I cristiani […] sono chiamati a essere figli della luce, sale della terra e testimoni di vita e di futuro per i figli del nulla della postmodernità […].Per superare il futuro breve della postmodernità, con le sue previsioni a breve termine sempre cangianti e contraddittorie, occorre affidarsi al futuro lungo della fede cristiana, che vede l’umanità in cammino verso Dio […]. I cristiani, insomma, devono riaccendere la luce della loro fede per rischiarare l’oscurità della notte postmoderna.
(S. E. Mons. Angelo Amato)
Il sociologo Max Weber, scrisse a Baumgarten che il metro giusto per misurare l’onestà di un intellettuale e di un filosofo si rinviene nel modo in cui si pone nei confronti di Nietzsche e di Marx; infatti, a detta del teorico del ‘disincanto del mondo’, la realtà nella quale “spiritualmente” viviamo, è segnata “profondamente” dai due pensatori. Il primo ha ripercorso la storia dei valori mostrandone l’origine ‘umana, troppo umana’ ed ha destrutturato, col metodo genealogico, la ragione che accampava pretese autoreferenziali; il secondo, poi, ha capovolto Hegel facendo sì che l’uomo si mettesse a camminare nuovamente sulle proprie gambe e non più sulla testa [1].
Marx associa il cristianesimo agli interessi del capitalismo del suo tempo e, per questo, insinua il sospetto che solo una rivoluzione tutta mondana può riscattare l’uomo dalle minacce provenienti dalle ingiustizie socio-economiche [2].
Nel messianismo marxista vivono, abilmente travestite, le istanze del messianismo ebraico: il cristianesimo, se ben compreso, non può pensarsi come totalmente staccato dal suo pur necessario humus storico. È stato detto che «l’uomo post-cristiano ha concepito una filosofia della storia che secolarizza il principio teologico della storia cristiana in un compimento terreno del suo senso» [3]. Marx non manca, in qualche passo della sua corposa produzione, di confessare che la ‘mancanza di Dio’ non rappresenta, nel vorticoso modo di vivere moderno, unicamente una ‘benedizione’. Intercettiamo, in un suo scritto, un lamento che tradisce la sofferta mancanza di un Telos all’interno addirittura del vivere quotidiano: «la nostra vita è un circolo; corriamo in giro, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo nell’arena e il gladiatore, precisamente la vita, ci uccide; dobbiamo avere un nuovo Salvatore» [4]. Il dilemma della ragione è che legittima, indifferentemente, modelli opposti di vita; se tutto è giustificabile razionalmente, cosa avrà realmente valore normativo? Se il nomos non è più Trascendente, pure vero è che, in ambito mondano, c’è confusione. Marx aveva ragione: la nostra vita è un circolo e, correndo in esso, cadiamo esausti tra le braccia di una vita che ci uccide: si invoca un nuovo Salvatore, ma si continua a firmare assegni in bianco alla Ragione [5]. Un filosofo spagnolo ha sostenuto che l’origine della ragione va rintracciata nel tempo in cui l’uomo deve scegliere, assumendosi rischi, come vivere, pensare… L’uomo della credenza, invece, «è da sempre sommerso nella sua fede» e ciò lo convince del fatto che essa sia la realtà stessa. Per il nostro autore la “fede” è ferma e la “ragione”, vacilla [6]. Non sono d’accordo: la fede è inquietante e pensante; il credente conosce dubbi, insicurezze, proprio come il filosofo. Questi, quando interroga la fede, scopre che amplia la ragione, l’attiva splendidamente. Mi piace riportare ciò che Paul Valéry scrisse, nel 1927, ad un domenicano: Per quanto concerne la fede, né la cerco, né la fuggo. Ho cercato di farmene un’idea precisa. Nel tentativo di chiarirsi le idee, si sviluppano anche le possibilità della ratio. È anche grazie allo sforzo di farsi un’idea precisa della fede che si può sottoscrivere quanto Giovanni Paolo II affermava nell’enciclica Fides et ratio: … La conoscenza dell’uomo è un cammino che non ha sosta (n. 18).
Una delle grandi questioni che si inaugura con la modernità è questa: il Dio ebraico-cristiano ha ancora interesse al mondo? Oppure: necessaria è la Sua Presenza? La creazione mostra che Egli non è immanente al creato, ma che l’ha dotato di una certa autonomia. Dio e mondo non sono uguali ed il secondo è affidato alle cure dell’uomo e da qui nasce la possibilità di indagarlo, conoscerlo… la scienza! Da un lato, ‘Dio’ e ‘mondo’ sono diversi; dall’altro, si relazionano.
D’altro canto, vi può essere “vera” relazione soltanto dove c’è “diversità”: «Dio e mondo – dice un filosofo americano – sono gli opposti complementari»[7]. Dall’Incarnazione in poi, nulla può dirsi ‘profano’ e nulla di Dio si mostra refrattario a profumare di Trascendenza ogni aspetto dell’immanente!
Uno scrittore praghese del Novecento afferma che l’amore sensuale può nasconderci quello celeste in quanto ne è, pur inconsapevolmente, in – formato [8].
La concretezza del cristianesimo sta tutta nell’Incarnazione! Nel farsi ‘carne’, il Logos ha prodotto quello che potrei definire (vi invito a pensare in profondità questa tesi) un doppio beneficio. Mi spiego. Dio, venendo nel mondo, non soltanto ha dato ad esso (a noi), la possibilità di una vicinanza intima col Trascendente, ma ha anche fatto un bene a Se stesso uscendo dalla nebulosa delle enigmatiche elaborazioni teologico – filosofiche che Lo riguardano[9].
Dio s’è fatto uomo affinché noi, camminando dietro a un uomo, cosa che possiamo fare, arrivassimo fino a Dio, cosa che non possiamo fare. Rivestendosi di umanità, il Verbo ci offre una scorciatoia per partecipare alla sua divinità.
L’ha detto Sant’Agostino! La mentalità atea, invece, si rifiuta di credere che Dio e mondo siano complementari e pensa unicamente in termini di opposizione. In una opera teatrale che Sartre compose per i suoi compagni di prigionia a Treviri, il protagonista è esplicito a questo riguardo:
«Un Dio-Uomo […] fatto della nostra umile carne […] che accetterebbe di conoscere quel gusto di sale che c’è in fondo alle nostre bocche quando il mondo intero ci abbandona […] che accetterebbe in anticipo di soffrire ciò che soffro oggi… Andiamo, è una follia» [10].
La teologia paolina, com’è noto, insegna che la sapienza del mondo è follia presso Dio e la (apparente) follia di Dio è vera Sapienza! La perdita della fede in un dio che accetta di conoscere il gusto di sale formatosi nel fondo della bocca dell’uomo maltrattato, conduce a pensare il riscatto della creatura come impegno interamente mondano.
Se un Dio come quello ebraico-cristiano appare “folle” alla ragione, in fondo, è perché non si accetta che il cristianesimo è un ‘accadimento’ anche storico; che, in realtà, si tratta di incontrare Qualcuno oggi e non di capire qualcosa.
Cristo non portato nella realtà che ora vivo dice nulla e, così, pensarLo sembra follia! «Un uomo non può aderire a Cristo, se non percepisce che è vero oggi! Gli incontri con persone che ci riguardano e ci comprendono come Gesù ha guardato e compreso […] e che noi possiamo guardare, sono i fatti più importanti della vita» [11]. L’uomo post-moderno è immerso nell’atmosfera ipercomunicativa; eppure, si sente, alle radice del suo essere, solo! Non è nell’intreccio ciarliero della rete informatica che ci si realizza, ma nel dialogo con un Tu. L’uomo contemporaneo cura l’incapacità di attingere alle grandi risposte del passato con atteggiamenti difensivi disperanti:
narcisismo, fuga nel virtuale, indifferenza ironica… Il primo passo da compiere, per tornare a pensare in grande e riscattarci dalle misere distrazioni per non sentire il morso delle Grundfragen, è quello di scusarsi con esse per averle credute superflue, archiviabili [12]. C’è chi sostiene che si può essere “felici” anche senza interrogarsi intorno a Dio; ma, a ben vedere, resta aperta una questione: Che cos’è l’uomo più felice senza la fede? Un fiore in un bicchiere d’acqua, senza radici e senza durata (Camillo Cavour).
Interessante è studiare la modernità per scoprire cosa ha prodotto la delegittimazione di una lettura teologica della storia. Svolgendo il mio percorso di studi, mi sono imbattuto in un fatto eclatante: solo assumendo concetti e linguaggi di ciò che si voleva abolire si è potuto combattere il lascito teologico, cristiano dell’occidente. Rimanendo su di un piano squisitamente filosofico, ci si può chiedere se non avesse ragione l’allora teologo Ratzinger (Benedetto XVI) a scrivere: Kant, Fichte, Hegel, Schelling non sarebbero pensabili senza gli apporti della fede e persino Marx […] vive […] degli orizzonti della speranza […] assunti dalla tradizione ebraica! Vi è chi, con avvedute motivazioni, scrive:
«l’illuminismo […] e il marxismo hanno combattuto le tradizioni religiose come le ideologie, ma hanno continuato in larga misura a dipendere dalle forme di pensiero delle tradizioni religiose stesse: l’uno dal diritto naturale aristotelico – stoico e cristiano, l’altro dai miti gnostici e da altri miti della redenzione» [13].
Pare non lontano dal vero chi coglie, nell’Illuminismo e nel marxismo, stimoli per il cristianesimo: le critiche costringono a rivedere eccessi teologici, a recuperare sulle derive toccate dalle originarie affermazioni cristiane. La necessità di dar vita ad una “retta dottrina” non fu, forse, una necessaria reazione alle provocazioni eretiche? Per paradossale che sembra, senza gli eretici la teologia non avrebbe conosciuto le grandiosi elaborazioni filosofico – concettuali che le si devono ascrivere. Gli eretici ci sono stati dati per non farci restare in uno stato infantile. Essi ci pongono delle domande da cui nascono discussioni, e da ciò abbiamo modo di definire i confini per creare una fede organizzata. Con queste parole Sant’Agostino coglieva il positivo contributo (?) degli eretici! Il teologo maturo ricorre ad analoghe espressioni riguardo alle provocazioni che vengono dal pensiero moderno e post-moderno. La critica marxista in particolare, per certi versi, purifica e valorizza quanto contenuto nelle posizioni religiose che la precedono.
Bloch suggerisce di non sbarazzarci immediatamente del marxismo perché disgustati da vapore critico interessatamente scambiato per esalazioni di zolfo: «la battaglia marxista contro il cristianesimo delle chiese e contro tutte le ipostasi trascendenti non manda affatto in fallimento la religione»; piuttosto, la libera da ogni distorsione del messaggio originario.
La “secolarizzazione marxista”, per il nostro autore, ha una innegabile profondità antropologica [14]. A voler essere onesti, la teologia, spesso, ha preteso di andare oltre le proprie possibilità.
È, questa, la critica mossa da un esponente della “Scuola di Francoforte”: «Io penso che la teologia è andata troppo avanti nell’affermazione su ciò che Dio fa e come Dio è […] su come tratta gli uomini dopo la morte, e così facendo, si è impigliata in un conflitto logico, proprio non necessario, con la scienza» [15].
La teologia deve evitare il conflitto logico con la scienza in quanto ha finalità diverse; in primo luogo, la salvezza dell’uomo è dono e non conquista del sapere. La fede, poi, non può essere cieca e la Rivelazione deve avere qualche cosa in comune con i saperi umani per risultare comprensibile. Assumendo questi punti fermi, allora, la teologia è chiamata a misurarsi (non scontrarsi) con le istanze della ‘ragione debole’. La teologia deve comprendere come ‘necessario’ non il conflitto logico con i saperi del “mondo della complessità”, bensì accettare l’onore e l’onere di “dialogare” con le forme attuali assunte dalla Ragione e con i linguaggi cari all’uomo contemporaneo.
In sintesi, «la teologia è possibile solo a condizione che la rivelazione comporti in sé anche una relativa conoscibilità […]. Una rivelazione […] che non sia conoscibile in un certo grado non è una rivelazione […] anche la fede non potrebbe costituire una premessa valida della teologia qualora fosse solo un sentire cieco […]. La fede non può essere altro che un conoscere in un certo grado» [16].
Si deve discutere di fede, di teologia, ma ancorati, senza paura, ad una delle condizioni nelle quali si esplica il sentire post-moderno: ogni istanza Trascendente si capovolge in preoccupazione immanente. Nel tempo del disincanto radicale si attua il «passaggio da una salvezza nella trascendenza a una salvezza nell’immanenza, che non implica più la tensione ad andare in paradiso, ma a rendere paradisiaca la terra» [17]. La tensione escatologica lascia la ‘categoria – Speranza’ e si rattrappisce in quella di ‘programmazione’: primeggia, ormai, «l’idea di ‘programmare il futuro’, ma non la speranza nell’avvenire» [18]. Programmare il futuro è preoccupazione ed occupazione della ragione strumentale. La fede percorre altri sentieri, tenta di rispondere ad altri quesiti. Dalla fede dipende la salvezza degli uomini, non il loro progresso e, dunque, va raccontata con parole semplici e vicine alla sensibilità di ogni uomo, a prescindere dalla sua cultura e formazione intel lettuale. Se non fosse “in qualche modo” comprensibile, chi salverebbe? Per questo, «dipendendo dalla fede la salute (salvezza) di tutti gli uomini, s’ella si fondasse puramente sopra una dimostrazione razionale, sarebbe per pochi, perché per pochi è la verità dimostrativa» [19].
Per delineare, in maniera nervosamente sintetica, la fisionomia dell’uomo a partire dalla modernità, potremmo attingere alla poesia di Hölderlin. Nella seconda stesura di “Mnemosyne” – tratta dai “Frammenti dell’in folio di Homburg – si legge: Ein zeichen sind wir deutungslos (Un segno noi siamo, privo di interpretazione) [20]. Siamo un segno e, come tale, dovremmo rimandare a qualcosa, a qualcuno. Ma a cosa? A chi?
La risposta non viene perché non siamo in grado di fare l’ermeneutica di noi stessi. Siamo un testo confuso, imbevuto di voci contrastanti ed inconciliabili. L’uomo si rattrappisce in se stesso e riesce appena a misurare la sua breve giornata (G. Costanzo).
La psiche è sovraffollata (figure religiose, profane…) e non sappiamo a chi rivolgerci per comprendere noi stessi. L’evangelista Giovanni definisce Cristo l’Ermeneuta del Padre: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito ce ne ha fatto l’esegesi (exeghésato)» (Gv 1, 18). Gesù ci ‘spiega’ Dio, ce Lo mostra perché la sostanza Sua e del Padre è la stessa. Se l’uomo non è più in relazione col Creatore, chi ci spiegherà a noi stessi? Dobbiamo fare da soli; qui, però, rimaniamo imprigionati nell’immanente, in preda alla confusione. Siamo un segno privo di interpretazione, eppure in noi si agita una ridda di possibili ermeneuti:
«Qui nella mia psiche – scrive uno studioso dell’anima – c’è Cartesio, e ci sono Platone e san Tommaso – tutti vivi, e tutti stanno collaborando a ciò che avviene. E c’è anche Einstein, qui […]: Padroni della Mente Occidentale vivono in me e stanno facendo un’ininterrotta conversazione. E non dimentichiamo sant’Agostino o Newton!» [21].
Hölderlin poteva ancora invitare a legare l’amore per la terra all’amore per il cielo ed esortava, con parole commoventi, così i giovani poeti: Liebt die Götter und denkt freundlich der Sterblichen (Amate gli déi e pensate benevolmente ai mortali) [22].
Il problema è che, ormai, abitiamo una dimensione. Per dirla con due termini tedeschi, esistere per noi è più Vorhandensein che Existieren.
Chiarisce uno studioso della Bibbia:
«Vorhandensein è l’‘esistenza’ nel suo ‘essere presenti’, coscienti di sé e dell’orizzonte in cui si è immersi come entità; d’altro lato, Existieren è l’‘esistenza’ autentica e piena, capace di scoprire che essa è un ‘ex – sistere’, cioè uno ‘stare’ che non ha in sé il proprio centro e punto di equilibrio, ma l’ha fuori di sé (‘ex’), nel Tu trascendente di Dio» [23].
L’uomo oggi tende a voler essere presente a sé, in un orizzonte fenomenico chiuso e pensa poco o nulla all’ eventualità che il suo essere nel mondo sia ‘esistere’, ex – sistere, avere il centro e punto di equilibrio fuori di sé, in Dio. Religione, etica, passano al vaglio del gusto, della preferenza; diventano questione “psicologica” ed “estetica”: «Le etiche impositive oramai sono in declino. L’educazione ai valori, pertanto, deve legarsi a un’estetica di grande suggestione che ci permetta di abbandonare la sfera tirannica degli editti e ci avvezzi a un’educazione del gusto e della sensibilità» [24].
Dalle grandi cattedrali teoretiche, ai sottoscala delle chances di vita, dell’appagamento psicologico: ecco dove precipitano le inquietudini etico – religiose. Abitare – metaforicamente – piccole e confortevoli case, disertando le cattedrali, porta alla miseria del pensare.
Dostoevskij scrisse che in un alloggio troppo piccolo anche i pensieri si striminzivano. Siamo nell’epoca del disimpegno sia per quanto riguarda le relazione interumane, sia riguardo al rapporto con Dio. Caduta la fiducia nella Verità, strappato il Nomos Trascendente alla pelle del mondo, si resta nudi e, dal punto di vista etico, appare senza senso lavorare alla costruzione virtuosa del sé [25].
Il rapporto con Dio non può ridursi all’intento di costruire un’etica, ma se credere in Lui non fa muovere nel mondo, siamo nell’ambito dei sogni da visionario:
«Quando si dice Dio senza praticare veramente la virtù, ‘Dio’ non è che una parola» - affermava un pensatore neoplatonico [26].
L’artista Marchel Duchamp impressionò non poco Breton quando, per decidere se tornare in America o ritornare a Parigi, si affidò al lancio di una monetina. In questo gesto c’è tutto il modo di vivere e di pensare dell’uomo moderno. Il progetto ponderato, ispirato e nutrito da riferimenti religiosi è divenuto impossibile. Mallarmé, urlava: Fuir! Là – bas fuir! (Fuggire, fuggire laggiù). Andare verso luoghi esotici perché i nostri nulla più dicono e significano. Fuggire, andare, però, non salva dal male di vivere. Rimbaud, infatti, cantava: Toute lune est atroce, et tout soleil amer (Ogni luna è atroce e ogni sole amaro).
Sole amaro perché non più irraggiante sul mondo oscurato dal rifiuto di ogni riferimento al Trascendente. Kolakowski rimane attuale: l’assenza di Dio, a suo dire, è la ferita ancora aperta dello spirito europeo. All’origine c’è il disinteresse per la metafisica. La Verità è in Dio, ma l’uomo deve non perdere il gusto e l’interesse per essa e lasciar scemare l’orgoglio di esserle fedele: «La verità è soltanto di Dio, ma c’è una verità umana, e consiste in questo: nell’essere fedeli alla verità» [27]. La modernità è fluida, liquida e non ama la fedeltà perché evoca legame. In realtà, la fedeltà richiesta dalla Verità (Dio) esige creatività nella permanenza. La vita con Dio è sempre nuova perché solo in un tempo circolare, come quello greco, le cose tornano uguali. La visione cristiana della Storia è escatologica e l’Apocalisse registra la volontà di Dio di fare nuove tutte le cose.
Il cristianesimo (la cristianità) deve sentire in sé la profezia, l’inquietudine escatologica che lo conducono a rinnovarsi; e questo, insisto, vale in maniera particolare in un tempo come il nostro nel quale «è spesso diventato orribilmente mediocre, il cristianesimo […]»; dunque, «o sparirà o ritroverà la sua originaria virtù. Non credo che possa sparire, ma deve certamente rinnovarsi prendendo coscienza della sua verità […] la morale cristiana […] è la manifestazione nella vita di una rivelazione paradossale» [28].
La verità, la morale cristiana è la manifestazione nella vita di una rivelazione paradossale. L’Altro irrompe al centro della nostra vita e, pur essendo divino, prende la nostra carne mortale per condurla oltre la morte! Paradosso che non si può ignorare perché – sottolinea Landsberg – si innesta “nella vita”, nella nostra vita.
Non ci si libera facilmente dall’inquietudine che genera. Il cinema finanche si è accorto di questo.
Un cavaliere medievale, in un film del 1956 di un regista svedese, grida: «Perché non posso uccidere Dio in me stesso?» [29]. Il fatto è che, come accade per la maggior parte degli atei pensosi, si vuole uccidere Dio in se stessi perché non Lo si riesce a racchiudere entro il perimetro ristretto della ratio. Si vuole sapere, non credere. Il cavaliere nel film di Bergman, infatti, continua a gridare: Io voglio sapere. Non credere […] supporre. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli…
Come si può chiedere una relazione quando si pretende di sapere e non di credere, affidarsi? Questa la dolorosa contraddizione nella quale ci avviluppiamo: soddisfare il cuore, ma pretendendo rispetto indiscusso per la Ragione! Se questa ha la meglio e si configura come potenza autorefer enziale, assoluta, Dio diventa un prodotto del Cogito e si nobilita, immeritatamente e pericolosamente, un fantasma. Volere un rapporto con Dio impone attenzione riguardo a come riteniamo che Egli sia: «quando un Dio parla al nostro cuore bisogna essere pronti a seguirlo ad ogni costo, ma solo dopo esserci interrogati con la massima lucidità possibile se a parlare è un Dio universale o un idolo dei nostri oscuri gorghi interiori» [30].
Seguire Dio va bene, ma prima si tratta di neutralizzare gli ‘idoli’ partoriti dall’interiorità. Molti hanno mostrato, non rendendo cattivo servizio al cristianesimo, che nemmeno il Dio per come ci viene narrato dalla Bibbia o da avveduti teologi coincide col Dio vero.
I percorsi umani verso il Trascendente non vanno enfatizzati, ma nemmeno ridicolizzati. Si risulta credibili soltanto corredando di limiti ogni tentativo di ‘dire Dio’: «Nessuna ragione umana potrebbe pretendere mai di descrivere il volto di Dio, ma al massimo una figura di Dio» [31]. Il Dio che si rivela per Amore, appunto, si ri – vela: mette nuovamente il velo perché non si rende interamente disponibile alle nostre teorizzazioni. Dio non si risolve nel mondo, ne questo si dissolve in Lui (dialettica tra trascendenza ed immanenza): «è e resta più grande dell’orizzonte di questo mondo, anche quando […] per amore, si comunica al cuore umano entrando nella storia. Nel pensare l’evento di rivelazione occorre conservare contemporaneamente la differenza e il rapporto tra trascendenza e immanenza: solo così Dio non è risolto nel mondo, né il mondo è annientato in Dio» (Bruno Forte).
Credo che non potremo fare a meno di parlare di Dio, malgrado si dia anche un ateismo semantico per il quale il linguaggio è impossibilitato ad esprimere il Trascendente. Io, però, torno all’antico e mi attengo alla posizione di Sant’Agostino: Che cosa può dire uno che parla di Te (Dio)? Eppure, sventurati coloro che tacciono di Te, perché, parlando, sono muti. Balbettio che sia, occorre cercare le parole. In ogni caso, bisogno andare incontro a Dio, nel post-moderno, affidandosi a tremolanti lanterne (pensiero debole). Stiamo navigando nel mare della Storia, per nulla favorevole al nostro andare, illuminando l’orizzonte con lumicini di speranze labili. Questo trova conferma nelle parole di un testimone del nostro essere viandanti disagiati:
«Il corto circuito fra essere e nulla che si registrava nel pensiero esistenzialista […] viene disinnescato; accantonata ogni curiosità per i massimi problemi, la ricerca umana si accinge a percorrere, con più modesti intenti ermeneutici, i sentieri delle ‘piccole narrazioni’, animata da una sensibilità estetizzante […] rigorosamente confinata in una regione in cui il linguaggio basta a se stesso e non lascia intravedere molti varchi verso l’esterno» [32].
Il linguaggio della modernità e della post-modernità, tuttavia, è intriso di riferimenti teologici; laddove si critica l’idea di Dio, si attinge ad un dizionario allestito con gli sforzi dei campioni della fede: «in Occidente il linguaggio è stato usato costantemente come una macchina per far essere il nome di Dio» [33]. Il pensiero, poi, deve non poco alle questioni di fede che si è trovato a discutere. Con esse si è spinto fino alla miscredenza, ma ha pure sperimentato fin dove la ragione è capace di giungere. Si amava la vita in maniera appassionata quando si pensava in profondità e la fede non era ridotta ad ‘ornamento’ (Vattimo), a fatto estetico o a consolazione. Emblematico il verso di Hölderlin: Wer das tiefste gedacht, liebt das Lebendigste (Chi ha pensato ciò che è più profondo, ama la vita più viva). La coscienza è sola davanti a se stessa, dimenticando che è ciò che diviene soltanto stando di fronte ad un Altro! Per la metafisica, la filosofia antica, la Scolastica questo era pacifico: «stando al significato proprio della parola, include un ordine della conoscenza a qualche cosa; infatti, conscientia deriva da cum alis scientia» [34]. La Rivelazione va considerata evento dialogale, atto di interrelazione: «è un processo che lega strettamente colui che conosce con Colui che si svela a lui» [35].
Un legame che occorre mantenere saldo ad ogni costo e per due motivi. Il primo, invita a considerare che, tenere in vita la manifestazione della propria religiosità (livello precedente la fede), aiuta a mantenere saldi i rapporti sociali: «il culto […]; su di esso riposa la felicità dei diversi popoli; se lo trascurano […], gli individui si ritirano nella propria coscienza privata e l’intero edificio crolla in pezzi» [36]. Se la coscienza staccata da ogni riferimento ad extra diventa normativa, ogni individuo fonda su se stesso e l’edificio della vita sociale va in frantumi. Nuove forme di religiosità – volendo alleggerirsi di zavorre dogmatico/cultuali –, in realtà, lasciano ogni uomo solo con se stesso o promettono una terapeutica fusione col tutto. La fede cristiana, vissuta nelle manifestazioni liturgiche, rappresenta anche una occasione affinché, attorno al sacro, si costituisca e si tenga salda la comunità. Il secondo motivo, poi, lo si prende da una opera filosofica centrale per la modernità: «La speranza comincia soltanto con la religione» [37]. L’uomo che, mai come oggi, tende a disperare sempre più perché assetato di Senso, dovrebbe pensare all’affermazione kantiana!
Come pensare, però, che la speranza debba fondarsi sulla religione se tutt’intorno si sperimenta un rapporto malato col mondo, con la Verità? Siamo completamente sequestrati dalla mentalità tecno scientifica? In prima battuta, sarei tentato di rispondere affermativamente; poi, rifletto e tendo ad essere meno drastico nei miei giudizi. Possiamo negare che da molte parti giungono critiche, proteste per i prodotti letali e le conseguenze inumane della visione tecno scientista della vita? Se tutto fosse prigioniero di questa mentalità, come potrebbe aprirsi lo spazio della critica? La metafisica non è stata completamente risolta in una visione meramente quantitativa della realtà:
«Se […] la metafisica si fosse davvero integralmente risolta nella tecnica planetaria, non potremmo neanche concepire un parametro antropologico, diverso da quello tecnico in base a cui giudicare inumani certi prodotti della tecnica» [38].
L’uomo, prima di aprirsi al Trascendente, recuperi una relazione sana, rispettosa con il tutto; non è, l’esperienza di Dio, qualcosa da godere in privato lasciando andare il mondo alla deriva. Sperimentare Dio come se tutto il resto fosse insignificante è impossibile. Inizia con l’amore per il finito una autentica passione per l’Infinito. Se vuoi penetrare nell’infinito, entra nel finito da ogni lato. L’ha detto il grande Goethe!
Amare il mondo significa guardare fiduciosi alla creazione di Dio proprio perché è Sua! Salvare il legame col tutto (nulla a che vedere con certe posizioni religiose post-moderne che esaltano la natura a scapito dell’uomo) è la sola condizione per relazionarsi in maniera autentica con Dio:
«L’esperienza di Dio non è un’esperienza […] specialistica […]. Senza i vincoli che ci uniscono all’intera realtà non possiamo avere esperienza di Dio» [39].
Se, però, l’uomo vive sotto la dittatura dell’estetico e rifugge quanto evoca impegno, lunga durata, mai sperimenta il rapporto con l’Altro; non può costruirsi una oasi felice nella quale soggiornare con un dio ridotto a puro Ornamento (Vattimo)! Giona, il riottoso profeta che non vorrebbe la salvezza della pagana Ninive, cosa sperimenta? Alla fine, vuole riposare sotto un ricino, all’ombra; godere di una pianta che non ha contribuito a far nascere. Dio, così, fa seccare il ricino e Giona se ne risente. Si può avere a cuore un ricino che ci è costato nulla e vedere una intera città perire con indifferenza?
Il quesito che chiude (lasciandolo paradossalmente aperto) il “Libro di Giona”, provoca: si può stare all’ombra, credendosi in pace con Dio, e non curarsi delle realtà sofferenti che ci circondano? Giona, come noi, può e deve far esperienza di Dio stando nel mondo per amarlo soprattutto quando questo si è allontanato dal Trascendente.
Attualizzando l’esperienza dell’antico profeta, possiamo dire che il cristianesimo si gioca, in Europa, la propria credibilità accompagnando alle intenzioni, gesti concreti di solidarietà, di ascolto, di amore…
Di recente è stato scritto qualcosa che assumo come manifesto programmatico di quanto iniziare urgentemente a fare:
«Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe fornirci qualche debole consolazione, ma renderebbe vana la Pentecoste. È il tempo di spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo di cui siamo i testimoni […]. Se l’Europa riconoscerà i cristiani, lo farà in virtù del loro effettivo impegno nella fede, non per le loro semplici intenzioni» [40]
[1] Cfr., w. hennis, Il problema Max Weber, Bari 1991, p. 193. Riguardo ad Hegel, mi riferisco a questa sua affermazione: «Da che il sole splende sul firmamento ed i pianeti girano intorno ad esso, non si era ancora scorto che l’uomo si basa sulla testa, cioè sul pensiero, e costruisce la realtà» (g. w. f. hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze 1963, vol. IV, p. 205).
[2] «È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua […]. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica» (k. marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in k. marx – f. engels, Opere complete, vol. III, Roma 1976, p. 191).
[3] Cfr., k. löwith, Saggi sulla storia, Firenze 1971, p. 62. L’Incarnazione è l’inequivocabile gesto di Dio denunciante la Sua scelta di entrare nella storia senza risparmiarsi: «se il cristianesimo è straordinariamente storico, se ha costruito la storia, è perché l’eterno appare nel tempo e può essere incarnato nel tempo» (n. berdjaev, Il senso della storia: saggio di una filosofia del destino umano, Milano 1971, p. 59).
[4] k. marx, Scorpio e Felice, in Opere complete, cit. vol. I, p. 717.
[5] Che i progetti politico-ideologici espressi dalla ragione siano inconciliabili, eppur ognuno di essi pretende di valere assolutamente, è dimostrabile attingendo a due autori del Novecento; il primo, fa riferimento al socialismo: «una società socialista (è) una società conforme al vero senso (logos) della vita» (h. marcuse, La liberazione dalla società opulenta, in aa. vv., Dialettica della liberazione, Torino 1969, p. 178). Il secondo, parla di democrazia con pretese non dissimili da quelle affacciate da Marcuse: «le democrazie americana e inglese… più saldamente rappresentano nelle loro istituzioni la verità dell’anima» (e. voegelin, La nuova scienza politica, Torino 1968, p. 271).
[6] Cfr., j. ortega y gasset, Una interpretazione della storia universale, Milano 1978, p. 150.
[7] Cfr., a. n. whitehead, Il processo e la realtà, Milano 1965, p. 657. Nel mondo vi sono tracce del Trascendente e, sforzandosi di conoscerlo, l’uomo rinviene segni di Dio: «Il mondo è la comprensibilità che Dio vuol dare di sé all’altro da sé» (g. barzaghi, I fondamenti metafisici della mistica, in aa. vv., Mistica d’Oriente e Occidente oggi, m. vannini (a cura di), Milano 2001, p. 17).
[8] «L’amore sensuale riesce a farci dimenticare quello celeste. Da solo non potrebbe farlo, ma poiché ha inconsciamente in sé l’elemento dell’amore celeste, ci riesce» (f. kafka, Quaderni in ottavo, Milano 1988, p. 94). È stato ‘opportunamente’ scritto: «Tra il mondo naturale e quello soprannaturale esiste distinzione, ma non dualismo» (p. sherrard, Il peccato culturale dell’occidente, Gorle (BG) 2001, p. 30).
[9] È un pensatore rumeno contemporaneo che mi fa cogliere la finezza del ‘doppio beneficio’ dell’Incarnazione. A suo dire, però, il bene Dio l’avrebbe fatto solo a Se stesso: «l’incarnazione non rappresenta un dono del divino fatto al mondo, ma a se stesso: l’essere divino usciva così dal nulla e dalla mancanza d’identità della perfezione» (c. noica, Sei malattie dello spirito contemporaneo, Bologna 1993, p. 75). La mentalità non cristiana coglie solo un aspetto del mistero/Incarnazione. Dio assume una identità storica soprattutto per la salvezza dell’uomo!
[10] Cfr., j. p. sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti, Milano 2003, p. 78.
[11] l. giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, Roma 1993, p. 411. Incontrare Cristo è un “avvenimento” che apre la possibilità di condividere una storia con Qualcuno che ci guarda e ci comprende come nessun altro può fare: «il cristianesimo è […] qualcosa di accaduto, che accade: questa è l’insostituibile categoria che ne definisce la natura» (p. 158).
[12] Su questo tema ha un verso splendido una voce poetica del nostro tempo: «Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole/risposte» (w. szymborska, Sotto una piccola stella, in id., Vista con granelli di sabbia, Milano 2000, p. 106).
[13] Cfr., e. topitsch, A che serve l’ideologia, Bari 1975, p. 6. Inizia, con la modernità, un nuovo modus pensandi e vivendi? Non si tratta, piuttosto, di una rilettura, pro domo sua, del lascito metafisico cristiano da parte di quanti volevano liberarsi dalle tutele Trascendenti? Lo afferma un pensatore marxista: «Incipit vita nova, queste parole di Dante aprono l’epoca moderna […], ma la fonte […] viene senza dubbio dal pathos non ripagato di un nuovo eone sempre ricco del calore cristiano» (e. bloch, Religione in eredità (Antologia di scritti di filosofia della religione), a cura di j. moltmann – r. strunk, Brescia 1979, p. 141). Le utopie rivoluzionarie capaci di pensare il futuro dell’uomo, si alimentano alla Scrittura, alle categorie teologiche dell’Esodo e dei Profeti. Conferma Bloch: «L’accento più importante che la Bibbia pone sul mondo è quello del futuro» (p. 191).
[14] e. bloch, Experimentum mundi. La domanda centrale. Le categorie del portar fuori. La prassi, Brescia 1980, p. 243. La Rivelazione è data non come razionale, ma per diventare interessante per la ragione. È la tesi di Lessing: le verità religiose quando furono rivelate non erano razionali, ma furono rivelate perché lo divenissero.
[15] Cfr., m. horkheimer, La nostalgia del Totalmente altro, Brescia 1972, p. 114. Va detto che, tuttavia, grazie alla radice ebraica innestata nella modernità, abbiamo l’Europa che conosciamo. Marx trasforma il messianismo biblico in messianismo intramondano; Freud giudica la religione una illusione, cosa da nevrotici, ma aiuta a letture ingenue; Einstein ripensa le leggi della fisica, ma non manca di elevare lodi al sentimento religioso: «senza Marx […], senza Freud e la psicanalisi, senza Einstein e la relatività, o senza Kafka, senza Wittgenstein, il mondo contemporaneo non sarebbe ciò che è» (s. quinzio, Radici ebraiche del moderno, Milano 1990, p. 17).
[16] Cfr., e. peterson, Che cos’è la teologia?, in Bailamme 2 (1987), pp. 201 – 220, cit. p. 207. La teologia deve tessere, potremmo dire, l’elogio della penombra: narrare il già tenendo acceso l’interesse per il non ancora. Se la teologia pretende di mostrare troppo è cieca davanti al mistero irrisolvibile di Dio; se si lamenta fremendo tra tenebre razionali acceca nell’uomo l’occhio spirituale. Né “luce pura”, né “pura oscurità”. Valga per i teologi questa riflessione filosofica: «La luce pura e la pura oscurità […] sono il medesimo. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità […], come solo nell'oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce – […] solo nell’oscurità illuminata si può distinguere qualcosa» (g. w. f. hegel, Scienza della logica, Bari 1974, I, p. 83). Il sapere teologico illumina il buio, ma non lo annulla nel trionfo della luce pura.
[17] s. natoli, È tempo di disincanto, in aa vv., Abitare la vita. Ricerca e attesa di un compimento, Milano 2001, p. 53. Il teologo, in verità, deve amare le ‘cose’, le ‘istanze affettive’ ed anche i ‘concetti’. Mettere tutto in relazione armonica. Lasciamo ai filosofi di scegliere una direzione nella quale specializzarsi. Dio ama tutto l’uomo e tutta la creazione. Un pensatore del Novecento ha detto che ci sono tre categorie di filosofi: «alcuni ascoltano battere solo il cuore della cose, altri soltanto quello degli uomini, i terzi soltanto dei concetti» (g. simmel, Diario postumo, in id., Saggi di estetica, Padova 1970, p. 4). Il teologo, invece, nel cuore dell’uomo deve saper trovare concetti capaci di battere vivi come il pulsante cuore delle cose del mondo e mette tutto in relazione vitale.
[18] Ivi., p. 54. Muovendo da queste considerazioni ci si slarga in un pessimismo iperbolico, costretti ad ammettere che il “nostro tempo” è un «deserto postmoderno in cui Dio è morto, le grandi finalità si spengono, ma tutti se ne fregano» (g. lipovetsky, L’era del vuoto, Milano 1995, p. 41). Il nuovo progetto antropologico è sfrontato, oltraggioso verso le indicazioni cristiane. Un romanziere anticipava le derive oggi rubricate dall’antropologia: «Vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. A chi sarà indifferente vivere o non vivere […] sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio» (f. dostoevskij, I demoni, Milano 1986, p. 117). L’enfasi di Kirillov, protagonista de I demoni, è stata sconfessata perché, piuttosto che darsi l’epoca del Superuomo, si è data, l’era del vuoto.
[19] Cfr., a. rosmini, Logica, Roma – Stresa 1984, p. 365. La ragione, tuttavia, è importante perché toglie le nubi alla fede (tommaso d’aquino, Summa contra Gentiles I, 4). Quando argomenti di fede prevalgono sui sofismi della ragione calcolante è perché ci si gioca tutto intorno alla questione del Senso. In tal caso, vale il principio secondo il quale «la ragione non si sottometterebbe mai, se non giudicasse che ci sono casi in cui si deve sottomettere» (b. pascal, Pensieri, Milano 1968, p. 114). La ragione, quella onestamente critica, è utile alla fede anche perché insegna a «non accettare sconsideratamente come insegnamenti divini le umane elucubrazioni» (b. spinoza, Trattato teologico – politico, Torino 1972, p. 186).
[20] Cfr., f. hölderlin, Poesie, Milano 2001, p. 445.
[21] Cfr., j. hillman, L’anima del mondo. Conversazioni con Silvia Ronchey, Milano 2001, pp. 61 – 62.
[22] f. hölderlin, Ai giovani poeti, in Poesie, cit. p. 107.
[23]g. ravasi, in m. buber, Il cammino del Giusto. Riflessioni su alcuni Salmi, Milano 1999, pp. 5 – 6.
[24] Cfr., luis carlos restrepo, Il diritto alla tenerezza, Assisi 2001, p. 8.
[25] Socrate: «È perché ho fede nella verità che sono deciso a cercare con te che cosa sia la virtù» (platone, Menone 81a).
[26] Cfr., plotino, Enneadi, 2.9 (34) 15.39 – 40.
[27] Cfr., m. buber, Il cammino del Giusto. Riflessioni su alcuni Salmi, cit. p. 27.
[28] p. l. landsberg, Il problema morale del suicidio, in id, Scritti filosofici, I, Cinisello Balsamo (MI) 2004, p. 773.
[29] Cfr., i. bergman, Il settimo sigillo, Milano 2005, p. 28.
[30] c. magris, Utopia e disincanto. Storie, utopie, illusioni del moderno. Saggi 1974 – 1998, Milano 1999, p. 245.
[31] p. colonnello – p. giustiniani, Ragione e Rivelazione. Introduzione alla Filosofia della religione, Roma 2003, p. 42.
[32] Cfr., l. alici, Con le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili, Roma 1999, p. 20.
[33] Cfr., g. agamben, La comunità che viene, Torino 2001, p. 49.
[34] tommaso d’aquino, Summa Theologiae, I, 79, 13 c.
[35] a. men’, Le fonti della religione, Padova 1994, p. 89.
[36] Cfr., g. w. f. hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, Roma 1983, parte I, pp. 212 – 213. La “coesione sociale” non è garantita nemmeno dal Diritto se questo è refrattario ai riferimenti divini. Un esperto del settore, scrive coraggiosamente che «la scomparsa del nome di Dio dal linguaggio giuridico ha lasciato un grande vuoto, di cui gli uomini non hanno creduto di potersi disinteressare. Faticosamente hanno cercato di riempirlo volta a volta con il nome di totalità sempre diverse: il Re, la Natura, la Nazione, il Popolo, la Classe, la Legge» (s. cotta, cit. da f. d’agostino, Diritto e laicità. Una prospettiva fenomenologica-strutturale, in Il cristianesimo e la crisi della coscienza moderna, salvatore amato (ed.), Cinisello Balsamo (MI) 2009, pp. 19 – 31, cit. p. 30).
[37] i. kant, Critica della ragion pratica, Bari 1966, p. 163.
[38] Cfr., m. bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Pistoia 1998, p. 136. Secondo questo pensatore, dobbiamo insistere a parlare del bene. È la cosa più concreta: «Il mondo attuale […] non può durare a lungo: gli squilibri antropologici che genera fanno dubitare che possa rimanere un minimo ordinato oltre il XXI secolo. La conoscenza del bene è […], molto concretamente, […] la conoscenza delle condizioni di una vita sociale ordinata e sensata. Tutto sta a renderla possibile, risalendo a ritroso, con il pensiero, la corrente nichilistica che ci ha condotti fino a questo punto» (pp. 138 – 139). Ci vuole il coraggio di fare i conti con il percorso attuato dal nichilismo e, risalendo la corrente, scopriremo, che il gap sta nell’aver sganciato il Sole/Dio dalla Terra! Qui, dunque, si plana nuovamente sulla provocazione contenuta nell’Aforisma 125 de La gaia scienza di Nietzsche e che ispirò il volumetto che precede questa riflessione.
[39] r. panikkar, L’esperienza di Dio, Brescia 1998, p. 39. La realtà mostra cosa abbiamo fatto della nostra esperienza di Dio. Deciderci per il Vangelo significa scegliere di incidere significativamente sulla realtà. Il Vangelo non risolve i problemi, ma ci sveglia a quelli essenziali: «non propone nessun ‘lieto fine’ alla nostra storia, ma ci offre due opzioni […] libertà di scelta […] quello che le ideologie non permettono mai! Il Vangelo ci permette di imitare Cristo […] o […] Satana e correre il rischio di autodistruggerci» (r. girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con P. Antonello e J. C. de Castro Rocha, Milano 2003, p. 187).
[40] Cfr., r. fisichella, Identità dissolta. Il Cristianesimo, lingua madre dell’Europa, Milano 2009, p. 46.
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