Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Il Credente...

Il credente
Una sentinella nella notte

Nel cuore della modernità si leva la voce di Baudelaire a condannare la meccanizzazione della vita che conduce ad un ‘progresso’ che ha – scrive il nostro autore - «perfettamente atrofizzato tutta la parte spirituale di noi stessi». Il poeta, disperato, chiede ad ‘ogni uomo pensante’ chiarimenti sul ‘senso della vita’. La sua interrogazione, però, come avviene per lo più nella modernità, si distende interamente su di un piano orizzontale: «Quanto alla religione – denuncia infatti Baudelaire -, credo inutile parlarne e cercarne i resti, perché darsi la pena di negare Dio è in simile materia il solo scandalo». Questa lapidaria dichiarazione è emblematica perché traduce, potremmo dire, in ‘manifesto’, la volontà dell’uomo moderno di cercare il senso della vita lontano da provocazioni e richiami Trascendenti. Parlare di Dio è uno scandalo perché, ormai, finanche inutile è cercare quanto resta della religione.
Sono i prodromi di quella che, nel mondo contemporaneo, si configura come indifferenza per il problema religioso. Le forme di religiosità che fanno dire a qualcuno, con affrettato entusiasmo, che la religione sta tornando, vanno criticamente osservate: spiritualismo, sincretismo, fanatismo, appaiono più come l’evoluzione patologica dell’antico che non un riattivazione o rafforzamento di esso! Un critico letterario, Carlo Bo, riassunse, in maniera cristallina ed indiscutibile la situazione nella quale ci dibattiamo quando affrontiamo il tema ‘religione e mondo contemporaneo’: «È vero il mondo esprime sempre più un bisogno di ‘religiosità’, ma a parte le sue interpretazioni più fanatiche e barbare, è un magma di attese, di sguardi. Ho l’impressione che la voce di Dio passi sui nostri cuori e non lasci traccia. Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un altro modo, fra tanti, di non rispondergli». Proviamo a riflettere, spezzandola in tre tronconi, su questa frase 1) Può costituire un buon inizio essere consapevoli che il mondo non ha definitivamente interrotto i sentieri verso l’Oltre; 2) Rimane imprescindibile, però, una valutazione critica su cosa stia davvero verificandosi nell’ambito della conclamata rinascita del religioso. Ci sono molte ombre e qualche cruento, luttuoso segnale indica che l’orizzonte è ingombro di ceneri e, sotto di esse, il fuoco rosso sangue della barbarie resta acceso; 3) Attese, sguardi… l’uomo contemporaneo è assetato e non sa dove attingere acqua. La nostra condizione indica quella della Samaritana: aveva avuto cinque mariti.  Nel Vangelo simboleggiano i cinque idoli adorati in Samaria. Beve la donna, ma non si disseta; guarda, attende l’uomo, ma nulla appare all’orizzonte; non vede nulla e nessuno per riposarvi lo sguardo perché finalmente ha intercettato uno scampolo di senso. Al dolore di queste attese e sguardi pencolanti pericolosamente sul vuoto, si aggiunge la troppa superficia lità di quelli che invece pensano di aver incontrato Dio. Bo ci invita a non acconsentire all’entrata di Dio nella nostra vita senza un rapporto reale, sofferto… questo, infatti, equivarrebbe  a non rispondergli.La sentinella cristiana vigila sul proprio cuore per comprendere se è il vero Dio che lo sta abitando. Dobbiamo saperlo anche perché, come scrisse Herder, nella seconda metà del 1700, l’uomo prende forma a seconda delle mani in cui cade.

Il cristiano non può né definire uno scandalo occuparsi di Dio, né accontentarsi dei surrogati del Trascendente. Kierkegaard aveva una visione chiara della questione quando scriveva che «per il cristianesimo […]la verità non consiste nel conoscerla, ma nell’esserla». Non siamo nel ristretto perimetro di occupazioni intellettuali. Una teodicea babilonese, risalente al 1000 a.C., recita: La mente divina, come il centro dei cieli, è lontana. La comprensione di ciò è ardua. La gente, nella maggior parte dei casi, non ci arriva. Il cristiano vigila, accetta di essere sentinella e non si limita a scrutare l’orizzonte della Storia servendosi del cannocchiale del sapere, né si fida dell’astuzia della ragione che muta in ‘positivo’ il ‘negativo’ della Storia certamente e grazie ad artifici dialettici (Hegel). Non si tratta di accettare regole per vivere meglio o sentirsi a posto per quanto riguarda la ‘coscienza psicologica’ (che non è quella ‘morale’); non è entrare empaticamente in contatto col creato, per noi, credere. La fede cristiana, piuttosto, è aderire interamente alla chiamata di un Dio che non è un farmaco, né un rimedio a tare psicologiche.
Ambrogio arriva a dire finanche che non può essere vero uomo se non colui che spera in Dio! Hans Küng dice che non conta granché il giudizio della ‘ragion pura’ riguardo alla esistenza di Dio; infatti, qui rimane ‘centrale’ la «decisione dell’intera persona». In un tempo, però, in cui le relazioni d’amore meramente umane sono diventate labili, liquide – come si esprime Bauman – è difficile che un messaggio esigente come quello cristiano possa trovare accoglienza calorosa. Essere cristiani significa farsi sequestrare, senza remore e senza possibilità di ripensamenti, da un Amore che ci fa vivere in perenne esodo dall’ego ed in perpetua tensione verso l’Altro/altro. Alexis Carrel era un medico ateo e, come tanti scienziati, decise, nel 1903, di recarsi a Lourdes per scoprire cosa ci fosse dietro a tanto clamore. Come molti altri illustri scettici, Alexis si convertì ed in seguito si spinse a scrivere che passa «una grande differenza tra Gesù di Nazaret e Newton: ed è che il precetto dell’amore reciproco è una legge infinitamente più importante della gravitazione universale». Conoscere le leggi di Newton aiuta a comprendere come vanno le cose ma, la ‘legge di Cristo’ (l’Amore), rivela cosa è davvero il cuore dell’uomo unito a Dio. Proviamo a saldare segmenti di riflessione: 1) La verità cristiana non può essere conosciuta se non diventa vita in noi (Kierkegaard). Si cerca Dio a partire dal nostro vissuto; 2) Il lavoro della ragione non è sufficiente a meditare il mistero dell’esistenza di Dio, a cercarLo, e necessita un pensiero coinvolgente l’uomo in tutte le sue dimensioni (Küng); 3) Le leggi della natura sono importanti perché spiegano quanto accade intorno a noi, ma la legge dell’Amore insegnata e rivelata da Cristo ed in Cristo ha una importanza maggiore perché interessa il nostro esserci in maniera autentica nel ‘mondo della vita’ (Carrel).

“Famiglia Cristiana”, nel 1986, pubblicò un articolo di Adriano Bausola: Il vero dramma è l’indifferenza. De Lubac, dal canto suo, aveva scritto Il dramma dell’umanesimo ateo; Bausola, invece, ritiene che siamo passati dall’ateismo all’indifferentismo. Per il filosofo italiano, la questione si pone in questi termini: «L’indifferente religioso è chi, pur ammettendone l’esistenza, non trova Dio rilevante per la sua vita». Non ci si danna più per negare, ma ci si rilassa nel non prendersi cura del Trascendente! Si pensava – a partire da Nietzsche – che fosse insopportabile per l’uomo, se aveva grandi progetti su se stesso, ammettere la presenza (antagonista) di un Creatore; ora, la cosa sta così: non me ne do pensiero. Nell’opera del 1946, Teseo, lo scrittore francese ateo, André Gide, sancisce l’abbandono di Dio per lasciare la scena del mondo interamente all’uomo che, scriveva, «resta figlio di questa terra» e «gioca con le carte che ha». Siamo, ormai da tempo, nell’epoca dell’abbandono di Dio ma, invece di soffrirne, da allegri nichilisti inauguriamo – per usare il linguaggio nietzschiano – il tempo in cui l’orizzonte torna libero e solchiamo mari che non osammo navigare.
Come dare torto, però, a Guardini che affermò ne L’essenza del cristianesimo: «Nessun umanesimo antico, nessuna profonda intuizione orientale, nessuna moderna teoria del superuomo, hanno preso l’uomo e il mondo così sul serio come la fede cristiana». Ne Il diavolo e il buon Dio, Sartre incenerisce l’atavica solidarietà tra Creatore e creatura ed annuncia l’assunzione della solitarietà come costitutivo antropologico dell’uomo adulto. Goertz, nel lavoro teatrale del filosofo francese, denuncia la sua condizione atea ammettendo che, ormai, rimarrà solo «con questo cielo vuoto sopra la mia testa» visto che non ci sono che gli uomini. Uno dei protagonisti di un romanzo di Françoise Sagan, sostiene che vivere è come accettare un invito per un week-end «in una casa di campagna, piena di trabocchetti e di pavimenti sdrucciolevoli, in una casa in cui cercheremmo invano il maggiordomo, Dio, o chiunque altro». La parabola antiteologica che viene tracciata tra ‘modernità e postmodernità’, dunque, si racchiude in due slogans: dal solo uomo all’uomo solo; dalla solidarietà orizzontale/ Verticale alla solitarietà interamente orizzontale. Questo fece dire a Malraux – in una conferenza all’UNESCO – che dalla morte di Dio consegue quella dell’uomo. Rovesciando (a partire da Feuerbach) la teologia in antropologia, sostituendo a Dio (a partire da Nietzsche) l’Oltreuomo, si è ottenuto che «l’uomo interiore […] finirà per dialogare sempre meno con Dio e sempre più con se stesso» (B. Craveri).

Eugenio Montale, come denuncia nei versi di ‘Diario Postumo’, tutta la vita cercò un segno intelligibile/che può dar senso al tutto. Nel febbraio del 1965, poi, confessò che, nei versi della maturità, sperava, battendo al muro del fenomenico, di vedere «ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge».  Ammise: «Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta». La sua esperienza è emblematica di un disagio insuperabile dell’uomo contemporaneo: si cerca il senso, ma sempre a partire dalla convinzione che il cristianesimo, Dio, Cristo, abbiano smesso di parlarci. Palomar, personaggio dell’omonimo romanzo di Italo Calvino, pure spiava il fenomenico sperando di cogliervi un bagliore Trascendente; viveva con la speranza che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. La fermentazione di tutte queste attese denuncia la consapevolezza di una perdita intercettata e chiarita dal filosofo Habermas: «La speranza perduta nella resurrezione lascia dietro di sé un vuoto evidente». Si potrebbe pensare, in un momento di raro ottimismo, che questo vuoto possa riconfigurarsi in spazio nel quale attivare la ricerca di Dio; ebbene, la condizione dell’uomo contemporaneo è talmente complessa che l’evidente perdita della Speranza cristiana non ci incoraggia ad  andare a ritroso per imparare a camminare di nuovo alla Luce della Parola. Non si crede che la Parola possa essere – per citare un salmo – lampada ai nostri passi perché i Lumi della Ragione paiono più affidabili; tuttavia, con il trionfo del pensiero debole, la luce della Ratio si è ridotta a lumicino. Si giudica tolleranza non forzare la razionalità ad aprirsi al Trascendente e si ritiene superflua la ricerca di Dio in un mondo nel quale basta la ragione calcolante a realizzare fini concreti, immediatamente godibili. Le provocazioni teologiche non immettono ‘qualcosa’ (Qualcuno) nel pensiero gonfiandolo oltre ogni ragionevole capacità di accogliere il nuovo, ma ampliano gli orizzonti verso i quali la ratio può slanciarsi: «La Rivelazione non ha portato – scriveva de Lubac – solamente un nuovo oggetto alla ragione, ha dilatato la ragione stessa».

Il cristiano che, refrattario al fideismo, cerca come se avesse trovato e mostra di aver trovato come se dovesse ancora cercare, articola il proprio vivere tra due poli: ratio fidei (ragione che crede) e forma fidei (vita credente). Non assume, dunque, il ruolo di protagonista della storia, ma quello di collaboratore di Dio. L’uomo, così, si realizza proprio quando la costruzione di se stesso viene contraddetta, nei modi e nelle finalità, da indicazioni Trascendenti. Come si esprime Agostino: «Devi distruggere in te ciò che tu hai fatto perché Dio riconosca in te ciò che lui ha fatto». Se l’uomo si mostra negli autori atei citati come uno che provvede a se stesso e si gioca la vita con le carte che ha, il cristiano accoglie come disintegrazione positiva la perdita dell’arredamento epistemico da lui progettato e lascia a Dio il compito di ammobiliare la casa/mondo in maniera appropriata.
L’uomo di Gide, Sartre, Sagan fa da sé, ma non pare che il risultato sia positivo; si aggiunge all’io e si toglie a Dio ed alla fine, il carico eccessivo posto sulle deboli spalle del soggetto, non produce che la fatica di esistere. D’altra parte, non è mai lecito, nemmeno per il più tetragono dei credenti, pensare che relazionarsi a Dio significhi stare davanti ad una entità facilmente afferrabile. Nella Summa Theologiae Tommaso ha scritto qualcosa che potrebbe turbare solo chi non conosce l’aspetto agonico della fede: siamo «uniti a Dio come ad uno sconosciuto». Si parla, ovvio, della conoscibilità di Dio in accezione filosofica; per chi si affida alla Rivelazione, le cose stanno diversamente anche se, pur in questo caso, la ragione mai rinuncia a comprendere. Quello che conta, però, è che gli appassionati cercatori di Dio mostrino il valore ed il senso della ricerca; che essa non sia, cioè, soltanto il tentativo di elevare tende di parole attorno al mistero. La verità cristiana – dicevamo con Kierkegaard – va non saputa; bensì, vissuta! Il vescovo e martire Ignazio di Antiochia, agli albori del cristianesimo, rigettava una professione di fede soltanto pronunciata ed esortava alla pratica di fede nella quale perseverare, scrive, «sino alla fine». La sua lezione, poi, assumeva la forza di una frustata teologica il cui sibilo ancora potrebbe positivamente scuoterci: «È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo». Se, filosoficamente, riconosciamo di essere uniti a Dio come ad uno sconosciuto, sul piano della prassi, della fede vissuta, mostriamo di conoscere davvero cosa significhi essere cristiani.

L’uomo contemporaneo attende da chi si proclama cristiano un segno inequivocabile della dichiarata appartenenza. Si mostra la bellezza dell’essere vicini a Dio con lo stare in maniera adeguata accanto agli altri. Propongo un percorso in tre tappe. Quando era ancora cardinale, Benedetto XVI, a Subiaco, nell’Aprile del 2005, donò parole che si innestano perfettamente sul telaio delle argomentazioni che stiamo tessendo. Esordiva affermando che ciò «di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo».
Prima tappa: non dire che Dio va creduto, bensì mostra che è credibile. Occorre una fede illuminata: capace, cioè, di rendere ragione della nostra speranza; una fede che non teme la ragione, ma la dilata immettendovi la provocazione di pensare Dio. Una fede vissuta: il cristiano scommette tutto sull’Altro! Non c’è una zona franca: Dio ispira ogni sua azione. Continuiamo a citare l’ex cardinale Ratzinger:
«La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di lui ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto le porte dell’incredulità».
Seconda tappa: Prima di dialogare con l’ateo, chiediamoci da quale ramo si sia staccato questo amaro frutto. L’ateismo è qualcosa di cui il credente è spesso responsabile. Oscurare l’immagine di Dio è peccare contro di Lui ed un danno ai fratelli.Più che combattere atei, cerchiamo di non costruirne: «Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità […]. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».
Terza tappa: Siamo bisognosi di alimenti celesti per attingere la forza necessaria a parlare del Padre entro l’orizzonte terrestre. Lo sguardo deve fissarsi su Dio e non si tratta solo di godere – con fremito egoista – della Presenza ma, soprattutto, di mettersi alla vera scuola di umanità! Lo sguardo al Trascendente mostra quale strada tracciare, all’insegna della giustizia e della carità, nell’immanente. Dio tocca gli uomini da Lui separati solo attraverso l’azione di quanti a Lui sono costantemente vicini. Un metodo per alimentarsi di Dio lo suggerisce Agostino: stare a contatto, quanto più si può, con la Parola e pensare con la matita in mano; scrivere quanto di personalizzabile c’è nel dettato biblico e farne il programma di una giornata. Insegna, dunque, il vescovo africano: «Per quanto mi riguarda, io medito la parola del Signore, se non proprio giorno e notte (cf. Sal 1,2), almeno in ogni ritaglio di tempo libero, e fisso sulla carta le mie riflessioni perché non mi sfuggano dalla mente». Sviluppiamo il gusto della conversazione con Dio. Pericolo non lieve è nel pensare di dover tacere, ammutolire davanti alla Trascendenza; non è una potenza che schiaccia ma, per riprendere Buber, Potenza che abbraccia; la sola, aggiungeva, di cui si fidasse.
Nelle Opere ascetiche, Sant’Alfonso Maria dé Liguori, incideva un avvertimento: «è grande errore il trattare con Dio con diffidenza […], maggior errore sarà il pensare che il conversare con Dio non sia che di tedio e di amarezza». Facendo nostro un verso di Hölderlin, mostriamo che ‘noi e Dio’ siamo un colloquio; si badi: non ‘siamo in’ colloquio. Non si dà, cioè, altro modo di vivere, se non nell’essere colloquio con Dio. Solo rivelandoci innamorati di Lui faremo innamorare gli altri. Si lamenta il silenzio, l’assenza di Dio; Cristo non è fisicamente tra noi… ebbene, meditiamo su quanto scrisse un autore anonimo del XIV secolo: «Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare il suo lavoro oggi. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per raccontare di sé agli uomini di oggi. Cristo non ha mezzi, ha soltanto il nostro aiuto per condurre gli uomini a sé. Noi siamo l’unica bibbia che i popoli leggono ancora, siamo l’unico messaggio di Dio scritto in opere e parole».Essere cristiani è darsi interamente al Cristo che si è dato tutto a noi.

Accogliendo la lezione di Olivier Clément, impariamo che Dio incontra l’uomo nel punto più segreto delle sue angosce e dei suoi desideri. Se ne ricava: se dobbiamo annunciare un Dio credibile, va promosso l’incontro con chi da Lui è lontano; e, come usa Dio, dobbiamo incontrarlo a partire dal punto più segreto delle sue angosce e dei suoi desideri. Non sarà agevole il dialogo e qualche cicatrice potrà lasciare sul nostro amor proprio, sulle nostre sicurezze, ma occorre tentare. Possiamo non temere di ferirci tenendo a cuore la ferita del non senso che si slarga sempre più nel petto di chi non è con Dio. Péguy racconta la storia di un uomo che, dall’Angelo posto a guardia del Paradiso, riceve una richiesta: mostrami le tue ferite! Il nuovo arrivato dichiara di non averne e, per questo, merita la replica dell’Angelo: Non hai mai pensato che ci fosse qualcosa per cui valesse la pena di combattere? Presentarsi a Dio senza ferite, perché mai ci si è occupati di quanto ferisce altri, comporta il rischio del Suo non riconoscerci.
Cercare e mostrare Dio è un compito, in parte, mondano; non si esaurisce nel mondo, ma parte e si organizza in esso anche se la meta è escatologica. Il disinteresse per il fenomenologico non è via all’escatologico. Il Sinodo dei Vescovi, nel 1987, redasse il messaggio Iam instante ed in esso ribadì che il «modello di santità dei laici deve integrare la dimensione sociale della trasformazione del mondo secondo il piano di Dio». Il piano è divino, ma il sudore per realizzarlo è mondano.

Se non diveniamo uomini che tengono lo sguardo dritto verso Dio, per imparare la vera umanità, rendiamo sterili i cuori e, non ardendo nella fede, lasceremo morire di freddo quanti stanno attorno. Un cuore perennemente in polemica con Dio non riesce ad essere nemmeno un cuore di padre; se ne rinnega uno divino e non si sa esserlo in ambito mondano. Molti lamentano la perdita della figura paterna, ma è bene mettere in guardia anche dalle curvature diaboliche che tale figura assume in alcune accezioni. Spieghiamoci con un aneddoto. Il reggente di Francia durante la minorità di Luigi XV, Filippo d’Orléans, aveva una figlia monaca, la badessa di Challes. La religiosa avrebbe voluto convertire il papà, ateo inamovibile; ebbene, vi rinunciò quando gli scrisse per domandare un favore. L’errore fu di firmare così la lettera: Vostra figlia e sposa di Gesù. Filippo, rispose: - Poiché da molto tempo sono in rotta con mio genero, non capisco per quale motivo dovrei accordare un favore alla sua sposa. Ironia? Fa sorridere? No! L’aneddoto mostra come il rifiuto della paternità divina renda impossibile finanche il rapporto con una figlia. La filosofa Maria Zambrano disse che la nostra malattia è l’abbandono: non siamo più sorretti da ‘principi incrollabili’ identificabili nel Padre della Religione e nella Ragione greca «interconnessi armoniosamente».
L’uomo occidentale si riteneva non un ‘essere naturale’, bensì ‘creato’, «generato da un padre» e da ‘principi’. Freud, dice la filosofa spagnola, ha polverizzato la Trascendenza della paternità distruggendo, conseguentemente, la figura dell’uomo come Figlio. Freud aveva mostrato come l’immagine del Padre potesse, in riferimento a Dio, essere carica di equivoci e di meccanismi psicologici poco lodevoli. In Totem e Tabù, scrive:
«La ricerca psicoanalitica condotta sul singolo individuo ci insegna, con una intensità particolarissima, che il dio si configura per ognuno secondo l’immagine del padre, che il rapporto personale con il dio dipende dal proprio rapporto con il padre carnale, oscilla e si trasforma con lui, e che in ultima analisi il dio non è altro che un padre a livello più alto».
Ne L’avvenire di un’illusione, aggiunge: «La debolezza dell’uomo rimane e con essa il desiderio di un padre e quindi gli dei. Gli dei conservano la loro triplice funzione: esorcizzare i terrori della natura, riconciliare l’uomo con la crudeltà del destino, soprattutto quale si rivela nella morte, e compensare le sofferenze e le privazioni che la vita civile comunitaria ha imposto agli uomini».
Quando si avverte la scomodità di Dio, si attivano processi terribili di negazione dell’umano. Si arriva a giustificare un rifiuto ad una figlia e finanche si giunge a mostrare la liceità del peccato. Esagero? Scomodo la figura dell’avventuriero russo Rasputin. Era cinico e conduceva una vita dissoluta; questo, tuttavia, non impedì che godesse di grandi considerazioni nella chiesa ortodossa. Aveva un teoria religiosa assai strana: - Noi possiamo sperare di ottenere la salvezza – argomentava diabolicamente – col pentimento, con la contrizione. Ma di che contrirsi, se prima non si è peccato? Dunque occorre peccare, per avere poi il beneficio del pentimento. Perciò, quando Dio ci manda la tentazione, è nostro dovere soccombere. Allucinante? È con esempi simili che si comprende l’urgenza di mostrare il vero Volto di Dio. Non condanniamo, però, come si sarebbe tentati di fare per i casi citati, mai l’uomo, ma il suo errore; anche in un cuore ateo può celarsi un focolaio di bene da ravvivare immettendovi il tizzone ardente dell’amore per Dio. Buber era assillato da un dubbio che, a volte, è anche nostro: «Non sono sicuro se molti atei non servano meglio Dio di parecchi rabbini-capo, cardinali e arcivescovi».

Mostrare Dio all’uomo per amore di Dio ma, soprattutto, per il bene dell’uomo. Deviare dal cammino verso la piena umanizzazione è facile se non si ha alcun riferimento Trascendente. Lévinas, in Totalità e Infinito, è categorico: «non può esserci alcuna ‘conoscenza’ di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini». Nel saggio Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, precisava: «Non è una metafora: negli altri vi è una presenza reale di Dio». Il teologo, potremmo dire, è uomo – sinodale: da syn (assieme) ed odos (strada); cioè, un uomo che cammina assieme agli altri. Ho preso in prestito la definizione che Brambilla dà del cristiano laico. Non ci si può limitare, per definirsi teologo, a ripetere ‘Dio è Dio’, ma occorre andare sulle Sue tracce in compagnia degli altri; facendo assieme (syn) la strada (odos). Dio vuole venire con noi e lo può fare attraverso il linguaggio: metafore, analogie, parabole. Ha scritto Jüngel:

«speriamo nel Dio che vuole vivere insieme a noi. E questo vivere con Dio può e deve giungere al linguaggio in parabole, metafore e analogie. Dire sempre e soltanto ‘Dio è Dio’ non basta. Una vita ricca va oltre la semplice ripetizione di tautologie».

La vita credente è ricca e travalica stereotipi teologici. Nelle sofferenze, nel dolore, perciò, piuttosto che privilegiare la via della solitarietà, il cristiano si innesta su di un Fondamento solidale: il Dio che vuole vivere con noi. Una comunione che mostra la sensatezza anche di ogni momento amaro, ma giammai funestato dall’odio. Gesù ha detto: Elôi, Elôi, lema sabachthani (Mc 15, 34).
Solitamente traduciamo: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il teologo ebreo Lapide, sostiene che tale traduzione è impropria. Quella comunemente accettata lascia intendere che la domanda di Gesù sorga «da un dubbio su Dio» ed è formulata, altro errore, al passato. Ecco la traduzione corretta: Dio mio, Dio mio, a quale scopo mi hai abbandonato? Il quesito, ora, è «rivolto al futuro –nota Lapide -, non mette in discussione Dio, ma gli pone una domanda che dà per scontato il senso di tale sofferenza, e tuttavia vorrebbe tanto sapere perché gliel’ha inflitta». Gesù, come ogni credente che soffre, sa che mai il Padre agirebbe in maniera insensata o con la sola finalità di procurare un dolore alla creatura. La domanda non cade nel vuoto, ma è la richiesta di una chiarezza esplicita sempre all’interno di una indistruttibile fiducia. Possiamo e dobbiamo cercare Dio nelle sofferenze attraverso non il perché? – come se si polemizzasse con il Padre per il Suo agire insensato; si tratta, piuttosto, di chiedere a quale scopo? – presupponendo, cioè, che, pur nelle atrocità peggiori, siamo innestati in un progetto d’Amore. Se riusciamo, nella mente e nel cuore, di quanti credono o non credono, a far passare questa tesi, sperimenteremo che,in ogni circostanza, anche la più apparentemente lontana dall’ amore di Dio, Egli davvero vuole vivere assieme a noi.

Perniola ha scritto che è finito il grande compito storico: il confronto, cioè, con Dio e l’animale e a suscitare interrogativi e ad assorbire totalmente l’attenzione è, oggi, la cosa; si dà come «il centro dei turbamenti» e come «la promessa della felicità». In questa ‘centralità’ della cosa, l’uomo incappa nella propria reificazione. Avviluppando ogni attesa ed aspirazione nel mondano, si è giunti alla secolarizzazione della salvezza. Quinzio ha detto, a tal proposito, che abbiamo sostituito alla visione di Abramo (una posterità numerosa come la sabbia del mare) il desiderio che i nostri figli abbiano un futuro economicamente sicuro; un tempo, valeva la fede «in una realtà perfetta, che doveva sopraggiungere in un instante per trasformare il mondo»; per noi, invece, conta sopra ogni altra cosa la realizzazione di «uno sviluppo civile che possa via via migliorare le condizioni di benessere della masse».Dopo aver tracciato altre ‘parabole involutive’, Quinzio conclude che, quella che per Mosé era la ‘Terra Promessa’ è divenuta «un mercato commerciale». Nella mente di Abramo trionfava la vita a prescindere dall’assillo sulla qualità (declinata in termini economici) che avrebbe avuto. Gli stravolgimenti che il mondo contemporaneo fa patire alle ataviche attese stanno a significare una sola cosa: i luoghi del mondo sono divenuti i non-luoghi di Dio. Il filosofo Natoli si aggancia a quanto detto: «gli uomini medi – oggi non sentono più bisogno d’essere salvati, se non nel senso di migliorare comparativamente le proprie condizioni di vita». Fra il trionfo delle merci e l’uomo ridotto a merce si atrofizza l’anima: la sola ad essere capax Dei. Manca la luce che illumini la scena interiore e non è possibile eleggere a supplente di essa la luce artificiale dei potenti neon che avvolge i banconi sui quali la merce seduce, ma non trattiene; suscita la fame, ma non nutre. Viviamo – riguardo alla nostra interiorità – nel ‘buio’. Ha detto Victor Hugo: «Se l’anima viene lasciata nell’oscurità, si commettono peccati. E la colpa non è di chi commette il peccato, ma di chi ha causato l’oscurità». Chi ha oscurato le ataviche aspirazioni rammemorate da Quinzio pecca in quanto causa l’oscurità (nella quale pecchiamo) che affligge l’anima.

Jean Delumeau ha sostenuto che il mondo non ‘cerca più Dio’ e non è nemmeno capace, ormai, di ‘cercare la bellezza’. Si parla di eclissi concomitante dell’arte e di Dio: «La storia prova che esiste una relazione privilegiata tra l’arte e il sentimento religioso. È come se il rinunciare a Dio, a livello di una civiltà, porti anche a rinunciare alla bellezza». Il mondo si è abbrutito da quando il Trascendente non più riluce all’orizzonte. Abitiamo, dunque, un mondo senza qualità: sottomesso alle leggi della quantità e del calcolabile. Da questo quasi nulla, chiediamoci, può nascere un nuovo kosmos (ordine)? Scriveva Péguy: «Dal mondo pagano si fece il mondo cristiano e non certo dall’assenza di un mondo. Dalla città pagana […] fu fatta la città di Dio e non certo da un’assenza di città». Dobbiamo assumere e travasare nella realtà qualità, attributi autenticamente cristiani se vogliamo fare qualcosa del mondo. Come disse Lévinas, il Messia non verrà tra noi se non quando avremo imparato a vivere come Lui. I legami umani patiscono una devastante liquidità; sono aleatori e noi cristiani dobbiamo, nella Chiesa, testimoniare una autentica vita di comunione: tra persone, tra noi e Dio e tra noi e la Natura. Il manifesto di questo programma l’ha stilato, nella Novo millennio ineunte, Giovanni Paolo II: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo». Una apologia del cristianesimo condotta con metodi antichi può essere inefficace in un mondo che troppo rapidamente cambia.
Non facciamo ragionamenti, ma animiamo dialoghi nei quali, fermo restando il depositum fidei, ragionare con l’altro; una conversazione genuina che mostri come la nostra fede sia ancora capace di donare il Senso, perché sempre antica e sempre nuova. Avvisava il cardinale Newman: «È più facile far quadrare un cerchio che convertire con un sillogismo». I cambiamenti rapidi e numerosi che intervengono nella realtà, il nuovo viene con scadenze sempre più abbreviate, costringono, anche se radicati nella Parola che non passa, a navigare a vista, costretti a riparare la nave mentre si è in viaggio! La missionaria laica francese Madeline Delbrêl, che parlava di Dio nei quartieri di Parigi stracolmi di atei, aderiva a quella che definiva la spiritualità della bicicletta: correre senza pause verso il mondo con la Parola sulle labbra! Disse che i santi ai quali ispirarsi vivevano come degli assicurati: avevano «tempi ufficiali per pregare e metodi per far penitenza, tutto un codice di consigli e di divieti». Nel nostro tempo, invece, conclude la Delbrêl, trionfa un liberalismo un poco pazzo nel quale rischiosamente ci giochiamo l’avventura della grazia di Dio: «Tu (Dio) ti rifiuti di fornirci una carta topografica. Il nostro cammino si fa di notte». Occorre camminare di notte perché agli uomini delusi, ansiosi, della contemporaneità, procurano fastidiose diffidenze le carte topografiche che pianificano i percorsi. La strada per condurre l’uomo a Dio la si traccia soltanto percorrendola assieme a chi fatica a credere; siamo mendicanti della Verità perché, anche nel credente, di tanto in tanto, un dubbio mette in discussione certezze che si ritenevano sistemate su un binario morto. Cristo ci insegna che Dio possiamo mostrarLo più nel grido di Giobbe che non in elaborate teologie; nel Libro di Giobbe, poi, Dio stesso boccia una teologia simile ad un codice giuridico. Il Dio della teologia contemporanea, ormai, è presentabile soltanto a partire da categorie che siano più che categorie. Ha scritto Claude Geffré:

«Le Dieu de la théologie contemporaine n’est déjà plus le Dieu de la création continuée et de l’incarnation continuée, cette ‘ruse de l’historie’ qui parvient toujours à ses fins par le truchement del libertés humaines. C’est le Dieu caché qui se manifeste de manière inattendue dans la protestation de Job et dans le silence de la Croix. Dieu est toujours présent dans l’histoire. Mai il n’y a pas des signes de temps où l’on puisse attester sa présence de manière sûre. A la lumière de la croix du Christ, nous sommes invités à reconaître sa trace là oû on ne l’attendait pas dans les marges de l’histoire, c’est-à-dire là oû la passion des hommes s’identifie à la passion de Dieu» [1].

Nel buio l’uomo ammicca, fa cenni alla Verità che vorrebbe accanto, ma che avverte, invece, sempre più lontana. Siamo chiamati ad essere, perciò, sentinelle che – nella tormentata Città dell’uomo (Olivetti, Lazzati) – non possono non accogliere la domanda di Senso. In ogni luogo dobbiamo proporre (mai imporre) la Parola. San Francesco di Sales definiva eretici quanti ritenevano di dover escludere dalla bottega degli artigiani la devozione. Il cristiano laico, in particolare, deve indossare i panni della sentinella. Jacques Maritain, si definì un mendicante del cielo travestito da uomo del nostro secolo: mendicare il Senso da Dio con addosso i panni laceri, per i morsi del non senso, di quanti non hanno trovato. Piero Chiara, scomparso nel 1987, non aveva il dono della fede, ed era amico dello scultore Francesco Messina, profondamente cristiano. Questi si avvicinò al capezzale dell’amico e chiese: - Dimmi, Piero, come stai a fede? Il letterato lo fissò e rispose: - Mi fido di te! Chiedeva allo scultore di pregare per lui? Di essere una sentinella che annunci la fine della notte per portare speranza nel suo buio di non credente?
Ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo, il protagonista Zeno Cosini è vicino al padre prossimo alla morte. L’anziano «stava seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava attraverso i vetri, nella notte chiara il cielo tutto stellato. La sua respirazione era tutta affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse, assorto com’era a guardare in alto…». Per guardare meglio, si ergeva sul busto «con lo sforzo di chi spia attraverso un pertugio situato troppo in alto […]. Forse in tutta la sua vita non aveva guardato tanto lontano sì a lungo». Una vita intera possiamo voltare le spalle alle preoccupazioni Trascendenti; esse, però, implacabili, tornano. All’improvviso, l’anziano dice al figlio «con un aspetto severo di ammonizione» di guardare il punto in cui aveva fisso lo sguardo. Zeno domanda al padre cosa volesse mostrargli ma, ormai, lui non lo intese e «né ricordò di aver voluto che io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre». Il momento kairologico non è prolungabile a piacere; talvolta, vedere accade in un istante; basta uno squarcio nel buio che pareva infrangibile, e si coglie un dono di luce.  Questo è il motivo per cui, nella Città degli uomini affamati di senso, occorre vigilare: sono sempre più numerosi quelli che vengono a chiedere quando passerà la notte. Come a Zeno Cosini, può sfuggirci la parola che qualcuno voleva donare ed era preziosa perché strappata alle maglie strette del buio. Se pensiamo di riscaldarci e portare fuori dall’ombra la Verità col lume della ragione elevato, arbitrariamente, a sole, si sottoscrive quanto Gotthlef afferma ne Il ragno nero: «quanto buia diventa la vita quando un misero mortale vuol essere il sole di se stesso». Che significa, dunque, – soprattutto per i laici cristiani – essere sentinelle nella notte del non senso e dell’assenza di Dio?


E tu mio cuore perché batti/Malinconica vedetta, spio la notte e la morte (Apolinnaire)

La ‘fame del Senso’ non è una ‘metafora’, ma qualcosa di ‘reale’. Ernst Bloch, scriveva: «che il grano che vuol maturare possa venire aiutato e raccolto». Il grano del Senso non nasce e cresce da solo, ma ha bisogno del nostro lavoro. Chi, in che condizioni, veglia sui campi di grano del Senso? Che risponde il vigilante a chi si informa circa i tempi di maturazione del grano? Max Weber si assunse per primo il compito di affrontare quella che potremmo chiamare la questione della vedetta e che origina su terreno biblico. Berger richiama il versetto del capitolo 21 del Libro di Isaia che stimolò la riflessione del collega. Eccola:

Oracolo sull’Idumea/ Da Seir mi si grida: ‘Sentinella, che ora della notte?/ Sentinella, che ora della notte?/ La sentinella risponde: ‘Viene mattino/ e quindi viene la notte; /se volete domandare, domandate, ravvedetevi, venite!

Più che oracolo di Idumea, argomenta Berger, bisognerebbe tradurre il fardello dell’Idumea. Seir è il nome di un terreno collinoso, situato a sud-est del Mar Morto ed apparteneva agli edomiti e, perciò, vale anche come sinonimo di Edom. La terra fu donata da Dio ad Esaù; tuttavia, stabilire dove fosse l’Idumea, non è facile. Il suo nome significa, letteralmente, silenzio. Muovendo dalla suggestiva ipotesi che non si tratti di un luogo geografico, il titolo Fardello dell’Idumea muta  in Fardello del silenzio! Il sociologo francese richiama il capitolo 33 del Deuteronomio: Jahvé è venuto dal Sinai/per noi si è levato da Seir/ […] dalla sua destra lampeg giavano fiamme. Il Seir, in questo versetto, si presenta in maniera diversa da come si rinviene in Isaia; se, in questo caso, la Presenza di Dio è soverchiante (lo indica il lampeggiare di fiamme), nel brano del Profeta c’è un domandare a vuoto! Berger ipotizza «una secolarizzazione del Seir, che si trasforma da scena della rivelazione di Dio in luogo in cui la gente siede aspettando nell’oscurità».
Luogo dell’assenza di Dio o del Suo sentirsi straniero nel mondo. Il salmista parla di sé, ma un midrash mette sulla bocca di Dio il verso 19 del Salmo 119: ‘gher anokhì ba-arez, io sono straniero sulla terra. Le sentinelle veterotestamentarie sanno che i luoghi che sorvegliano – come accade nei non-luoghi (Augé) del nostro tempo - rischiano di venir intrappolati nella morsa del non senso. Il fardello, allora, potrebbe essere l’assenza, il silenzio di Dio? L’attesa del mattino è la speranza che esso coincida con il ritorno di Dio? «Il pathos del breve dialogo è – sostiene Berger – tutto nella risposta semplice della sentinella: lei non sa». La Speranza, eppure, viene costantemente rafforzata nei testi biblici. In Isaia 58, 9, ad esempio, si legge: Az tiqra w-Adonaj ja‘anè teshawwa’ we-jomar hinneni, Allora tu invocherai e il Signore risponderà, tu griderai e Lui dirà: Eccomi!
Nel Capitolo 52 di Isaia, i vigilanti hanno un compito gioioso: Le tue sentinelle, scrive il Profeta, alzano la voce/esse esultano insieme/poiché vedono con gli occhi/il ritorno di Jahve in Sion. Alcune sentinelle del nostro tempo, polemizza il sociologo francese, hanno la presunzione di indicare l’ora precisa nella quale il mattino verrà, ma essa finisce per risultare puntualmente sbagliata. Altri sostengono che si attende a vuoto! Non lasciarsi una briciola di speranza è, però, un grave errore: «Anche noi abbiamo delle sentinelle oneste come quella di turno molto tempo fa, nel Seir, che ci dicono di non conoscere la risposta […]. Il nostro breve testo, però, termina con una nota di speranza: domandate ancora, perché il mattino verrà». In primo luogo, noi cristiani laici, dobbiamo affinare l’udito ed imparare a stare, senza dannarci, tesi costantemente in ascolto e con gli occhi fissi all’orizzonte storico. Sì, fiduciosi e tesi bisogna stare. Eugen Fink, conversando con Heidegger intorno ad Eraclito, si attarda in questa considerazione:

«Una sentinella […] si sforza di ascoltare nel silenzio, senza udire qualcosa di determinato. Quand’anche non oda alcun suono determinato, tuttavia ode. Il suo stare in ascolto costituisce quell’essere massimamente tesi nel vigilare che è proprio del voler udire. È l’essere-aperti allo spazio dell’udibile, mentre l’udire è il cogliere un udibile determinato».

Non mancassero le sentinelle, ci sono uomini disposti ad insistere nel porre la domanda? Riguardo a Dio è necessario interrogare ed interrogarsi perché Egli – come si legge in Isaia 45, 15) – è ha-Mistatter, ‘Colui che si nasconde’. E l’uomo? A volte – consapevole di aver peccato – vuole sottrarsi al Creatore; Questi, così si rivolge ad Adamo: Ajjèka? ‘Dove sei?’.

Franz Kafka scrive che, tutt’intorno gli uomini dormono; aggiunge: «E tu sei sveglio, sei uno dei guardiani». Perché proprio tu o io? Conclude lo scrittore praghese: uno deve vegliare, uno deve esserci! Nel racconto ‘L’esame’, invece, un personaggio kafkiano afferma: «Chi non risponde alle domande ha superato l’esame». Essere il solo a vegliare, il solo guardiano? Che importa! Il cristiano deve restare di sentinella. Non supera l’esame (quello nel quale ne va della vita) se non tenta di rispondere alla domanda: a che punto è la notte? La notte del mondo è – oserei – in una della fasi più buie e non si può togliere agli altri (quelli che dormono) la parola che risveglia, incoraggia. Unamuno sosteneva che la tragedia consiste nel fatto che Dio è Colui che «sempre tace dal principio del mondo». Sappiamo che non è così; anzi, per noi cristiani, Dio, in Cristo, ha dato la Sua Parola definitiva. In ogni caso, miope sarebbe chi non ammetta che, per molti, le cose non stanno così.
Nel terzo dei suoi Quaderni, Kafka registra il pessimismo di quanti, lui in primis, rinunciano all’arrischiante interrogare: «Un tempo non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come potessi illudermi di poter fare domande». A noi, se domande vengono rivolte, corre l’obbligo di vigilare nell’attesa di Dio per coglierne le tracce e, pur con poco materiale, invitare gli uomini a tornare a domandare, a convertirsi. I sapienti ebrei dicono che si parla del Trascendente premettendo la formula ki-vjakhol, ‘come se si potesse dire’. Lévinas scrive, riguardo al Trascendente, che l’esperienza «non è mai sapienza, perché il suo interlocutore appena abbracciato, le è sfuggito». La sentinella deve operare fiduciosa, ma anche con umiltà; pronta a rimettere in gioco quando pensava di aver compreso. Albert Camus, uno degli alfieri dell’ateismo del Novecento, però, calava lo spegnitoio nichilista e diceva che ci sono delle verità, ma niente affatto la verità! Per chi crede, non è così!
L’esitazione della sentinella nel rispondere non è, tuttavia, del tutto negativa. Interrogandosi sulla poesia di Rimbaud, Heidegger disse qualcosa che – davanti alle domande di senso – dobbiamo fare nostro: Ich zögere mit der Antwort und bleibe bei der Frage, esito a dare la risposta e resto presso la domanda. Stare presso la domanda giova perché esorta a  capire davvero cosa ci si aspetta da noi. Dobbiamo imparare a distinguere, nelle questioni posteci, ciò che è – come diceva sempre Heidegger – meramente fraglich (discutibile) e ciò che è eminentemente Fragwürdig (degno di essere interrogato). Non attardarsi a dare risposte su quanto è meramente discutibile, ma prendere sul serio quanto appare degno di accesa interrogazione. La sentinella/cristiana deve far sì che valga la pena interrogarla. Una lotta, qui, è il vigilare! Scrive Nikos Kazantzakis: «lotto per fare un cenno ai compagni prima di morire […]per fare in tempo a scandire e a gettare loro una parola più completa. Per dire loro cosa immagino che sia questo cammino; e verso dove ho il presentimento che andiamo». Ecco la meta: «Oltre! Oltre! Oltre!». Nobile anelito voler guardare oltre il soffitto, ma non si può risolverlo, però, in solitaria ed egoistica evasione. Conclude, perciò, Kazantzakis: «è necessario accordare tutti assieme il nostro cammino ed il nostro cuore».
Lo sforzo di andare tutti assieme oltre la notte, impone di considerare il vivere cristiano un esercizio continuo. Melville, in Moby Dick, fa osservare che sono tantissime le persone che «come silenziose sentinelle» contemplano il mare; sì, ma fanno lavorare cuore ed immaginazione solo in quei momenti rari perché è «tutta gente di terra» e «negli altri giorni della settimana, è rinchiusa tra pareti di assi e intonaco». Non dobbiamo rimanere di fronte all’Oltre come se si dovesse soltanto, con ciò, rinfrancare lo spirito; si tratta, piuttosto, di essere silenziose sentinelle di fronte al mistero che, con poche parole, fanno avvertire la fresca spuma di onde selvagge, donano schegge verbali capaci di accendere il gusto di Dio. Nella onesta reticenza delle sentinelle di Isaia, inoltre, che non hanno la presunzione di possedere la parola che squadri la realtà da tutti i lati (Montale), matura un linguaggio credibile per annunciare Dio. La parola umana, intrisa di silenzi abitati da Dio, non è – per citare Flaubert – un «vaso di rame incrinato su cui battiamo cadenze capaci al massimo di far ballonzolare gli orsi, mentre aspireremmo a intenerire le stelle». Il cristianesimo, anche se nulla sappiamo riguardo ai tempi di Dio (Isaia ci dice espressamente che non coincidono con i nostri), può dirci tantissimo ancora; ciò vale anche, ed in particolar modo, per l’Italia. Ha scritto, infatti, Andrea Riccardi che il cristianesimo è una «grande risorsa per il futuro del Paese: perché è una fede vissuta da un popolo, una carità operosa, cuori e mente aperti a non vivere solo per se stessi, ma per chi è morto e risorto per noi. Questo è il suo segreto, che produce visioni di futuro». Enzo Bianchi ricorre all’immagine della sentinella per guardare al futuro:

«La Bibbia ama applicare al profeta l’immagine della sentinella (cfr., Ez 3, 16-21; 33, 1-9) per la quale risuona costantemente la domanda: ‘Sentinella, a che punto è la notte?’ (Is 21, 11). La risposta è enigmatica e forse anche deludente: ‘Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!’ (Is 21, 12). Forse il profeta non sa, neppure oggi, indicare quando verrà il mattino, ma ne attesta la sicura venuta: il profeta apre il futuro, dà futuro all’oggi, suscita speranza. E chiede che, nel frattempo, si continui a domandare, a interrogare e a interrogarsi sul giorno e sulla notte, dunque sul senso del tempo, della storia e della vita. Sì, la sentinella scruta i segni dell’aurora che si profila portando nel cuore le preoccupazioni e le attese della città su cui veglia, perché di essa è parte, abita lo spazio ai margini dove la visuale è più sgombra e dove le diversità si toccano e imparano a conoscersi».

Sappiamo soltanto che che Dio è – per dirla con Mauriac – in agguato in ogni vita e, più in generale, nella Storia. A New York, nel 1970, Robert Ochs diede alle stampe un libriccino: God is More Present than You Think; in italiano, Dio è più presente di quel che voi crediate. Ed è così! Il poeta gesuita Hopkins, sostenne che Cristo ‘vive’ in mille e mille luoghi, «nelle sembianze dei tanti volti d’uomo». Giunta è l’ora di indossare i panni della ‘sentinella’ evitando la presunzione di indicare quando verrà il mattino, ma anche tenendo accesa la certezza che verrà. La Chiesa ha una grande parte nell’educarci a questo compito e poco importa se, all’interno di essa, non tutto va per il meglio. Mai dimenticare la lezione di Maritain: «La grande gloria della Chiesa è di essere Santa con dei membri peccatori». Tutti in essa devono vigilare attendendo il mattino. Si abbandonino, vale in modo particolare per i teologi, liti accademiche o scontri frontali con altre religioni; infatti, recita un proverbio malgascio: quando due elefanti litigano, non si fanno male, ma dove loro hanno lottato l’erba non cresce più. Non si faranno troppo male gli intellettuali che si scontrano per sottigliezze teologico – filosofiche; solo che, l’erba che serve di nutrimento a quanti pascolano sui campi delle questioni essenziali della fede, smette di crescere.

Il teologo Marie-Dominique Chenu, il 17 marzo 1985, rilasciò, nel convento di Saint Jacques (Parigi), un’intervista a padre Aldo Tarquini. Disse che il cristianesimo è una economia, non una ideologia; per questo, esso «è nel tempo e per fare teologia bisogna seguire il movimento del tempo». Riportò, poi, due aneddoti che ripropongo. Quando era arcivescovo di Milano, il futuro Paolo VI venne interrogato su cosa avessero fatto durante la prima sessione del Concilio Vaticano II: era stato, infatti, prodotto nulla! Ed il futuro pontefice diede una risposta geniale: - La Chiesa al Concilio ha cercato se stessa e poi per trovarsi ha cercato il mondo. La sentinella/cristiana cerca le ragioni della propria fede e le trova solo se cerca il mondo, se si apre alla domanda dell’altro.  Un cardinale, ecco il secondo aneddoto di Chenu, fece visita a Francesco d’Assisi sul quale gravava qualche sospetto della Curia romana. Chiese al Poverello di Assisi: - Dov’è il vostro chiostro? Francesco lo portò per le vie della città: - Il mondo, disse, è la nostra clausura e l’oceano il nostro chiostro.
In questo mondo incontriamo quelli che ci interrogano e dobbiamo fare ogni sforzo per essere umili: riconoscere di non avere risposte definitive, ma anche condividere quanto siamo capaci di donare; invitare, cioè, alla perseveranza della domanda ed alla conversione. Nel frattempo, alleniamoci a percepire il brusio della Trascendenza (Berger). Ci può aiutare la lezione del filosofo Plotino. Nelle Enneadi traccia, nello spazio di una riflessione, un compendio di ‘pedagogia dell’ascolto’:

«Come quando qualcuno, attendendo di udire una voce desiderata, allontanandosi dagli altri suoni, risveglia l’udito a quel suono che è il migliore ad udirsi, quando giunga: così anche quaggiù bisogna lasciare andare i suoni percepibili coi sensi tranne che per il necessario, e custodire la facoltà di apprendere dell’anima pura pronta ad ascoltare le voci di lassù».

Sentinelle ed interroganti devono, con identico impegno, applicare questa lezione. Può accadere che sia Dio stesso a rispondere (come fece con Giobbe). Il Salmo 15, al verso 11, fornisce la ragione di tanta speranza. Rivolgendosi a Dio, infatti, sentenzia il salmista: Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.
Può accadere – insisti – che Dio stesso sia la risposta, facendosi Presenza, che non è possibile ricevere dal credente – sentinella. Non possiamo essere indifferenti, però, al dolore di quanti, ora, soffrono per la mancanza di risposte che, d’altro canto, non varrebbero la Risposta! Dio stesso, insegna la tradizione ebraica, piange per la lontananza da noi e per i tradimenti del Suo popolo.
Il midrash sulle Lamentazioni, Lam Rabbà, racconta che Metatron, l’angelo che sta presso il trono di Dio, si prostrò davanti al Creatore che piangeva per i peccati del popolo e disse: - Io ti ubbidirò, ma tu non devi versare lacrime. Allora, Dio disse: - Se tu non vuoi che io pianga, andrò in un luogo dove non ti è permesso entrare, e là piangerò, come è detto: ‘La mia anima piangerà in luoghi segreti’(Ger 13, 17). I luoghi segreti nei quali Dio si ritira a piangere non potrebbero essere i cuori di quanti domandano, invano, il Senso? Impariamo ad ascoltarLo. Il cristiano laico è sentinella che vigila, non in passiva attesa dell’aurora, ma cercando di scorgere nel buio se non traluca qualche incoraggiante traccia di Dio, mentre conforta ed istruisce gli interroganti come può. Conta soprattutto non abbandonare la postazione!
Si può leggere, a questo proposito, un passo dalla A Diogneto: «è talmente grande il posto che Dio ha assegnato ai cristiani che non è lecito loro disertare». Chi non diserta è il buon soldato, la fidata sentinella. Non calcola, impaziente o polemicamente, il tempo che passa perché è certa che non attende invano: presta servizio al Signore ed agli uomini.
Della venuta di Dio, al più, si può dire che è come la primavera della quale, Machado, disse: La primavera è venuta/ Nessuno sa come è stato. Spero che questo libriccino aiuti ad assumere sul serio il compito di sentinella. Scriveva Vauvenargues: veramente nuovo e originale sarebbe il libro che facesse amare antiche verità. Mi auguro davvero che, avendo fatto con me un po’ di strada, sentiate, ora, di amare l’antica verità proferita dalla sentinella di Isaia: fede è ‘insistere nel domandare quando il mattino verrà e, nel frattempo, convertirsi, ravvedersi’.
Per concludere, sottolineo che, Oswald Spengler, teorico del tramonto dell’Occidente, malgrado pensasse in negativo il nostro futuro, invitava a coltivare la virtù della tenacia e raccontava una storia. Vennero ritrovate a Pompei le ossa di un soldato romano di ‘sentinella’ davanti ad una porta. Si comprese che, mentre eruttava il Vesuvio, nessuno si era preoccupato di scioglierlo dalla consegna e lui, pur consapevole del pericolo, coriaceo, rimase al posto assegnatogli. Commentava il filosofo tedesco – e può valere per noi che vigiliamo sul mondo da sentinelle cristiane – che questa «onorevole fine è l’unica cosa che non si può togliere all’uomo».    



[1] Traduzione: «Il Dio della teologia contemporanea non è più il Dio della creazione continua e dell’incarnazione continua, questa ‘astuzia della storia’, che giunge sempre ai suoi fini per mezzo della libertà umana. È il Dio nascosto che si manifesta in modo inatteso nel grido di Giobbe e nel silenzio della Croce. Dio è sempre presente nella storia. Ma non ci sono segni dei tempi da cui si possa attestare la sua presenza in modo sicuro. Alla luce della croce di Cristo, siamo invitati a riconoscere la sua traccia, là dove non si pensava, ai margini della storia, vale a dire là dove la passione degli uomini si identifica alla passione di Dio».

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