Chiesa desidera servire questo unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’ Incarnazione e della Redenzione. Su questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può essere fermata da nessuno
(giovanni paolo II, Redemptor hominis, 13).
Viviamo in un’epoca drammaticamente aperta perché sospesi tra una possibile totale damnatio e una speranza nel futuro tenuta in vita a fatica. Scrive un teologo: “quale è la situazione in cui oggi viviamo con alle spalle i secoli XX e XIX? Il futuro del XXI secolo rimane caratterizzato da queste due età” i cui postumi si fanno ancora sentire con forza. Se il XIX secolo, prosegue, ha conosciuto progressi notevoli in ogni ambito della vita umana, il XX si è contraddistinto per “catastrofi inaudite” che è superfluo richiamare. L’incombere di entrambe le età fa sì che si conviva col “progresso e gli abissi” perché quanto è accaduto “non si dileguerà mai dalla realtà” [1]. Dal versante sociologico, si osserva che il nostro tempo appare granitico ed impermeabile ad ogni tipo di fede: sia quella religiosa sia quella in una utopia laica orientata a costruire una “futura società perfetta” [2]. Con tutto questo la fede cristiana deve dialogare e la teologa morale Hille Haker individua, come categoria centrale del programma mondiale del cristianesimo, la compassione [3]. Non si tratta di nutrire un sentimento vagamente pietoso verso la tormentata e complessa realtà odierna, ma di soffrire con essa offrendole prospettive realmente altre! Molta cautela, in realtà, esige finanche il presentare la verità cristiana. Giovanni Paolo II, al n. 70 della Evangelium vitae, richiamava alla nostra attenzione che la “storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della verità”. Accade quando non si pensa ad essa in termini di carità ed è prova di santità – ispirandosi a Paolo – fare la verità nella carità (aletheùein èn agàpe, Ef 4, 15). Va accolta la provocazione di Edith Wyschogrod: bisogna ispirarsi ai santi che sperimentano una alterità radicale: dimentichi di sé hanno vissuto e testimoniato la fede come diaconia (servizio).
La teologia politica, in tal senso, deve esercitare fino in fondo la sua funzione critica, affinché dimostri che la fede cristiana non si occupa unicamente della “realtà pubblica della società così come essa è data, ma porta alla luce del pubblico quegli individui che nella società sono relegati nel sottofondo o nel privato” [4]. Nelle nostre società, che fanno i conti col pluralismo culturale e religioso, occorre portare alla luce soprattutto le realtà altre, alternative mantenendo salde le nostre radici pur ponendole in costruttivo dialogo con quelle altrui. D’altro canto, non possiamo ignorare i risultati di una ricerca condotta da un professore della Pennsylvania State University, P. Jenkins il quale ritiene che, alla metà del XXI secolo, il cristianesimo avrà i propri centri di maggiore rilevanza in Brasile, Messico, Filippine, Nigeria, Congo, Etiopia [5]. C’è in questo, come in ogni fenomeno culturale, del buono e del discutibile. Il Vaticano II, infatti, riflettendo sul pluralismo religioso, al n. 16 della costituzione Lumen gentium, ritiene che sia la conseguenza del fatto che “gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna”, ma anche “l’espressione del genio e delle ricchezze spirituali dispensate da Dio alle nazioni”(Cfr pure il decreto Ad gentes n. 11). In ogni caso, bisogna che divenga centrale la categoria paolina del dokimàzein, del discernere il meglio (Fil 1, 10). Nella Gaudium et spes si afferma che la conoscenza e la partecipazione al mistero pasquale di Cristo avviene in un modo che soltanto Dio conosce (n. 22); non si deve giungere ad esso, cioè, unicamente per le vie che noi riteniamo valide! Nel clima assai diffuso di indifferenza religiosa, di crisi di un certo tipo di cristianità si deve evitare la trappola del sentimento di rivalsa contro quanti, pur cercando, non camminano sulle nostre vie e non adottano i nostri metodi.
Occorre avere pazienza e riconoscere umilmente quanto c’è di buono finanche nella difficoltà a credere, a convertirsi al cristianesimo.
Un uomo che ha conosciuto l’anima di varie religioni ed esplorato sistemi filosofici vari ha saggiamente detto:
“Comprendo perfettamente l’angoscia di una persona religiosa di fronte all’ondata d’indifferenza religiosa (…) di irreligione che infierisce nei nostri tempi; tuttavia considererei un abuso il fondare, sotto la pressione di tali sentimenti, una sorta di lega religiosa - per non dire crociata – di uomini pii, di credenti di tutte le confessioni, per difendere i sacri diritti delle religioni” [6].
Quando Giovanni Paolo II visitò l’India mostrò chiaramente come porsi di fronte al sentimento religioso degli altri. Il 2 febbraio 1986, con coraggio profetico, ammise:
“Dio è presente nel cuore delle culture umane, perché egli è presente nell’uomo”.
Il Pontefice legò l’anelito della fede non a particolari culture, ma lo configurò come desiderio radicato nell’uomo ontologicamente. Proseguì: “Dio è presente nelle culture dell’India”. Ora si centra il riferimento alle forme culturali di un popolo specifico; ma, addirittura, Giovanni Paolo II cuce il discorso sulla pelle dei singoli: “in tutte le persone che per le loro esperienze e aspirazioni, hanno contribuito alla formazione di questi valori, costumi, istituzioni e arti che comprende l’eredità culturale di questo antico paese” ci sono semi di autentica vita religiosa(in L’Osservatore Romano, 11 febbraio 1986, p.1). Ecco tracciata una pedagogia religiosa dell’alterità:
1) Dio è il desiderio di ogni cuore umano che ha creato a Sua immagine; 2) Un paese, qualunque sia, è popolato da uomini che hanno inscritto nel cuore questo desiderio; 3) L’operato culturale, istituzionale degli uomini che di un paese contribuiscono a formare le caratteristiche attuano il progetto divino.
Con questi popoli, con le persone che operano per formarne la cultura, il dialogo è diventato – scriveva ancora Giovanni Paolo II nella Ut unum et sint – una “necessità dichiarata, una delle priorità della chiesa”(n. 31). Importante aggiungere che, per il compianto Pontefice, questo dialogo costituisce pure un “esame di coscienza”(n. 34) della stessa Chiesa che, rapportandosi ad altri, verifica il proprio grado di maturità ecumenica e l’attendibilità della propria fedeltà al Suo sacro deposito. Non dobbiamo, inoltre, annunciare un Dio qualsiasi, ma il Dio che si è fatto conoscere in Cristo come Padre; un Dio, dunque, fortemente connotato affettivamente e questo in un mondo lacerato da inumanità e disaffezione verso l’altro [7].
Un uomo sempre meno umano può avvertire consapevolmente la figliolanza divina? La speranza è che maturino verso il meglio le tracce di un ritorno della religione e dopo si può pensare ad innervare questo rinnovato ardore religioso di temi cristiani. Klaus Eder rileva un paradosso della società secolare europea: si parla di secolarizzazione, eppure gli argomenti religiosi fioriscono sulle labbra di tante persone. Come mai? Eder ritiene che, nel cuore delle società secolarizzate, “la religione non è sparita tout court”, ma si è solo ritirata dalla sfera pubblica; non è più decisiva nelle scelte politiche e, perciò, la sua voce non è più udibile “essendo diventata un fatto privato”.
Ora, invece, la religione si ripropone sulla scena pubblica e, questo ritorno, Eder definisce post – secolarismo [8]. In questo nuovo scenario deve inserirsi la Chiesa affinché si operi un rovesciamento di situazione rispetto al clima passato. La Chiesa , un tempo, fu politicizzata al vertice e la base popolare zittita circa le questioni politiche; ormai, è proprio la base a doversi politicizzare assumendosi totalmente i compiti che interessano i cittadini della società civile ed il vertice deve svolgere il ruolo “più puro della predicazione della fede e della custodia dell’unità” [9]. Se al vertice bisogna preoccuparsi di proporre una fede limpida, non equivoca, la base, i credenti, devono radicarsi nella vita civile senza vergognarsi di parteciparvi con mentalità evangelica [10]. Il cristiano impegnato nella storia fa una scommessa sulla laicità: l’attenzione alle realtà mondane è proprio l’espressione della riscoperta della laicità in quanto “nulla è profano per il cristiano, salvo quello che egli stesso ‘profana’ col peccato, che altro non è se non mancare di far sì che Dio sia per noi pienamente Dio in tutte le cose”.
Non abbiamo bisogno di allontanarci dal mondo per trovare Dio, ma dobbiamo entrare in esso affinché nelle realtà terrestri Dio sia pienamente Dio. Giustificare la diserzione della storia con la ricerca di Dio è peccato!
“L’impegno del cristiano nel mondo (…) è (…) un cercare e trovare Dio ‘fuori del tempio’, là dove i ‘segni liturgici’ cessano e là dove si manifestano altri misteriosi ‘segni’”. Non è solo nel ‘tempio’ che occorre rinvenire i semina Verbi, ma è davvero cristiano ricercarli sparsi nel mondo che è “il campo nel quale si decide, alla fine, il senso dell’esistenza cristiana” [11].
Cristo (…) svela (…) pienamente l’uomo all’uomo (…). Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha amato con cuore d’uomo (Gaudium et Spes, n. 22)
La nostra posizione di cattolici deve essere orientata ad un duplice movimento: critica ad extra (analizzare le realtà terrestri e ‘discernere’ in esse mala a bonis) – critica ad intra (individuare ciò che nella Chiesa va posto in relazione dialettica col mondo d’oggi e rinegoziarlo senza svilire la fedeltà ai fondamenti della fede cristiana). Il rischio della critica ad intra, ammettiamolo, è quello di animare contestazioni superficiali nella Chiesa. Ravvisando questo pericolo, l’agnostico Marcel Maréchal, direttore di un teatro di avanguardia a Parigi, nel 1969, rilevò, circa la contestazione interna alla chiesa:
“Se si tratta di un largo movimento che permette alla Chiesa di voler ritrovare la sua vera funzione (…) ridare priorità (…) ai mistici, la cosa mi sembra interessante e importante. Non è togliendo la veste talare o sposandosi che si giungerà a risolvere i problemi della fede. Se (…) il prete si libera dei suoi incarichi di patronato…, per dirsi: ‘Sono un uomo di Dio e devo testimoniarlo’ allora il fatto mi interessa (…) se si tratta di un’avventura mistica, trovo la cosa appassionante. Se si tratta di un’avventura sociale secondo il gusto del tempo, la cosa mi dà noia: trovo che si tratta di un regresso” [12].
Non si tratta, cioè, di passare sull’identità della Chiesa un po’ di vernice destinata a scolorire col mutare delle mode; non si tratta di ossequiare pedissequamente il ‘gusto del tempo’, ma di riscoprire la propria anima mistica, la propria diversità dal mondo non convertendola in estraneità al mondo!
Essere altra dalle istituzioni mondane significa, per la Chiesa , vivere con fedeltà creativa l’insegnamento evangelico senza lasciare inascoltate le istanze di senso più urgenti gridate dal mondo secolare [13].
In Gesù Cristo Dio non solo parla all’uomo, ma lo cerca (…) lo fa perché lo ama eternamente nel Verbo e in Cristo lo vuole elevare alla dignità di figlio adottivo (giovanni paolo II, Tertio millennio adveniente, n. 7)
Giovanni Paolo II, nella Novo Millennio ineunte, ricordò che al cammino storico della Chiesa sarà necessario, affinché giovi quanto propone, la carità (n. 42), come ricordavamo; nello stesso testo, invitava a far sì che la nostra ‘vita da cristiani’ si faccia, direi, epifania del Volto in quanto ci è chiesto non solo di parlare di Cristo, ma di farlo vedere. Il rischio più grande è che ci siano più professori di Dio che Suoi testimoni (Kierkegaard). Aveva ragione Chesterton nel dire che sono i cristiani il solo argomento valido contro il cristianesimo. Sempre nella Novo Millennio ineunte, al n. 43, Giovanni Paolo II insegnava che la Chiesa deve essere “la casa e la scuola della comunione”. Si noti: prima la casa (accoglienza incondizionata dell’altro), poi la scuola (proposta ed insegnamento della propria fede)! Una incorrotta pedagogia ecumenica, tuttavia, viene fuori soltanto mettendo al centro la Persona di Cristo. Chiesero al teologo protestante Karl Barth, ormai anziano, quale fosse stata, dopo una vita spesa al servizio della teologia, l’idea più profonda che gli era appartenuta. In un attimo, rispose: Gesù mi ama [14]. Ed è l’Amore insegnatoci, testimoniato e richiesto da Cristo a dover ispirare ogni nostra relazione con gli altri, con gli stranieri…
Nella citata enciclica del 1995 Ut unum sint, non a caso, Giovanni Paolo II precisava, circa il dialogo tra le religioni, che “non si articola esclusivamente attorno alla dottrina, ma coinvolge tutta la persona: esso è anche un dialogo d’amore” (n. 47). In gioco non ci sono soltanto dogmi, questioni esegetiche, ma innanzitutto le persone. In quanto cristiani dobbiamo metterci in dialogo, amorevolmente, con quella parte di noi che non vive autenticamente la propria fede. Abbiamo bisogno anche noi di conversione e di – come si invoca nel Vangelo di Marco – veder aumentata la nostra fede. Non è sfuggito questo al Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso che redasse, nel 1991, un documento: Dialogo e annuncio (si noti: il ‘dialogo’ ha la precedenza assoluta sull’‘annuncio’!). Al n. 32, troviamo un monito rivolto agli stessi cattolici: “malgrado la pienezza della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, alle volte il modo secondo cui i cristiani comprendono la loro religione e la vivono può avere bisogno di purificazione”. Nello zelo dell’annuncio questo sguardo critico su di sé deve trovare ampio spazio.
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L’uomo moderno non solo smarrisce in gran parte la fede nella rivelazione cristiana, ma subisce anche un indebolimento delle sue disposizioni religiose naturali e viene sempre più portato a considerare il mondo come una realtà profana (r. guardini)
Chi non è capace di un vero ascolto delle attuali realtà del mondo e delle diverse culture e religioni, non offrirà mai un vero annuncio. Il vescovo di Rotterdam, A. H. Van Luyn, ha parole sagge:
“La prima cosa da farsi nel dialogo fra la chiesa e la cultura è ascoltare. Il Concilio Vaticano II parla persino del dovere di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo (Gaudium et spes n. 44). A causa della secolarizzazione e dell’individualismo non è possibile avere rapidamente un’immagine di ciò che vive nella società. Fin da principio l’ascolto richiede un grande rispetto per le persone, per le loro convinzioni e le loro scelte (…) anche disponibilità a imparare dagli altri” [15].
Ma che comporta l’individualismo e la trasformazione dei luoghi di incontro in non – luoghi (Augé)? Carlo Maria Martini pensa che un gran danno derivi dal fatto che la vita si è parcellizzata, frammentata. Un uomo agisce in diversi luoghi (famiglia, lavoro, posti in cui svagarsi…), patisce la dispersione degli orari familiari; si moltiplicano le appartenenze, ma sono sempre più caratterizzate da legami fluidi/liquidi ed estemporanei improntati all’emozionalità, ad una comunione occasionale e non intenzionale. Secondo Martini, dunque, si “può vivere magari per qualche ora alla settimana in un ambiente di tradizione religiosa ancora sentita e per tante altre ore in ambienti professionali o pubblici nei quali il nome di Dio è assente, la fede non influisce per nulla sulla vita e prevalgono modelli pratici d’azione difformi dal Vangelo” [16]. Il peccato, ripetiamolo, è non fare in modo che nel mondo secolare Dio sia pienamente Dio.
Il lavoro che la Chiesa deve compiere su di sé va individuato nello sforzo di contemplare, nella realtà postmoderna, la Kenosis , lo ‘svuotamento di Sé’ che Dio ha operato in Cristo: ha rinunciato all’onnipotenza per assumere la nostra fragile condizione umana! Rinunciare al potere per rafforzare le potenzialità della carità: ecco la kenosis che la chiesa deve conoscere per fedeltà all’agire di Dio in Cristo [17]. Paolo inneggia all’atto di spoliazione divina che Gesù compie riguardo a se stesso (Fil 2, 6 – 11). L’umiltà di Dio manifestatasi nel Figlio faceva dire a Teresa di Lisieux: non posso avere paura di un Dio che si è fatto così piccolo per me. Va articolata su questo paradigma kenotico/cristologico una fede che è servizio; non per accattivarsi la simpatia del mondo secolare, ma per Amore. Questa categoria, tra l’altro, pare essere l’unica ancora efficace quando si propongono temi cristiani all’uomo contemporaneo. Fermiamoci ad un caso italiano. Alcuni anni fa, in uno studio, venne evidenziato che il 50% del campione generale di italiani interpellati e il 60, 8 % dei cattolici scelsero il concetto di ‘Amore’ per esprimere la loro idea di Dio. Soltanto l’1% della popolazione, e lo 0, 6% dei cattolici, invece, ammetteva l’idea di un ‘Dio – Severità’ [18]. Non dobbiamo assoggettarci di certo a dati statistici, ma non è nemmeno saggio ignorarli completamente. Slargando il discorso su più ampi scenari geopolitici, inoltre, ci dobbiamo chiedere, da cristiani che non vogliono mancare l’appuntamento con la Storia , quale nuova Europa si delinea: “andiamo verso un’Europa unita, ma molto più diversa di prima. I due processi sono in corso contemporaneamente: il processo della unificazione e il processo della diversificazione. La comunità cristiana ecumenica potrebbe veramente essere un segno e un aiuto se, accelerando il suo processo ecumenico interno, fornisse un modello di ‘unità nella diversità’. Esso è convincente dove si dica e si faccia vedere che è possibile essere veramente uniti e veramente diversi” [19]. Si è davvero ecumenici non mortificando la diversità per affermare una identità e si sbaglia se ci si lascia avviluppare in uno sterile irenismo snaturando l’identità cristiana per fare spazio alle diversità. Incontro non scontro e dialogo nell’annuncio sono i corni problematici del dilemma!
Una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato e la stessa natura, non più ‘mater’, sia ridotta a ‘materiale’ aperto a tutte le manipolazioni (giovanni paolo II, Evangelium vitae, n. 22)
Giovanni Paolo II commemorò il centenario della Rerum novarum con l’enciclica Centesimus annus nel 1991. Al n. 42, rilevò che la proposta marxista è risultata non risolutiva circa le rivendicazioni degli oppressi, ma ciò non deve generare facili trionfalismi. Alla sconfessione del marxismo faceva seguire questa onesta affermazione: “permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento” e, in maniera eclatante, nel Terzo Mondo; inoltre, non si può tacere che l’alienazione umana è ancora fortemente operante. La miseria morale e materiale, si vedeva costretto ad ammettere, perdura e si estende ancora fino ai confini della terra! Concludeva: “Il crollo del sistema comunista in tanti paesi elimina un ostacolo nell’affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli”.
Questa considerazione suggerisce un cauto ottimismo: se la proposta cristiana vede più libero l’orizzonte, maggiori possibilità di offrirsi grazie alla caduta delle pasque laiche, tuttavia, si carica di enormi responsabilità. Aver criticato i progetti soteriologici intramondani ed aver avuto ragione impone di mostrare che si ha davvero qualcosa d’altro da offrire e di certo efficace. Innanzitutto, si tratta di risvegliare nello smarrito e disincantato uomo contemporaneo l’interesse per le domande fondamentali ed ultime perché, come Giovanni Paolo II avvertiva nella Fides et Ratio, in molti “si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso…”(n. 81). Occorre, poi, accettare che secoli di filosofia, di scienza hanno mostrato all’uomo che deve passare ogni cosa, qualsiasi credenza, attraverso il vaglio della ragione o, cosa ancora più problematica, della razionalità. Già Agostino, infatti, proponeva un quesito tanto spinoso: Desideravi intellectu videre quod credidi, et multum disperavi et laboravi (ho desiderato di vedere con la mia intelligenza ciò che ho creduto) [20]. Il Vaticano II ha riconosciuto l’insopprimibile esigenza di progredire insita nella stessa dottrina. Si legge al n. 8 della Dei Verbum, che essa
“progredisce nella Chiesa. Cresce (…) la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse…La Chiesa , cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della divina verità, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”.
Vivere la fede è, per tutti, un immane work in progress, un mettersi inesausti on the road. La consapevolezza di essere itineranti verso il compimento delle parole di Dio deve configurarsi come “testimonianza di una fede viva e matura (…) opportunamente educata alla capacità di guardare in faccia con lucidità le difficoltà per superarle”(Gaudium et Spes 21, 5). Dobbiamo fare in modo che sia credibile la proposta cristiana mostrando in primo luogo come essa sia, rispetto alle fallite soteriologie orizzontali, davvero salvifica e capace di operare la nostra piena umanizzazione.
Prima dell’elezione papale Joseph Ratzinger partecipò a delle conferenze a Monaco di Baviera sul tema ‘La vita cristiana e la chiesa’. Pur non volendo inclinare a posizioni estremamente soggettive, il futuro Benedetto XVI si chiedeva – riflettendo obbiettivamente sulla fede – “non figura forse come una prova rilevante a favore del cristianesimo il fatto che esso renda più umani gli uomini nel momento stesso in cui li lega a Dio?” [21].
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Il cristianesimo è una verità vivente che non invecchierà mai (…). Non è uno squallido tema di ricerche archeologiche (…). La nostra comunione con il cristianesimo è nell’Invisibile, non in un passato senza attualità (j. h. newman)
Una antropologia capace di sostenere le sfide del nostro tempo – nulla è più minacciato che il substrato umano dell’uomo – può rafforzarsi soltanto per mezzo di una radicalizzazione cristologica: essere – nel – Cristo (1Cor 1, 30) è una espressione che, nell’epistolario paolino, ricorre più di 164 volte. Ed è operando questo innesto che si può pensare ad una configurazione santa della nostra vita cristiana. Questo può portare frutti al punto che altri vorranno percorrere la stessa strada. Dobbiamo costruirci, potrei dire, come vite appellanti intrinsecamente; cioè, il nostro vivere, con semplicità e convinzione, in maniera cristocentrica deve, di per sé – a prescindere dalle irrinunciabili fatiche dell’annuncio – appellare, chiamare altri alla imitatio! Un filosofo francese, interrogandosi sul fascino dei santi, scriveva:
“Perché i santi hanno degli imitatori? (…). Non chiedono niente e ciononostante lo ottengono. Non hanno bisogno di esortare, non devono far altro che esistere. La loro esistenza è un appello” [22].
La santità si mostra anche tenendo conto delle richieste dell’uomo mancante di beni materiali. Mounier invitava ad anteporre, di tanto in tanto, la carità corporale a quella intellettuale per allestire quella che definiva la rivoluzione spirituale. Citava Tommaso: ‘È più importante nutrire che istruire chi sta morendo di fame’(Summa teologica, IIa IIae, q. 32, a . III). In Europa si potrà avere un futuro di pace se queste provocazioni teologiche diverranno prassi; tuttavia, è bene aggiungere che non è solo il cristianesimo a doversi impegnare affinché la centralità dell’uomo trionfi relegando in periferia le istanze ideologiche che, spesso, costituiscono rivoli infetti nell’oceano di positive indicazioni delle varie religioni.
“Tocca ora alle religioni – scrive uno studioso – mostrare che nella profondità più sacra della loro esperienza c’è una convinzione (…) forte che ogni uomo e donna ha diritto a essere onorato come tale. E tocca alle religioni scoprire che questo nuovo spazio di coabitazione che si apre loro innanzi non è il frutto di un destino cattivo, ma un modo in cui Dio stesso le invita a scoprire che la verità salva e non uccide” [23].
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Chiesa fortunata! Gli apostoli le hanno versato tutta la loro dottrina insieme al loro sangue (tertulliano)
La verità cristiana può rivelarsi letale se la si annuncia senza anteporre all’annuncio il dialogo, alla dialettica l’accoglienza. Nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes il Vaticano II non si limitò a condannare l’ateismo ma, coraggiosamente, rintracciò una delle motivazioni che lo giustificano, lo generano, nell’atteggiamento di chi si professa cristiano: “nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale o sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione”(n. 19). I credenti, dunque, devono:
1) non trascurare la propria fede: nessuno deve mostrarsi a chi non è cristiano come se avesse raggiunto la perfezione nel proprio credo; 2) non presentare in maniera ingannevole la dottrina: parlare di Dio impone uno studio attento della Parola, non annunciare ciò che si conosce in maniera approssimativa; 3) correggere il loro modo di vivere: l’annuncio non testimoniato impegnando la propria vita non contagia ‘quelli di fuori’. Non giustifica il disimpegno il fatto di dover tutto ciò affrontare all’interno di una realtà europea complessa e diversificata.
Paolo, nell’Areopago di Atene, dovette calare il linguaggio cristiano nelle categorie religiose greche; ebbene, oggi, ricordava Giovanni Paolo II nella lettera apostolica del 10 novembre 1994, Tertio millennio adveniente (Preparazione al giubileo dell’anno 2000),
“sono molti gli ‘areopaghi’, e assai diversi: sono i vasti campi della civiltà contemporanea e della cultura, della politica e dell’economia. Più l’Occidente si stacca dalle sue radici cristiane, più diventa terreno di missione, nelle forme di svariati ‘areopaghi’”(n. 57).
Quando diventiamo fedeli aderendo con la fede al Cristo, già cominciamo a camminare sulla via, anche se ancora non siamo in patria (agostino)
La complessità culturale e religiosa dell’Europa, dunque, è una opportunità di evangelizzazione e non soltanto una difficoltà! Il Vaticano II, nel decreto Unitatis redintegratio, all’articolo 3, ritiene che quanto risulta estraneo all’insegnamento cristiano può essere ugualmente importante e degno di attenzione; infatti, invita a raccogliere i “molti e importanti fattori che nel loro insieme fanno crescere e danno vita alla stessa Chiesa…al di fuori dei confini visibili della chiesa cattolica”. La chiesa cattolica, dunque, deve ammettere di avere confini e che di là di essi vi sia del buono! L’evangelizzazione richiede la coraggiosa ammissione che, oltre i confini visibili della chiesa cattolica, vi siano per essa fattori di crescita. Questo, è innegabile, contiene elementi di rischio; nonostante tutto, è saggio ammettere che “il rischio è l’unica avventura che ci avvicini a quelli che vogliamo salvare” che “si accorgono di noi solo quando ci incontrano sulla loro strada. La salvezza è una mano che afferra un’altra mano: un passo che si arresta quando un altro si arresta: un passo che si affretta se l’altro si affretta” [24].
Il fondamento teologico del dialogo interreligioso si rinviene nel documento della Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni, al n. 25. In questo passo si fa leva sul fatto che gli uomini sono tutti creati ad immagine di Dio e accomunati dall’essere destinati alla pienezza di vita in Dio; tutti si ritrovano “sull’unico piano divino di salvezza mediante Gesù Cristo” e ci si fonda “sulla presenza attiva dello Spirito divino” rintracciabile certamente “tra i seguaci di altre tradizioni religiose” [25].
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La fede in Cristo è il nuovo paradiso (simeone il nuovo teologo)
Cosa distingue quella cristiana dalle altre fedi? Nella più volte citata Tertio Millennio adveniente, Giovanni Paolo II individuò il punto essenziale di distinzione della proposta religiosa cristiana:
“l’avvio è dato dall’Incarnazione del Verbo.Qui non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all’uomo ed a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo”(n. 6).
Il cristiano – a differenza dei credenti di molte altre religioni – non solo muove alla ricerca di Dio, ma è innanzitutto ‘cercato’ da Dio; il primo movimento è divino. Dio non lo cerca, poi, indirettamente, ma viene in Persona a mostrare la Via per farsi raggiungere. Lui la Via , Lui il cammino e noi siamo esseri responsoriali. In primo luogo, però, dobbiamo evitare due errori messi in risalto da Giovanni Paolo II nella enciclica Redemptoris Missio: 1) Non fare del cristianesimo una sapienza umana, un’etica della vita buona e felice (eudaimonia); inoltre, con la graduale secolarizzazione della salvezza si rischia di battersi per un uomo ridotto alla sola dimensione orizzontale (n. 11); 2) È consigliabile annunciare un Regno teocentrico perché non tutti comprendono chi è Cristo, ma tutti i popoli riconoscono un Dio! Oltre alla Creazione, però, c’è la Redenzione e, dunque, anche la prima va annunciata in funzione della seconda.
Il Regno non deve essere, si mentirebbe, annunciato come se fosse antitetico alla Chiesa, pur di opporsi all’ecclesiocentrismo. Il Regno di Dio, anche se ciò va annunciato con cautela e paziente pedagogia, non va separato da Cristo, dalla Chiesa. Non è un guadagno che prevalga una religiosità vaga, un believing without belonging ‘una credenza senza appartenenza’ (Grace Davie). È stata coniata anche un’altra espressione: Unchurched man/christian (uomini e cristiani senza Chiesa). Non si può essere credenti solitari se si vuole essere cristiani autentici; infatti, recita una antica massima, unus christianus, nullus christianus (non è pensabile un cristiano da solo).
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Non c’è dubbio che l’organizzazione della Chiesa è opera dello Spirito Santo (basilio di cesarea)
Appartenere alla Chiesa, a Cristo è appartenere come custode al mondo, non come suo padrone; fedeltà in Verticale è culto sano dell’orizzontale, non idolatria del mondano; l’amore per Dio è cura appassionata e non brama del mondo! Il teologo luterano giustiziato dai nazisti, Dietrich Bonhoeffer, dalla cella 92, inviò delle lettere alla fidanzata. In una di esse, scrive quello che potremmo considerare il manifesto del cristiano che salvaguarda una giusta dose di laicità:
“Non intendo la fede che fugge dal mondo, ma quella che resiste nel mondo e ama e resta fedele alla terra malgrado tutte le tribolazioni che essa ci procura” [26].
Ma questa non può essere una fatica da assegnare al singolo, ma un programma da svolgere nelle ‘comunità cristiane’, nelle chiese locali. Nel documento di Paolo VI, Octogesima adveniens, al numero 4, si affronta proprio questo tema: ogni comunità cristiana deve monitorare con obiettività cosa accade nel proprio paese e leggere tutto alla luce delle parole immutabili del vangelo. L’insegnamento sociale della Chiesa, poi, deve fornire ‘principi di riflessione’, orientamenti per la prassi. In particolare, si deve studiare quanto dell’insegnamento sociale della Chiesa si è costituito “in questa era industriale”. Lo Spirito Santo, la comunione con i vescovi, il dialogo con altri cristiani e con gli uomini di buona volontà sono alimenti, fonti di valida assistenza alle comunità cristiane per operare “le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi”(EV 4/717). Nessuno può pensare di non essere interpellato, in prima persona, per testimoniare l’insegnamento della Chiesa. Il Sinodo straordinario, nel ventesimo del Concilio, sottolinea: “Poiché la Chiesa è comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità in tutti i suoi gradi”. Dalle più alte gerarchie, cioè, alla base (popolo di Dio)!
Che cosa (…) chiedete quando venite in Chiesa? Certamente (…) la misericordia di Dio. Date dunque quella terrena e otterrete quella celeste (san cesario, vescovo di Arles)
A dare l’input alla fede cristiana per entrare in dialogo col mondo tutto arrischiando è l’esempio di Gesù che, per obbedire al Padre e realizzarne il progetto d’Amore, si consegna ai Suoi carnefici. Il dono di sé (atteggiamento agapico) senza condizioni è l’elemento costitutivo del cristiano. Annunciare la fede oggi richiede la costante meditazione della parola della Croce: che Gesù “sia rimasto sulla Croce fino alla fine (…) che (…) abbia potuto dire come tutti i sofferenti Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (Mc 15, 34)” è qualcosa di indelebile nella storia umana ed è il solo argomento che valga. Senza l’agonia patita sulla Croce da Cristo risulterebbe “sospesa nel vuoto” la verità Dio è Amore [27]. Il cristiano non è pago mai soltanto della verità, ma trova il senso nel fatto che essa si dà come Vangelo, Buona Notizia e, come sappiamo, una buona novità è sempre fonte di gioia. Ma al Bene deve associarsi sempre il Vero! Come diceva Agostino, veris mavult gaudere quam falsis – l’uomo preferisce trovare la gioia nella verità piuttosto che nella menzogna (Conf. X, 23, 34). Se proposte di salvezza umane, troppo umane danno un po’ di gioia servendosi di menzogne, prima o poi saremmo costretti a sconfessarle. Solo nella Verità che dura può esserci gioia duratura. Nulla è per sempre, se non la promessa di salvezza annunciata da Dio fin dalla creazione. In Esodo 15, 1, dopo che il mare si è diviso ed ha inghiottito gli egiziani, gli ebrei lodano il prodigio divino: ‘Allora Mosé e gli israeliti cantarono questo canto al Signore’. Qualcosa in questa traduzione va rivisto. I commentatori ebrei notano che l’avverbio allora è al ‘passato’, ma il verbo ‘cantare’, nel testo ebraico, è al futuro ‘canteranno’! Si vuol insegnare, con questo rilievo esegetico, che il ‘Cantico del mare’ è, allo stesso tempo, il canto di coloro che sono già salvi (gli ebrei usciti dall’Egitto) e di quanti, finché durerà il mondo, saranno salvati.
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È meglio, è più importante essere Chiesa intera formando un tutto, che un solo uomo che cerca di piacere a Dio. Non bisogna considerare solo quello che ci riguarda, ma quello che riguarda gli altri (gregorio di nazianzo)
Se fu il Dio potente, degli eserciti, a salvare gli israeliti dagli inseguitori egiziani, il Dio dal volto umano continua e continuerà in Cristo a salvarci. Questo, chi ha fede, oggi deve avere il coraggio di annunciare. Noi parliamo, argomentiamo e siamo nel giusto soltanto se la Parola rifulge attraverso il nostro debole dire. Ci sono, tuttavia, uomini che cercano con parole desolate, incolori, fredde, eppure questi sono semi da trapiantare nelle preoccupazioni di quelli che vivono come se avessero trovato; sì, perché non solo questa inquietudine fu anche la loro, ma anche perché in ogni credente c’è – fuoco sotto la cenere – un ateo! Le parole frustrate e frustranti dei cercatori sinceri ma disperati di Dio devono, se vogliamo rendere degna di attenzione la fede che testimoniamo, essere prese sul serio. Un filosofo, a tal proposito, ha lanciato una provocazione:
“Dove si nasconde (…) il Dio che sta al principio di ogni discorso se non nelle stesse parole in cui l’esistenza sembra perdersi? Come cercarlo, se non attraverso una rinnovata attenzione a quello che hanno da dire le stesse parole in cui siamo perduti?” [28].
Gesù, nel momento della massima sofferenza, ha rivelato sia il senso pieno della Sua umanità gridando l’allontanamento del Padre, sia la fiducia in Dio rimettendo lo Spirito nelle mani paterne. Il tutto con parole nelle quali – per dirla con Ruggenini, ci perdiamo quando sperimentiamo le situazioni limite.
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La tua vita è Dio, la tua vita è Cristo, la tua vita è lo Spirito Santo (agostino)
Non affrettiamoci, come diceva Einstein, a schierarci con positivisti ed atei privi d’inquietudini che appaiono “felici solo perché hanno la coscienza di avere, con pieno successo, spogliato il mondo non solo degli dei (entgöttert), ma anche dei miracoli (entwundert)” [29]. A volte si preferisce, in un mondo che pare essere sempre più il paese dei balocchi, assumere le sembianze di homo ludens per sfuggire alle provocazioni che invitano a pensare in profondità il senso dell’esistenza. E non si può negare che sforzarsi di interpretare quanto contiene la proposta cristiana sia un impegno gravoso. Interpretare, ricordava un filosofo, è “arrischiare una formulazione personale della verità” [30]. Se questo è vero di fronte alle questioni filosofiche, ancora più fondato è di fronte ad una proposta che ha la pretesa di salvare integralmente l’uomo!
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I filosofi greci hanno composto molte opere con convinzione e arte; ma, in effetti, vi fu mai qualche cosa così convincente e probante come la croce del Cristo? (atanasio di alessandria)
Rendere cristocentrica la proposta soteriologica al mondo d’oggi può portare frutto. Resta da chiarire le modalità dell’annuncio. Credo sia utile riandare al testo Rinnovamento della catechesi che, al n. 60, invita ad entrare nella piena umanità di Cristo, che è la porta che apre sulla Sua piena divinità e questa introduzione deve accadere tenendo conto dell’età, delle attitudini, della cultura, della problematica, delle angosce e delle speranze dei destinatari del kerygma cristiano. Questa attenzione all’uomo è stata posta alla base della catechesi incardinando il discorso su Cristo!
E questo deve essere il modo di pensare, in generale, della teologia. Si tratta, continuiamo ad attingere dal testo scelto, di conferire maggior spessore a quanto, nella personalità di Cristo, si incontra con la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Per questo occorre essere assai attenti alla sensibilità di Cristo per la sofferenza umana, alla Sua povertà, all’amore mostrato per deboli e malati, per i peccatori. Si osservino, inoltre,
“la sua capacità di scrutare i cuori, la sua lotta contro la doppiezza farisaica, il suo fascino di capo e di amico, la potenza capovolgitrice del suo messaggio, la sua professione di pace e di servizio, la sua obbedienza alla volontà del Padre, il carattere profondamente spirituale della sua religiosità”.
Si tratta di modalità esistenziali che interessano soltanto i cristiani? Se le enunciate qualità di Cristo sono intrecciate con la condizione umana, ognuno può misurarsi – per conoscere il livello di umanizzazione raggiunto – con il Gesù annunciato dalla Chiesa. Vorrei proporre un brano a quanti non credono che Cristo possa interessare ogni uomo, a prescindere dalla sua fede:
“Io conosco gli uomini e perciò vi dico che Gesù non è un uomo. Gli spiriti superficiali trovano qualche rassomiglianza tra lui e i fondatori di imperi, i conquistatori e gli déi di altre religioni, ma questa rassomiglianza non esiste. Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c’è la differenza dell’infinito: Cristo è unico. Chi è quel morto che può conquistare la terra con un esercito fedele e devoto alla sua memoria? Chi può contare su soldati senza paga, senza brame di gloria terrena, votati solo a ogni rinuncia? E con la promessa del martirio! E finalmente dico che non esisterebbe un Dio nei cieli, se un semplice mortale potesse concepire e realizzare il gigantesco disegno di arrogarsi il culto supremo, usurpando il nome di Dio. L’unico, infatti, che abbia osato affermare categoricamente: ‘Io sono Dio’ (che è ben diverso dal dire: ‘Io sono un Dio’) è soltanto Gesù: la storia non ricorda nessun altro individuo che si sia attribuito questo titolo nel suo preciso significato…In che modo questo giudeo, questo figlio d’un falegname ha potuto farsi credere Dio, l’Essere per eccellenza, il Creatore del cielo e della terra e pretendere d’essere adorato e riuscire a edificare un tempio costruito non con le pietre, ma nel cuore degli uomini, con un prodigio che trascende tutti gli altri prodigi? Ciò si spiega soltanto perché egli è Dio!”.
Penserete che siano parole di un mistico, un teologo… sbagliate! Esse appartengono ad un uomo di azione; un soldato, un grande capo militare che ha segnato il destino dell’Europa: sono parole che Napoleone Bonaparte pronunciò durante l’esilio nell’isola di Sant’Elena! [31].
[1] Cfr., j. moltmann, Il passo del Duemila. Progresso e abisso’, in aa. vv., Prospettive teologiche per il XXI secolo, a cura di r. gibellini, Brescia 2003, p. 28.
[2] z. bauman, La società individualizzata, Bologna 2002, pp. 196 – 197.
[3] id., ‘Compassione come programma mondiale del cristianesimo’, in Concilium 35 (2000) 4, pp. 77 – 97.
[4] Cfr., j. moltmann, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, Brescia 1999, p. 240.
[5] id., ‘Occidente attento arriva la nuova Cristianità’, in Sette 15 (2002) 43, pp. 108 – 112. Questa sfida impone di ripensare anche il cammino della Chiesa; per questo, è utile attraversare due testi: m. kehl, Dove va la Chiesa ? Una diagnosi del nostro tempo, Brescia 1998; a. fabris – m. gronchi (edd.), Il pluralismo religioso, Cinisello Balsamo (Mi) 1998. Per studiare il problema per come si manifesta in Italia, infine, è di grande aiuto il volume di s. allievi – g. guizzardi – c. prandi, Un Dio al plurale. Presenze religiose in Italia, Bologna 2001.
[6] Cfr., r. panikkar, Un dialogo intrareligioso, Assisi 1988, p. 95; Cfr pure id, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, Brescia 2001.
[7] Per questo è importante riflettere sulla provocazione di un teologo latinoamericano. In futuro, dice, toccherà interrogarci non “sul come parlare di Dio in un mondo diventato adulto, ma piuttosto sul come annunciarlo Padre in un mondo non umano, sulle implicazioni che porta il dire al non uomo che è figlio di Dio”(g. gutierrez, Prassi di liberazione, teologia e annuncio, in Concilium 10 (1974), pp. 87 – 88).
[8] Cfr., g. bosetti, È un ritorno sulla scena, in Reset n. 90 (2005), p. 6.
[9] È la tesi che Severino Dianich discute in Chiesa sì, chiesa no? Discussione su una mentalità diffusa, Leumann (To) 1994, p. 40.
[10] Cfr., l. accattoli, Io non mi vergogno del Vangelo. Dieci provocazioni per la vita quotidiana del cristiano comune, Bologna 2006.
[11] g. campanini, Il laico nella chiesa e nel mondo, Bologna 2004, pp. 48 – 49.
[12] Cit. in a. comastri, Dio è amore. Esercizi spirituali predicati a Giovanni Paolo II e alla Curia romana, Cinisello Balsamo (Mi) 2003, pp. 14 – 15.
[13] Evangelizzare, fare missione richiede proprio la diversità della Chiesa rispetto ad altre istituzioni: “Per essere veramente missionaria – conferma recentemente un teologo – la Chiesa deve incarnare in tutta la sua esistenza l’insegnamento evangelico, dev’essere comunità alternativa, cioè diversa nei suoi pensieri e nei suoi atteggiamenti rispetto alle altre comunità umane. Prima di essere raccomandato con le parole, il vangelo deve rilucere nella vita e nella testimonianza della comunità cristiana. Altrimenti le nostre parole non lasciano traccia nell’animo degli ascoltatori contemporanei, distratti e suggestionati dalle realtà visibili del tempo presente”(g. frosini, Piccolo manuale di teologia. Una sintesi aggiornata per catechisti e operatori pastorali, Bologna 2006, p. 37). Vincenzo da Lérin, pur ammettendo la necessità dell’evolversi della comprensione della Sacra Dottrina, ritiene altrettanto necessaria la messa in salvo dei convincimenti cristiani fondamentali: “Qualcuno, forse, potrà domandarsi: Non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande (…). Bisognerà, tuttavia, stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento, invece, si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra. È necessario, dunque, che con il progredire dei tempi crescano e progrediscano quanto più possibile , la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto…Anche il dogma della religione cristiana progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi con il tempo e approfondendosi con l’età. È necessario, però, che resti sempre assolutamente intatto e inalterato” (Primo Commonitorio, cap. 23, PL 50, 667 – 668).
[14] L’aneddoto è in p. kreeft – r. k. tacelli, Il tascabile dell’apologetica cristiana, Milano 2006, p. 74.
[15] Cfr., id., Dialogo nella secolarizzazione, in Il Regno – Documenti n. 17 (2003), p. 566.
[16] c. m. martini, Il cristianesimo che sogno per il futuro dell’Europa, in La Repubblica (13 luglio 2002), p. 13. Nei non – luoghi occorre seminare una fede doc (denominazione di origine controllata, come i vini di alta qualità). Ecco come raggiungerla per gradi: “Al gradino inferiore c’è una fede d’inerzia, di chi accetta tutte le verità rivelate senza tuttavia che esse ne condizionino la vita a volte in niente diversa da quella di chi si professa non credente. C’è poi una fede attiva, che almeno riesce ad impedire scorrettezze e disonestà. E, salendo ancora di grado, una fede che impegna non solo a non essere trasgressivi, ma anche a plasmare e vivere con spirito visibilmente cristiano. E infine una fede che trasforma l’uomo da natura a grazia, di cui Paolo (…) offre in sé il modello, dicendo di non essere più lui che vive, ma Cristo entrato a vivere in lui. Quest’ultimo aspetto (…) possiamo chiamare fede doc”(t. ricci, Fede doc con San Francesco per guida, Assisi 2006, p. 9).
[17] Scrive un teologo morale: “La rinuncia della Chiesa a farsi valere (…) è (…) l’unica possibilità di testimoniare gratuitamente e quindi limpidamente Cristo”(a. fumagalli, La Chiesa nel mondo, in La rivista del clero italiano 84 (2003), p. 211). Uno svuotamento di potere non come vile consegna di sé ai ‘gusti del mondo’, ma per farsi serva delle istanze più cogenti dell’uomo contemporaneo. Dal potere al servizio è una metamorfosi cristologica che giova alla Chiesa. Il compianto vescovo Tonino Bello parlava di chiesa del grembiule: “Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante una fotografia leggermente scollacciata di chiesa (…). Occorre riprendere la strada del servizio (…) del coinvolgimento in presa diretta nella vita” di quanti sono poveri e non solo in senso materiale (id., Stola e grembiule. Il diritto e il rovescio dell’unico panno di servizio sacerdotale, Terlizzi 1996, pp. 27 – 28).
[18] L’indagine è del 1991, ma credo che oggi le cose non siano mutate di molto. Cfr., g. brunetta – a. longo (edd.), Italia cattolica. Fede e pratica religiosa negli anni Novanta, Firenze 1991.
[19] p. ricca, Quale Europa?, in Quaderni di ‘Ecumenismo e dialogo’ 3 (1999), p. 77.
[20] agostino, De Trinitate XV, 28, 51, in PL 42: 1098. L’uomo di fede può essere anche uomo di cultura e ciò giustifica la necessità e l’urgenza – come insegnava Paolo VI – di “inserire il messaggio cristiano nel circolo di pensiero, di espressione, di cultura, di usi, di tendenze dell’umanità” che “si agita oggi sulla faccia della terra”(Ecclesiam suam).
[21] h. u. von balthasar – j. ratzinger, Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Brescia 2005, p. 99.
[22] Cfr., h. bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, pp. 29 – 30. Si può pensare ad una santità che non sia compromessa con Dio? La questione viene posta nel romanzo di Camus La peste in questi termini: il solo problema concreto è stabilire se possa darsi un santo senza Dio. Un teologo ha così definito il santo: “è un uomo che si trova non solo in presenza di Dio, ma a contatto con l’umanità; questo duplice contatto (…) è quello di un Dio che si mescola al mondo. Un santo ha, secondo Teresa Couderc, ‘il cuore grande come il mondo’”(x. leon – dufour, Un biblista cerca Dio, Bologna 2005, p. 290)
[23] Cfr., a. melloni, L’Europa come kaìròs’, in ‘Jesus’, settembre 2002, pp. 63 – 65. a . nanni, Educare alla convivialità, Bologna 1994.
[24] Cfr., don primo mazzolari, Perché non mi confesso?, Bologna 1986, p. 47ss. s. allievi, Il libro dell’altro. Il Vangelo secondo lo straniero, Bologna 1994. Nel documento Dialogo e annuncio del 1991, al n. 29, si afferma: “È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza, che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all’invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro Salvatore”.
[25] Vedi Il Regno – Documenti 3/1997, p. 75s. Osservava un filosofo contemporaneo: “il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà l’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo” (l. wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1980, p. 59). Proprio perché la fede cristiana non è un sistema di etica o una filosofia, ma una proposta nella quale ne va della vita, si può dire che, essa, – condividendo le domande fondamentali di ogni uomo aperto alla questione religiosa – deve configurarsi come fede dialogante.
[26] Lettere alla fidanzata cella 92. Dietrich Bonhoeffer – Maria von Wedemeyer 1943 – 1945, a cura di r. a. von bismarck – u. kabitz, Brescia 1995, p. 48.
[27] Cfr., giovanni paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, p. 74. Un Dio dal volto umano è un nostro desiderio e lo riconoscono anche i filosofi: “il Dio personale, non è una deduzione dalla nostra finitudine, ma è una scelta della nostra finitudine” perché “il bisogno di assoluto è duro a morire nel cuore dell’uomo”(e. mazzarella, Pensare e credere. Tre scritti cristiani, Brescia 1999, p. 10).
[28] Cfr., m. ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Milano 1997, p. 274.
[29] a. einstein, Lettera a M. Solovine, 30. 3. 1952, in id., Opere scelte, Torino 1988, pp. 740 – 741. Talmente può condizionare lo strapotere di cui pare godano positivisti o quanti professano un ateismo di maniera che, anche un uomo di fede come Sergio Quinzio, lamentava: “Chi dovesse scrivere la storia contemporanea potrebbe pacificamente ignorare la religione, senza per questo compromettere affatto la chiarezza e l’adeguatezza della sua visione”. In crescendo, “un uomo del ventesimo secolo non sa riconoscere il senso di un rito religioso” (Religione e futuro, Milano 2001, p.13sg.). Esagerazioni? Tuttavia, il tono provocatorio delle affermazioni di Quinzio merita attenzione.
[30] Cfr., l. pareyson, Verità e interpretazione, Milano 1982, pp. 50 – 51. Inoltre, l’interpretazione della verità “e la rivelazione dell’essere sono affidati alla nostra libertà”.
[31] Cit. in a. comastri, La firma di Dio, Cinisello Balsamo (Mi) 2002, p. 131.
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