Una parola che dà un’idea del nostro tempo è Unsichereit, insicurezza.[1] Vaghiamo, stanchi e confusi, sulla strada che conduce ad un futuro, che non riusciamo a configurare, col volto triste e conversando per tentare di comprendere se, come disse Heidegger, davvero, ormai, solo un dio ci può salvare. Quale Dio? Siamo convinti che ci si può condurre fuori dalle sabbie mobili del non senso tirandoci, come quel famoso personaggio, per il nostro codino. Attuali le parole di Saint – Simon: “Il desiderio di comandare sugli uomini si è trasformato a poco a poco nel desiderio di fare e disfare la natura a nostro piacimento. Da questo momento il desiderio di dominare insito in tutti gli uomini ha cessato di essere nocivo (…)e diventerà utile” [2]. L’uomo sull’uomo e l’uomo sulla natura: si pretende di amministrare tutto e, non riuscendoci, diveniamo tristi e, come i viandanti della pagina lucana, possiamo solo sperare che si avvicini Qualcuno che abbia logoi di vera speranza! Morin afferma che patiamo una crisi planetaria e provoca agonia in quanto viviamo l’Unsichereit a tempo pieno: “un passato morto non muore, un avvenire nascente non riesce a nascere” [3]. La Rivoluzione francese, sostiene Wust, assestò un duro colpo al miraggio del ‘progresso illimitato’ sbandierato dagli alfieri della ragione adulta. Fu, però, un contraccolpo passeggero. Comte, nel XIX secolo, affermò che la ratio umana avrebbe condotto inesorabilmente verso traguardi esaltanti; ebbene, il contraccolpo definitivo a questa visione ottimistica, arrivò nel XX secolo che, per ragioni fin troppo note, dimostrò che la previsione comtiana era un’illusione ottica [4]. Anche la pretesa dei discepoli nel vangelo lucano di considerare la salvezza esclusivamente in ottica orizzontale genera insicurezza, delusione. Quando l’uomo vuole rendersi indipendente da Dio non diviene libero, ma aperto a qualsiasi sottomissione. Potremmo dire che gli “individui post – tradizionali (freigesetz)diventano dipendenti dal mercato del lavoro e in tal modo anche dall’istruzione, dal consumo, dalle regole e dai sostegni della legislazione sociale, dalla programmazione del traffico, dalle offerte di consumo e da possibilità e modalità di consulenza e cura medica, psicologica e pedagogica” [5]. Sulla strada per Emmaus si consolida il metodo della teologia, ma anche una proposta di vita cristiana che porta alla gioia. La pagina lucana insegna che solo una vera Buona Notizia (il Vangelo)crea comunità. La Storia ha bocciato la pretesa di convertire il futuro escatologico in proposta politico/ideologica. Cristopher Caudwell, un comunista attivo, perse la vita alla verde età di ventinove anni in Spagna, dove si era recato a combattere per la libertà! Fu uno spietato analista della cultura borghese e ne evidenziò, impietosamente, i mali e le degenerazioni. Come mai, si chiese, nessuno riesce a dare una risposta efficace ai mali storici? Anche i due ad Emmaus, in fondo, erano agitati dalla stessa questione dopo il fallimento, a loro modo di vedere, della missione di Gesù. Caudwell, scrisse: “perché tutti i psicoanalisti, e gli Eddington, i Keynes, gli Spengler, e i vescovi che hanno studiato le situazioni non sono stati capaci di localizzare un focolaio d’infezione comune a tutta la cultura moderna (…)?”. La risposta: “questa gente deve far sue le parole di Herzen: ‘noi non siamo i dottori, siamo la malattia” [6]. Siamo la malattia e, come i discepoli lucani, vaghiamo per i sentieri della Storia col volto triste. Troppi maestri hanno deluso mentre nel deserto predicava la Parola: “Non fatevi chiamare ‘maestri’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo”(Mt 23, 10) [7]. Cerchiamo nel tempo cronologico quello che solo si trova facendo lievitare in esso il tempo kairologico: “la ricerca del significato del tempo è fondamentale nella storia umana, più importante della ricerca del cibo, della salute, del benessere, dell’enigma della morte” [8]. Solo Dio ha buone ‘intenzioni’: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21, 5). Gesù farà nuovo il cuore dei due viandanti ad Emmaus. Fare storia, per il cristiano, è attivarsi pieno di speranza camminando verso la promessa rubricata nell’Apocalisse! La categoria centrale, qui, va prelevata dal Nuovo Testamento: speúdontas. Ricorre nella Seconda Lettera di Pietro e significa accelerare “la venuta del Signore”(3, 12). Ci aspetta una eredità: siamo stati creati per divenire eredi della gioia. Luca propone un itinerario che promette l’incontro con la Presenza che, sola, dona la gioia perché, come recita il Salmo 73, al versetto 28, il nostro bene è stare vicino a Dio [9].
Riconosco la povertà delle mie parole. Ci vorrebbe lo stesso Gesù risorto a parlarmi, come ai discepoli di Emmaus
(Carlo Maria Martini)
Luca 24, 13 – 35: Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: ‘Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?’. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli disse: ‘Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?’. Domandò: ‘Che cosa?’. Gli risposero: ‘Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto’. Ed egli disse loro: ‘Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’ E cominciando da Mosé e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: ‘Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino’. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: ‘Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?’. E partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: ‘Davvero il Signore è risorto, ed è apparso a Simone’. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Il cammino di ‘conversione’ dei due discepoli si svolge tra Gerusalemme ed Emmaus e si concluderà con un ‘ritorno’ nella Città Santa [10]. Un ‘cammino’ durante il quale i due ‘versano l’uno nell’altro’ (con - versano)opnioni (doxai)circa la Risurrezione di Gesù. I loro logoi sono intrisi di delusione e di disperazione perché ritengono la missione del Salvatore un fallimento. Pensano con categorie politiche! In loro tace il Logos sarx e, dunque, sono catturati da una teologia immatura. La ‘vera teologia’, per dirla con von Balthasar, è Theos – Legon, ‘Dio che parla’. Emmaus è un ‘piccolo villaggio’, e vale come luogo teologico: la sua ristrettezza corrisponde alla striminzita visione che i due hanno del Messia. Conosciamo il nome di uno solo dei discepoli: Cleopa. L’altro, anonimo, potrebbe essere uno di noi. La teologia, qui, rinviene il suo vero metodo. Il dialogo tra i due delusi discepoli si svolge per strada (in greco, odos)che, attraversata, conduce oltre (meta). Un discorso teologico deve, per avere buon esito, condurci oltre (meta – odos)le vedute umane, troppo umane! Ci si fa pellegrini per scoprire che nostri sono solo deboli logoi, mentre l’Assoluto ci si fa incontro con la Parola che è, direi con Buber, una potenza che abbraccia. Solo se ci mettiamo nella “condizione di pellegrini, che ci caratterizza, ci è concesso di vivere l’Assoluto stesso, nell’intima esperienza di un tutto che misericordiosamente ci abbraccia, senza però che noi possiamo possederlo” [11]. Perché ci sia rivelato il senso – non di un fatto, ma di un evento – occorre che intervenga un dire che prima ci com – prende e solo dopo, anche attraverso l’affettività, possiamo parzialmente comprendere. Seckler ritiene rivelatori “quei modi (…)del conoscere” che provengono – sono doni – “da un’origine di cui l’uomo non può disporre” [12]. I due sono diretti ad Emmaus e, tra il piccolo villaggio e Gerusalemme, ci sono circa 11 km. Ma questa è una strada lungo la quale si fa scialo di parole; in realtà, la Parola è Gesù che, come Lui stesso dichiara, è Via, Verità. Se ‘percorrere una strada per andare oltre’ è meta – odos, metodo, la strada che ci porta oltre le errate congetture sul Messia è proprio Gesù (Via)! La fede non nasce solo dal parlare tra di noi, ma soprattutto quando ascoltiamo il Logos. Questi interviene nei nostri zoppicanti logoi e si personalizza l’imperativo di Israele: Shema’, ascolta! Un ascolto che dona la gioia. Diceva Agostino: “Il mio gaudio ha un solido fondamento quando ascolto, non quando parlo”(Discorsi 179, 2). La Parola che ci convoca è gratuita e, per questo, ‘credibile’: “nell’evento della parola (…)non sono (…)il padrone, ma sono condotto al di là dell’affanno, della preoccupazione” [13]. La Parola libera, sana, conduce di là dei miei affanni intellettuali e consente la relazione con Dio. Chi ha fede ritiene questa relazione una dimensione ontologica dell’uomo [14]. Di cosa parlavano i due? Si raccontano un fatto di cronaca: le donne dicono che Gesù è risorto! Questo li stravolge e non vince la loro delusione. Cosa ha che vedere questo con la liberazione di Israele? Nulla! Se ci si ferma al ‘fatto’, senza preoccuparsi di indagarne il ‘senso’, non si comprende l’evento! Non si comprende cosa sia accaduto di veramente nuovo in noi [15]. Gesù si accosta. Mentre i due fondano su tremanti e sconsolate parole, la Parola inaugura un rapporto diretto. Gesù, specifica Luca, si accostò loro in persona. Questo può accadere perché Gesù Cristo è “l’umana autorappresentazione di Dio (Selbstdarstellung) che Dio stesso ha reso possibile”(Jüngel). Accostarsi in persona: è la teologia dell’amore di Dio per l’uomo. Il verbo enghisas è participio aoristo di egghizo e significa ‘mi avvicino’. Luca “lo usa 18 volte nel vangelo e 16 volte negli Atti, per un totale di 34; Giovanni non lo usa mai, Matteo 7 volte, Marco 3 volte. In genere, però, Luca vede Gesù avvicinarsi a luoghi o cose (…). Sono quasi sempre gli altri che si avvicinano a Gesù con buone o cattive intenzioni (…). Nei pressi di Emmaus, è invece Gesù che si avvicina a due persone (…). Si avvicina ‘in persona’ (autòs)scrive Luca (…). Ancora una volta (…)Luca dimostra di essere l’evangelista di Gesù che cerca o è cercato” [16]. Si configura un modo nuovo di fare cristologia. Da un’ontologia della sostanza si passa ad un’ontologia della relazione.
Questo è il percorso che, in cristologia, propone Paolo Gamberini [17]. La Scolastica ha definito l’essere come ‘ciò-che-si-possiede’, ciò che basta a se stesso ed è immutabile. Traduceva in teologia il Motore Immobile aristotelico, che è possibile amare, ma che non ama perché, altrimenti, tradirebbe una mancanza. Da qui, il rifiuto a pensare ad una relazione affettiva – patica tra Dio ed il mondo. Incorporato l’impianto platonico – aristotelico ne discende necessariamente il corollario dell’estraneità del Trascendente nei confronti delle realtà terrestri. Per la mentalità greca, l’amore manca di ciò a cui tende e l’Assoluto, mancando di nulla, non ama. In realtà, già nel mondo pagano e nella filosofia greca si intuì che il divino ama che l’uomo se ne interessi. Aristotele, in sintonia con Platone, scrisse: “agli dei non conviene l’invidia: Iddio non proibisce affatto all’uomo di conoscerlo, come hanno folleggiato i poeti i quali spesso mentiscono, ma è proprio questo che Dio vuole dall’uomo”(Metafisica, I, 2, 283a 2). C’è, d’altronde, qualche autorevole studioso che ritiene doveroso sottolineare come nella filosofia dello Stagirita – in particolare nella metafisica - sia comunque centrale la questione teologica [18]. Il Dio di Israele, ad ogni modo, si rivela il semper agens e si compromette con le vicende umane; è il Dio del pathos (Heschel)che non separa l’essere dall’agire. L’ontologia biblica rintraccia l’essenza divina nella relazione col mondo, l’uomo e la Storia. Non che Dio sia diventato trinitario perché si è esplicitato in un percorso storico; piuttosto, ha in se stesso l’alterità – la relazione (pericoresi)[19]. Dio si porta nel mondo e la nostra fede deve essere un attendere attivo: “ciò che costituisce il divenire e l’essere cristiano non è qualcosa che possa essere definito valido atemporalmente ma va colto costantemente sulla base delle situazioni in mutamento e deve continuamente dar prova di sé” [20]. Quando i Padri della Chiesa hanno parlato di Dio refrattario al pathos, intendevano solo dire che Egli non è soggetto alle passioni; non riceve l’identità dalla storia, ma a questa comunica la Sua identità per conferirle “coesione e senso” (Kasper). Il divenire di Dio non si realizza nell’assumere la condizione creaturale, ma è l’essere stesso di Dio. Se divenisse relazione solo per mezzo della Rivelazione, e non fosse relazione in essenza, potremmo pensare che ci siano ‘due dei’. Se è essenziale che Dio entri in relazione con noi, non è, però, necessario. Si può dire che ciò è ‘essenziale’ perché, nella ‘relazione’, si manifesta l’‘essenza di Dio’ che è agapica! Un atto è necessario in quanto necessitato dalla libertà di Dio di donarsi che se è ‘determinata’, lo è dall’essere libertà dell’amore. Ecco perché Gesù si avvicina. Solo Dio può dire di Dio e Gesù, come scrive Giovanni, è exeghésato, Colui che fa veramente l’ermeneutica, la narrazione del Padre: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito (…)ce ne ha fatto la narrazione (exeghésato)” [21]. Barth aveva ragione nello scrivere che nella cristologia si decide tutto.
Gli eventi si svolgono tutti nello stesso giorno affinché il messaggio che si vuole dare risulti integrale. La situazione dei due viandanti è problematica: solo noi, infatti, sappiamo chi è il loro interlocutore! Gesù risorto si manifesta sotto un’altra condizione. L’uomo, con i suoi occhi carnali, con il peso dei suoi limiti, non può afferrare il senso dell’evento – Risurrezione. Luca scrive: i loro occhi erano impediti, così da non riconoscerlo. La fede autentica si ha con l’apertura dell’occhio interiore. Tuttavia, quei due sono turbati, interessati ad una questione teologica: sono nel già delle domande autentiche (Chi è veramente Gesù?)e nel non ancora della risposta definitiva. Se non ci fosse qualcosa di relativamente chiaro, giammai sarebbe possibile, a queste latitudini, sperare in un chiarimento appagante. Ci deve essere, nelle ‘grandi questioni’ della fede una relativa conoscibilità [22]. Gesù, avvicinatosi, provoca: che discorsi stanno facendo? È Dio che chiede conto della nostra teologia e non questa di Dio. Veniamo interrogati mentre interroghiamo: è il doppio movimento della ricerca teologica. A questo punto, dice Luca, i discepoli si fermarono col volto triste non essendo in grado di estrapolare un senso dai logoi teologici che ruminano con amarezza. Tuttavia, questa sosta apre uno spazio prezioso in quanto lascia entrare la terza voce, quella di Gesù. Comincia a prendere consistenza la possibilità di formare il credente in maniera teologicamente sana e di restaurare ontologicamente due persone disfatte dalla loro stessa incomprensione [23]. Questi si interessa alle inquietudini dei loro cuori e non si precipita a svelare la propria identità o ad operare qualche segno che repentinamente tolga i dubbi. Ogni uomo deve camminare sulla strada verso Emmaus. Il ‘metodo’ della teologia è meta – odos, ‘attraversare una strada per andare oltre’. Si parte dalle inquietudini dell’uomo e poi si arriva a rileggerle in ottica teologica: “chiunque voglia fare all’uomo di oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio. È un’esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio” [24]. Un teologo ha studiato il rapporto tra messaggio cristiano e le dimensioni fondamentali dell’uomo per comprendere come assuma ciò che è ‘autenticamente umano’ la fede cristiana per conferire ad esso “un plus gratuito di pienezza”. ‘Essere cristiani oggi’, dice il teologo, è il termine di confronto della teologia cristiana. Il passaggio obbligato è l’Incarnazione nella quale, in Gesù di Nazaret, si è data la Rivelazione definitiva di Dio [25]. L’uomo, spiega Alfaro, si interroga su se stesso perché avverte un dislivello insuperabile tra la sua finitezza e la speranza illimitata che lo anima. In un altro lavoro, Alfaro si chiede: dove cercare il senso della vita? Innanzitutto, nella “totalità delle esperienza fondamentali” di tutti i giorni. Ora, “se le risposte di immanenza intramondana non possono spiegare l’immanenza stessa (…), il problema del senso ultimo della vita si presenterà da sé come problema del trascendente (…). Il problema di Dio potrà essere giustificato solo in quanto implicato e preteso dal problema del senso ultimo della vita umana”. Il problema di Dio, dunque, origina dall’antropologia [26].
I discepoli confessano che speravano in un Messia che assicurasse il riscatto di Israele dal punto di vista politico. Addirittura ‘rimproverano’ all’interlocutore la sua ignoranza dei fatti: era un forestiero se non sapeva cosa fosse accaduto a Gerusalemme. Ironia: in realtà, sono loro a non sapere come stanno le cose. Discutono un fatto di cronaca e non sanno che in esso vi è una eccedenza di senso che lo rende evento! Sfugge che da quando Dio, per mezzo di Gesù, è entrato nel mondo, nella storia, nulla è puro ‘apparire’, mero dato fenomenico; non c’è più nulla, a motivo dell’Incarnazione di Dio, che sia assolutamente profano [27]. Passiamo dall’informazione (notizie che ci toccano solo per tangenza esterna)alla formazione (una notizia cambia la nostra vita)quando lasciamo che sia Gesù a dirci di sé stesso. I due, come tanta teologia infarcita di superbi logoi, vogliono informare Gesù su Gesù! Al misterioso interlocutore dicono che quanto è accaduto a Gerusalemme riguarda un certo Gesù Nazareno. Chi è? Un profeta potente in opere e parole! Gesù stesso si era definito tale quando disse che non era possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme[28]. Non si registra qui una reductio offensiva, ma non si dice abbastanza. I due aggiungono che i sacerdoti, i capi, lo hanno fatto morire, proprio mentre loro si aspettavano che riscattasse politicamente Israele. Così facendo, si lascia in ombra l’unitaria cristologia che è alla base del Nuovo Testamento trascurando anche di inquadrare Crocifissione e Risurrezione nelle profezie del Vecchio Testamento [29]. Come i due sono in cammino e conversano per chiarirsi le idee, così il progetto di Dio si chiarisce ripercorrendo la strada delle Scritture: “La fede (…) nel Nuovo Testamento, è innanzitutto (…)un modo d’essere in cammino (…): è sequela. Cristo è verità e via. Qualsiasi tentativo di conoscerlo, di comprenderlo, è sempre un andare (…). Una cristologia di questo tipo non prende forma primariamente in concetti asoggettuali o in un sistema, ma nelle storie di sequela (…). Questa cristologia della sequela mostra chiaramente che anche il Cristianesimo contiene, prima di qualsiasi sapere sistematico, un sapere narrativo e memorativo” [30]. I discepoli sono stati informati della Risurrezione del Maestro da alcune donne. Per i sapienti ebrei, però, è meglio che la Torah bruci piuttosto che sentirLa annunciare da una donna. Com’è possibile, dunque, credere a loro? Eppure, hanno avuto una visione di angeli; alcuni discepoli sono stati al sepolcro e le cose stavano come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto. Gli occhi, mentre si è prigionieri di una concezione errata del progetto messianico, potrebbero vedere il Risorto? Lo hanno di fronte, ma non Lo riconoscono. La loro cecità è anche mancanza di memoria. Memoria di che?
Gesù, ora, muove loro dei rimproveri. Si rovesciano i termini: erano stati i discepoli a rimproverare all’interlocutore di non sapere cosa fosse successo a Gerusalemme. Loro, invece, pur sapendo, non comprendono. Hanno trascurato, infatti, di leggere quanto è accaduto facendosi guidare dalla parola dei profeti. Le Scritture si possono comprendere solo per mezzo di Gesù (a Lui si riferiscono)e gli ‘eventi pasquali’ si illuminano ripercorrendo le Scritture: “il mistero dell’incarnazione del Verbo – scrive Massimo il Confessore – contiene in sé tutto il senso degli enigmi e dei simboli della Scrittura (…). Colui che conosce il mistero della croce e del sepolcro conosce il senso delle cose. Colui che è iniziato al significato nascosto della risurrezione conosce il fine per il quale Dio fin dal principio creò il tutto” (Ambigua, PG 91, 1360). Non era scritto che il Cristo doveva soffrire? Non erano stati i sacerdoti, i capi di Israele – come erroneamente si pensa – a demolire il progetto di Dio; anzi, ne erano stati inconsapevoli catalizzatori! Senza riferimento alle Scritture, si commenta solo un fatto. Se non si erano fidati delle donne (era la loro mentalità), bastava fare memoria delle Scritture per raggiungere una comprensione piena dell’epilogo della vicenda gesuana. Quando estrapoliamo la vita di Gesù dai contesti giusti, cadiamo in equivoci clamorosi. Lo Pseudo – Macario parlava di mneme theou, ‘memoria di Dio’ da custodire quando si cammina, si mangia, si parla. Memoria da alimentare attingendo alle Scritture. La Bibbia può rivelarsi una strada per andare oltre (metodo)inquinate idee teologiche: “La tradizione ebraica chiama Miqra’ la Bibbia, con un termine che indica una ‘chiamata’ a uscire ‘da’ per andare ‘verso’: ogni atto di lettura della Bibbia, per un credente, è l’inizio di un esodo, di un cammino di uscita da sé per incontrare un Altro” [31]. Ora che Gesù salda il discorso dei due alla Bibbia, l’esodo dall’ignoranza è possibile. Solo la Presenza di Dio nel Suo Logos, però, consente di comprendere che siamo passati dalla conoscenza della Legge, che ci rendeva consapevoli del peccato, al rapporto diretto e reale con Cristo che viene a vincerlo [32].
(Gesù)cominciando da Mosé e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui…
È un procedimento consueto dell’esegesi ebraica: vengono prelevati versetti da varie parti per mostrare che c’è coerenza laddove si scorgevano elementi irrelati. Gesù, però, non è solo un buon ermeneuta! In tutte le Scritture, rimarca significativamente Luca, ci si riferiva a Lui. Gesù è l’Interprete e l’Interpretato. I logoi biblici coincidono col Logos sarx! Lui è la Via, la odos sicura per andare oltre (meta)nell’intelligenza della fede. Il metodo della teologia è nell’esperienza (esodale)di Emmaus perché i ‘dubbi e le risposte’ arrivano solo camminando sull’unica strada (odos)che porti alla Verità! I volti dei discepoli erano ‘tristi’. Si chiedeva Nietzsche: è credibile un cristiano col muso lungo? Paolo, scrive: “Ringraziate con gioia il Padre” (Col 1,12)e rafforza questo ‘comando apostolico’: “Rallegratevi senza posa nel Signore, lo ripeto, rallegratevi” (Fil 4,4). Bianchi, nel citato Lessico della vita interiore, aggiunge: “il cristiano deve esercitarsi alla gioia, da un lato per sconfiggere lo spiritus tristitiae che sempre lo minaccia, dall’altro perché non può privare il mondo della testimonianza della gioia sgorgata dalla fede. È la gioia dei credenti (…)che narra al mondo la gloria di Dio! Questo (…)chiedono gli uomini: ‘Mostri il Signore la sua gloria: e voi credenti fateci vedere la vostra gioia!’(cfr., Isaia 66, 5)” (p. 222). Gesù, in poco tempo, tiene una catechesi ai viandanti. Ora, l’interlocutore, finge di voler lasciare la compagnia. I catechizzati, però, l’invitano a rimanere: si sta facendo sera. Da quest’uomo hanno ricevuto parole confortanti: perché privarsi della sua presenza? Si è risvegliato il gusto per la Parola. Non basta una catechesi per arrivare alla Verità: il metodo della teologia non è qualcosa da apprendere, ma Qualcuno con cui convivere: la Presenza, la demoratio presso l’uomo della Presenza [33]. Necessario è che il Signore si fermi: c’è sempre bisogno di rafforzare la propria fede. Prima Gesù ferma i due, ora viene sollecitato a fermarsi con loro: se non ci lasciamo cercare da Dio, capita che Lo si cerchi nel posto sbagliato. Si sta facendo sera: l’ora è un luogo teologico fondamentale nel vangelo lucano: “Da una parte il sopraggiungere della sera introduce il simbolismo del riposo, della quiete e (…)dell’offerta. Dall’altra, nella tradizione ebraica, il pasto importante ha luogo alla fine del pomeriggio. Luca ci ha abituati ai pasti che avvengono alla fine del pomeriggio (…). La pratica dell’ospitalità occupava un posto rilevante nel repertorio delle virtù ebraiche”, ma “l’evangelista Luca ha accordato un valore speciale a tale pratica: l’ospitalità è la risposta umana positiva alla sollecitazione di Dio” [34].
Molti pensano che Gesù, ad Emmaus, non abbia voluto rinnovare l’atmosfera tragica dell’ultima Cena, ma solo abbia agito come abitualmente faceva mangiando con i suoi (Loisy). Dopo aver fatto catechesi, Gesù si dona. Come dice Ignazio di Antiochia, in Epistula ad Smyrnaeos, “l’Eucaristia è la carne del nostro Salvatore Gesù Cristo” (VII,1). Si apre la possibilità della gioia per chi partecipa alla fractio panis: l’anima, in questi momenti, gode e con frutto: “Chiunque (…)si rivolge all’augusto sacramento eucaristico con particolare devozione e si sforza di amare con slancio e generosità Cristo che ci ama infinitamente, sperimenta e comprende a fondo, non senza godimento dell’animo e frutto quanto sia preziosa la vita nascosta con Cristo in Dio (cfr., Col 3,3)e quanto valga stare a colloquio con Cristo” [35]. Il termine ebraico karab ‘sacrificio’ significa ‘avvicinare, portare avanti’; proprio col sacrificio eucaristico, dunque, Gesù si avvicina. Ed il termine berit, Alleanza, deriva anche da bara, che vuol dire pure mangiare [36]
Col ‘sacrificio eucaristico’ Gesù si avvicina a noi e ci porta ‘avanti’ fino a congiungerci col Padre. Dunque, non è sufficiente l’ermeneutica biblica anche se esercitata dall’Ermeneuta per eccellenza. Come osservava Tommaso d’Aquino, la predicazione esteriore di Cristo non basterebbe ad illuminarci “se egli stesso non operasse interiormente per mezzo dello Spirito Santo” [37]. Allora i loro occhi furono aperti ed essi lo riconobbero. Ed egli divenne invisibile (davanti)a loro. Commenta Chenu: “Vi è una specie di simultaneità tra il riconoscimento e il diventare invisibile di Gesù. I due eventi rientrano nel medesimo movimento. Il cammino di Emmaus è anche un cammino di sparizione! La presenza carnale di Cristo non è infatti più necessaria” (cit., p. 63). Ormai, il cuore è ‘ardente’ e la fede nella Risurrezione acquisita. Gesù non appartiene ad “un periodo di tempo che non può più ritornare”, ma è “sempre aperto al futuro” [38]. La Croce venne definita da Andrea da Gerusalemme il legno della vera vita ed ora lo sanno anche i due discepoli. Il Gesù crocifisso è lo stesso Cristo gloriosamente risuscitato. Nel brano lucano, leggiamo: è stato risuscitato. Significa che Dio non ha deluso la fiducia del Figlio; si è fatto vedere: l’iniziativa di mostrarsi è sempre di Gesù! Talvolta, nei Vangeli, si dice Cristo eghérte, ‘si è risvegliato’(Mt 28,7); qui è Gesù il soggetto dell’azione; in altri passi, leggiamo Cristo anéste, ‘si alza, Dio lo ha rialzato dai morti’(Cfr., Rm 10, 9; At 2, 24). Qui è oggetto dell’azione di Dio. Non è senza importanza che l’evangelista precisi che Cristo si è fatto vedere per primo da Simone (Pietro). Ha una grande valenza teologica questa precisazione perché su Pietro viene fondata la Chiesa e Paolo ne fa un atto di fede: “è stato risuscitato secondo le Scritture e si è fatto vedere a Cefa”(1Cor 15, 4 – 5a). Quando i due discepoli dicono chi è per loro Gesù, evidenziano come la Sua vita sia stata svolta da uomo di Dio. Come scrive Galizzi (op. cit., p. 486) – “le difficoltà non nascono dalla vita pubblica di Gesù; essa è chiara dimostrazione che Dio era con lui; quello che costa capire è la passione e la croce”. Ormai, però, tutto è chiaro: è risorto! Negli Atti degli Apostoli, Luca mostra come la lezione sia stata assimilata dalle prime comunità: senza le Scritture manca un tassello essenziale per comprendere chi è Cristo. I Giudei di Berea evangelizzati da Paolo, infatti, “accolsero la parola con grande entusiasmo, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano davvero così” (17, 11). Quando Gesù ha interrogato i due conosceva i fatti, ma si mostra buon psicologo e vero Maestro di catechesi. Sottolinea Galizzi: “Come il maestro rivolge domande ai propri alunni, pur conoscendo già la risposta, ma le fa per aiutarli nella ricerca” (cit., p.485), così Egli li interroga per giungere assieme a loro alla Verità. Devono percorrere, per raggiungerLa, la Via che è Cristo. Lui è la Via da attraversare per andare oltre (meta – odos)le confusioni teologiche; Lui il metodo infallibile della teologia. Pare che li rimproveri per la loro incomprensione, ma un particolare fa recedere da questa interpretazione: “Quel vocativo iniziale, che Luca introduce con una ‘O’ esprime nella lingua del tempo l’affetto di colui che parla e attutisce un po’ il duro rimprovero”(Galizzi, cit., p. 486). L’esperienza dei due discepoli smarriti, conferma questa tesi: “Per i contemporanei di Gesù l’incontro con lui era un invito all’incontro personale col Dio vivente, poiché quell’uomo era personalmente il Figlio di Dio” [39]. Dobbiamo farci davvero ‘discepoli di Gesù’ perché ognuno di noi è il compagno di Cleopa, il ‘cristiano anonimo’! Tutti dobbiamo imparare l’autentico metodo della teologia: è la Via (odos), che è Cristo, solo Ermeneuta della Parola, perché è il Logos. ‘Attraverso’(meta)Lui soltanto andiamo sulla ‘strada’(odos)giusta per arrivare alla Verità che è ancora Lui. Solo dopo si ha vera condivisione attraverso l’Eucaristia. Il Vaticano II, nella Presbyterorum ordinis, insegna: “Nessuna comunità cristiana può mai costruirsi senza avere come radice e cardine la celebrazione della santissima eucaristia”(6). Allora Cristo, come ad Emmaus, può divenire invisibile (non ‘assente’): lo si adora in spirito. Profonda l’intuizione di Paolo: “Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne”(2Cor 4, 18). Nella Chiesa visibile non si esaurisce l’operato divino (Non mi è mai piaciuto pensare che la misericordia di Dio si fermi ai confini della Chiesa visibile – Edith Stein). I due non hanno più bisogno di incontrare Gesù nel tempo, avendo compreso Chi è Cristo nell’Eternità. Questo impone di farsi discepoli in maniera autentica. Giuseppe Dossetti, giurista e canonista, tenne un discorso il 20 febbraio del 1993 a Bologna, in occasione della presentazione di un libro a lui dedicato: “Un fatto veramente nuovo ed emergente (…)influente sulla storia che si sta svolgendo – sarebbe (…)se da (…)anche non moltissimi cristiani (…)si riscoprisse e si attuasse nella propria vita l’autentico nucleo esplosivo dell’essere discepolo di Gesù Cristo”. La sua unica ambizione – ribadì – consisteva proprio nel divenire un autentico discepolo [40].
A quella stessa ora, ritornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli Undici e quelli (che erano)con loro…‘A quella stessa ora’: i due erano impazienti di tornare nella Città Santa per raccontare la loro esperienza. Ora sapevano davvero cosa era accaduto a Gerusalemme. Trovano una comunità che parlava di Gesù. Tutti comunicano, nessuno escluso. Un’intera comunità ricerca la Verità attraverso una teologia discorsiva e democratica. Appena i due si incontrano con quelli di Gerusalemme, vengono anticipati: si sentono annunciare che davvero il Signore è risorto ed anche qui si specifica che è apparso per primo a Pietro! Galizzi (cit.)medita un particolare: “Si rimane stupiti quando i due arrivano per comunicare una bella notizia e debbono ascoltare altri prima di raccontare la loro esperienza. Comunque è sempre una comunità comunicativa (…): nessuno è messo a tacere” (pp. 488 – 489) [41]. I due sono passati dalla pretesa di dire all’umiltà dell’ascoltare! Ora si possono davvero fidare: Dio ha mantenuto la parola donando La Parola (Perché ci si possa veramente fidare di un uomo, si esige la sua parola. Anche Dio ci ha dato la Sua Parola: Cristo! – Kierkegaard). Come sottolinea Bianchi in Lessico della vita interiore (cit.)il cristiano è colui che ha “piena coscienza che la sua capacità di parlare al suo Dio (…)dipende dall’ascoltarlo (…): fides ex auditu (Rm 10, 17)”(p. 85). Il volto triste finalmente si accende di gioia. L’intero Vangelo sta tra due poli: la gioia derivante dall’annuncio della nascita del Salvatore (Lc 2, 10 – 11)e quella che si manifesta con la Resurrezione (Mt 28, 8). L’episodio lucano insegna che non c’è pericolo: si riemerge dai flutti della disperazione se ci si lascia avvicinare da Cristo e la nostra teologia si mette alla scuola della Parola: “nessuna caduta (…)ha l’ultima parola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di (…)riprendere il cammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va ‘di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine’” (Bianchi, cit., p. 66) [42]. La Chiesa è sempre pronta a mettersi in cammino e, dunque, con Papa Giovanni XXIII, ogni cristiano può affermare: faccio parte di una Chiesa viva e giovane che porta avanti la sua opera senza paura del futuro. Prima, però, dobbiamo sbarazzarci dei discorsi teologici approssimativi e di una fede intrisa di pretese orizzontali. Papa Leone Magno diceva che comprendere almeno approssimativamente la Chiesa esige di trarsi fuori dalle tenebre della logica terrena e di non immergersi nei fiumi della saggezza mondana. L’evento Risurrezione non è solo questione fenomenica. Gesù non risorge soltanto per manifestarsi; in fondo, anche prima dell’evento pasquale era nel mondo. A che pro ritornarvi? Possiamo rispondere: per condurci nella Sua realtà che è il soggiornare eternamente nell’amore del Padre [43].
Nel capitolo A riposo dello Zarathustra, Nietzsche fa incontrare l’omonimo protagonista con ‘l’ultimo papa’ che è stato messo a riposo perché ‘Dio è morto’! Zarathustra chiede al vecchio pontefice se è vero, come si dice, che Dio è stato strangolato dalla compassione: vedendo ‘l’uomo appeso alla croce’, “non sopportò questa vista” [44]. All’ultimo papa viene consigliato di non interessarsi più a quel Dio che, in Oriente, fu potente e vendicativo e che, ormai, è ridotto ad un nonno, più che un padre, tristemente seduto accanto ad una stufa. Zarathustra, conclude: “tu sai bene quanto me chi egli fosse; e che camminava per vie stravaganti”. Stravagante è la compassione? Il progetto nietzschiano è delineato: “meglio costruirsi il destino con le proprie mani (…)essere noi stessi Dio”(ivi., p.317). Se non si accetta la propria vita dalle mani di un Altro si passa dal solo uomo – all’uomo solo! Dov’è il gap? Nel non comprendere che con Dio non si realizza “un rapporto religioso con l’essere più in alto, più potente (…): è una nuova vita ‘nell’esistenza-per-gli-altri’, nella partecipazione all’essere di Cristo. Il trascendente non è doveri infiniti (…)ma il prossimo (…). Dio in forma umana! (…)‘l’uomo per gli altri’! quindi il crocefisso” [45]. I discepoli sulla strada per Emmaus hanno il ‘volto triste’, sono ‘delusi’ e molto hanno in comune con l’uomo contemporaneo. Solo se si riconosce che la Via è Cristo si scopre qual è la via da percorrere per diventare autenticamente umani. Ha scritto Leo Scheffczyk: “L’uomo di oggi soffre molto di solitudine” eppure “cerca di nascondere la sua situazione. Il consumo collettivo sostituisce la comunione personale. Il consumo collettivo della televisione genera l’illusione della comunione. Si cerca di compensare l’incapacità di comunicare con una quantità di contatti” [46]. C’è un proliferare scomposto di comunicazioni che generano una infosfera nella quale non risuona la parola senso! Chi vive in questa atmosfera tecnico – razionalistica non sa più cosa sia la comunicazione personale e non passa dalla tristezza alla gioia. Solo l’amore può garantire una comunicazione non impersonale. Le questioni religiose non devono mai scollegarsi dal vissuto [47]. Quando Gesù si avvicina, i due si fermano! Noi, invece, no e corriamo ma…verso il vuoto. Siamo presi da altre cose e non abbiamo il tempo di fermarci inchinandoci davanti al Mistero. Ci distraggono seduzioni vane e come la Samaritana (Gv 4, 1 – 30) riempiamo brocche che subito si svuotano e ci rimandano, sempre più assetati, al pozzo delle illusioni. Troppo facilmente si elude l’insegnamento di Giovanni XXIII: l’uomo non è mai così grande come quando si inginocchia. Il filosofo marxista Althusser ammise che il suo destino era pensare di placare un’ansia andando incontro a infinite altre. I nostri desideri/brocche si riempiono solo per svuotarsi subito. Come diceva sant’Ambrogio, coloro che rifiutano di adorare il Dio vivente, si inginocchiano poi davanti al ‘dio niente’. Pellegrino, citando sant’Atanasio, ci ricorda che il Risorto fa della vita dell’uomo una festa indistruttibile [48]. Per annunciare questa festa indistruttibile occorre, come suggerisce Bianchi, esercitarsi nella grammatica umana elementare. Nello ‘spazio umano, umanissimo’ della nostra umanità deve avvenire l’annuncio del Vangelo che si configura “come l’esistenza buona” [49]. L’uomo che soffre per la vana richiesta di senso, va sulla via (odos)sbagliata e non va oltre (meta)nel cammino verso la Verità e, di conseguenza, perde la vera Vita. La ‘via privilegiata’ della Chiesa è l’uomo assetato di verità: “la Chiesa (…)sta (…) sotto l’autorità di chi soffre, un’autorità che Gesù nella parabola del giudizio (…)Mt 25, ha elevato a criterio di giudizio universale: ‘Ogni volta che avete fatto o non avete fatto al più piccolo (…)’. (…)L’annuncio di Dio nella Chiesa non ha forse dimenticato troppo spesso che il discorso biblico su Dio si articola nel ricordo della sofferenza altrui, e che (…)la memoria di Dio dal punto di vista dogmatico non può venire separata da quella della sofferenza che grida verso il cielo?” [50].
Il camminare dei discepoli, il camminare di Gesù assieme a loro, insegna che la fede non è statica. Una neurologa e psichiatra ebrea, scrive: “L’uomo diviene; ma anche Dio diviene (…)tutti ci troviamo oggi a un bivio: seguire lo Spirito o tapparci gli occhi e le orecchie e inchinarci agli idoli”. I discepoli devono scegliere: aprirsi alla vera comprensione della missione del Salvatore o idolatrare il politico. Purtroppo, “anche le religioni non idolatre ‘hanno’ idoli. Tutto ciò che si è pietrificato nel tempo, che è divenuto un simulacro vuoto di Spirito (…)specie se si ammanta dell’oro finto di una religione stereotipata noi dobbiamo distruggerlo” [51]. In Luca si cammina, tutto è dinamico, gli eventi si verificano ‘nello stesso giorno’. Nel Suo Vangelo la ‘strada’ è l’habitat ideale di Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”(Lc 9, 58). L’insegnamento è chiaro: “Questa è la prima esigenza per chi vuole essere discepolo: deve imparare a vivere fuori dalla tana e dal nido, deve imparare a vivere sulla strada, accanto a chi può ferirsi” sempre “pronto a intervenire (…)perché sa che facendo così annuncia che il regno di Dio è qui” [52]. Camminare e scoprire le sofferenze dei nostri compagni di viaggio libera dall’egoismo! Luca 13, 10 – 17 narra la guarigione di una donna curva e che non riusciva a stare dritta in nessun modo. Secondo Pezzini è un esempio di conversione: “La persona curva su di sé e legata è simbolo di chi vive nell’egoismo: attenta solo ai suoi bisogni, o anche solo nella depressione: incapace di guardare in alto e di guardarsi attorno. Convertirsi significa essere sciolti da ciò che ci lega a noi stessi, diventare liberi di dirigere lo sguardo in alto verso Dio, e attorno verso gli altri. Questo è il ‘sabato’, cioè il giorno ideale in cui si fa festa, perché la vera libertà (…)è fonte autentica di gioia”(op. cit., p. 77). E la gioia è straripante quando Cristo libera da tare ontologiche! Quando in Luca 24, 41 Gesù appare agli apostoli, sottolinea ancora Pezzini, suscita dapprima il loro ‘timore’, poi una gioia che stordisce. L’evangelista precisa: “per la grande gioia ancora non credevano”. Non seguono dichiarazioni degli apostoli. Perché? Il puntuale Pezzini ipotizza: “forse l’evangelista ha omesso di darci una dichiarazione di fede degli apostoli lasciandoli muti perché quella pagina rimane aperta: riguarda anche noi, e ciascuno di noi è chiamato a dare la sua risposta”(ivi., p. 123).
Una risposta che non può prescindere, per risultare giusta, dalla convinzione che Cristo è divino ed umano in senso pieno e reale. Come scrive Origene, ci stupisce che Dio si sia annientato nella Sua maestà ed “abbia vissuto fra gli uomini”. Quello che più stupisce, però, è che abbia agito così rivelandosi/nascondendosi. Infatti, continua Origene, Gesù “turbato in vista della morte (…)poi è risorto il terzo giorno”. In Lui, dunque, “vediamo alcuni aspetti così umani da non differire affatto dalla fragilità comune a tutti i mortali, ma altri così divini da non convenire ad altri che alla prima ed ineffabile natura della divinità”. Se la nostra limitata intelligenza Lo “crede Dio, lo vede soggetto alla morte; se lo reputa uomo lo vede tornare dai morti” e non si tratta di un “gioco di immagini prive di realtà”. La sola strada percorribile, per non incorrere in confusioni letali, è presentare “ciò che afferma la nostra fede piuttosto che fondarci su dimostrazioni di carattere razionale” [53]. Von Balthasar, a questo proposito, si è chiesto se c’è “un’intuizione del cristianesimo” (una strada, odos)che porti oltre (meta)una fede ‘fanatica’ o una fede ‘arrogante’, gnostica, tipica dei “saccenti”. Il teologo della Bellezza indica due ‘accostamenti’: personalistico ed estetico. Qui non interessa entrare nello specifico, ma giova dire che i due ‘accostamenti’ vengono “superati nel quadro della Rivelazione, dove il logos divino che discende chenoticamente si manifesta come amore, agape, e, in quanto tale, come gloria, splendore”. Qui si verifica una illuminazione dei fatti puramente storici (“innalzandoli a necessità”)e, allo stesso tempo, avviene qualcosa che non è riducibile ad una aspettativa umana e, dunque, non è catturabile interamente nelle nostre categorie di pensiero. La Parola incarnata, essendo amore, si distingue nettamente da ogni nostra possibilità di ‘dire’: “Se la parola fondamentale di questo logos – continua von Balthasar – non suonasse amore e – poiché trattasi di rivelazione divina – amore assoluto, incondizionato e quindi liberissimo, il logos cristiano dovrebbe mettersi in fila con i logoi di quelle altre dottrine e sapienze religiose (…). La plausibilità di questo amore divino non risulta da nessuna riduzione comparativa a quello che l’uomo ha sempre conosciuto come amore”. Ad Emmaus i logoi pronunciati da Gesù non sono paragonabili a quelli della sapienza umana che vede stoltezza nella Croce sulla quale viene inchiodato il Logos di Dio! Cristo è Logos e la Parola che è suona Amore ‘assoluto, incondizionato’ e, dunque, impensabile da una mente umana. Von Balthasar, dunque, ci fa comprendere che è la maestà dell’amore a costituire il fenomeno originario e fondamentale della Rivelazione. Le autorità che stanno tra essa e l’uomo hanno un valore derivato: “L’autorità originaria non la possiedono né la Bibbia (in quanto ‘Parola di Dio’ scritta)né il cherigma (in quanto proclamazione viva della ‘Parola di Dio’)né il ministero ecclesiastico (in quanto rappresentazione ufficiale della ‘Parola di Dio’); tutti e tre sono esclusivamente Parola e non ancora carne (…). Questa autorità originaria la possiede soltanto il Figlio, che interpreta il Padre nello Spirito Santo come l’amore divino”. La Rivelazione va compresa – secondo questo teologo – non solo formalmente come Parola, ma badando soprattutto al contenuto che è l’amore totale donato da Dio all’uomo. Mentre nell’Antico Testamento la ‘Parola di Dio’ giunge a noi recando essenzialmente una promessa, nel Nuovo Testamento l’amore non è accessorio rispetto agli altri ‘attributi divini’, ma ne è il principale: “Soltanto così, chiude von Balthasar, si può parlare in senso neotestamentario” [54]. Il modo di parlare in maniera autenticamente neotestamentaria è lasciare che ci parli la Parola!
La cristologia, dunque, è il fulcro pensante e dà a pensare quando accostiamo i Vangeli: “Gesù sta al centro. Tutto il passato era avviamento a lui. Tutto ciò che verrà di poi lo svilupperà” [55]. Il vero cristiano, per riprendere le parole di Paolo, è colui che vive “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede”(Eb 12, 2). L’invito a ripercorrere le Scritture è valido sempre. La parola della Scrittura venne paragonata da Gregorio Magno ad una pietra focaia: tenuta in mano è fredda, ma se la strofiniamo con un ferro, sprizza scintille ed alla fine produce un fuoco che arde. Sì, come ardevano i cuori dei due discepoli! Restando lettera, le parole conservano la loro freddezza, ma se “uno, con intelligenza attenta, ispirato dal Signore, le percuote, dai suoi sensi mistici viene fuori un fuoco tale che l’animo arde spiritualmente” [56]. Per Ippolito (In Danielem 4, 41)la salvezza consiste “principalmente nella conoscenza di Dio mediata dal Verbo, attraverso (…)la legge e i profeti ed infine attraverso il vangelo: ‘apparendo nel mondo come la verità, egli ha insegnato la verità’” [57]. Una Verità con la quale dialogare ininterrottamente stando sulla Via giusta. “Per l’uomo quel che è eterno, importante, è spesso coperto da un velo impenetrabile. L’uomo sa che là sotto c’è qualcosa, ma non lo vede. Il velo riflette la luce del giorno” [58]. Il velo delle parole riflette la Parola, ma solo quando ce la annuncia il Verbo ci pare accessibile. Dice Paolo che “manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché chi ha promesso è fedele”(Eb 10, 23). Questa pagina di Luca insegna che avere memoria di Dio attraverso la Parola (Torah)salvaguarda da equivoci che conducono lontano dal Signore. I Vangeli devono essere il costante alimento del nostro far memoria di Dio. Giustino li definisce apomnemoneumata, ‘fatti memorabili’. Certo pensa a Matteo ed a Luca visto che le citazioni che supportano la definizione provengono in larga misura da questi due evangelisti: “È possibile che Giustino fosse consapevole che questi (…)racconti non erano una semplice vita di Gesù, bensì un elaborato memento – sicuramente ispirato dallo Spirito – delle parole e dei gesti più degni di memoria (…)di quella vita” [59]. Siamo soliti accendere ceri davanti alle immagini sacre, ma comprendiamo davvero ciò che vogliamo fare? I cuori ardenti di ogni discepolo di Gesù sono i ceri che Dio gradisce. Il bruciare dentro al sentire la Parola è vera devozione ed inizio di un percorso che riporta al Padre attraverso il Figlio. In fondo, come insegna Paolo, “senza la fede è impossibile essere graditi a Dio”(Eb 11, 6). Alla fine, tornati a Gerusalemme, i due sono talmente accesi da essere due ceri viventi che donano la loro luce alla Luce! Ha scritto una filosofa ebrea del Novecento che un cero è “l’immagine di un essere umano che ad ogni istante offre a Dio la combustione interiore, l’usura interiore di tutti gli istanti di cui è fatta la vita vegetativa. Questo significa offrire a Dio tutto il tempo” [60]. Offrire il nostro tempo a Dio, far convergere in Lui le nostre vie, consente l’intersezione del Kairos col kronos. Ci provoca una esortazione di Shakespeare: Compra tempo divino contro le ore di un fosco tempo terreno [61].Gesù ha realizzato il ‘proprio essere’ aiutando i due viandanti a realizzare la loro identità di autentici discepoli. La funzione di Gesù non è separata dal Suo essere che è anche pienamente e realmente umano: “Non può darsi alcuna separazione tra la funzione di Gesù e il suo essere: l’una non va senza l’altro. L’essere di Gesù Cristo in se stesso è il necessario fondamento della sua azione salvifica verso di noi: egli può essere ciò che è per noi a causa del chi è in se stesso. La funzione e l’ontologia sono mutuamente interdipendenti” [62]. Cristo si fa uomo e soffre per l’uomo perché sa che la creatura umana è creata dal Padre a Sua immagine [63]. Gesù ha ritrovato le due pecorelle smarrite e, da Buon Pastore, dice Gregorio Nazianzeno – se le pone su quelle medesime spalle, che avrebbero portato il legno della croce, e le riporta alla vita dell’eternità.
Appendice
Cristo, Logos del Fondamento (Dio)nell’ethos umano
Nel cuore sfigurato del Novecento Horkheimer pronunciò, come lui stesso ammise, una frase alquanto audace: erosa la ‘base teologica’, non si poteva fondare su nient’altro la tesi secondo la quale ‘l’amore è meglio dell’odio’. Perché dovrebbe essere così, visto che dare ascolto all’odio “arreca spesso più soddisfazione che non appagare il proprio amore”? Basterebbe questa considerazione per riflettere “sulle conseguenze prodotte dalla liquidazione della religione”. Horkheimer sostiene che è non si crede più che gli uomini abbiano un’anima immortale. A questo punto, si dà un rimpianto: la giustizia per le vittime innocenti della storia, promessa da teologie e religioni, alla fine dei tempi non vi sarà! Eliminato Dio come ipotesi di lavoro necessaria per saperi specializzati, restano questioni spinose aperte: “ci deve essere pure qualcuno – ammetteva Sartre – che inventi i valori”. Se non c’è Autore della vita non c’è progetto e Sartre conclude che la vita non ha un senso a priori. Darle valore è compito nostro. Ecco l’origine dei disagi esistenziali e psichici: esagerate aspettative gravano su ogni uomo. Ehrenberg parla della fatica di essere se stessi e dice che l’uomo oggi diviene depresso perché deve sopportare l’illusione che tutto gli è possibile e, dunque, sarebbe una grave colpa non realizzarlo. Quello che principalmente ha messo in crisi il XX secolo è stato, dice Ballard, il concetto di possibilità illimitata. Va animata, invece, una nuova disponibilità a farsi interrogare dalle provocazioni teologiche e da quell’impareggiabile ermeneutica del cuore che è il Vangelo: “Finché non c’è la disponibilità a rivedere la propria posizione, non c’è alcuna possibilità che l’appello a vedere le cose ‘alla luce del Vangelo’ sia accolto” (Waldenfels). L’unica speranza poggia sul fatto che mai un uomo può rinunciare a cercare appassionatamente il senso della vita (Tillich). Il cristiano cerca non in maniera ateleologica e confusa, ma sorretto dal Fondamento. E Paolo è categorico: “nessuno può porre un fondamento (themélion)diverso da quello che già vi si trova (tou keimenon), che è Gesù Cristo”(1Cor 3, 11). Se smarriamo la fiducia nel telos irraggiato dal Fondamento e rivelato nel Logos/Cristo, la storia procede in maniera ateleologica e l’umanità viene gestita da ideologie assassine. Nietzsche decretò la ‘morte di Dio’ e ci siamo ritrovati, spiega Heidegger, con un posto vuoto nel mondo ultrasensibile. Quel posto, tuttavia, è rimasto nell’immaginario umano e si è preteso insediarvi, di volta in volta, qualche sovrano. Il nichilismo, dunque, è incompleto: ai vecchi valori, al vecchio dio, sono stati sostituiti nuovi valori e nuovi – più che dei – semidei. Le potenze mondane producono pseudovalori che stanno, conclude Heidegger, “al posto dei precedenti, posto che conserva così il rango di regione ideale del soprasensibile”. La teologia deve combattere affinché non si collochi un idolo laddove l’operazione nietzschiana ha provocato un vuoto.
Per Heidegger saper interrogare equivale a saper attendere tutta una vita. Non deve scoraggiarci il temporaneo prevalere di quello che Bloch chiama il demone del freddo; l’interrogazione paziente tipica di chi sa di vivere di fronte al mistero, deve avere - aggiunge Bloch - “il paradossale coraggio di profetizzare la luce proprio dalla nebbia”. Dal Fondamento rivelato dal Logos irradia il Telos che guida la storia e, dunque, credere è altro dal sottrarsi alle proprie responsabilità di fronte alla storia. Edith Stein, in una lettera del 12 febbraio 1928, scrisse che entrare sempre più profondamente in Dio conduce al dovere di uscirne per andare nel mondo a portarne la luce. Fare teologia significa centrarsi saldamente nel Fondamento. Centrarsi e irraggiarsi: questo il respirare nella fede. Von Balthasar sostiene che la teologia è la più grande irradiazione possibile nel mondo in virtù della sequela più vicina possibile a Cristo. La Stein, nella lettera citata, confessò che prima e poco dopo la sua conversione (era filosofa ed ebrea)pensava che prendere i voti (si fece carmelitana) equivalesse a distaccarsi dal mondo. Pensava che centrarsi nel Fondamento equivalesse ad “avere il pensiero fisso nelle cose divine” sottraendo energie alla prassi. Dopo una lunga evoluzione spirituale, giunse alla conclusione contraria. Daniélou individuava un legame inscindibile tra le speranze umane e la speranza teologale; questa è “l’attesa dei beni eterni, ma la pratica della carità è la condizione posta dal Cristo per ottenerli (…)la lotta nella città terrena per dare il pane a chi non ne ha e (…) vestire gli ignudi, è una condizione per diventare cittadini della città celeste”. Invece, scrisse Claudel, la tentazione dell’uomo moderno è quella di dimostrare di non avere bisogno di Dio per fare il bene.
Il Fondamento testimoniato nella fede e proposto dalla teologia non è tirannico. Galot ci ricorda che Dio potrebbe imporsi fecendo valere il peso della Sua Trascendenza, eppure elegge una modalità di svelamento situata “a un livello umano”. Gesù è proprio il solo e vero punto d’incontro tra divino/umano. Egli, scrisse Gregorio Nazianzeno, anche se ‘avvolto in fasce’ appena nato, fu capace di lasciare la tomba deponendo il sudario; battezzato come uomo, da Dio cancellò i nostri peccati; tentato da uomo, trionfò sulle tentazioni da Dio. Pregava, ma esaudiva pure le preghiere e, pur sapendo piangere, consolava; venduto per miseri trenta denari riscattò il mondo e l’uomo; languente e ferito, operava guarigioni; muore ed è la Vita. Dunque, come il Padre, il Figlio non è catturabile entro una definizione esaustiva. La Rivelazione non è l’intelligenza di un fatto, ma l’invito a relazionarsi con una Persona. Guardini, infatti, sottolineava che il centro di gravità della Rivelazione siamo soliti individuarlo nella ‘dottrina’ e nell’‘ordine morale’; elementi fondamentali, ma non possono esprimere la ‘pienezza’ della Rivelazione. L’Antico ed il Nuovo Testamento mostrano che ‘dottrina ed ordine morale’ “sono sorrette (…)dalla vivente azione di Dio”. Il Fondamento non è un aristotelico Motore Immobile. Per mezzo di Cristo Dio guarda da vicino noi ed il mondo; dunque, rivelandosi, Dio al mondo concede – conclude Guardini – il proprio stesso sguardo ed esso “diventa del tutto visibile nella luce di Dio”. Avere una Weltanschauung significa essere consapevoli che c’è “lo sguardo di Dio sul mondo: lo sguardo di Cristo”. Il Fondamento ci guarda attraverso gli occhi umani del Logos e, quando il Logos sarx guarda mondo e uomo irradia l’amore del Padre. Conoscere il senso della storia significa assumere un atteggiamento responsoriale. La fede, dice Guardini, è l’atteggiamento conoscitivo rispondente alla rivelazione. Dio invita alla comunione gli uomini perchè Lui stesso è comunione di Persone: la Trinità è il modello antropologico da realizzare. Il Fondamento si radica, per mezzo del Logos, nell’ethos ed elegge noi a Suo luogo privilegiato: “In noi ha stabilito la sua abitazione”(Gv 1, 14). Ethos ha doppia radice: ‘dimora, stanza’ se è scritto con la eta iniziale; iniziando con l’y, invece, significa ‘agire, prassi’. In latino, poi, mos moris indica il ‘costume, modo di vivere’ e demoratio, la ‘dimora’. Bruno Forte salda i due significati: “non puoi orientare i tuoi passi, le tue scelte, il tuo agire se non sai dove ti trovi o dove abiti”. Noi ci troviamo ed abitiamo in Cristo. Con la Sua venuta, l’affermazione biblica ‘l’uomo è ad immagine di Dio’ assume una valenza nuova: “nei tempi passati, si diceva bensì che l’uomo è stato fatto a immagine di Dio, ma non appariva tale perché ancora invisibile il Verbo (…): e appunto per questo (l’uomo)facilmente perse la somiglianza. Ma quando il Verbo di Dio si fece carne (…)ristabilì saldamente la somiglianza rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo che si vede” ( Ireneo di Lione). Questa appartenenza incoraggia la fede in Dio. Paolo scrive il manifesto della fedeltà incondizionata al Creatore e, l’esempio, non può essere che Cristo perché “non fu sì e no, ma in lui c’è stato il sì”(2Cor 1, 19). Donarsi al Fondamento avviene dopo che Lui si è donato senza risparmio. Dio, scrive von Balthasar, è Colui che “si può donare fino all’abbandono divino senza cessare di essere Dio”. A una teologia senza uomo, il pensiero moderno ha risposto con un’affermazione dell’uomo senza Dio – tuonava Congar. Come ad Emmaus, anche nella riflessione della Chiesa su se stessa, deve farsi sempre più chiara la convinzione che è l’uomo la Sua via obbligata! Parlare dell’uomo attraverso il lessico teologico, significa prenderne sul serio il dolore, la sofferenza. Metz ritiene che, parlare del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe eludendo la ‘sofferenza degli uomini’ significa non fare teologia, bensì, mitologia: “Chi ascolta il messaggio della risurrezione di Cristo mettendo a tacere il grido del Figlio abbandonato da Dio, costui non ascolta il Vangelo, ma un mito eroico”. Gesù stesso, sulla via per Emmaus, prende sul serio il dubbio che l’uomo ha nei confronti di Dio; dubbio che è, a mio avviso, una della cause principali della sofferenza umana. La fede non è una questione accessoria nel delineare il futuro (ma anche il presente)dell’uomo.
La fede non inaugura percorsi lineari. Dante Alighieri scrisse che lo sommo desiderio di ciascuna cosa è lo ritornare al suo principio; tuttavia, il percorso non è agevole! L’anima “drizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcun bene, crede che sia esso”. Scambia la ‘parvenza del bene’ col Bene! La nostra imperfetta conoscenza iniziale del bene, quando, cioè, diamo cominciamento alla ricerca, fa inevitabilmente sì che “piccioli beni le paiono grandi”. C’è una ‘via diritta’ che mena al Bene, ma anche tante strade ingannevoli che ce ne allontanano. Questa la drammatica convinzione dantesca. Dobbiamo diventare buoni camminatori, fidarci delle guide giuste. Conclude il poeta: solo “lo buono camminatore giunge a termine e a posa; lo erroneo mai non l’aggiugne (raggiunge), ma con molta fatica del suo animo sempre colli occhi gulosi si mira innanzi” (Convivio, IV, XII, 14 – 19). Si può finire, con ‘occhi golosi’, ad ammirare qualsiasi cosa ci stia innanzi perché non abbiamo il minimo sentore circa quale luogo possa contenere una scintilla del vero Bene! Cullmann era realistico: la ‘storia della salvezza’ sperimenta “ricadute connesse con il peccato dell’uomo davanti a Dio”. Parlava di linea alludendo al cammino della storia, ma di una linea non ‘retta’, bensì, ‘ondulata’. Nello sviluppo storico si presentano “lunghe deviazioni”. Il percorso dei discepoli verso Emmaus, tormentato, difficile, prima di ritornare a Gerusalemme esemplifica inequivocabilmente cosa si intenda per ‘deviazioni’. Cullmann opportunamente sottolinea che la storia biblica “rivela per sua natura lacune singolari, da un punto di vista storico, e si svolge in modo assai frammentario (…). In realtà nella storia della salvezza” si verificano “singoli eventi divini, che non possono essere previsti in base” ad un disegno unitario. Notiamo: per sua natura; la storia della salvezza ha una natura tutta sua da esplicitare nell’ethos umano e questo la rende paradossale. Tuttavia, nel brano lucano che abbiamo meditato, giganteggia una indicazione che formula splendidamente Agostino: Questa è la via: credere nel crocifisso. Seguiamo questa strada, vedremo la sua uguaglianza con Dio. La fede, radicata nel Fondamento, è il solo e vero fondamento della nostra speranza. Paolo scrive: “la fede è il fondamento (ipostasi)di ciò che speriamo”(Eb 11, 1). La riflessione teologica deve elaborare, aiutata dal Logos sarx, il contenuto di questo ‘fondamento’ e renderlo adeguato all’umano dire. Agostino spiega che, completare una cosa, non significa gettare alle ortiche quanto già c’è. Se qualcosa hai compreso – scrive nel Commento al Vangelo di Giovanni – e non è contrario all’insegnamento cattolico, se hai raggiunto una convinzione affidabile “porta avanti l’edificio, ma senza staccarti dal fondamento”(98, 6,7); non staccarti, cioè, da quello che già c’è. La fede è relazione tesa e continuata con il mistero. La fede, malgrado ciò, è il fondamento (ipostasi) di ciò che speriamo. Hypo – stasi è ciò che sta sotto (hypo); ciò che ‘sta sotto’ è ciò che regge…è fondamento.
Smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell’uomo, della sua dignità e della sua vita, scrisse Giovanni Paolo II (Evangelium vitae 21). Per questo, la Chiesa deve avere sempre un occhio verso l’alto ed un occhio verso il basso. Comunicando e donando il Logos del Fondamento, la Chiesa si rivolge al mondo e si fa parola, messaggio, colloquio (Paolo VI). Donando senza immediatamente esigere, la Chiesa incoraggia ogni uomo al dono di sé. Dice Paolo che tutti gli uomini “sono stati giustificati gratuitamente (doreàn)”(Rm 3, 23 – 24). Il greco doreàn andrebbe tradotto ‘dono che eccede i nostri meriti’. Il Fondamento ‘fonda’ e ‘dona’ la nostra identità. L’io, però, si realizza solo appellandosi ad altri e questa lezione è nota anche al mondo pagano. Ulisse torna ad Itaca e nessuno lo riconosce, ma quando viene invitato a presentarsi, risponde: “Ho l’onore di essere nato nella pianura di Creta. Mio padre era molto ricco”(Odissea, canto XIV, 185 – 199). Commenta Gesché: “Le coordinate che indicano la nostra identità ci provengono anzitutto da fuori di noi (…). Uno esiste e nasce per iniziativa d’altri”. Dio non chiede, per creare l’uomo, il suo consenso, ma quando entra nelle nostre vicende, dice: “Sto alla porta e busso, se uno apre la porta, allora io entro”(Ap 3,20). Il Fondamento, per amore, vuole s – fondare la porta dell’ethos umano, ma non può fare a meno della delicatezza e della discrezione. Il Padre ama il Suo Logos perché donandoci la vita ci conduce a Lui: “Per questo il Padre mi ama, perché io dono la mia vita”(Gv 10, 17 – 18). Gesù è il nutrimento: pane disceso dal cielo (Gv 6, 35). La parola ebraica halah significa ‘pane sabatico’, ‘alimento sacro’, ma anche ‘annientarsi’. Dio si abbassa fino a farsi mangiare. Berit (Alleanza)deriva anche da bara ‘mangiare’ e, ricordiamolo, nella cultura semitica, per stipulare un patto, i contraenti consumavano un pasto. Ma la condizione imprescindibile resta quella di non finire col credere in un Dio che non è quello biblico. In questa vita, però, direi con Paolo, “mentre viviamo nel corpo siamo pellegrini lungi dal Signore, camminiamo, infatti, nella fede e non nella visione”(2Cor 6 - 7).
Se consideriamo la misura della nostra fede per vedere se comprendiamo la grandezza del Figlio di Dio, vediamo che di lui non tocchiamo che la frangia (…). Beati coloro che toccano almeno l’estremità del Verbo: perché chi può raggiungerlo tutt’intero? Così ragionava Ambrogio di Milano. Sì, bisogna sforzarsi di raggiungere almeno un lembo della veste del Logos per comprendere, come i due di Emmaus, quale Dio sta a fondamento della nostra esistenza. Benedetto XVI ha ricordato che “l’immagine di Dio nell’uomo ha sempre conosciuto delle contaminazioni e deformazioni. È perciò vuoto romanticismo dire: risparmiateci i dogmi, la cristologia, lo Spirito Santo, la Trinità, perché ci basta annunciare Dio Padre e la fraternità tra gli uomini (…); ma su questa via si arriva davvero a conoscere l’essere così complicato che l’uomo è? Dove conosciamo che cosa significa essere padri, fratelli, in modo tale da poter fondare su questo la nostra fiducia? (…). Da dove sappiamo che la fraternità è bontà affidabile (…)?”. Prosegue: “Per questo Dio stesso ha dovuto mostrarsi, demolire le immagini e introdurre un nuovo criterio di misura. Questo avvenne nel Figlio”. Cristo, allora, quale autentico Logos del Fondamento è la Presenza sulla quale fondare un ethos della cui bontà si possa essere convinti. Il che non equivale a ridurre Gesù a ‘maestro di morale’. Ogni credente, poi, dopo l’esilio verso Emmaus, con la rinnovata intelligenza della sua fede, scriva una pagina di Vangelo con la propria vita perché, afferma Marchador, fino a quando “uomini e donne continueranno a leggere la Bibbia, per cercare di aggiungere le proprie pagine, la Scrittura resterà il libro della vita”. Ogni immersione reale nella Parola segna una visita di Dio: “Signore, visitaci con la tua salvezza” (Sal 106, 4). A Geremia viene risposto: “Vi visiterò e realizzerò la mia promessa”(Ger 29,10). Dio è raggiungibile solo attraverso Dio. Un desiderio assoluto può solo realizzarsi entro l’Assoluto perché, come intuiva Platone nelle Leggi, “il dio ha in sé il principio, la fine e il mezzo di tutte le cose” (715e – 716a).
La prima cosa è divenire consapevoli della propria sete di Trascendenza. Diceva Agostino nei Discorsi: “Se non so cosa mi manca, non so cosa c’è in me”(169, 14, 17). L’uomo si conosce iniziando con lo scoprire di che cosa manca. E la ‘cosa’ che più manca è la certezza di essere salvati. Ed il Verbo ci dice che nemmeno la morte più minaccia. AscoltiamoLo, dunque, proprio come hanno i fatto i due andando verso Emmaus. Questo ascolto lascia operare la Parola che risponde all’appello straziante dell’umanità: Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?(Lagerkvist). Con Simone Weil convinciamoci che “dobbiamo ridivenire immagini di Dio” e lo si può soltanto imitando l’immagine perfetta: il Figlio. Lui è la Parola definitiva di Dio e, la nostra teologia, come le congetture dei discepoli delusi che vogliono rifugiarsi ad Emmaus, ne sono appena i pallidi derivati. Schierse, precisa: “Dobbiamo sempre opporci all’equivoco intellettualistico, secondo il quale Gesù avrebbe fornito soltanto indizi deboli e poco chiari della dottrina cristiana, mentre la verità genuina e completa sarebbe stata definita dalla Chiesa successivamente. In realtà è vero il contrario: Gesù ha rivelato, attraverso le sue parole e opere, tutta la verità definitiva, mentre tutte le spiegazioni successive non sono che tentativi di esprimere meglio in concetti l’uno o l’altro aspetto parziale del processo della rivelazione”. Se le nostre parole sono approssimative e dipendono, per elevarsi a logoi certi, dalle correzioni del Maestro, guidare chi non è riuscito a superare la tristezza perché non comprende e si è insediato nella propria ristretta Emmaus, è missione da svolgere con tenerezza. Ai Corinti Paolo scrive: “Non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia”(2Cor 1, 24). Con Filemone adotta un comportamento simile: “Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità”.
Nel momento in cui il Logos irrompe nella mia vita, il tempo diviene kairologico. In Omero, kairos indica la zona vitale dell’organismo umano (senso locale)da colpire al momento opportuno per abbattere l’avversario (senso temporale). Il kairos, dunque, concede – volta per volta – affinché accada un’azione efficace, solo un attimo nel flusso inarrestabile di kronos. Occorre prudenza per individuarlo! Pindaro scriveva che il kairos “assegnato all’uomo è solo una breve misura”(Pyth IV, 286). Kairos si lega, perciò, ad eulábeia, ‘cautela, precauzione’. Vi può essere mai episteme riguardo ad esso? Potevano razionalmente prevedere i discepoli meditabondi nell’episodio lucano che ci interessa che avrebbero ricevuto la visita del Signore? La kairologia non è sapere certo! In ogni situazione si dà un diverso kairos. Talete sosteneva che il kairos si coglie tra un troppo presto ed un troppo tardi. Per Ecateo di Abdera, colui che sa, conosce anche il tempo e il luogo opportuno per agire in un determinato modo. Il Fondamento conosce il tempo opportuno per rivelarSi: “La Parola divina, apparendo senza che nessuno l’aspetti, come un compagno per l’anima che solitaria cammina, gli reca una gioia inattesa e che supera ogni speranza”, scrive nel De somniis Filone (1, 71). Una speranza che si dà con modalità eccedenti le nostre geometriche previsioni razionali circa il futuro. Spinoza afferma che la potenza della ragione non si spinge mai fino alla salvezza. Non sarà la Ragione a far passeggiare l’Assoluto per le vie della città (Michelstaedter). È il Fondamento che, operando attraverso quella che Paolo chiama ho logos ho tou staurou (la parola della croce, 1Cor 1, 18), produce uno s – fondamento dell’ethos dominante ed apre spazi di immaginazione nei quali ‘tentare di rinnovare l’ethos’. Duquoc riporta una tesi di Breton: “la croce di Cristo è la rivelazione di un Dio di cui nessuna etica umana riuscirebbe a significare la misura. È nell’eccesso che rende derisoria qualsiasi saggezza umana (…), culturale (…)economica o politica, che si afferma l’originalità del vangelo. La parola generata dall’evento della croce è quindi rottura con il cammino del mondo, fosse pure un cammino eticamente encomiabile e positivamente valutabile”.
La fede fonda sulla Roccia. Pensiamo al lessico biblico: ‘aman (da cui ‘amen’), significa ‘essere saldo, sicuro, fedele); batah, ‘confidare’; hasah, ‘trovare rifugio’; qawah, ‘sperare’; hakah, ‘attendere’; jahal, ‘aspettare’. Nel NT, abbiamo pisteuo (credo)e pistis (fede). Nell’Antico Testamento, he’ emin (tradotto nella versione dei LXX pisteuo)ricorre 51 volte, mentre ‘emunah (roccia, fondamento)43 volte e, per lo più, he’ emin lo si usa solo nei confronti di Jahvé per distinguerLo dagli altri dei che non sono come Lui (cfr., Gen 15, 6; Es 14, 31; Is 7, 9; 53, 1; Gn 3, 5). Nel Nuovo Testamento pisteuo – pistis ricorrono 243 volte ciascuno anche se si presentano in accezioni diverse. Nel Corpus paolino, ‘pistis’ si ha 54 volte e ‘pisteuo’ 52. Il Dio fedele (Sal 31, 6: ‘tu mi hai redento, o Signore, Dio fedele’)coincide col Dio Verità (Sal 31, 7: ‘tu detesti i cultori di idoli vani’). Dalle annotazioni filologiche si nota evince l’importanza del termine. Il ‘conoscere’ della fede non poggia su un fondamento meramente razionale (1Cor 13, 12). Come si legge nel Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, chi ha fede “crede per la fiducia che si accorda alla persona”(177), a Cristo. Si crede a qualcosa ed a Qualcuno, secondo la formula tomista: ad fidem pertinet aliquid et alicui credere. Nel Vangelo si comprende che è accaduto davvero qualcosa di inaudito, di nuovo! La Nuova Alleanza, sottolinea Bultmann, si diversifica dall’Antica in quanto, prima, si era verificata la fondazione di una storia nazionale; poi, si è dato, col NT, una destinazione escatologica alla Storia. Gesù, infatti, non svolge unicamente un ruolo storico, tanto meno politico, come Mosé, ma – fondando la Chiesa – dà luogo alla “comunità della fine dei tempi”. Fondare una ‘comunità’ significa che la Parola va colta negli eventi e non solo nei testi sacri: “Se la parola di Dio si esprime incarnandosi nella storia, ne consegue che l’intelligenza di questa parola – la teologia – non si elabora più partendo anzitutto da testi, sia pur normativi dal punto di vista giuridico (…)Scrittura e (…)e dogmi, ma (…)dalla fede attualmente vissuta nella comunità cristiana e dalla problematica suscitata oggi da questi testi” (Chenu). L’attenzione a ciò che è storico, politico, va bene, ma non si deve far patire alla Ragione una colpevole amnesia del Trascendente. La Libertatis nuntius, del 6 agosto 1984, emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede, riflette sulla Teologia della liberazione che, in America Latina tenta di far valere le istanze evangeliche a favore di poveri ed emarginati; ebbene, al n. 957, si legge: “Lo sbaglio non sta nel prestare attenzione ad una dimensione politica dei racconti biblici; sta nel fare di questa dimensione la dimensione principale ed esclusiva, che conduce ad una lettura riduttiva della Scrittura”. La fede deve entrare nella cultura, non appiattirsi su di essa. Fatta questa precisazione, bene fece Paolo VI a sottolineare che una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta. Come nessuno, neanche il ‘più potente in discorsi fra i capi della Chiesa’, scriveva Ireneo di Lione, può aggiungere qualcosa alla Parola, così non può sottrarne una minima parte chi è debole negli argomenti della fede. Questa – aggiunge Ireneo – è una e identica per tutti; infatti, “né colui che può farne un’esposizione abbondante ne ha più, né colui che ne parla poco ne ha meno”(Contro le eresie, 1, 10, 2). La fede si fa cultura e non perde la propria identità, perché è unica! Questo viene rafforzato proprio dall’intendere rettamente un dato cristologico: scrive Paolo che “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre”(Eb 13, 8).
Per situarsi – come istanza feconda e critica - nel nostro ethos, la Chiesa deve riconoscersi roccia, ma pure barca minacciata dalle interminabili ondate dei mali storici. Il fondamento della Chiesa è Cristo! La ‘pietra’ che fonda è Cristo e non innanzitutto Pietro. Scrive Agostino: ideo Petrus a preta, non petra a Petro: Pietro deriva da pietra, non pietra da Pietro. Se la Roccia è Cristo e Pietro viene da Cristo, la Chiesa ha in Pietro il rappresentante del Fondamento per volere del Logos. Questo “grande apostolo” era, continua Agostino, la “prefigurazione simbolica di noi”. Perché? Pietro, come sappiamo, ora vacilla nella fede, ora vi appare saldo: insegna, cioè, che non si può padroneggiare il Fondamento, ma solo avvicinarvisi; eppure, insiste Agostino, si tratta del “primo e il più importante fra gli apostoli”. Perché malgrado la sua vulnerabilità Cristo lo chiama roccia ? Dio ha voluto, risponde Agostino, indicare che la Chiesa deve essere costituita da fedeli ‘deboli’ e da ‘fedeli forti’: “non può essere senza gli uni e gli altri” (Discorsi 176, 1.1 – 3.4). D’altro canto, è ovvio che un discepolo sia meno del Maestro. Potrebbe mai essere – scrive Agostino in Commento ai salmi – “che i tralci abbiano più potenza che la radice?”. Come potrebbe ciò che ha necessità di un fondamento fondarsi da sé? “Cristo poteva fare senza Pietro, Pietro non poteva fare se non in Cristo” – chiude l’Ipponate. Chi necessita del Fondamento non può che essere ricettivo anche se questa ricettività deve trasformarsi in ‘prassi’ per irradiare nell’ethos i semi del Trascendente. A tutti, infatti, deve essere resa disponibile la verità di fede. Questa verità, scrive Agostino nelle Confessioni (12, 25.2), il Signore chiama severamente a professarla in maniera pubblica perché, a “considerarla cosa privata”, se ne resta privati. Da parte della Chiesa la Verità va resa pubblica con prudenza. Solo così si può realizzare il “desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità”; e, perciò si tratta di condurre un dialogo “con l’opportuna prudenza”, affinché esso non escluda nessuno: “né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano la sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere”(Gaudium et spes, 92; corsivo mio). Agostino si faceva ispirare da questo principio ‘ogni uomo è il mio prossimo’ anche prima che egli sia cristiano (Commento ai salmi, 25, II, 2).
Bisogna andare nel mondo legati alla Roccia dalla quale, opportunamente interrogata, sprigionano scintille di senso che aiutano ad individuare, nella confusione dell’ethos, il telos della storia. Nell’Antico Testamento, c’è un rimprovero sempre valido: “Hai abbandonato la roccia che ti ha generato”(Dt 32, 18). Eppure, si è consapevoli del fatto che il Signore è la Roccia (Sal 18, 2; 92, 15; 95, 1). Attraversando il deserto, Israele patisce la sete: per mezzo di una roccia Mosé riceve l’acqua da Dio (Es 17, 1 – 7). La ‘roccia nel deserto’, in Paolo diviene un’immagine del Cristo sorgente d’acqua viva. Parla di “una roccia spirituale (…)e quella (…)era il Cristo” (1Cor 10, 3 – 5). Il Logos sarx, dunque, era già nel deserto con Israele; era già il Fondamento della nostra speranza! Nel Deuteronomio si inneggia a Dio come Roccia di Israele (32, 3 – 4). Pure se gli stranieri ne possiedono una, gli israeliti hanno questa certezza: “la loro roccia non è come la nostra” (Dt 32, 31). Ancora: “il Signore è la mia roccia (…)la mia rupe in cui mi rifugio (…)mio riparo! Sei la mia roccaforte che mi salva (2Sam 22, 2 – 3ss.). Nei Salmi il Signore viene invocato diciotto volte con l’appellativo Roccia (Sal 62, 3 – 7; 131, 4; 18, 32; 95, 1). In Isaia, essa è talmente massiccia da comprime rovinosamente le velleità espansionistiche delle nazioni che ostacolano il cammino di Dio con Israele (Is 44, 8; 12, 10; 26, 4; 30, 2). Accanto all’immagine della Roccia, è da considerare l’immagine della Chiesa come ‘barca’. Gli ebrei non sono un popolo marinaro: pescatori, semmai, non navigatori. L’Alleanza viene stabilita sulla terraferma o per mezzo di un simbolo che richiami la terra e la tensione verso l’Alto. In Genesi 21, 33 Abramo ‘pianta un tamerice in Bersabea’. L’albero ha – nel contesto biblico – valenza enorme nel sottolineare l’alleanza con Dio. Giosuè, all’epoca dei Giudici, restaurerà il Patto tra Dio ed Israele, sotto il terebinto (quercia)di Sichem. Nello stesso periodo storico, la profetessa Debora svolgeva il suo ufficio di giudice sotto una palma. Tornando al ‘tamerice’ che Abramo piantò in Bersabea, chiariamo che all’ombra di un albero non si sosta mai per perdere tempo o per tuffarsi in contemplazioni oziose. Le lettere che formano la parola ebraica ‘tamarice’, infatti, sono le iniziali di nutrimento – bevanda – alloggio. Non c’è dimora (ethos)nella quale si manifesta il Fondamento, che non diventi luogo di lavoro. E questo senza potersi sottrarre, pur guardando alla Roccia, al vivere che è ondeggiare di situazioni. Gennaro Matino sottolinea che ci sono nell’Antico Testamento 1.500 versetti che fanno riferimento all’acqua e 397 al ‘mare’ (jam). Lo si chiama tehom, ‘il grande abisso’, majim rabbim ‘acque del diluvio, della morte’. “La terraferma è la salvezza, il mare (…)l’imponderabile”. I discepoli videro il Maestro camminare sul mare e se ne turbarono (Mt 14, 26). A Giobbe, Dio ricorda di aver “fissato un limite” al mare per frenarne le arroganti onde. Il solo fluttuare delle onde produce fastidio, nausea! Gesù che cammina sulle acque, perciò, genera un paradosso perché, scrive Matino, quello che mostra è “contro ogni logica”. Ma che Dio sarebbe quello il cui Logos fosse traduzione fedele della figura che ne abbiamo disegnata nei deboli logoi? Come Pietro grida al Maestro che ha paura di camminare sulle acque, così esterniamo la paura di affogare nel mare dell’angoscia: “sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge. Sono sfinito dal gridare”(Sal 69). Tra i flutti minacciosi delle incertezze esistenziali occorre comportarsi come i discepoli in Matteo 14, 26: “pescatori, scrive Matino, che pur dovevano essere esperti di tempeste chiesero a quel Maestro falegname che di lì a poco sarebbe stato spezzato dalla croce, di appoggiarsi a lui per non morire”. La nostra esperienza non è sufficiente: di Gesù il falegname occorre fidarsi. La Chiesa è una barca ormeggiata ad una Roccia (Fondamento), ma che ha il proprio Logos in un falegname!
Crediamo che la bontà di Dio richiamerà in un unico fine tutte le sue creature mediante il suo Cristo – Origene.
Fare entrare la fecondità dell’amore di Dio nell’ethos significa scegliere ‘definitivamente’ a Chi essere fedele! Ne Il Dottor Zivago, Pasternak fa dire al protagonista: “Esistono al mondo cose che meritino fedeltà?”. E trova questa risposta: “Molto poche. Io penso che bisogna essere fedeli all’immortalità, che è un altro nome della vita, un po’ più ricco. Essere fedeli all’immortalità, (…)a Cristo”. Dante Alighieri, nel Convivio, sostiene che fra “tutte le bestilitadi” quella di non credere nell’immortalità è “stolidissima, vilissima e dannosissima”. Dante è radicato nel Fondamento autentico della nostra speranza: “e così credo, così affermo, e così certo sono ad altra vita migliore dopo questa passare”. Credenza che origina dall’incardinarsi sulla “dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, veritade e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo alla felicitade di quella immortalitade; veritade, perché non soffera alcun errore; luce, perché illumina noi nella tenebra della ignoranza mondana”(II, VIII, 7-16). Pasternak e Dante trovano, dunque, nel Fondamento ciò che ‘sta sotto, regge’(ipostasi)l’esistenza rendendola ‘sensata’. Il Fondamento si è concretamente calato nell’ethos, in quanto, è “nella carne di Nostro Signore (che)ha fatto irruzione la luce del Padre. Poi, irradiando dalla sua carne, essa è venuta in noi, e in tal modo l’uomo ha avuto accesso all’incorruttibilità, avvolto com’era dalla luce del Padre” (Ireneo di Lione). Agostino, in Commento ai salmi (121, 5), esorta: retine carnem Christi – ‘aggrappati alla carne di Cristo’. Nel Logos sarx si ricapitola tutto il ‘senso’ da versare nell’ethos e, ancora Agostino, nei Discorsi (261, 8)ci guida: “in Cristo ho tutto. Vuoi amare il tuo Dio? Lo hai in Cristo. Vuoi amare il tuo prossimo? Lo hai in Cristo”. L’uomo “sarà perfettamente restaurato in Cristo”(Lumen Gentium, 48). Questo richiede fiducia piena nell’immortalità, a Cristo. Diceva il cardinale Newman che si può amare ed obbedire a metà, ma è impossibile credere a metà: o si ha o non si fa fede. Qui ed ora dobbiamo lasciare entrare Dio nel nostro mondo perché l’avvenire è una dimensione del presente (Chenu).
Spesso è preferibile dare fiducia ad una immagine di Dio rassicurante, non curandosi del fatto che possa essere falsa! Clive Staples Lewis – che si convertì nel 1925 al cristianesimo – disse di non meravigliarsi se l’idolo viene preferito al Dio vero; Questi, infatti, per lo più, disturba in quanto “dà uno strattone all’altro capo della corda”. Se Dio si avvicina troppo a noi diventiamo, scrive Lewis, come quei bambini che, mentre giocano ai ladri, all’improvviso fanno silenzio e si spaventano sentendo passi risuonare all’entrata. Sono in casa loro, giocano a rubare, ma un rumore è capace di turbarli. Così si comportano quelli che “stanno dilettandosi di religione” all’approssimarsi, nelle loro vite, del Dio vivente. Quando Questi pare si stia avvicinando troppo, “si tirano improvvisamente indietro. E se davvero lo trovassimo? Non avevamo nessuna intenzione di arrivare a questo! E ancor peggio, se Lui ci trovasse?”. Dobbiamo uscire dalle secche di un discorso su Dio per entrare, anche se è terreno minato, in un campo di inter – relazione reale, patica, vissuta con il Padre. Questo impegna facoltà intellettuali ed affettive; tenerle separate significa già partire male. Raissa Maritain, moglie del filosofo Jacques, scrisse nel Diario che i teologi predicano l’Amore alle donne e nei loro allievi, invece, coltivano l’Intelligenza; ebbene, a lei pareva sensato “predicare e insegnare le due cose insieme”. Jung dà un giudizio equilibrato sulla ragione: ad essa dobbiamo credere, ma “non dovrebbe impedirci di riconoscere un mistero, quando ci si fa incontro”. Ed il mistero spesso ci si fa incontro nei momenti in cui, come accadde ai discepoli diretti ad Emmaus, i dubbi ed i tormenti prevalgono sulle certezze. Anche lutti, disagi psichici, sono eventi patici e spesso accadono all’improvviso. Ci manca, in questi casi, il terreno (fondamento)sotto i piedi e la speranza diventa chimera. Qui ci si gioca tutto: salto nel buio della disperazione o nel buio della fede; questa, però, non è una panacea per tutti i mali. Si tratta di scoprire se le note dolenti di una vita ridotta a spartito di Requiem possiamo solfeggiarle con voce che tradisca la superstite speranza nel Fondamento. Credere alla divinità di Gesù è una scelta nella quale ne va della vita: “Se il fatto che un uomo in mezzo a tutti gli altri è l’uomo Gesù non è qualcosa di indifferente (…)ma è ontologicamente decisivo; se essere uomo significa essere assieme a quest’uomo che è l’Altro vero e assoluto che ci è posto di fronte; se (…)significa essere posti concretamente a confronto con quest’uomo che è uguale a noi, pur essendo diverso per la pienezza della maestà divina, allora vuol dire che l’essere con Dio non è una delle tante caratteristiche dell’uomo, ma è la determinazione fondamentale, non è qualcosa di derivato e alterabile, ma è la determinazione originaria e immutabile dell’uomo”(Barth).
Ti prego, o Signore, fa che io possa gustare con l’amore ciò che gusto con il pensiero. Possa sentire con l’affetto ciò che sento con l’intelletto , pregava Anselmo d’Aosta. Chi affronta con onestà intellettuale gli itinerari tracciati dai filosofi alla ricerca della verità, approda a questa conclusione: “La filosofia non può darci il paradiso, ma può dirci se ne abbiamo bisogno e dove non dobbiamo cercarlo”(Alici). Le verità evangeliche, a mio avviso, ci rivelano a noi stessi e devono attecchire nel vissuto. Scrive san Girolamo: “La predicazione del Vangelo è la più piccola fra tutte le dottrine filosofiche. Solo che, seminata in un buon terreno, diventa albero, mentre i sistemi dei filosofi, i loro libri, lo splendore della loro eloquenza non mostrano niente di vivo”. Lévinas ha scritto che il discorso filosofico deve poter abbracciare Dio, di cui parla la Bibbia. Nei testi biblici la parola oggi indica un rinnovarsi quotidiano della proposta salvifica. Vale per un eterno presente l’invito del Salmo 95: Ascoltate oggi la sua voce (v. 8). Questo divenne un impegno quotidiano del filosofo Louis Bautain. In gioventù, la sua fede entrò in crisi ma, quando ebbe occasione di rivedere le sue posizioni, mise a confronto morale evangelica e morale filosofica traendone delle conclusioni interessanti: Ho ragionato con Aristotele; ho voluto rinnovare il mio intelletto con Bacone; ho dubitato metodicamente insieme a Descartes; ho lasciato che, con Kant, mi si dicesse cosa mi era possibile e mi era permesso di conoscere; ed il risultato dei miei ragionamenti, del mio rinnovamento intellettuale, del mio dubbio metodico e della mia critica, è stato che non sapevo nulla e che, probabilmente, non avrei mai potuto sapere nulla (…). Mi sono rivolto allora a Platone. Ho imparato a discorrere magnificamente sul bene, ma non sapevo come praticarlo. Ho presagito molto, ho visto poco e non ho gustato nulla. Non ero né migliore, né più felice per il fatto di essere più sapiente (…). Un libro mi ha salvato, ma non (…)scritto da mani di uomini…Vi ho trovato la scienza più profonda dell’uomo e della natura la morale più semplice e sublime al tempo stesso. Ho letto il vangelo di Gesù Cristo con il desiderio di trovare la verità; ed ho sperimentato una viva ammirazione, sono stato penetrato da una dolce luce, che non ha soltanto rischiarato il mio intelletto, ma ha portato il suo calore e la sua vita fino al fondo della mia anima”. Anche a Bautain, come ai due ad Emmaus, il cuore ardeva nell’ascoltare la Parola.
Per approfondire. Dante definì l’evangelista Luca scriba mansuetudinis Christi, ‘colui che ha scritto della dolcezza di Cristo’. Innanzitutto, è un ‘grande scrittore’ ed è l’unico autore del Nuovo Testamento non giudaico e scrive in un greco molto raffinato. C’è una gran varietà di vocaboli: 2055, mentre il Vangelo di Giovanni ne conta 1011. Per questo, Luca meritò l’elogio di Girolamo: inter omnes evangelistas graeci sermonis peritissimus fuit. Questo impone, per ben comprenderne la teologia, di attrezzarsi con sussidi bibliografici. Ecco alcuni testi accessibili: cousin h., Il Vangelo di Luca. Commento pastorale, Cinisello Balsamo 1995; craddock f. b., Luca, Torino 2002; fausti s., Una comunità legge il Vangelo di Luca, Bologna 2003; ghidelli c., Luca, Roma 1999; grasso s., Luca, Roma 1999; meynet r., Il Vangelo secondo Luca. Analisi retorica, Roma 1994; ortensio da spinetoli, Luca, Assisi 1994; rengstorf k h., Il Vangelo secondo Luca, Brescia 1980; roullier g. – varone c., Il Vangelo secondo Luca, Assisi 1993; sabourin l., Il Vangelo di Luca, Roma – Casale Monferrato 1989; schmid j., L’Evangelo secondo Luca, Brescia 1965.
[1] Cfr., m. valcarenghi, L’insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo, Milano 2005.
[2] Cit. in s. cotta, L’uomo tolemaico, Milano 1975, p. 133.
[3] Cfr., a. b. kern – e. morin, Terra – Patria, Milano 1994, p. 97. Freud denunciava una irrisolta gigantomachia tra ‘pulsione di morte’ e ‘spinta a vivere’: “c’è da aspettarsi che (…)l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario (Thanatos)altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito”(Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino 1971, p. 280).
[4] Cfr., p. wust, Incertezza e rischio, Brescia 1943 – 1985, pp. 103 – 104.
[5] Cfr., u. beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma 2000, p. 115.
[6] Cfr., ID, La fine di una cultura, Torino 1975, p. 22 e p. 12.
[7] Con le parole di un autorevole teologo, preciso che quando uso il termine Parola mi riferisco a Cristo e, dunque, “la ‘Parola’ non è da intendere in senso letterale o materiale (…), ma nel senso fondamentale di ‘comunicazione’ (…) ‘autocomunicazione’, che postula una risposta (…)un ‘adeguazione’ – corrispondente. La ‘Parola di salvezza’ è propriamente la salvezza effettivamente donata e quindi realmente compiuta”(g. colombo, Sulla evangelizzazione, Milano 1997, p. 22).
[8] Cfr., g. vannucci, Mistero del tempo, Sotto il Monte (Bg)1996, p. 15.
[9] Il termine Kleronomein, ‘ereditare’, viene usato 18 volte nel NT e 6 in Paolo; Kleronomia, ‘eredità’, 14 volte, di cui 5 in Paolo; infine, Kleronomos, ‘erede’, si trova 15 volte nel NT ed 8 in Paolo.
[10] Gerusalemme è la città citata nel Nuovo Testamento 139 volte (Vangeli ed Atti). Luca impiega 27 volte nel Vangelo e 36 in Atti la grafia Ierusalém. Nell’Antico Testamento è citata 660 volte. Cfr., j. jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù, Roma 1989; j. wilkinson, Gerusalemme come la vide Gesù, Roma 1981.
[11] e. schillebeeckx, Fede e interpretazione, Brescia 1971, p. 31.
[12] id., in w. kern – m. j. pottmayer- m. seckler (edd.), Corso di teologia fondamentale, 2. Trattato sulla rivelazione, Brescia 1990, p. 751.
[13] p. ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Milano 1977, p. 464. Il pensiero, di solito, più si sofferma su qualcosa e meglio comprende. Nell’ambito della fede, invece, conta la capacità di attendere che il senso si riveli: “Per ogni cosa umana vale il principio: più la si pensa e più si riesce a comprenderla. Ma per le cose divine, più le si pensa e meno si riesce a comprenderle. Questa è (…)una differenza di qualità (…); l’eterogeneità qualitativa fra Dio e l’uomo deve appunto mostrare questa situazione”(s. kierkegaard, Diario, Brescia 1980, vol. 7, p. 180).
[14] Il Vaticano II insegna che “fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio” (Gaudium et Spes. Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in Acta Apostolicae Sedis Commentarium officiale, Roma 1909 ss, pp. 1025 – 1120, 19.
[15] Gesù non mostra solo il Volto del Padre, ma anche il vero essere dell’uomo: “Per l’uomo seguire la Persona di Gesù, è seguire la verità su se stesso”(c. laudazi, ‘Cristo, identità dell’uomo’, in Rivista di vita spirituale, 54 (2000), pp. 465 – 483).
[16] f. f. mastroianni, Emmaus, icona eucaristica, Napoli 2005, pp. 41 – 42. Cardine della comprensione del mistero di Dio è Gesù, il solo Ermeneuta di Dio. Estromesso dai discorsi umani, cade l’impianto cristiano: svanisce nella delusione la soteriologia cristiana e si continua a vedere il mondo attraverso occhi incapaci di riconoscere Cristo che è la luce del mondo. Gesù è la cifra imprescindibile per comprendere il messaggio cristiano che, scrive Barth, “non conosce e non proclama nient’altro all’infuori di Gesù Cristo”. Il Suo nome, infatti, “non è una cifra che potrebbe anche mancare senza pregiudizio per ciò che il messaggio veramente significa e dice oppure potrebbe, in altri tempi, sotto altri cieli e in altre circostanze, essere sostituito da un’altra” (Dogmatica ecclesiale, Bologna 1968, pp. 95 – 96).
[17] Id., Questo Gesù (At 2, 32). Pensare la singolarità di Gesù Cristo, Bologna 2005, pp. 221 – 231; 245 – 255.
[18] “Studiare le cause prime significa anche cercare Dio, giacché ‘tutti ammettono che Dio sia una causa e un principio’. Il metafisico che studia l’essere in quanto essere (l’intero dell’essere)è diverso dal fisico e ‘sta più in su del fisico’, perché fa oggetto della sua indagine non solo il genere fisico dell’essere ma anche il genere dell’essere che è superiore a questo, ossia l’essere nella sfera del divino. E anche lo studio della sostanza sbocca nella teologia, perché studiare la sostanza significa (…)anche domandarsi se esistono solo sostanze di tipo fisico oppure anche altre al di sopra di quelle fisiche e quali queste siano. Il che significa domandarsi se esista o no un divino trascendente, che è appunto, problema teologico”(g. reale, ‘Introduzione alla lettura della metafisica’, in aristotele, Metafisica, Milano 1993, pp. 18s.).
[19] “Dio non proviene – nemmeno come conseguenza di una fiducia originaria – dal contesto del mondo, bensì sempre da Dio stesso. Perciò Dio (…)viene esperito solo sulla base dell’auto – rivelazione”(e jüngel, Dio mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa fra teismo e ateismo, Brescia 1982, p. 54).
[20] n. mette, ‘Il Gesù difficile. L’invito a una prassi di sequela nelle condizioni attuali’, Concilium 33 (1997) 1, p. 41. Il fatto stesso che professiamo un Dio che ama, rende possibile pensare la Trinità: “Dio è amore (…)e questo già di per sé è Trinità. Infatti, l’amore necessita di un amante, un amato e l’amore stesso”(e. stein, Essere finito ed Essere eterno, Roma 1999, p. 462).
[21] Gv 1, 18. Solo il Figlio può farci comprendere Chi è il Padre: “Pensare Dio significa: pensare Dio solo come colui che ha qualcosa da dire de deo. Dieu parle bien de Dieu (…). Il pensiero di un Dio che parla di sé esclude allora che il pensiero che pensa Dio si fondi in un primo tempo indipendentemente dal Dio che intende pensare. Pensare Dio non può significare che la ragione umana possa per così dire prescrivere a Dio come le si deve mostrare” (e. jüngel, Dio mistero del mondo, cit., p. 210).
[22] In fondo, “la teologia è possibile solo a condizione che la rivelazione comporti in sé anche una relativa conoscibilità. Se (…)la rivelazione è paradossale, allora non si ha alcuna teologia” e la stessa fede “non potrebbe costituire una premessa valida della teologia qualora fosse solo un sentire cieco”(e. peterson, ‘Che cos’è la teologia?’, in Bailamme 2 (1987), pp. 201 – 220, p. 206).
[23] Riscrivere ontologicamente la persona è possibile solo a Cristo perché l’“Autore del Vangelo è l’Autore dell’uomo”(a. rosmini serbati, Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, Roma – Stresa 1981, I, p. 5)
[24] Cfr., Documento Base della Catechesi Italiana, Torino 1970, 77, p. 136. Luca insegna che non si intende cosa sia la Salvezza se non si sa cos’è Risurrezione: “il fondamento originario su cui si elevò la cristologia più antica, sul quale (…)crebbero (…)idee e (…)schemi cristologici diversi” non è altro che “la confessione (…)che il Gesù storico è anche il Cristo della fede pasquale”(r. schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, Mysterium Salutis, V, Brescia 1971, pp. 483 – 484).
[25] Cfr., j alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Brescia 1986, pp. 9 – 11.
[26] id., Dal problema di Dio al problema dell’uomo, Brescia 1991, pp. 275 – 276.
[27] Possiamo dire che “non si danno realtà nobili che siano tali in senso totalmente profano, dal momento che il Verbo si è degnato di assumere integralmente la natura umana e di consacrare la terra con la sua presenza e con il lavoro delle sue mani”(beato j escrivá, È Gesù che passa, Milano 1988, n. 120). Dio ha preso sul serio la condizione umana e questo autorizza a dire che il “soprannaturale (…)non va situato a fianco o al di sopra della realtà umana: è in questa realtà umana che è presente”(j. f. catalan, Esperienza spirituale e psicologia, Cinisello Balsamo 1994, p. 17).
[28] Detto per inciso: oggi si usa troppo e a sproposito il termine profezia. Ha notato giustamente un attento critico del mondo moderno: “la parola ‘profezie’ non può essere applicata propriamente se non agli annunzi di avvenimenti futuri contenuti nei Libri sacri delle differenti tradizioni, provenienti cioè da un’ispirazione d’ordine puramente spirituale; in tutti gli altri casi il suo impiego è assolutamente abusivo ed il solo termine conveniente è allora quello di ‘predizioni’”(r. guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei tempi, Milano 2001, p. 247). Il pensiero contemporaneo si è interessato al profetismo biblico ritenendolo all’origine del concetto di storia maturato in Occidente: “il concetto di storia è una creazione del profetismo. Quest’ultimo è riuscito a creare ciò che l’intellettualismo greco non poteva produrre (…). Così per i greci la storia è e rimane volta esclusivamente al passato. Il profeta invece è il veggente. La sua visione ha prodotto il concetto della storia in quanto essere del futuro (…). Al posto di un’età dell’oro in un passato mitologico si pone la vera esistenza storica sulla terra in un futuro escatologico”(k. lowith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano 1989, p. 38).
[29] Per comprendere gli aspetti di ‘conformità’ e di ‘non conformità’ tra gli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento (un far chiarezza che molto dice anche in ambito cristologico), si legga il documento della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Città del Vaticano 2001.
[30] j. b. metz, in Concilium 20 (5/1984), p. 62. Non siamo, nell’ambito della fede, di fronte a domande che, una volta poste, ammettono risposta univoca: “le questioni relative a Dio non si risolvono con delle risposte in cui l’interrogazione cessa di risuonare” (e. levinas, Di Dio che viene all’idea, Milano 1983, p. 9). Se ci appassiona il Mysterium Salutis si scopre che “la passione per Dio (…)solleva non vaghe domande, ma interrogativi lancinanti” (j. b. metz – r. peters, Passione per Dio. Vivere da religiosi oggi, Brescia 1992, p. 29).
[31] Cfr., e bianchi, Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Milano 2004, p. 86. L’esodo da ‘se stessi’ interessa molto la mistica: “Quando recitiamo il Paternoster e diciamo ‘Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà’, con ciò preghiamo che Dio ci tolga a noi stessi”(meister eckhart, La via del distacco, Milano 1995, p. 58).
[32] “La legge (…)sebbene fosse spirituale, ha manifestato il peccato, ma non l’ha distrutto: perché il peccato non dominava sullo Spirito, ma sull’uomo. Dunque colui che doveva uccidere il peccato e redimere l’uomo (…)doveva divenire (…)l’uomo che era stato ridotto in schiavitù dal peccato ed era tenuto sotto il suo potere dalla morte affinché il peccato fosse ucciso dall’uomo e l’uomo uscisse dalla morte”(ireneo di lione, Contro le eresie e gli altri scritti, Milano 1981, III, 18, 7). La missione di Gesù, d’altro canto, esorbita, per il senso eccedente che rivela, da una comprensione di essa legata in primo luogo all’attenzione per le Scritture: “la cristologia non ha soltanto un fondamento biblico (…): anzi, questo (…)non sta nemmeno al primo posto. Al primo posto nell’origine della fede cristologica c’è la (…)vita vissuta, per quanto riguarda sia il credente sia soprattutto Gesù stesso”(r. penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, I: Gli inizi, Cinisello Balsamo 1996, p. 305).
[33] Il dono di Gesù è Gesù stesso. Impensabile che possa manifestarsi a causa di una nostra iniziativa: sarebbe, a pensarla diversamente, una Presenza suscitata per mezzo di arti magiche; la fede cristiana, invece, non ammette che l’uomo abbia il potere di evocare la divinità, ma questa si rivela solo per amore e per libera scelta: “L’apparire di Gesù non può essere in alcun modo prodotto dai suoi discepoli: la sua presenza è assolutamente indisponibile. Da ciò deriva il suo carattere di rivelazione”(f. g. brambilla, Il Crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Brescia 1998, p. 156. Il commento di Brambilla interamente dedicato alla pericope lucana che stiamo meditando è alle pp. 271 – 289).
[34] Cfr., b. chenu, I discepoli di Emmaus, Brescia 2005, pp. 57 – 58. Ospitare il Logos sarx è anche fare chiarezza su se stessi, in quanto, Cristo è la “risposta di Dio alla condizione umana”(l. boff, Gesù Cristo liberatore, Assisi 1974, p. 52).
[35] paolo VI, Mysterium fidei, Enchiridion Vaticanum, Bologna 1966 ss, 2, 437 – 438. Vivere cristianamente ed adottare un modo di vivere relazionale è la stessa cosa. Ha scritto Marko Ivan Rupnik: “La fede cristiana è (…)una realtà relazionale, perché il Dio che ci si rivela si comunica come amore, e l’amore presuppone il riconoscimento di un tu”(Il discernimento. Prima parte: Verso il gusto di Dio, Roma 2000, pp. 8 – 9).
[36] Per una esposizione più dettagliata della delicata questione, vedi a. bonora, Alleanza, Patto, Testamento, Roma 1992; a. lepore, ‘La berit nella duplice accezione di obbedienza e di comunione’, in Rassegna di Teologia, 42 (2001), pp. 867 – 890.
[37] In Joan. Commentarius 14, lect. 6. Cos’è un vero sacrificio? “ogni azione che si compie per essere in comunione con Dio nella santità, ogni azione ordinata a quel fine buono nel quale veramente potremo essere felici” (agostino, De civitate Dei, X, 6, PL 41, 283 – 284).
[38] Cfr., m. galizzi, Vangelo secondo Luca. Commento esegetico – spirituale, Leumann (Torino) 1994, p. 483. Ora è chiaro quale metodo teologico, ‘strada’ percorrere per andare oltre (meta – odos)povere categorie di pensiero: 1)ricordare i fatti; 2)confrontarli con le Scritture; 3)spezzare insieme il pane.
[39] Cfr., e. schillebeeckx, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Roma 1981, p. 29. Vi fu, in realtà, nelle prime comunità cristiane, la convinzione che il Crocifisso ed il Risorto fossero la stessa persona. Scriveva Papa Benedetto XVI, allora cardinale: “Le prime raffigurazioni della Passione rappresentano Gesù anche come il risorto (…). Viene rappresentato con gli occhi aperti a significare che la divinità non è perita, che continua a vivere e a dare la vita”(j. ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, in colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo (Milano) 2001, p. 307)
[40] id, La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986 – 1995, Milano 2005, p. 309. Dossetti rivelò anche che coi Vangeli e con l’intero Salterio intratteneva un contatto bruciante. Sperimentava, dunque, il cuore ardente come i discepoli sulla strada per Emmaus. In Dossetti si accendeva una “dinamica ricchissima che proietta a un tempo verso la trascendenza e insieme verso l’attualizzazione esistenziale” (ivi., p. 312). Aver fede nella resurrezione fonda e la Trascendenza e l’immanenza della fede, perché – “vede il Dio trascendente immanente in Gesù e il Gesù immanente trasceso in Dio” (j. moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1973, p. 195).
[41] In filosofia si consolida sempre più la convinzione che l’identità si definisce solo in rapporto all’alterità: “la storia della mia vita – scrive un filosofo morale contemporaneo – è sempre inserita nella storia di quella comunità da cui traggo la mia identità (…), il che significa in genere, che mi piaccia o no, che ne sia consapevole o no, che sono uno dei portatori di una tradizione”(a. mac intyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano 1988, p. 264).
[42] Mai la ricerca della Verità conclude in un assioma: la verità della fede è dono e, solo dopo, la possiamo parzialmente chiarire con l’intelligenza: “ciò che per grazia mi viene concesso è tale che (…)non può essere costruito a posteriori dall’intelletto. Io non posso dire: questo è proprio ciò (…)su cui il mio pensiero e il mio sentimento erano da sempre concentrati (…). Ciò che si dà per grazia non si dà mai definitivamente (…); è (…)qualcosa che genera incessantemente comprensione e che fa in modo che l’intelletto non si chiuda sulla comprensione già raggiunta” (h. u. von balthasar, in id – j. ratzinger, Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Brescia 2005, p. 37).
[43] “Con le apparizioni il Risorto non entra in questo mondo. Sarebbe morto per nulla se le apparizioni lo facessero di nuovo parte di questo mondo. È il contrario che è vero: con le apparizioni del Risorto sono gli uomini che entrano nel mondo divino (…)”(d. barsotti, Meditazioni sulle apparizioni del Risorto (Bibbia e liturgia 32), Brescia 1988, pp. 158ss). Gesù illumina di senso lo stesso mondo che, scrive ancora Barsotti, “perde sempre più la sua opacità e diviene sempre trasparente alla realtà ultima: il Cristo risorto (…)”.
[44] f. nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in id., Opere, vol. VI, 1, Milano 1979, p. 315.
[45] Cfr., d. bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano 1969, p. 278. Quando si incontra il Dio persona si scopre non un despota orientale, come pensa Zarathustra, ma Colui che, in Cristo, diviene l’uomo per gli altri. Si scopre il Dio parola che ci parla direttamente per mezzo della Parola/Cristo: “Il Dio della parola e della storia ha un rapporto privilegiato con ogni uomo, che egli non identifica in una massa anonima, ma chiama per nome (…). Dio ‘ci dice’ affinché anche ‘noi diciamo’ (…)rispondendo alla sua chiamata”(g. mura, Pensare la Parola. Per una filosofia dell’incontro, Città del Vaticano 2001, p. 27). L’attenzione all’uomo da parte del divino non poteva che nascere dalla totale compromissione di Dio con l’uomo, cosa che è avvenuta nel Logos sarx. Dobbiamo, perciò, saperci confrontare sia con l’umanità sia con la divinità di Gesù senza azzerare nessuna delle due dimensioni: “Invece (…)di dover abbassare la divinità o ridurre l’umanità del Cristo per proteggerle l’una dall’altra, forse divenendo più profondamente consapevoli della loro realtà e vicinanza, scopriremo il segreto della loro unità in Lui e della loro unione soprannaturale a noi”(m. blondel, Storia e dogma, Brescia 1992, p. 133).
[46] In aa.vv., Redenzione ed emancipazione, (Gdt 88), Brescia 1975, p. 27.
[47] “Una questione religiosa è solo una questione vitale o un vuoto chiacchiericcio. A questo gioco linguistico si gioca solo con questioni vitali. Proprio come la parola ‘Ahi’ non ha alcun significato se non come grido di dolore. Voglio dire: se una beatitudine eterna non significa qualcosa per la mia vita (…)non mi ci devo rompere la testa; se posso a buon diritto rifletterci, ciò che penso deve allora avere un rapporto preciso con la mia vita”(l. wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 1930 – 1932 / 1936 – 1937, Macerata 1999, pp. 90 – 91.
[48] In aa .vv., È festa! Per il Signore e per noi! Atti della XXXI Settimana Liturgica Nazionale, Palermo 1981. Il tempo viene redento dalla noia, dall’ansia, solo dalla Presenza: “Non un’opera d’uomini, ma un’opera di Dio incomincia a trasformare la storia del mondo” (Il nuovo catechismo olandese. Annunzio della fede agli uomini d’oggi, Leumann (Torino) 1969, p. 222). L’iniziativa è sempre di Dio. Anche la poesia rinvigorisce questa fondata speranza: “Oh, quanti cercate, siate sereni/Egli per noi non verrà mai meno/E Lui stesso varcherà l’abisso” (d. m. turoldo, ‘Ultimo atto della sua onnipotenza’, in id., Canti ultimi, Milano 1992, p. 206).
[50] Johann Baptist Metz, in aa. vv., La provocazione del discorso su Dio (Gdt 314), Brescia 2005, p. 59.
[51] m. v. ben horin, Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede, Bologna 2005, p. 82.
[52] Cfr., d. pezzini, La strada e la mensa. Il discepolo nel Vangelo di Luca, Milano 2005, p. 47. Si è sempre in cammino perché i discepoli “non nascono già fatti e perfetti”(p. 119).
[53] Cfr., origene, I principi, Torino 1968, II, 6, 1 – 2. Se Gesù è il Solo Maestro è anche l’unico Logos che può esplicitare il Fondamento (Dio)della nostra fede: “poiché lo stesso Verbo è venuto presso di noi dal cielo, noi non dobbiamo più andare alle scuole umane”(clemente alessandrino, Il Protrettico, Roma 1991, XI, 112, 1 – 3).
[54] Cfr., h. u. von balthasar, Solo l’amore è credibile, Roma 1982, pp. 53 – 62.
[55] Cfr., r. guardini, Il Signore, Milano 1995, p. 552. Voltare la faccia alla Presenza è una distrazione che svia dal vero punto di riferimento per trovare risposta ai nostri dubbi. Purtroppo, “il nostro mondo ha raggiunto un punto in cui - per amore della distrazione – è pronto a scoppiare”(t. merton, La contemplazione cristiana, Magnano 2001, p. 87). Capita che, per distrazione, non si riconosce Gesù quando ci si avvicina: “Quando si pronuncia la parola salvezza, noi alziamo tutti il naso in aria, e questa è (…)una singolare abitudine per dei cristiani. Anche i Giudei di Nazareth drizzavano il naso in aria, e il piccolo Gesù giocava nella piazza della Sinagoga, essi lo notavano senza vederlo, passando”(g. bernanos, Essais et ècrits de combat II, Paris 1995, p. 189); “a chiunque può accadere (…)di trovarsi d’un tratto faccia a faccia con la Santa Umanità di Cristo. Egli non sta al di sopra dei nostri miserabili problemi – come il Dio geometra o fisico – ma dentro (…)e non siamo sicuri di riconoscerlo di primo acchito”(id., I grandi cimiteri sotto la luna, Milano 1992, p. 204).
[56] Cfr., ‘Omelie su Ezechiele/2, X, 1’, in id., Opere, III/2, Roma 1993, pp. 266 – 267.
[57] Cfr., j. kelley, Il pensiero cristiano delle origini, Bologna 1972, p. 219. Ireneo di Lione attribuiva l’iniziativa, nell’intelligenza della Parola, al Signore: “Come potrebbe l’uomo andare a Dio, se Dio non fosse venuto all’uomo?”(Contro le eresie, IV, 33, 4). Ma Cristo è mistero che non smette di provocare: non “è stato mandato soltanto per essere conosciuto, ma anche per restare nascosto” (origene, Contro Celso, 2, 67).
[58] Cfr., l. wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1989, p. 150. Gli istanti in cui quel velo si squarcia, la Luce è visibile completamente e non ci acceca, ma illumina. Questa esperienza fa un personaggio demoniaco della letteratura russa, Kirillov. Confessa di vivere “istanti, non più di cinque o sei secondi ogni volta, in cui (si)avverte la presenza dell’eterna armonia, pienamente raggiunta (…)l’uomo, nel suo aspetto terrestre, non è in grado di tollerarla (…). La cosa più terribile è che tutto è così spaventosamente chiaro e la gioia è tale! (…). In quei cinque secondi io vivo tutta una vita, e per essi sono pronto a dare la vita, perché ne vale la pena”(f. dostoevskij, I demòni, Milano 2000, p. 780).
[59] Cfr., i .g. de liano, Le immagini di Gesù nel cristianesimo delle origini, Milano 2005, p. 101. Conservare la memoria suscita, di conseguenza, il desiderio di narrare quanto si custodisce. La Bibbia origina proprio da questo. Essa, infatti, “ama raccontare. Spesso insegna narrando, come ha fatto Gesù con le sue parabole. E come hanno fatto le comunità primitive che – per rispondere alla domanda ‘chi è Gesù?’ – hanno raccontato la sua vicenda”(b. maggioni, ‘Letture attuali della Scrittura’, in UFFICIO CATECHISTICO NAZIONALE (a cura di), Il popolo di Dio incontra la Bibbia, Leumann (TO) 1995, p. 39). E se le prime comunità vivono ed esistono in forza di questa impellente necessità di raccontare i facta Jesu, Luca preferisce far parlare la comunità; infatti, non parla di sé. Rileva un commentatore del Suo Vangelo: “Tace il suo nome; egli si mette per così dire da parte, per far parlare la tradizione apostolica che raccoglie; così facendo egli stesso diventa servitore di tale tradizione”(g. rossi, Il Vangelo di Luca, Roma 1992, p. 34).
[60] Cfr., s. weil, Quaderni, IV, Milano 1993, p. 383.
[61] Schelling nota: “Fatti come la resurrezione di Cristo sono come folgori con cui la storia interiore penetra, aprendosi delle brecce, in quella puramente esterna. Per chi toglie via questi fatti la storia si trasforma in mera esteriorità (…)appare desolata, morta, vuota, come spogliata di ogni contenuto divino, se essa è privata della sua relazione con quella storia (…) trascendente, divina, che autenticamente solo è la vera storia”(Filosofia della Rivelazione, Bologna 1972, Vol. II, p. 309). La ricerca dell’Assoluto è costante nella storia umana: se “l’umanità si è dedicata così a lungo all’assoluto è perché non poteva trovare in se stessa un principio di salute”(e. m. cioran, La caduta nel tempo, Milano 1995, p. 19). ‘Salute’ sta, ovvio, per ‘Salvezza’!
[62] Cfr., j. dupuis, Introduzione alla cristologia, Casale Monferrato (AL) 1993, p. 140.
[63] Qualcuno nota, sottolineando che siamo stati creati ad immagine di Dio, che questo ha condotto – paradossalmente – a dimenticare che ne siamo, appunto, soltanto l’immagine: “il peccato originale è stato possibile perché la somiglianza dell’uomo con Dio ha potuto facilmente far dimenticare l’assoluta differenza”(c. ciancio, in aa. vv., Parlare di Dio. Possibilità, percorsi, fraintendimenti, a cura di G. Mazzillo, Cinisello Balsamo, 2002, p. 49).
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