Il primo dovere del cristiano è il culto dell’insegnamento del Cristo: ascoltarlo – Paolo VI
I Vescovi italiani, nel Documento CEI Iniziazione cristiana, al n. 15, scrivono che è urgente ridare un contenuto specifico al nome ‘cristiano’ della persona battezzata. Ciò vuol dire che l’identità cristiana non è acquisita per statuto ontologico, ma va ridiscussa, nella fedeltà al suo Fondamento (Cristo), entro le coordinate storiche nelle quali viviamo. Un teologo morale afferma che “dobbiamo essere estremamente preoccupati di conservare la nostra identità. Nessun pensiero, nessuna parola (…), teoria deve sconfessare o oscurare la nostra fede che Dio si è rivelato pienamente in Gesù Cristo” [1]. Nella rivista Il Segno della Diocesi di Milano, nell’ottobre 2003 venivano riportati i risultati di una indagine: alla domanda ‘Gesù è Dio?’, soltanto due persone su tre lo confermavano ed appena l’1% credeva nella Risurrezione! La rivista Il Mulino, presentò, sempre nell’ottobre 2003, un servizio: ‘Rapporto sulla religione’. Si monitorava la situazione italiana. Il 27% dei cattolici pensava che c’è del buono e del vero in tutte le religioni ed il 12, 4%, poi, affermava che Gesù non è Dio. Si sono scolorite le motivazioni per cui possiamo dirci ‘cristiani’ e si rafforza, invece, un vago sentimento religioso. Nel 2000 nel numero 38 di Famiglia cristiana apparve una riflessione intitolata ‘Troppe città senza Dio’ e vi si denunciava la crescente privatizzazione della fede che ripiega verso l’individualistico e si configura come sentimento vago di bene, di gratificazione psicologica. Essere vagamente credenti in qualcosa (più che in Qualcuno) mi rende un qualunque frequentatore di rarefatte atmosfere spirituali; purtroppo, come ricordava Don Giussani, per il Dio della nostra fede nessuno è qualsiasi. Essere pienamente noi stessi, nell’ambito della fede, non significa soltanto realizzazione intramondana del soggetto, ma attrezzarsi per essere una icona vivente dell’amore di Dio; in fondo, come ha detto Louis Evely, Cristo non ha altro corpo visibile che i cristiani, e nessun altro amore da mostrare che il loro amore.
Il vescovo e martire Ignazio di Antiochia, nell’anno 107, venne condotto a Roma incatenato per subire il supplizio mortale. Ai cristiani di Efeso, scrisse:
“L’unica cosa che importa è essere trovati in Gesù Cristo (…): è in Lui che io trascino le catene, queste perle spirituali” [2].
Poteva parlare in questo modo perché attingeva agli insegnamenti evangelici ed a quelli della Chiesa.
Del vescovo Policarpo di Smirne, morto anch’egli martire nel 155, un antico autore cristiano, dice: “insegnò sempre quello che aveva appreso dagli apostoli, le cose (…) che la Chiesa trasmette e che sole sono vere” [3].
C’era continuità tra la propria testimonianza di fede e gli insegnamenti apostolici e della Chiesa. Si è reso problematico quanto un tempo era salda convinzione: Cristo non stava senza la Chiesa ; ormai, ci si chiede, Cristo o Chiesa? Agli insegnamenti – soprattutto morali – della Chiesa si oppongono polemiche e si tenta di annacquare i precetti cristiani con la scusa di doverli adattare al nostro tempo. Sappiamo, o fingiamo di sapere, del cristianesimo quello che ci fa più comodo; così, alla fine, esso “sembra essere un oggetto conosciuto e dimenticato. Conosciuto, perché molte sono le sue tracce nella storia e nella educazione dei popoli. Eppure dimenticato, perché il contenuto del suo messaggio sembra difficilmente avere a che fare con la vita della maggior parte degli uomini” [4]. Nelle nostre città si vive forzatamente il sincretismo religioso a causa della presenza di immigrati che professano un credo diverso. Non è la scarsa consapevolezza della propria identità cristiana a generare paura, confusione, scontri con relativi cruenti disagi per la convivenza civile? Il problema non è che le identità religiose altre minaccino la nostra, ma che non siamo più convinti di averne una e, se pensiamo di averla, non la testimoniamo. Come scrisse Danièlou, se nella città non esiste più adorazione, se essa si costruisce al di fuori di Dio, non sarà soltanto una città areligiosa,
ma anche inumana. Chi ‘costruisce il mondo’ aderendo ai precetti cristiani comprende pienamente, invece, l’insegnamento di Giovanni Crisostomo: il cristiano è un uomo a cui Dio ha affidato tutti gli altri uomini.
L’errore sta nella convinzione che possiamo dirci cristiani alle nostre condizioni. Scrive Aluisi Tosolini:
“Troppo spesso (…) tendiamo a dare per naturale l’appartenenza a una fede, a una comunità religiosa (…) che anche se da noi non condivisa, costituisce lo spazio del nostro universo simbolico. Ma oggi (…), in una città abitata dalla pluralità di percorsi valoriali (…), credenze, non è più così scontato” [5].
Come uscire dall’impossibilità di dialogo che sempre più caratterizza le nostre relazioni con chi professa altre credenze religiose? Riscoprendo una parola – originariamente evangelica - che fu terza nel manifesto della cultura illuminista.
Continua Tosolini:
“La sfida della soluzione non violenta dei conflitti è (…) l’essenza stessa della vita urbana (…). Si tratta (…) di riscoprire la terza parola ‘chiave’ della Rivoluzione Francese: fraternità. Se (…) libertà ed uguaglianza hanno (…) avuto successo (…) (anche perché compatibili con la natura quantitativa della democrazia) il concetto di fraternità non ha trovato nessuna concreta traduzione politica” (cit., p. 63).
Qui si innesta l’appello dei vescovi italiani: ridare un ‘contenuto specifico’ al nome cristiano significa – appunto – non un qualsiasi contenuto, ma quello che davvero compete ad esso. Nulla ha da dire il valore evangelico della ‘fraternità’ nelle metropoli sempre più costrette a fare i conti con il multiculturalismo e con il pluralismo religioso? Ad ogni buon conto, credo che avesse ragione C. S. Lewis a dire che una società cristiana non si realizzerà finché non la vorremo realmente: e non la vorremo finché non saremo pienamente cristiani. Si può sviluppare un dialogo con ‘altri’ fondando unicamen te su libertà ed uguaglianza ignorando la cristiana fraternità? L’identità cristiana non sarà mai compiutamente sviluppata se si percorrono le strade della fede in solitudine; il cristiano, piuttosto, “ha bisogno degli altri cristiani che dicano a lui la Parola di Dio (…) ogni volta che si trova incerto e scoraggiato; da solo (…) non può cavarsela senza ingannare se stesso sulla verità (…). Il Cristo nel mio cuore è più debole del Cristo nelle parole del fratello” [6].
Adottiamo il programma stilato al numero 22 degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola: “un buon cristiano deve essere propenso a difendere piuttosto che a condannare l’affermazione di un altro. Se non può difenderla, cerchi di chiarire in che senso l’altro la intende; se la intende in modo erroneo, lo corregga benevolmente; se questo non basta, impieghi tutti i mezzi opportuni perché la intenda correttamente e così possa salvarsi”. Vero cristiano, infatti, è chi ha compreso che non ci si salva senza gli altri.
Non si ha una identità religiosa solo perché cucita addosso dalla tradizione, né perché si appartiene (non per nostra scelta) ad un determinato orizzonte politico, geografico. Fede – che è più di un vago sentimento religioso – significa coinvolgersi totalmente in una relazione viva col Trascendente! Diceva Gregorio Nazianzeno che non vi è altro modo per conoscere Dio, se non vivere di Lui! Vivere di Lui accettando il rischio di vivere con altri che, talvolta beneficamente, impongono una revisione del nostro modo di credere. D’altro canto, scrive un sociologo: “la religione dell’individuo non è qualcosa di irrevocabilmente dato, un datum che egli non può cambiare” come accade con la nostra eredità genetica; anzi, “la religione diventa scelta, un prodotto dell’attuale progetto di costruzione del mondo e di sé dell’individuo” [7]. Si aggiunga, tra l’altro, che l’apparato simbolico cristiano è minacciato di insignificanza da un radicale mutamento nei nostri rapporti con le realtà terrestri. Ad esempio, l’Eucaristia: cosa sa l’uomo contemporaneo di quanto sacrificio costino pane e vino? Li va a prendere in anonimi meganegozi tra musiche frastornanti e luci artificiali stordenti. Non sperimenta, cioè, un contatto con la terra che li produce sfidando la natura che, talvolta, sembra negare quei beni. Scrive un teologo ortodosso:
“Oggi, la maggior parte degli uomini nelle società ‘sviluppate’ non partecipa se non mediatamente alla vita del mondo. In una megalopoli contemporanea la vita è organicamente separata dalla realtà naturale (…). Perciò non è possibile che il pane e il vino rappresentino (…) la ricapitolazione della vita e il lavoro di un intero anno (…) con tutte le quattro stagioni, con la semina, la germinazione, la maturazione e la dipendenza dai tempi e dai venti. I testi della Chiesa recano all’uomo d’oggi immagini di un’altra esperienza di vita (…). Per l’uomo contemporaneo tutto ciò è poetico ma non è la sua vita. Il suo proprio pane è preparato in modo antisettico, esposto nelle vetrine dei supermercati accanto alle conserve e ai pacchetti con legumi congelati” [8].
Si è – di questo passo – congelato il senso profondo e spiccatamente vitale del credere. I simboli ed i segni della nostra fede sono diventati privi d’anima e non ci parlano più; non ci danno più – per riprendere un’espressione di Ricoeur – a pensare. Pensare, nell’ambito della fede, non significa unicamente chiarificazione intellettuale dei contenuti, ma sforzo di rinvenire nella fede gli elementi validi per comunicare realmente con Dio. Credere senza sviluppare una relazione reale con il Qualcuno in cui ed a cui si crede non basta. D’altronde, l’antropologo Rodney Needham – ci ricorda un suo collega – ha tenuto a dimostrare che credo “non è il termine adatto a descrivere gran parte dell’esperienza religiosa. Il credo, infatti, si adatta di più a quelle tradizioni specificamente testuali e teologiche di origine medio – orientale come Ebraismo, Islamismo e Cristianesimo”. Vi sono altri modi per esprimere la propria identità religiosa e che pure possono fornire spunti di riflessione a noi cristiani. L’antropologo, infatti, continua citando una sua esperienza sulla quale credo sia bene riflettere:
“Durante un mio lavoro sul campo chiesi una volta a un indonesiano: ‘Credi (pertjaja) negli spiriti?’. L’uomo mi rispose perplesso: ‘Mi stai chiedendo se credo in quello che gli spiriti mi dicono quando mi parlano?’. Per lui, gli spiriti non erano un credo ma una realtà indiscutibile, una parte della sua vita” [9].
Quando Cristo per noi sarà, più che un credo professato in formule, una realtà indiscutibile della nostra vita, anche la nostra identità cristiana sarà fresca e primigenia come quella dell’indonesiano di cui dà notizia Peacock.
La crisi, dunque, investe l’intero spettro di possibilità rappresentative della identità cristiana. La sfida, allora, consiste nel non abbandonare quanto costituisce il deposito della fede, ma di centrarlo, senza nulla di esso snaturare, nell’odierno contesto vitale, sociale. Interrogarsi, cioè, sulla propria identità cristiana senza pensare che la questione si riverberi immancabilmente sugli altri è negativo. Si cade nelle trappole tipiche di una teologia fatta unicamente a tavolino. È stato osservato che, forse,
“il più grande inconveniente che abbia colpito il cattolicesimo moderno è di essersi fermato, nella teologia (…), su ciò che è in sé Dio e la religione, senza tenervi sempre unito il significato di tutto ciò per l’uomo. La situazione di un uomo e di un mondo senza Dio (…) deriva in parte anche da una reazione contro un tale Dio senza uomo e senza mondo” [10].
Dio mondo uomo devono legarsi con un et, giammai con un aut – aut. Calarci nel mondo, tra gli altri, discutere con loro della nostra fede è il solo stimolo valido per riflettere sul modo più giusto di rapportarsi a Dio. Siamo davvero cristiani? Solo dopo aver risposto a questa domanda ha senso scendere in piazza a dialogare con altri. Se non so chi sono come posso comunicarlo ad altri? Se ho idee confuse l’intero dibattito viene sequestrato da un impersonale confronto dottrinario, dogmatico. Qui si innesta la necessità di trovare la chiave di accesso all’altro mediando la nostra consapevolezza di cristiani e la cristiana fraternità nel comunicarla a chi testimonia un credo diverso. È stato precisato:
“Mediare indica ‘far incontrare’, ‘congiungere’, ‘tener insieme’ due realtà per sé diverse. In questo caso la categoria della fede e la categoria dell’agire, secondo le esigenze delle realtà temporali (…). Basti qui ricordare che l’identità cristiana, proprio perché deriva da Cristo, il mediatore per eccellenza, consiste nell’essere mediazione (…) nel senso di concepire quell’identità situandola nella storia. Questo (…) è fondamento di autentica cooperazione, di cui è strumento il dialogo, che i cristiani devono essere pronti ad aprire con tutti, ponendo a radice di tale capacità il rispetto e l’amore per tutti (…) e l’onestà del dialogo, secondo la sua naturale esigenza di ricerca della verità” [11].
Nel Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, Benedetto XVI ha detto: “l’affermazione del diritto alla libertà religiosa pone l’essere umano in rapporto con un Principio trascendente che lo sottrae all’arbitrio umano” [12]. Se vogliamo essere noi a stabilire cosa si intende per libertà religiosa, si manifestano prepotenza, imposizione. Il modello di discussione non deve essere umano, ma divino! Sia che si brighi per la supremazia di una religione, sia che la si ridicolizzi, si lede un diritto umano fondamentale. Dice il Papa: “Vi sono regimi che impongono a tutti un’unica religione, mentre regimi indifferenti alimentano non una persecuzione violenta, ma un sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose. In ogni caso, non viene rispettato un diritto umano fondamentale, con gravi ripercussioni sulla convivenza pacifica” (pp. 10 – 11).
Tutto questo si verifica quando lo sviluppo e la comunicazione di un’identità religiosa divengono appannaggio di un uomo sganciato dal Trascendente. Le guerre impropriamente dette ‘sante o di religione’ avvengono, poi, quando, per dirla con Simone Weil, si cede alla tentazione di rendere Dio partigiano in una guerra. Merita attento ascolto l’avvertimento del Pontefice: una guerra in nome di Dio non è mai accettabile. Se una concezione di Dio conduce a propositi bellici, precisa Benedetto XVI, vuol dire che quella ‘concezione’ si è corrotta in ideologia. La sicumera con la quale si impone la propria verità porta a fraintendere cosa voglia dire essere cristiani. Se il Fondamento della nostra fede non insiste su di un Principio Trascendente lo si rinviene ossequiando principi che nulla hanno in comune con la religiosità della persona. Se il Fondamento è cristologico, tenendo fisso lo sguardo sul Cristo testimoniato dalla Chiesa e non su quello interessatamente ridisegnato da noi, scopriamo che Dio non è come Lo pensavamo: “Noi pensiamo di sapere chi è Dio (…). L’originalità della dottrina di Gesù consiste nell’evidenziare, attraverso il suo atteggiamento, il nostro errore” [13].
Un dotto Rabbino, dopo la Seconda Guerra Mondiale, si fece cattolico e venne battezzato a Roma il 23 febbraio 1945. Da ragazzo, in Polonia, andava a studiare a casa di un amico cattolico e rimaneva pensieroso davanti ad un crocifisso collocato sulla parete della cucina. Si chiedeva:
“Perché questo fu crocifisso? (…). Se (…) fosse stato più cattivo degli altri (…) perché tanta (…) gente lo segue?”.
È la sequela di Cristo da parte di ‘molti’ a far problema. A partire dal grado della nostra vicinanza a Cristo, chi ne è lontano, comincia ad interrogarsi sulla Sua identità. Come mai, insisteva il ragazzo ebreo, la mamma ed il suo amico, che erano tanto buoni, Lo adoravano? Ora è la testimonianza diretta di cosa vuol dire ‘essere cristiani’ (mamma e figlio adoravano Gesù) a suscitare domande. L’uomo in croce era giovane, ma accettava senza imprecare e senza maledire il mortale martirio! Di fronte all’atteggiamento di Gesù e quello dei suoi amici, il giovane si chiedeva:
“Forse era e forse non era – chi lo sa? – il Servo di Dio, i cui canti abbiamo letto a scuola” (cfr., Isaia 53, 5). La domanda sull’identità di Gesù tocca il cuore del ragazzo che interroga la sua identità di ebreo: in fondo, ebrei lo sono entrambi! Ma è il Messia di cui il giovane ha sentito parlare nella scuola ebraica? Rispondeva: “Io non so nulla, ma d’una cosa sono certo, ed è: Lui era buono e allora…Allora, perché lo hanno crocifisso?” [14].
L’ex Rabbino Zolli, dunque, desiderò assumere una nuova identità religiosa dopo un triplice percorso di vita e di riflessione teologica:
1) la testimonianza di vera vita cristiana; i suoi amici, benché di fede diversa, lo accolgono e lo amano; 2) in quella casa era presente il Crocifisso! Abbiamo cura, nelle nostre abitazioni, di fornire prove sufficienti perché ci si accorga che vi abitano cristiani?; 3) andare alla radice ebraica della nostra identità per comprendere Chi sia l’uomo in croce e perché vi stia è un passo importante. Solo così possiamo condividere l’orgoglio col quale, un tempo, Giustino diceva: Sono cristiano (…) non desidero altro che essere riconosciuto come tale. Inizia a svilupparsi l’identità cristiana quando il solo nostro desiderio è che ci riconoscano cristiani. Ignazio di Antiochia, precisava: Non bisogna solo portare il nome di cristiano, ma esserlo.
Non si tratta di contestare quanto in Cristo non si adegua ai nostri desiderata, ma di rivedere quanto dei nostri desiderata si pone in net ta contrapposizione con l’insegnamento del Maestro. Non dovrebbe passare inosservata la precisazione dello scrittore cattolico francese Mauriac: non critichiamo Cristo. Critichiamo i cristiani che a Lui non somigliano. Per sviluppare la somiglianza con Cristo, ci tocca accettare che – come diceva Graham Greene – il cristiano è un uomo che deve convertirsi ogni giorno.
Husserl disse che ogni vita umana è una strada che porta a Dio. Il cristiano, però, deve essere – per riprendere una intuizione di Gustave Thibon – abbastanza influente per attirare un’anima ma, allo stesso tempo, abbastanza umile da far sì che le anime vadano oltre. Chi ha sviluppato la propria identità cristiana si pone come polo inizialmente attrattivo per le anime che cercano Dio, ma poi le lascia andare più in là perché la via a Dio esige cammini personali. Quando pensiamo di dover essere noi e soltanto noi a fare tutto per configurare in maniera cristiana un’anima, andiamo oltre il consentito; un po’ come se fossimo non i collaboratori, ma i sostituti di Dio! Giovanni Paolo II, scrisse:
“C’è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale (…): (…) pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita a investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che ‘senza Cristo non possiamo far nulla’ (Cfr., Gv 15, 5)” [15].
La nostra identità non può non formarsi in atmosfera ecclesiale: dove, se non nella Chiesa, incontriamo Cristo, solo modello di vita autenticamente cristiana?
Papa Liberio, nel IV secolo, diceva:
Non ho mai cercato di far valere la mia volontà personale, ma soltanto che i diritti apostolici fossero rispettati con esattezza e fedeltà. Voglio conservare quella fede che è stata trasmessa attraverso una così larga schiera di vescovi, alcuni dei quali furono martiri.
La vita di comunione è la sola possibilità, occasione per accostarsi a quanto è irrinunciabile per dirsi cristiani! Raccontava un teologo spagnolo in occasione del XV Meeting per l’amicizia fra i popoli (27 agosto 1994):
“Ricordo una signora – che non aveva ricevuto in precedenza un’educazione cristiana e il cui primo contatto col cristianesimo era stato tramite l’incontro con una comunità cristiana - che un giorno ascoltando il racconto dei vangeli disse: ‘Caspita! A loro è successo come a noi!’. Senza un’esperienza oggettiva e guidata nel presente di questo avvenimento, uno rimane fuori dall’esperienza documentata dai vangeli, anche se li legge. Così, può cogliere l’esperienza d’amore da cui è nata una poesia soltanto chi, in qualche modo, ha avuto una vera esperienza d’amore” [16].
La fede cristianizza la nostra identità soltanto se è esperienza vissuta nel confronto tra le origini del cristianesimo e l’attualizzazione (personalizzazione) di percorsi aurorali. Ora, come insegnava Giovanni Paolo II, di fronte al dilagare di ‘scetticismo’, ‘ateismo’, ‘incertezza morale’, ‘disgregazione della famiglia e dei costumi’, di un ‘pericoloso conflitto di idee e movimenti’, a cospetto di un’ innegabile ‘crisi della civiltà’ (Huizinga) e del ‘tramonto dell’ Occidente’ (Spengler), si tratta di far risaltare “l’estrema attualità e necessità di Cristo e del Vangelo”. Per questo, insisteva il papa polacco nell’Esortazione apostolica Ecclesia in Europa, “è necessaria una presenza di cristiani” che, competenti e formati “nelle varie istanze e Istituzioni europee”, possano contribuire “nel rispetto dei corretti dinamismi democratici e attraverso il confronto delle proposte a delineare una convivenza europea sempre più rispettosa di ogni uomo e di ogni donna e, perciò, conforme al bene comune” [17].
Le esperienze evangeliche nutrono la nostra identità! Diceva Kierkegaard che non vale la pena di ricordare quel passato che non può diventare presente. Che senso può avere prendere in mano i vangeli per ricordare cosa Gesù ha detto e fatto e come i Suoi contemporanei reagirono se ciò non diventa realtà hic et nunc? Ma sviluppare una identità cristiana nel nostro tempo comporta l’ allestimento di un linguaggio nuovo per la Parola eternamente giovane. Il gesuita Bartolomeo Sorge, in un editoriale dell’aprile 2003 per la rivista ‘Aggiornamenti sociali’, intitolato ‘Le ‘radici cristiane’ dell’Europa’, scrisse:
“è ovvio che nell’Europa di oggi secolarizzata, culturalmente pluralistica, multietnica e multireligiosa, non si può parlare delle sue radici religiose e cristiane nella forma confessionale come ai tempi della ‘cristianità’, quando potere temporale (…) e potere spirituale (…) erano strettamente congiunti. Perciò è comprensibile la diffidenza di chi teme che dietro il richiamo alle ‘radici cristiane’ si nasconda l’intenzione di imporre o privilegiare una precisa identità confessionale”.
Non si può ridurre la religione ad affare privato, né renderla valida per mezzo di un riconoscimento giuridico elargito a Chiese e comunità religiose.
Padre Sorge ritiene che “la forza della Chiesa (…) la sua vera e unica forza sta nella santità dei suoi figli, nella potenza disarmata della Parola di Dio, nella povertà evangelica”. Santità dei suoi figli: è la condizione di chi ha davvero raggiunto un livello ragguardevole circa la propria maturità di cristiano; potenza disarmata della Parola di Dio: l’impegno del credente non è quello richiesto al militante di un partito politico, o a chi ossequia una ideologia.
Se l’identità cristiana si realizza pienamente nella santità, il cristiano deve assimilarsi a Cristo. Nicola Cabasilas diceva che la nostra mente, il nostro desiderio sono stati fatti per l’uomo nuovo, Cristo. Il pensiero è dato per “conoscere Cristo”; il desiderio “per correre verso di lui” e la memoria “per portarlo in noi”. Il teologo bizantino, poi, aggiunge che, mentre Dio ci creava, Cristo era l’archetipo:
“non il vecchio Adamo è modello del nuovo, ma il nuovo è modello del vecchio”.
A farci tendere a Cristo è non solo la Sua divinità, “ma anche (…) la sua umanità: nel Cristo l’amore dell’uomo trova riposo” [18]. Un legame ontologico conferisce una immagine cristiana, ma per giungere alla somiglianza col Modello si richiede la prassi. Solo se operiamo per il bene dei fratelli si realizza ciò che sosteneva una massima patristica: “Il cristiano è un altro Cristo”. Su queste convinzioni, però, si sono sovrapposte troppe intellettualizzazioni, complicazioni filosofiche e si può dire all’uomo contemporaneo chi è Cristo per lui e lui per Cristo solo accettando di fare i conti con quanto scoraggia lo sforzo di formarsi una identità cristiana:
“Nel mondo della techne, ammaliato dalla tesi faustiana per cui ‘in principio era l’azione’, occorre ridire invece che ‘in principio era il senso’ e che si è manifestato in un fatto: Gesù (…). Per ridire oggi la fede in Gesù occorre farlo non ingenuamente, ma criticamente, tenendo presenti le problematizzazioni della moderna cristologia filosofica, e le odierne obiezioni del neopaganesimo” [19].
Diceva Kierkegaard: lo spirito è fuoco e il cristianesimo è incendiario. Se non accendiamo le nostre vite come fiaccole per testimoniare la potenza spirituale del cristianesimo, potrebbero essere ideologie o proposte soteriologiche di varia natura (maschere di interessi particolari) ad incendiare di entusiasmo il mondo per poi condurlo alla rovina. Il Senso consiste in un fatto: GESÙ! Le direttive offerteci dalla fede cristiana su come orientarci nella Storia articolano un doppio percorso, pur nella sua sostanza unitario.
Credo sia utile citare Agostino: In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris facta (Nelle mani abbiamo le Scritture, davanti agli occhi i fatti). Tra la Parola e quanto ci sta di fronte c’è relazione. Dobbiamo stare attenti, però, a capire bene di quale cristologia si sta nutrendo il nostro spirito: filosofica, annacquata, politicamente distorta, ecc…o quella evangelica? Tenere in mano la Scrittura quando siamo di fronte al mondo impone di pensare, agire, parlare, per dirla con Paolo, avendo gli stessi pensieri di Cristo! Del vero Cristo. Lutero diceva: se ti mostrano un dio che non è quello rivelato in Gesù Cristo, chiudi gli occhi. Péguy denunciava il fatto che Gesù, troppo spesso, si è consegnato all’esegeta, allo storico, al critico, come si è consegnato ai soldati, agli altri giudici, alle altre turbe. Chi avverte un analogo pericolo, lo segnali. Mi rammarica rilevare che, oggi, la voce dei teologi (e dei cattolici in generale) non viene ascoltata con interesse. La Chiesa sta lanciando provocazioni forti sui temi essenziali dell’umano vivere; non potrebbe accadere che un acritico rifiuto verso quanto annuncia causi più mali di quanto si sia disposti ad ammettere?
Un teologo contemporaneo ha ripreso un apologo di Kierkegaard per dire quello che sto cercando di mettere in evidenza. Un circo subisce un incendio ed il direttore comanda al clown – con addosso già i vestiti per lo spettacolo – di precipitarsi al villaggio per ottenere soccorsi. Quelli del villaggio, però, vedendo un clown pensano ad una trovata pubblicitaria e, per quanto il poveretto si desse da fare per farsi prendere sul serio, non riusciva che a suscitare un accrescimento di ilarità. Finì che il circo ed il villaggio vennero distrutti dal fuoco [20]. Pensiamoci…
Il cristiano sa che Qualcuno al suo fianco resta sempre e comunque. La sua identità è pienamente e consapevolmente assunta nell’ottica del dono, del gratuito e da questo origina la fiducia. So di essere cristiano non per immunizzarmi da eventuali mali, ma per condividerli con Qualcuno. Diceva Charles de Foucauld che quanto più abbracciamo la Croce , tanto più fortemente stringiamo Gesù che vi è appeso. Il cristiano vive il suo tempo con la fiducia di chi sa di essere accompagnato anche nelle ore più buie da un amico. C’è un romanzo del giapponese Shusaku Endo, intitolato Silenzio. In esso, un missionario spagnolo salpa per il Giappone con l’incarico di scoprire cosa ha spinto padre Ferreira all’apostasia (rigetto della fede). Padre Rodriguez approda clandestino in Giappone, ma viene arrestato. Un giorno riceve la visita in carcere di un uomo strano: è il vecchio maestro Ferreira che ha cambiato nome e gli è stato imposto di sposare la moglie di un giustiziato e di prendersi cura dei suoi figli. Invita all’apostasia anche il suo allievo spiegando le torture che, in caso di rifiuto, si attirerà. Non è meglio salvarsi la vita rendendosi utile ad una vedova ed ai suoi figli? Dopo otto giorni di tortura, Rodriguez cede! Anche a lui viene affidata una vedova, ed imposto il nome del suo defunto marito. Il sacerdote si chiede perché Dio di fronte a tutto questo taccia e, così, protesta:
“questa stupida tranquillità continua, continua questa imperturbabilità di pieno mezzogiorno. Solo il ronzio di una mosca. E tu come se questo fatto stupido e atroce non t’importasse niente, tu guardi dall’altra parte?...” [21].
Shusaku Endo chiude il romanzo con una risposta degna di riflessione.
Quando Rodriguez vuole giustificarsi per aver polemizzato col suo silenzioso Dio, riceve da Cristo questa risposta: Io non stavo in silenzio. Soffrivo accanto a te. Il cristiano è il consofferente, il compagno del Servo sofferente di Dio e sa che l’amicizia è pienamente ricambiata. Cristo la Croce l’ha accettata per noi. Padre Rodriguez scopre che l’identità cristiana non si acquista a buon prezzo, ma ad un prezzo carissimo perché il Cristo sulla Croce è il caso serio del cristianesimo:
“Ora quel volto, in mezzo a quelle tenebre, gli era molto più vicino. Anche ora taceva, ma fissandolo con uno sguardo pieno di tenerezza. E sembrava dirgli: ‘Quando tu soffri, io soffro con te. Ti sarò vicino fino alla fine’”.
Se, come diceva Gregorio Nisseno, l’uomo è imparentato con Dio, si rende necessario testimoniare la parentela mostrando, diceva ancora il Nisseno, che l’uomo è il volto umano di Dio; e lo diventa assimilandosi in tutto – soprattutto nell’essere crocifisso – a Cristo. Il missionario spagnolo incontra Cristo perché si apre a Lui nel pentimento; rigenera, mostrandola al Signore con umiltà, la propria identità ferita. La fede, per dirla con Evdokimov, è l’incontro dell’amore discendente di Dio con l’amore ascendente dell’uomo. Ma il primo a dovere ritrarsi, a fuggire dalle proprie certezze, a mostrare le ferite è l’uomo. Come dimenticare l’esortazione di Agostino: L’uomo faccia spazio in se stesso, Dio lo riempirà interamente.
René Girard si chiede perché la violenza imperi nel mondo contemporaneo. Si danno, tradizionalmente, due tipi di approccio al tema:
1) filosofico: l’uomo, buono per natura, è guastato dalla società; 2) biologico: la vita animale è, per natura, pacifica e solo la nostra specie conosce la violenza.
Girard propone una terza lettura del fenomeno e la ‘parola chiave’ è imitazione. Abbiamo aspirazioni indeterminate, ma la ‘passione ed il desiderio’ le indirizzano verso un modello che ci dica cosa desiderare. Trasformiamo in ‘modello’ ciò che per noi è dotato di prestigio. Si desidera ‘imitare’ il modello scelto: è il desiderio mimetico. Si profila uno scenario bellico. Quanto desideriamo è molto vicino a noi nello spazio e nel tempo; l’oggetto a cui pure l’altro ha interesse è alla ‘nostra portata’ e ci sforziamo di impadronircene rendendo inevitabile la rivalità come categoria centrale del rapportarci al nostro prossimo. È questa la rivalità mimetica responsabile dei conflitti umani. Il meccanismo si rafforza perché, quando l’imitatore vuole sottrarre l’oggetto desiderato al modello, questi reagisce ed il desiderio per l’oggetto cresce in entrambi. Ci illudiamo di essere ‘individualisti’, ma poi tutto, in realtà, è dominato dalla concorrenza e ciò fa si che i nostri desideri abbiano una natura sociale. Girard afferma che lo spirito competitivo è, malgrado i guasti che lo inficiano, amato in Occidente perché procura ricchezza. Quando sono i popoli poveri ad agire così, i conflitti assumono valenza planetaria; e, se ci sono vincitori, devono esserci dei vinti!
Solo se il desiderio mimetico è rivolto a Gesù – Imitatore del Padre - lascia intendere l’intellettuale francese, le cose si mettono a posto: “Nella proposta imitativa di Gesù non c’è la contraddizione che possiamo riscontrare in molti moderni maîtres à penser, i quali dicono: ‘Imitatemi perché io non imito nessuno’. Gesù invece dice: ‘Imitatemi perché (…) imitate il mio modello che è il Padre (…) celeste”. L’identità del cristiano si forma nella buona imitazione del Cristo: con essa, infatti, “non siamo in procinto di diventare rivali di Gesù, né di competere a causa del Padre poiché il Padre, se rettamente compreso, rende questo impossibile: il Padre da questo punto di vista dimostra nei confronti degli uomini la stessa disponibilità che ha manifestato nei confronti del Figlio. La divinizzazione dell’uomo significa che egli diventa come Cristo, perciò la relazione col Padre diventa come quella di Cristo” [22].
Ed è la follia che nel Novecento è esplosa anche e soprattutto nella barbarie nazista a spingerci a dotarci di una identità che sappia rinnovarsi, per essere sempre più umana, attraverso l’imitazione di Cristo che finisce con l’essere la buona imitazione del Padre. Si tratta, poi, di agire coerentemente con questa identità teomorfa assunta con fatica.
Un esempio, in questo senso, lo si trova nella biografia di San Giovanni Bosco.
Da ragazzo, un giorno, litigò col fratello maggiore, Antonio. Per quanto, poi, si scusasse, Antonio non voleva saperne di fare la pace. A sera, come al solito, recitavano con mamma Margherita le preghiere. Giunti al Padre Nostro, la saggia e pia donna, fermò il fratello maggiore: ‘Tu non puoi dire il Padre nostro’. ‘Perché?’ – chiese, stupito, Antonio. ‘Perché, spiegò la mamma, non hai perdonato al tuo fratello’. Questa lezione di coerenza è salutare per tutti noi!
In primo luogo occorre rivedere il modo di fare teologia ed interrogarsi su cosa voglia dire portare nel mondo la propria testimonianza di cristiani. Ecco le linee direttive di questo ambizioso ed irrinunciabile progetto:
“Se la società di domani offre un terreno particolarmente favorevole alla testimonianza cristiana, nulla dice che il cristianesimo, in particolare nella sua versione cattolica, trovi le vie della sua risurrezione”.
Non si danno certezze a priori circa la riuscita del progetto antropologico – storico – escatologico proposto dalla Chiesa! Perciò, “occorrerà un immenso lavoro di trasformazione di mentalità, un notevole sforzo intellettuale perché la teologia non resti paralizzata in una concettualizzazione d’altri tempi o bloccata dall’angoscia di riprodurre strettamente l’insegnamento della gerarchia; più di tutto sarebbe necessaria una simpatia tutta evangelica per l’uomo d’oggi quale egli è, nei suoi cedimenti come nelle sue grandezze, considerato con lo sguardo amorevole di Dio” [23].
È la nota questione dell’inculturazione della fede. Pare che il termine sia stato introdotto nei testi ufficiali della Chiesa per la prima volta da Giovanni Paolo II.
Parlò di inculturazione nella enciclica Slavorum Apostoli, risalente al 1985, a proposito dei santi Cirillo e Metodio che costituirono un modello per quanto attiene l’inserimento del Vangelo nelle culture autoctone e di queste nella Chiesa (n. 21).
Abbiamo aperto questa riflessione citando i Vescovi italiani. In occasione della Solennità dei santi apostolici Pietro e Paolo, il 29 giugno 2001, l’Episcopato italiano stilò gli Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000. Ne scaturì il documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Al n. 44, attraverso un fuoco di fila di domande altamente provocatorie e disincantate, i Vescovi si interrogarono sull’operato della Chiesa: si è davvero in grado di indicare al mondo cosa voglia dire essere cristiani ieri, oggi, sempre? Leggiamo il testo che, pur lungo, è illuminante e smonta le recriminazioni di quanti pensano che la Chiesa non polemizzi con se stessa e che non si metta mai in discussione:
“Dobbiamo chiederci – scrive la CEI - : la comunicazione delle proposte che abbiamo formulato, anche attraverso convegni e documenti, è stata comprensibile per la gente e ha saputo toccare il suo cuore? (…) sacerdoti, religiosi, operatori pastorali – si sono coinvolti in maniera corresponsabile e intelligente nel cammino delle loro chiese locali? E i singoli credenti, stanno affrontando il loro cammino cristiano non individualisticamente, bensì nel contesto della comunità dei discepoli di Cristo, che è la Chiesa ? E noi Vescovi abbiamo saputo dare gli impulsi necessari perché i nostri stessi orientamenti pastorali non restassero lettera morta?”.
Come si vede, la Chiesa interroga il mondo, i credenti, gli uomini che non credono, ma in primo luogo interroga se stessa: ci si è resi comprensibili?
Comunicare la propria identità richiede simili accorgimenti e giustifica qualche perplessità circa il modus comunicandi eletto. Invitando tutti ad inaugurare o a proseguire un percorso di fede, la CEI , nel testo che abbiamo citato, al n. 50, elenca anche le modalità entro le quali il cammino deve svolgersi:
“La creazione di occasioni per approfondire tematiche cruciali alla luce della fede non è una scelta elitaria”; si deve “chiedere alle comunità cristiane uno sforzo di pensiero a partire dal Vangelo e dalla storia”.
Vangelo e Storia e non Vangelo o Storia!
Ci si umanizza animando gli atteggiamenti che contribuiscono a formare l’identità cristiana. Concludo, infatti, con il segmento che ci riguarda nel testo dei Vescovi italiani:
“Avere una vita interiore, custodire nella memoria le cose, riflettere dentro di sé e nel confronto comunitario è quanto di più umano ci sia dato”.
Tutto questo dobbiamo testimoniare, comunicare, nel modo migliore possibile al mondo, a chi professa religioni diverse dalla nostra…ma sia chiaro:
“Per un dialogo costruttivo e fecondo occorre sgomberare il campo da alcuni preconcetti da parte di tutte le chiese. Il primo è l’immobilismo, cioè pensare che la chiesa cattolica non abbia altro da fare che attendere il ritorno (…) e la sottomissione delle chiese che hanno rotto il legame con la Sede apostolica. Il secondo è il minimalismo (o il relativismo) che, sacrificando una parte della rivelazione, riterrebbe solo quello che è di fatto comune a tutti (…). Inoltre, è indispensabile una formazione adeguata”.
Formazione adeguata per sviluppare una autentica identità cristiana dalla quale partire per aprirsi ad un dialogo autentico con altri fuggendo rigidismo ed irenismo allo stesso tempo.
Sì, in primo luogo, tutto quanto detto implica “la coscienza della propria identità cattolica, punto di riferimento per il rapporto con gli altri, e la conoscenza delle altre chiese e comunità ecclesiali” e, perché no, delle altre religioni [24].
L’identità cristiana non si può considerare acquisita a priori, ma va conquistata impegnandosi nella Storia. Metz, che riprende una favola dei fratelli Grimm per dimostrarlo, ritiene che l’identità assicurata è un mito insostenibile. La favola narra del porcospino che viene deriso continuamente dalla lepre a causa delle sue zampe storte. Una domenica mattina, mentre se ne va a spasso per i campi, preso nuovamente in giro, propone una sfida: una corsa fra i solchi dei maggesi per stabilire chi fosse più veloce. Chiede, però, di fare prima un salto a caso per la colazione; in realtà, il furbo animale, preleva la moglie, perfettamente simile a lui e la colloca sul traguardo. La lepre, perciò, per quanto correrà non arriverà mai prima dell’avversario che, in realtà, mai si è mosso dal punto di partenza!
La lepre, alla fine, uscirà perdente e perderà la vita per lo sforzo sostenuto. Metz si scusa coi deboli, ai quali la favola accorda il privilegio di vincere con la furbizia, ma per la tesi teologica che vuol difendere si schiera dalla parte della lepre. Il cristiano che si comporta come il porcospino pensa di garantire la propria identità con un espediente: non si è mai mosso lungo i solchi – spesso insanguinati – della storia, ma si è definito cristiano appellandosi ad una identità esibita come per diritto ontologico. In realtà, aveva ragione Tertulliano: cristiani non si nasce, ma si diventa! Il cristiano autentico somiglia alla lepre che lealmente partecipa alla corsa e, perciò, accetta “l’opzione d’entrare nel campo della storia, che si può percorrere solo nella corsa”, nella fatica di spendersi a favore degli altri. Si deve “smascherare criticamente la sicurezza idealistica della minacciata identità del cristianesimo, la quale, prescinde dalla forza salvatrice dell’identità che è nella prassi”. L’identità pensata come diritto acquisito da non mettere in gioco nella Storia ci porta ad indossare solo una maschera da cristiano. Meditando sull’inganno del porcospino, viene da chiedersi: “la minacciata e pericolante identità storica del cristianesimo qui non viene fatta trascendentalmente solida e sicura ad un (…) troppo alto prezzo (…) ?”. Non si può vincere senza correre! Non possiamo – con espedienti teologici, filosofici – mettere in mostra con volgare sicurezza una identità cristiana mentre la sola possibilità di acquisirla davvero deve avvenire a caro prezzo; correndo lealmente, cioè, lungo i solchi della Storia che si danno come percorsi ardui, accidentati [25].
Anche dal versante della spiritualità russa, per bocca del filosofo Vladimir Lossky, viene un avvertimento simile:
“La verità cristiana non è un terreno neutro, è una conquista (…). Non basta esporre la dottrina astratta, non basta conoscerla, bisogna parteciparvi, aver vissuto ciò che si impara, rinnovare costantemente tale conoscenza perché la vita è esigente, e non è la dottrina morta dei manuali che la potrà accontentare (…). La via del pensiero cristiano non è solo la Verità che innalza al di sopra di ogni conflitto fra le opinioni umane, la via del pensiero cristiano è la vita, e chi dice vita dice lotta” [26].
La lepre uscita dalla fantasia dei fratelli Grimm e riverniciata teologicamente da Metz, assurge ad emblema di quei cristiani che sviluppano la propria identità vivendo da martiri. La parola, lungi da me invocare uno spargimento di sangue, significa, in realtà, testimoni. Il martire è un testimone che, sicuro di ciò che ha sperimentato, è pronto finanche, se necessario e non per sadismo, a dare la vita per rendersi credibile. Qualcuno ha sottolineato con forza la questione:
“c’è crisi di ‘martiri’. E non certo per difetto di persecutori. Si direbbe che oggi, nei grandi ‘magazzini’ della fede cristiana, puoi trovare di tutto: teologi, studiosi della religione, biblisti, operatori pastorali, liturghi, tecnici della catechesi…Ma se chiedi un ‘martire’, metti in crisi tutta l’azienda, e obbligherai i proprietari a rovistare l’intero deposito per trovare qualche scampolo di questa ‘merce’ oggi decisamente fuori moda. Martiri. Cioè testimoni. Cioè persone che si vendono l’anima per annunciare con la vita che Gesù è il Signore ed è l’unico. Gente disposta a legare la zattera della propria esistenza, invece che agli ormeggi rassicuranti del denaro e del potere, a una tavoletta fluttuante che ha lo spessore del Vangelo e la forma d’una croce” [27].
Si rinuncia agli alimenti giusti per vitaminizzare la ormai fiacca consapevolezza di essere cristiani. I tre nutrimenti essenziali, in questo caso, sono la Parola di Dio, la preghiera e la liturgia:
“I cristiani che entrano in questo secolo sono chiamati a rinnovare la loro fede con l’ascolto della Parola di Dio, con la preghiera, con la liturgia. Da qui bisogna sempre ripartire (…). Gregorio Magno, quando l’impero romano si sfaldava e veniva meno un orizzonte durato secoli, scelse di predicare la Parola di Dio a un popolo in crisi. Non sapeva quale sarebbe stato il futuro del mondo con la fine dell’impero romano, ma si mise a parlare al popolo della Parola di Dio. Un popolo nutrito della Sacra Scrittura sa muoversi anche in un tempo di crisi. Gregorio diceva: ‘ Che altro è la Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla sua creatura? (…)’. La lettera della Scrittura diventa allora una recezione quotidiana, paziente, della lettera scritta da Dio agli uomini. E questo richiede sempre una dimensione personale (…) perché (…) è scritta personalmente ad ogni credente” [28].
Merita spazio la testimonianza di una filosofa spagnola del Novecento, María Zambrano. Visse il periodo nero della dittatura imposta nel suo paese. Il Franchismo salì al potere e lei dovette, con alcuni dei suoi cari, inaugurare un esilio di ben 45 anni! Vide l’esilio come un modo di essere e comprese che proprio nel deserto si esprimono meglio le capacità creative. Con la metafora del deserto ritrae la sua condizione e si innestava in atmosfera biblica: fu necessario il deserto ad Israele per imparare a dialogare con Dio. L’esilio, l’erranza, l’esodo sono categorie di altissimo valore teologico [29]. La filosofa vide nella propria storia la sua croce e quella “che ogni uomo deve portare”. Zambrano assume la parte della lepre evocata da Metz: non finge di correre nella Storia come il cristiano – porcospino che si ritiene certo della propria identità acquistata con un colpo di mano aprioristico, ma si compromette con gli eventi – crocifiggenti che le capitano e li condivide con altri compagni di sventura. Si inaugura, per la filosofa in esilio, una ermeneutica cristologica delle vicende storiche. L’esilio, a suoi occhi, è una Passione evocante quella patita dall’Agnello innocente! L’uomo è, diceva, in quanto si assimila e sopravvive all’urto della realtà assimilandosi; per lo più, assimilandosi, ci si assimila a qualcuno. Zambrano sovrappone il volto sofferente di Cristo a quello dell’homo patiens che sconta i mali del tempo in cui vive:
“Si può essere di una (…) figliolanza: quella dell’agnello. Così, senza che me lo proponessi, perché se me lo fossi proposto, sarebbe stata (…) una caricatura (…), i lunghi anni dell’esilio sono serviti ad assimilarmi via via all’agnello, a quello sguardo (…) che non tento di tradurre in parole, al respiro dell’agnello (…) che sentii (…) come vita di qualcuno che sa di essere destinato a morte e lo accetta” [30]. Sentire un legame stretto con l’Agnello è qualcosa che accade nel mentre la Storia ci violenta e non un atteggiamento scelto volontariamente; laddove si avverte la figliolanza con l’Agnello innocente immolato per animare una ‘posizione’ si dà un cristianesimo – caricatura, posto dal soggetto. Quando Zambrano stava per oltrepassare la frontiera spagnola, venne attratta da un uomo che portava sulle spalle un agnello “del quale – scrive – mi arrivava il respiro”; in un istante che definisce indelebile scambiò uno sguardo con l’animale. Si promise, allora, che sarebbe tornata in Spagna solo dietro ad esso ma, quando tornò in patria, non lo ritrovò…Non ne soffrì più di tanto perché l’incontro con il mite animale non era più necessario: la sua cristificazione avvenuta in esilio la liberava dalla simbolica dell’agnello. L’identità ferita di esule la poneva, profondamente, in relazione con Cristo, vero Agnello! Scese dall’aereo che la riportava in Spagna tra numerosi fotografi. Guardando successivamente le istantanee catturate in quei momenti, notò che erano “così commoventi, così bianche, così pure”; aggiungeva: “ho veduto che l’agnello ero io (…) mi ero [ormai] assimilata all’agnello” (op. cit. p. 281).
Fu l’assimilazione al Cristo - Agnello che patisce innocentemente a farle sperare che possa “nascere nuovamente l’uomo d’Occidente in una luce pura e rivelatrice (…). Non bisogna disperare che ciò possa accadere in questo pianeta così piccolo (…) non bisogna disperare che si ripeta il fiat lux”; le era possibile sperare per “fede che attraverso una delle notti del mondo più buie (…) un trionfo glorioso della Vita in questo piccolo mondo possa nuovamente avvenire” [31]. La filosofa spagnola insegna che nell’esilio, nel deserto possiamo assimilarci all’Agnello e nutrirci di quella paziente attesa di riscatto che legge speranza laddove il mondo scrive disperazione. Nel gridare in Croce Cristo ha mantenuto la Speranza soffrendo con pazienza. Chi vuole, come la filosofa spagnola, assimilarsi all’Agnello nel dolore e, perciò, anche nella speranza, ricordi, con Vincenzo de Paoli, che tra le poche parole che Gesù disse sulla croce non ve ne è una che tradisca impazienza [32].
Quando ci si schiera dalla parte della leale lepre che corre fino a dare la vita e si smaschera l’inganno del porcospino teologico che vuol far credere di essere giunto con le proprie forze al traguardo della identità cristiana; quando ci si assimila all’Agnello attraversando l’esilio dell’incomprensione riguardo alla propria fede, il deserto del nonsenso, si meritano queste parole:
“Siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo. Stupite e gioite: Cristo siamo diventati! Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cf. Rm 6, 3 – 11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cf. Gal 5, 12 – 25)” [33].
Si noti:
il cristiano autentico è chiamato a camminare, a manifestare i frutti della sua fede. Dobbiamo essere lepri: sempre pronti a correre fino allo sfinimento e non furbi porcospini che fingono percorsi.
La fede cristiana è realtà ignea e non si può accostarla impunemente.
Kierkegaard, come già ricordato, sperimentò e scrisse che lo Spirito è fuoco ed il cristianesimo è incendiario.
Il mondo sta morendo di freddo perché tutti i rami secchi delle deluse speranze delle soteriologie orizzontali ancora ingombrano il nostro cammino verso la Salvezza che è in maggior parte dono ed in parte minore compito. C’è da dire, però, che anche quei rami secchi possono diventare preziosi se li gettiamo nel fuoco amante dello Spirito perché, ciò che si lascia bruciare in Dio, diventa la forza dell’uomo in ansia per il proprio futuro.
[1] Cfr., b. häring, Liberi e fedeli in Cristo, I, Roma 1980, p. 386.
[2] Cfr., Lettere, in Didaché. Lettere di Ignazio di Antiochia. A Diogneto, Milano 2002, p. 46.
[3] Cfr., ireneo di lione, Contro le eresie e gli altri scritti, Milano 1981, p. 219.
[4] l. giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Milano 1994, p. 5.
[5] id., Città, Bologna 2006, p. 52. Inoltre, viviamo, più che in luoghi, in non – luoghi, in “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico (…) un nonluogo (…). Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi (…), in cui (…) i grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio muto, un mondo promesso all’ individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio (…)” (m. augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Milano 2002, p. 73). In questi spazi non a misura d’uomo può aver luogo un confronto sano tra le diverse credenze religiose?
[6] d. bonhoeffer, Vita comune, Brescia 1991, p. 19.
[7] p. l. berger, Una gloria remota. Aver fede nell’epoca del pluralismo, Bologna 1994, p. 70.
[8] c. yannaras, La libertà dell’ethos. Alle radici della crisi morale dell’occidente, Bologna 1984, p. 243.
[9] Cfr., james l. peacock, L’obiettivo antropologico, luce dura, fuoco morbido, Milano 1992, p. 38; r. needham, Credere, Torino 1976.
[10] Cfr., y. m. congar, Cristo nella economia salvifica e nei nostri trattati di teologia dogmatica, in ‘Concilium’ 2 (1966) 11, p. 37.
[11] Cfr., g. lazzati, La città dell’uomo. Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, Roma 1985, p. 62s.
[12] benedetto XVI, La persona umana cuore della pace, Città del Vaticano 2007, p. 9.
[13] Cfr., c. duquoc, Gesù uomo libero, Brescia 1974, p. 169.
[14] Cfr., e. zolli, Prima dell’alba, Cinisello Balsamo (MI) 2004, pp. 51 – 53.
[15] Cit. in g. frosini, Piccolo manuale di teologia. Una sintesi aggiornata per catechisti e operatori di pastorale, Bologna 2006, p. 43. Per evitare che si disconosca la differenza tra interagire con Cristo ed agire al posto di Cristo, necessario è che la Chiesa mostri agli uomini che il Telos è il Figlio di Dio. Giovanni Paolo II, nella enciclica Redemptor hominis del 4. III. 1979, scrisse: “Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della relazione, che avviene in Gesù Cristo” (in Enchiridion Vaticanum, Bologna 6/1196).
[16] j. carrón, Un caso di ragione applicata. La storicità dei Vangeli, in ‘Il Nuovo Areopago’, n. 3, autunno 1994, pp. 5 – 31.
[17] Insegnamenti di Giovanni Paolo II/2003, Città del Vaticano 2004, vol. I, p. 1077. La necessaria presenza dei cristiani, la necessità di proclamare l’estrema attualità di Cristo, del Vangelo offrono l’occasione per scrivere un progetto per l’uomo a partire dal suo senso cristiano. In un Discorso di Giovanni Paolo II al Colloquio internazionale sulle comuni radici cristiane delle nazioni europee, il 6 novembre 1981, si legge: “Il senso cristiano dell’uomo, immagine di Dio (…) è la radice dei popoli dell’Europa e ad esso bisogna richiamarsi con amore e buona volontà per dare pace e serenità alla nostra epoca: solo così si scopre il senso umano della storia che in realtà è Storia della salvezza” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II/1981, Città del Vaticano 1982, vol. II, pp. 566 – 571).
[18] id., La vita in Cristo, Torino 1971. Vedi Libro VI, cap. X e Libro VII, cap. IV.
[19] Cfr., a. di maio, ‘Nato di Spirito Santo e da Maria Vergine’, in aa.vv., Concepito di Spirito Santo. Nato dalla Vergine Maria, c. dotolo – c. militello (a cura di), Bologna 2006, p. 56.
[20] Cfr., h. cox, La città secolare, Firenze 1968, p. 247.
[21] Cit. in f. castelli, ‘La crisi della fede nella letteratura contemporanea’, in aa.vv., Per meglio credere oggi, Roma 1976, p. 93.
[22] r. girard, La vittima e la follia. Violenza del mito e cristianesimo, Treviso 1998, pp. 149s.
[23] Cfr., p. valadier, Possibilità del messaggio cristiano nel mondo di domani, in ‘Concilium’ 1992/6, pp. 149 – 159. Se il progetto di fornire al mondo una identità cristiana non deve celare il desiderio di una egemonia fine a se stessa, occorre dialogare rispettosamente con tutti. Seguiamo, perciò, le indicazioni della Costituzione pastorale emanata il 7 dicembre 1965, dal Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes: “Nessuna ineguaglianza, quindi, in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla razza o nazione, alla condizione sociale o al sesso (…). Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo” (par. 13). Uno dei nove Decreti emanati dal Concilio Vaticano II, riguardava il ministero e la vita sacerdotale: Presbyterorum ordinis (7 dicembre 1965). Al n. 9, si legge una esortazione rivolta a sacerdoti e religiosi: “Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter assieme a loro riconoscere i segni dei tempi”.
[24] Cfr., lorenzo dattino – maria pia montemurro, Un popolo in cammino. Lineamenti di storia della chiesa, vol. III. L’età contemporanea, Padova 2005, p. 187.
[25] j. b. metz, La fede, nella storia e nella società, Brescia 1978, pp. 157 – 158.
[26] Cit da michelina tenace, ‘Teologia come trasfigurazione nel pensiero di Vladimir N. Lossky’, in aa.vv., Verità della Rivelazione. I filosofi moderni della ‘Fides et ratio’, a cura di r. di ceglie, Milano 2003, p. 275.
[27] t. bello, Scritti mariani, lettere ai catechisti, visite pastorali, preghiere, Molfetta 1995, p. 13.
[28] v. paglia, Lettera a un amico che non crede. Ragione e fede di fronte al mistero, Milano 2003, pp. 34 – 35.
[29] Michael Walzer ha rilevato che il Libro dell’Esodo “è una storia, una grande storia, che è divenuta parte della coscienza culturale dell’Occidente…Questa storia ha reso possibile il racconto di altre storie” (Esodo e rivoluzione, Milano 1986, p. 14). Non si resta se stessi dopo attraversamenti simili a quelli dell’esilio o vissuti nel deserto: “Gli uomini e le donne che giungono a Canaan sono, sia letteralmente sia metaforicamente, uomini e donne diversi da quelli partiti dall’ Egitto” (p. 17).
[30] id., Le parole del ritorno, Troina (EN) 2003, pp. 28 – 29.
[31] m. zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Milano 2000, pp. 2 – 3. Ai cristiani dovrebbe apparire chiaro che “l’ultima parola di Dio non suona come una parola di condanna, ma è la parola creatrice: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’ (Ap 21, 5)” (j. moltmann, E alla fine Dio, in ‘Concilium’ 4 (1988), p. 173).
[32] “Nella situazione di abbandono di Dio e di carenza di significato, la conoscenza di un Dio presente, ma nascosto sulla croce di Cristo da lui abbandonato, conferisce fin d’ora un ‘coraggio d’essere’, nonostante il nulla e ogni esperienza nullificante. Davanti all’uomo non si spalanca l’inferno. La croce ha riportato vittoria anche su di esso (…). Il ‘coraggio d’essere’ diventa anche la ‘chiave per l’essere’ stesso. La fede si tramuta nella speranza di una pienezza di significato. Nella situazione in cui versa una società demoralizzata, la fede cristiana diventa dunque ‘motivo di speranza’, che trova la sua dimostrazione nella libertà dal panico e dall’apatia, dall’evasione e dal piacere di morte. Da essa deriva quel coraggio che consente all’uomo di compiere con decisione e pazienza (l’atto stesso di vivere)” (j. moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1976, p. 383).
[33] giovanni paolo ii, lettera enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, 21.
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