineava Paolo VI – separazione tra Vangelo e cultura. Congar sosteneva che la nostra teologia ha messo Dio fuori dal mondo ed è giunta a non trovarlo più nella realtà. Vivere nella realtà di un mondo senza Dio è la reazione, in un certo senso, ad un Dio senza mondo.
Varrebbe come inaccettabile motivazione disertare il mondo col pretesto che esso è, mai quanto oggi, palesemente avverso alla fede cristiana, alla Chiesa. Che errore rispondere con la propria assenza al mondo che la reclama con disprezzo. Rileggevo, nello scegliere le schede che forniscono materiale al mio intervento, una frase che Paolo VI donò durante il Vaticano II: “Anche se il mondo si sentisse estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso la Chiesa”. Parole anche profetiche, direi… Ed ancora Congar, mentre rileggeva la Gaudium et Spes, non poteva fare a meno di sottolineare che storia ed esperienza umana costituiscono – come egli stesso si espresse – un locus theologicus per la Chiesa. Una fonte, dunque, che alimenta la comprensione che essa deve avere della propria missione. Lontano dal nostro Occidente, nel 1597, ventisette cattolici giapponesi venivano crocifissi a Nagasaki. Giovanni Paolo II canonizzò 103 cristiani cattolici nella Corea del Sud, in una visita del 1984: erano coreani morti, per testimoniare il Vangelo, nella persecuzione del 1866 – 67. Spicca, tra i tanti, la figura di un santo coreano. La fede cristiana, quando è vissuta, testimoniata ed annunciata fino a dare l’esempio col martirio non la si può più ridurre soltanto a mappa che consente all’uomo di orientarsi nelle sue zone di perplessità (A. M. Greeley).
Dio non è una spiegazione, un’astrazione che consente di risolvere teoreticamente questioni di senso poste nel ristretto perimetro di interessi accademici. Ne va della vita davvero credere in Lui e testimoniarlo ne va della vita degli altri. C’è, perciò, un’accezione positiva all’espressione ‘morte di Dio’, come spiega certa teologia del Novecento.
Il Dio religioso, a dire di essa, va sostituito con il Dio della vita:
“la fiducia con cui ritenevamo di poter parlare di Dio è definitivamente estinta (…) bisogna attaccare a fondo la religione che (…) utilizzi Dio per soddisfare un bisogno o per risolvere un problema (…). La nostra attesa di Dio, la nostra vita senza Dio è, in parte, una ricerca di un linguaggio e di uno stile che ci permetta di presentarci a Lui di nuovo, gioiendo della sua presenza” [20].

Si tratta di attivare una vita di comunione fra noi cattolici e, poi, divenuti esperti in questo, mostrare la bellezza di questo modello di vita. Va precisato, però, che non si tratta di mettersi assieme tanto per respirare in atmosfera blandamente amicale; piuttosto, si tratta di vivere in tensione reciproca lo sforzo agonico di mostrare cosa sia una vita al servizio della fede cristiana. Comunione, cioè, invece di farlo derivare dal latino cum unio, ‘unione con’, bisogna intenderlo come derivato di cum munis, ‘impegno comune’. Non si dà vera comunione a buon mercato, ma soltanto a caro prezzo; sia ad intra (fra noi cattolici), sia ad extra (fra noi e gli ‘altri’). Solo ora possiamo riflettere su cosa sia da intendere con prospettiva interculturale riguardo alla fede cattolica. Il teologo Salvino Leone, in una recente relazione, ‘Le odierne sfide etico – morali delle religioni’, si chiedeva: “Il dialogo tra la Chiesa e il mondo, che era stato uno dei pilastri del Concilio, dov’è adesso?”. Ormai, pare che la Chiesa debba assumere un atteggiamento difensivo nei riguardi del mondo. Leone, invece, guarda in tutta un'altra direzione:
“Non è così! Lo Spirito Santo (…) soffia dove vuole” e dobbiamo imparare a riconoscere i semina verbi che sparge nel creato; cioè, non “ci dobbiamo ritenere i puri, i santi, i giusti”, ma andare, come Cristo, ‘verso il mondo’ – “spezzando la tenebra”. Il nostro autore cita l’espressione (che, in verità, è tutto un programma) del vescovo Tonino Bello: convivialità delle differenze. Le differenze, cioè, non impediscono di sedere tutti ad una stessa mensa. Unità nella pluralità (come sopra riportavamo da un discorso di Benedetto XVI). Leone fa un esempio: “quando ci sediamo a tavola siamo tutti persone diverse, ma siamo tutti alla stessa tavola (…) accomunati da un pasto che inizia e finisce ‘insieme’. La prospettiva religiosa” da inaugurare, dunque, a questo tende: “ad una mensa comune arricchendoci delle nostre differenze e non difendendoci da queste” [21].

Nel relazionarci tra noi cattolici e con quanti vivono in altre culture, aderiscono ad altri credo religiosi, va, dunque, tenuto presente che unità non è “semplice collettività, ma comunità, non solo movimento religioso, ma vita di Chiesa, non una romanticheria dello spirito, ma realtà ontologica ecclesiale” [22]. L’unità che interessa chi vuole realizzare una autentica vita cristiana, cioè, non può assolutamente risolversi sul piano meramente fenomenico, ma deve essere radicata, fondata, motivata sul piano ontologico; non interessa il mostrare soltanto ma, soprattutto, l’essere. Continua Guardini: “Se saremo veramente cattolici, allora sperimenteremo quello che è vera comunione. Sentiremo allora l’alito vivo spirare da uomo a uomo, il battito il cui pulsare dal Cuore di Cristo si propaga in tutti i membri”. Ciò, però, non annulla la personalità di ogni fedele: “Sempre tuttavia il cerchio sacro circonderà l’intimo profondo e lo manterrà casto. Il cerchio sarà vigile custodia affinché nessuno si avvicini troppo all’altro (…), né insidii o ignori l’intima indipendenza” [23].
Salvaguardare l’intima indipendenza, ma non – come accade in certe nuove forme di spiritualità contrabbandate per religioni – esaltarla; l’unità ontologica della comunità cristiana vuole uomini interi, maturi, indipendenti, non soggetti smembrati e confusi.
Aveva ragione il teologo domenicano Chenu a dire, con insistenza, che il cristianesimo è mistero e non società e, pertanto, non si può esprimere attraverso le strutture di una società, bensì, in una comunità! Non ci presenteremo nella maniera adeguata al mondo; non ci affacceremo con qualcosa di bello, di vero da mostrare alle altre culture, alle altre religioni se non avremo messo in chiaro quanto finora ci hanno detto Guardini e Chenu (e altri autori finora scomodati nella mia relazione). La Chiesa deve essere comunità ontologica di soggetti maturi ed unificati per mostrare che unità non è uniformità e che inculturazione del Vangelo non è il cavallo di Troia che nasconde, dietro la parvenza di dono, la minaccia del colonialismo. La Chiesa deve servire l’altro e non servirsene (chiunque sia ed a qualunque latitudine geografica ed ideologica lo incontri).
Nella Dogmatica del luterano Karl Barth ricordo di aver letto che se la Chiesa fa del servire se stessa il proprio fine, si dota delle stigmate della morte. Il cattolicesimo deve mostrare di essere animato da una fede che non porta la Chiesa ad atteggiamenti conservatori perché – diceva acutamente il filosofo Gilson – essa non ha il compito di non lasciar passare questo mondo, ma quello di ‘santificare’ un mondo che passa.

Il mondo aveva bisogno di salvezza: sembrava che Cristo fosse arrivato anche troppo tardi; oggi, visto cosa è accaduto dopo la Sua venuta, si potrebbe dire che è venuto troppo presto. Ne abbiamo ancora bisogno [24] . Malgrado ciò, pur di aprire un dialogo con le altre religioni, si è disposti a rivedere il cristocentrismo. John Hick era un cristiano conservatore ma, negli anni Settanta, pensò: se è vera la fede cristiana soltanto, le altre religioni sono false e quanti le professano non potranno salvarsi! Passò, inquietato da simili considerazioni, dal Cristocentrismo al Teocentrismo: Dio è al centro e tutte le religioni, compreso il cristianesimo, ruotano attorno. Hick spodesta dal centro Cristo ed Incarnazione; questa, poi, va intesa – a suo avviso – in senso mitico, metaforico e non come verità oggettiva, definitiva. Il nostro autore, però, avvertiva ancora come ingombro il Dio personale e cominciò a fare riferimento ad una religione incentrata sulla Realtà. Ci sono, infatti, religioni che non credono in un Dio personale e, dunque, meglio ricorrere ad un termine neutrale.
Le Religioni, per Hick, sono il fenomenico che risponde alla Realtà noumenica (nascosta). Non c’è sistema di fede che ad essa corrisponda direttamente. Per cercare di rinvenire motivi inattaccabili riguardo alla salvezza di uomini che non hanno avuto (anche per motivi cronologici) notizia di Cristo e del Dio Persona di Israele, certi teologi non esitano a ridiscutere la divinità di Gesù, l’Incarnazione. Non Dio, ma una Realtà noumenica (in senso kantiano), impersonale, comune a tutte le religioni (che sono di quella Realtà l’aspetto fenomenico) va considerata. Nobile che Hick voglia pensare assolutamente salvi tutti gli uomini [25], ma questo non dà il diritto di capovolgere la Rivelazione. Mi viene da pensare, davanti a certe teorie, mi duole ammetterlo ma non posso farne a meno, al titolo di un bel libro di Klaus Bockmuehl: Il Dio Irreale della Teologia Moderna. Mi pare più irreale, meno vicino all’uomo un Dio che abbia l’aspetto di una ‘Realtà noumenica’, che il Dio di Gesù Cristo. Questi, però, se è la sola Via al Padre e l’unico a poterci salvare, cosa resta a quanti non credono in Lui? Fa orrore (e sono d’accordo) pensarli necessariamente dannati in eterno. Ma – chiedo – non è anche il Dio della misericordia che Gesù manifesta? C’è bisogno di trasformarlo (in una sorta di aracnide metamorfosi kafkiana) in una Realtà noumenica?

Mi ha positivamente colpito – costituendo un incorag giamento non da poco – la posizione assunta dal filosofo Alvin Plantinga:
la fede, sostiene, è propriamente fondamentale; essa, cioè, si può considerare intrinsecamente ‘razionale’ e prescinde, perciò, da altri fondamenti. Crediamo – aggiunge il nostro autore – a tante cose senza aver prove attendibili a supporto della credenza; se, ipotizza, ci venissero a dire che non è ‘morale’ credere in questo modo?
Ebbene, risponde Plantinga, ci diano le prove di un simile punto di vista. Una simile ‘fiducia fondamentale’ riguardo alla razionalità intrinseca della fede non deve trasformarsi in una convinzione – roccaforte; piuttosto, deve indurci a confrontarci con posizioni ‘altre’ vitaminizzati da una così coriacea certezza. Si giudichino, perciò, positive le differenze tra le culture e le religioni; esse, d’altronde, sono ineliminabili (siamo creature finite e respiranti nel parziale). Christian Duquoc, tali differenze, le considera “piene di ricchezze che un’unità affrettata e prematura abolirebbe” causando non pochi guasti [26]. D’altro canto, la teologia nulla può preventivare riguardo all’agire dello Spirito che “susciterà una realtà per il momento inimmaginabile” (ivi, pp. 298 – 299). La ragione teologica – per lo studioso francese – non può vantare una inattaccabile universalità; piuttosto, bisogna non affrettarsi a comporre i frammenti perché “la sinfonia potenziale introdotta nel mondo storico e cosmico dal progetto del Dio biblico non si costruisce senza l’assunzione della divisione come incitatrice verso l’avvenire insospettato tanto forte quanto l’auspicata comunione ideale” (p. 240).
La verità della fede è ontologicamente sinfonica ma, nel frattempo, fenomenologicamente frammentata. La fretta di comporre il tutto potrebbe essere letale: assumere la divisione è accogliere nel modo giusto l’incitamento a costruire l’avvenire che sfugge in gran parte, riguardo alla propria configurazione, al controllo umano. Accettare, assumere la ‘divisione’ significa innanzitutto imparare la lezione che la sociologia della religione puntualmente porge all’attenzione dei teologi: “la religione dell’individuo non è qualcosa di irrevocabilmente dato, un datum che egli non può cambiare più di quanto possa cambiare la sua eredità genetica; piuttosto, la religione diventa scelta” [27].
Il lato positivamente eretico (eresia, dal greco, significa ‘scegliere’) della questione è comprendere che, essere cristiani per tradizione o per passiva accettazione di uno stile di vita atavico, non basta più (semmai ci sia stato un tempo nel quale ciò si sia rivelato sufficiente); si tratta di mettere in circolo le memorie, le storie e di animare una teologia narrativa facendo retrocedere (non sconfessandola!) una teologia eminentemente dogmatica.

La Chiesa, nel nostro tempo, ha fatto molta autocritica (anche se si insiste quasi sempre sul caso Galilei); non solo, in verità, nei confronti delle realtà terrestri (tra le quali, ovvio, annoveriamo anche le culture), ma anche nei riguardi delle altre credenze e delle confessioni cristiane non cattolico – romane. Giovanni Paolo II – per ridurci ad un solo esempio – nella enciclica Ut unum sint del 25 maggio 1955, al § 2, avvertiva: “i cristiani non possono sminuire il peso delle ataviche incomprensioni”. Prima di preoccuparci del confronto con altre culture, altre religioni o confessioni, assumiamo piena consapevolezza di quanto ha reso tale incontro difficile, se non impossibile. A monte di ogni dialogo deve esserci una rivisitazione delle proprie memorie e l’ascolto di quelle di quanti sono stati offesi. Il papa polacco indicava il percorso per restituire purezza alla nostra memoria:
“l’impegno ecumenico (ma possiamo dire anche quello che interessa il confronto fede e culture) deve fondarsi sulla conversione dei cuori e sulla preghiera” per giungere “alla necessaria purificazione della memoria storica”.
Mettersi ad annunciare la Parola senza averne fatto esperienza piena, autentica in prima persona, ci indurrà a proporre, al più, una debole ed irritante apologetica. L’imperialismo del senso realizziamo quando ci sentiamo portatori di una verità che, quasi sicuramente, nemmeno noi conosciamo.
Mi fermo all’annuncio della Parola nelle culture e nelle religioni, ma il discorso si slarga a tutta la gamma di occasioni evangelizzatrici che possiamo cogliere.
Una storia ebraica può aiutarmi ad illustrare cosa intendo dire.
Il capo della Sinagoga chiamò il celebre Rabbi Aqiba per fare la lettura pubblica della Torah. La comunità era in attesa, ma il Rabbi rifiutò l’invito. I discepoli, delusi e stupiti, chiesero: ci ha insegnato che la Torah per te è vita, lunghezza di giorni, e perché mai non ti comporti conseguentemente al tuo principio?
Il Maestro rispose che aveva rifiutato di leggere unicamente perché non aveva scorso prima il testo almeno due o tre volte!
Un uomo non ha il diritto di proclamare le parole della Torah dinanzi alla comunità se lui stesso non le ha lette precedentemente più volte. Così agì Dio stesso – sentenziò Aqiba; eppure, davanti a Lui la Torah è luminosa come il chiarore delle stelle.
Quando giunse il momento di dare la Torah agli Israeliti, Egli, secondo quanto dice in Giobbe 28, 27, la vide, la misurò, la scrutò e poi (come si dice al verso seguente) la comunicò all’uomo [28] .
Dio stesso scruta, misura, pone attenzione alla Parola prima di donarla; sarebbe sensata, allora, la nostra presunzione nell’annunciare il messaggio cristiano alle culture ed alle religioni altre?

Ho aperto il mio intervento citando Italo Mancini e sottolineando che il nostro tema cade – senza tema di smentita – sotto il patrocinio della capacità di pensare l’altro; un pensiero capace, insomma, di comprendere il ‘fatto religioso’ come un pluriverso di istanze di senso e non più (o non soltanto più) come un universo di senso da consegnare (o, peggio, imporre) agli altri.

Il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), nel 1998, ad Harare (Zimbabwe, Africa), svolse la sua VIII Assemblea. Una sorta di preghiera – che perfettamente si innesta nel mio impianto discorsivo – chiudeva il Messaggio intitolato significativamente ‘Essere insieme sotto la Croce in Africa’. Vale la pena registrarne qualche passo:

Camminiamo insieme come un popolo
che crede nella risurrezione (…).
Camminiamo insieme come un popolo che prega,
in mezzo alla confusione e alla perdita di identità,
scorgiamo i segni che indicano il compiersi
del disegno di Dio
e attendiamo la venuta del suo Regno [29].

La fede cristiana incontra le culture, le religioni altre?

Credo sia corretto iniziare gli interventi sul tema muovendo dalla previa certezza che, in realtà, ci sono soltanto e sempre uomini di fede cristiana che devono vivere col desiderio di incontrare uomini di culture e religioni altre!
La via che non passa attraverso l’uomo con nome e cognome, di qualunque fede e cultura, è un sentiero nato già interrotto [30]


   


  




[1] Cit da H. Lübbe, La secolarizzazione, Bologna 1970, p. 77.
[2] Cfr., D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo 1988, pp. 349 – 350.
[3] A. Dulles, Modelli di chiesa, Padova 2005.
[4] Cfr., I. Chambers, ‘Cartografia del progresso’, in C. Pasquinelli, Occidentalismi, Roma 2005, p. 16.
[5] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Roma – Bari 2003, p. 90.
[6] Cfr., H. Cox, La città secolare, Firenze 1968, p. 267.
[7] J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Assisi 1989, pp. 240 – 241.
[8] Cfr., P. Knitier, The Uniqueneness of Jesus, New York 1997, p. 7.
[9] R. Panikkar, ‘Il Giordano, il Tevere e il Gange’, in J. Hick – P. F. Knitier (edd.), L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Assisi 1994, pp. 196 – 197.
[10] Cfr., K. Adam, L’essenza del cattolicesimo, Brescia 1962, p. 8.
[11] A. Ales Bello, Cultura e religioni. Una lettura fenomenologica, Roma 1997, p. 163.
[12] Cfr., T. H. West, Jesus and the Quest for Meaning, Minneapolis 2001, p. 155.
[13] “la speranza è un bene futuro difficile, ma possibile” (Summa Theologiae, II. II. q. 17. 1).
[14] Cfr., M. Kilani, L’invenzione dell’altro, Bari 2004, p. 49.
[15] G. Campanini, Quale fede nella stagione della postmodernità, Casale Monferrato 2004.
[16] Cfr., M. Schooyam, Nuovo disordine mondiale, Cinisello Balsamo 2000.
[17] Cit. da G. Fragnière, La religione e il potere. La cristianità, l’Occidente e la democrazia, Bologna 2008, p. 281.
[18] Cfr., M. Pomilio, Il quinto Evangelio. Romanzo, Milano 1975, p. 87.
[19] Vedi T. S. Centi (a cura di), Tommaso d’Aquino. Commento al Vangelo di san Giovanni/3 (XIII – XXI), Roma 1992, p. 96.
[20] Cfr., W. Hamilton, La teologia radicale e la morte di Dio (scritto con Altizer), Milano 1969, p. 60.
[21] La relazione è riportata in AA. VV., Quale Dio, quale uomo oggi? Dubbi – ricerca – speranze, a cura di Nino Trentacoste, Assisi 2007, pp. 25 – 43; la citazione è alle pp. 42 – 43.
[22] Cfr., R. Guardini, Il senso della Chiesa, Brescia 2007, p. 25.
[23] Ivi, pp. 98 – 99.
[24] Penso ad una affermazione acuta (degna di venir molto pensata) di un teologo contemporaneo: Se i Padri della Chiesa dovettero rispondere alla domanda del perché Cristo arrivò così tardi alla fine dei tempi, Solowejw deve farsi la domanda contraria, del perché arrivò così presto (Cfr., H. U. von Balthasar, Gloria3. Stili laicali, Milano 1986).
[25] “Se Gesù fosse letteralmente Dio incarnato e se è solo per mezzo della sua morte che gli uomini possono essere salvati, e se è solo per mezzo della loro risposta a lui che gli uomini possono appropriarsi di tale salvezza, allora l’unica via d’accesso alla vita eterna sarebbe la fede cristiana. Ne conseguirebbe che gran parte della razza umana vissuta fino a questo momento non sarebbe stata salvata” (J. Hick, cit in AA. VV., J. Hick (a cura di), The Myth of God Incarnate, London, 1977, p. 80).
[26] Cfr., Id., L’unico Cristo. La sinfonia differita, Brescia 2003, p. 294.
[27] P. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, Bologna 1994, p. 70.
[28] Cit in G. Venturi, Il lettore: tra mistero, istituzione e spiritualità, «Rivista liturgica» 4/94 (2007), pp. 535 – 546.
[29] Il bellissimo testo è leggibile completamente in S. Rosso – E. Turco (edd), Enchiridion Oecumenicum. Consiglio ecumenico delle chiese. Assemblee generali 1948 – 1998, Bologna 2001, 5/pp. 1281 – 1285, p. 1285.
[30] A questo riguardo possiamo richiamare le parole del vescovo di Oran (Clavier): “Scoprire l’altro, vivere con l’altro, ascoltare l’altro (…) non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori, significa invece concepire un’umanità plurale, e nel momento in cui pretendiamo – nella chiesa cattolica ne abbiamo avuto la triste esperienza nel corso della nostra storia – di possedere la verità o parlare nel nome dell’umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione. Nessuno possiede la verità, tutti la cercano (…). Sono credente, credo che c’è un Dio, ma non ho la pretesa di possederlo, né attraverso Gesù che me lo rivela, né attraverso i dogmi della mia fede. Non si possiede Dio. Non si possiede la verità e ho bisogno della verità degli altri” (in E. Genre, Con quale autorità? Ripensare la catechesi nella post modernità, Torino 2008, pp. 44 . 45.

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