Ora egli amava ogni cosa, era pieno di lieto amore per tutto ciò che vedeva. E proprio questa – così ora gli pareva – era stata finora la sua grave malattia, di non saper amare nulla e nessuno (Hermann Hesse, Siddharta).
PREMESSA
Un giorno, Paul Valéry era molto annoiato e sostava di fronte alla finestra; con lo sguardo perso nella trasparenza del vetro, disse: “Come si cancella un uomo?”. Gide, che era presente, impressionato, non replicò. Kafka, un pomeriggio, andò a trovare Max Brod e, attraversando il salotto, svegliò senza volerlo il padre dell’amico. Per scusarsi, gli disse: “mi consideri un sogno!”. Lévi – Strauss definiva se stesso “il luogo in cui qualcosa accade”; concluse che non c’era nessun “io”, nessun “me”! L’uomo non agisce è agito ed è una costruzione filosofica da cancellare (Valéry); evanescente come un sogno (Kafka); un luogo nel quale qualcosa agisce malgrado lui (Lévi – Strauss). Büchner disse che non siamo altro che “marionette”: forze ignote ci muovono! Pare che, nella cultura contemporanea, l’uomo e la realtà assumano un taglio decisamente patologico. Vale la pena di ricordare che, per Nietzsche, l’uomo è la malattia di Dio. Se, però, ci sforziamo di ripensare al cristianesimo come forza viva, che opera concretamente nella Storia, ci accorgiamo che questo non è del tutto vero! In tempi di grave crisi a tutti i livelli, perché non tentare di leggere (ri – leggere) la Storia illuminati da un “paradigma cristiano”? In questo intervento cerco di sovvertire la domanda di Valery in questi termini: “come si costruisce un uomo?”; tento di mostrare che, per la fede ebraico – cristiana l’uomo, la realtà non sono da considerare – come invece avveniva in Kafka – un sogno! Non sono il luogo in cui qualcosa accade, come recita il “credo” dello Strutturalismo: sono un essere che risponde alla chiamata e lavora nel campo della Storia. Non siamo “marionette”, ma collaboratori di Dio! Non siamo la “malattia di Dio”, ma i messaggeri del Suo Amore. Sì, è urgente ribadire quella che – giustamente – qualcuno definiva la differenza cristiana (Enzo Bianchi) all’interno di una indifferenza anti – cristiana verso l’uomo ed il mondo.
Lo scrittore russo Tolstoj, il 6 aprile 1857, a Parigi, assistette ad un’esecuzione capitale; ne rimase così impressionato che, venticinque anni dopo, annotò che, da quel momento, la sua fiducia nel ‘progresso’ si era drasticamente indebolita. Non solo, continua, la ‘ragione’, ma tutto il suo essere, gli faceva apparire chiaro che quel macabro rituale non avrebbe potuto assolutamente trovare giustificazione in nessuna teoria riguardo alla ‘razionalità’ dello status quo. Tolstoj impenna la propria riflessione e scrive che nemmeno tutti gli uomini coalizzati attorno ad una qualche teoria, tra quelle apparse dalle origini del mondo ad oggi, lo convincerebbero che quella esecuzione capitale era necessaria: il progresso – conclude il nostro autore – non è là [1]. Nelle “Confessioni”, poi, quando registrò la morte del giovanissimo fratello, attaccò ancora la validità della teoria nello spiegare le ‘cose della vita’: «Nessuna teoria poté rispondere alle sue domande ed alle mie durante la sua lunga e crudele agonia» (cit. p. 16). L’uomo della teoria, insomma, patisce quanto affliggeva il personaggio di Hesse, Siddharta: non saper amare nulla e nessuno più delle proprie posizioni teoriche! La citazione posta ad esergo anticipa il tema del mio intervento: la concretezza dell’amore cristiano è la sola cura che guarisce dagli eccessi di fiducia nei confronti del teorico.
La grave malattia – come si esprime Hesse – è svuotarsi di lieto amore per tutto ciò che ci sta davanti. Fu lo stesso Hesse, in un Suo noto romanzo, a toccare la questione che ci tiene impegnati. Il personaggio centrale dell’opera, Demian, descrive la società del 1920: «Sia che i lavoratori ammazzino gli industriali, sia che Russia e Germania sparino l’una contro l’altra, si tratta soltanto d’un cambio di proprietario. Ma non sarà stato invano. Ciò mostrerà quanto poco valore abbiano gli ideali odierni e servirà a spazzar via gli déi della pietra» [2]. Le rivoluzioni ispirate da teorie umane, troppo umane, dunque, non comportano che un cambio di proprietario: la crudeltà che è al cuore delle iniziative rivoluzionarie vizia pesantemente i futuri assetti sociali. L’unica luce che si accende in tanto buio è che matura (sarà vero?) la convinzione che gli ideali odierni hanno uno scarso valore e, spazzando via gli déi della pietra, si può nutrire fiducia in una eventuale rientrata in scena del vero Dio. Una obiezione, però, va sollevata: se quel non invano trovasse fondamento, chi darà di nuovo vita e dignità alle vittime innocenti?
Per indagare questo aspetto, dilemmatico all’ennesima potenza, possiamo rivolgerci ancora alla letteratura. Lo scrittore ateo francese del Novecento, Albert Camus, in un lavoro teatrale, dà vita a Yanek Koliayev, appartenente ad una organizzazione rivoluzionaria. Rifiuta di portare a termine un attentato contro un dittatore, il Granduca perché, nella carrozza che lo conduce a teatro, vi sono anche due suoi nipotini. Il fanatico Stepan, stigmatizzando pesantemente il comportamento del compagno, afferma: «Nulla di quanto è utile alla causa è proibito» [3]. La morte di quei bambini – nell’ottica fanaticamente astratta del gruppo rivoluzionario – viene considerata un ‘male minore’ (necessario) a fronte delle sofferenze patite dal popolo: «Perché Yanek non ha ucciso quei due, migliaia di bambini russi morranno per fame tanti anni ancora» (cit. p. 135). Un’ideologia, una teoria possono vivere solo se si accetta – per riprendere Lec – che in una guerra di idee siano le persone a finire ammazzate!
La giustizia sociale dimentica l’umanità dell’uomo che intende difendere: ecco il gap paradossale, non superabile nel quale si paralizzano le astrazioni. Il fanatico Stepan ha il suo cieco assioma utopistico – rivoluzionario da calare convinto che sia un asso nella manica del suo s – ragionare: «Il giorno che ci decideremo a dimenticare i bambini, allora sì che saremo i padroni del mondo e che la rivoluzione trionferà» (p. 34). Dimenticare quali bambini? I nipotini del Granduca? Solo quelli appartenenti al popolo meritano salvaguardia? Sono forse i nipoti del dittatore i nemici? Il delirio teorico del rivoluzionario incenerisce la benché minima possibilità di porsi simili domande. Alla fine Yanek porterà a termine la missione e, seppur tenero all’inizio verso i bambini, mantiene, in fondo, l’atteggiamento del più fanatico Stepan (anche se si stabilisce di eseguire l’attentato quando i piccoli non saranno presenti). Un uomo non intriso di succhi teorici, ideologici commette un assassinio ed ha la possibilità di pentirsi se la coscienza si risveglia; nel caso presentato da Camus, non accade perché – come si anticipava – nel furore ideologico si dimentica che non idee, bensì persone finiscono uccise! Yanek, perciò, alla fine così giustifica, anche alla sua stessa coscienza, l’assassinio del Granduca: «Non è lui che ammazzo, ammazzo il dispotismo» (p. 127); «Ho lanciato una bomba sulla vostra tirannia, non su un uomo» (p. 152). Un approccio più critico alla questione farebbe rilevare che le tirannie si moltiplicheranno in molti altri posti malgrado il gesto di Yanek, ma quell’uomo ucciso non potrà mai più tornare a vivere. Le bombe possono distruggere una tirannia, non la tirannia, ma certamente uccidono quell’uomo e non, genericamente, un uomo.
Se si vive lontano da una antropologia come quella cristiana, attenta allo stesso modo a chi fa ed a chi subisce torti, capita che la delicatezza di Yanek vada in fumo: si dimenticano anche i bambini pur di far vincere una ideologia. L’ossessione di un ordo rerum da realizzare a qualsiasi costo, può facilmente rendere insignificante un progetto comunitario improntato all’ordo amoris. Uno dei personaggi di un drammaturgo del Novecento, Clov, parte da una posizione facilmente identificabile come “idolatria dell’ordine”: «Io amo l’ordine, è il mio sogno. Un mondo in cui tutto sia silenzioso e immobile e ogni cosa al suo posto estremo» [4]. La “perfezione” coincide con la “morte”; quanto disturba simile condizione di vita, va rimosso; sì, fosse anche un vivace bambino. Clov, infatti, crede di aver intravisto, fuori dal rifugio nel quale si è asserragliato con Hamm (il loro rapporto è aspro e conflittuale), un bambino e confida allo stesso Hamm di volerlo uccidere. L’amico tenta di allontanarlo dall’allucinante proposito, ma si sente opporre: «Lasciar perdere? Un procreatore in potenza?» (cit. p. 167). In Camus si giustifica la morte di due piccoli innocenti con la necessità di salvarne molti altri; si scopre, poi, che Stepen, in realtà, vuole dimenticare i bambini per poter divenire ‘padrone del mondo’ e per ‘far trionfare una ideologia’. Nel lavoro di Beckett, invece, l’attacco è diretto alla vita stessa: l’ordine inteso come silenzio assoluto ed immobilità è possibile solo se si estingue la vita umana. È ovvio che ciò non sarebbe di alcun giovamento né a Clov, né ad altri; ma qui agghiaccia proprio questa tesi: la vita è male in sé e vano rumore cosmico da eliminare. Un bambino, dunque, in quanto procreatore in potenza, è minaccia concreta perché assicura un futuro all’uomo, al nostro pianeta. Intendere l’uomo come una sorta di virus da debellare è posa frequente nella letteratura contemporanea. Non possiamo inaugurare un catalogo, ma possiamo saldare, a parziale conferma di quanto sostengo, alla follia di Clov quella di un personaggio di uno scrittore tedesco del Novecento: «A che mi giova un figlio? Non ho bisogno di figli!» [5]. Fin qui si potrebbe pensare di essere di fronte ad una posizione personale: non condivisibile, forse, ma non minacciosa in senso più largo; invece, attingendo ancora al romanzo di Mann, si apprende che, alla base del rifiuto della paternità, giace una corrotta convinzione antropologica (e certo non cristiana): «Non è ogni uomo uno sbaglio, un passo falso?» [6]. La proposta cristiana, in un simile humus culturale, politico, ideologico, non può tacere!
Qualche tempo fa lessi due pensieri che possono costituire, in questo impianto discorsivo, delle provocazioni fruttuose a pensare. Ve le propongo come esercizi. A detta di Lin Yu-t’ang, le teorie sono diventate tali in quanto ‘certe idee’ si sono convertite in psicosi nei cervelli che le hanno partorite. L’idea di ordine che agita la mente sconnessa del Clov beckettiano, in fondo, non si è corrotta in psicosi? Solo ammettendo una tale corruzione si può “spiegare” (giammai “giustificare”) la sua intenzione di uccidere un bambino. Si mantiene, chi ragiona come Clov, ad un livello di astrazione nel quale l’ossigeno della vita reale, concreta non arriva. Egli, come tutti i grandi teorizzatori ai quali fa riferimento Ch. Wright Mills, non sanno discendere dalle supreme generalità per entrare nei contesti storici e strutturali dei problemi. Le idee si fanno psicosi e rompono i ponti col concreto; appaiono, così, liete di vegetare, insensibili ed immodificabili, nei prati artificialmente sempre verdi delle supreme generalità.
La proposta cristiana non si impantana in valori altissimi e che dimenticano di atterrare nella ‘valle di lacrime’ dei luoghi concreti dove vivono, amano, odiano, gioiscono e soffrono uomini con nome e cognome. Uno scrittore del Novecento che aveva profetizzato molte delle devianze che si stanno verificando nella civiltà post – industriale, era ben avvertito riguardo ai pericoli insiti nell’assenza di una antropologia mirante a costruire l’uomo: «Quando si tratta di lealtà a un’idea la pietà viene meno» - ha scritto George Orwell. L’uomo si è reso signore di se stesso, ma – cosa ancora più triste e letale – chi è infestato da idee corrotte in psicosi – pensa di essere anche signore dell’altro uomo! Dissolti certi ancoraggi (soprattutto Trascendenti), tutto il peso dell’esistere viene a cadere sulle spalle (illusoriamente ritenute grandi) del soggetto. Si è voluto solo l’uomo e non ne risulta che l’uomo solo! Come ha evidenziato un sociologo francese scomparso nel 1917, «non resta più nulla che gli uomini possano amare e onorare in comune, se non l’uomo stesso. Ecco come l’uomo è divenuto un dio per l’uomo e perché non può più, senza mentire a se stesso, costruirsi altri dei. E come ciascuno di noi incarna una parte dell’umanità, ogni coscienza individuale ha in sé qualcosa di divino, e si trova così caratterizzata da una specificità che la rende sacra e inviolabile per gli altri» [7]. Le persona viene sacralizzata, ma in maniera distorta e si apre la non buona possibilità di una religiosità nella quale – conclude il sociologo - «l’uomo è, contemporaneamente, il fedele e il Dio» (cit. p. 284).
Le riflessioni fin qui rubricate portano ad una conclusione che possiamo rinvenire, magistralmente sintetizzata, in una frase di Charles Journet: «Se la si guarda da un punto di vista meno elevato di quello divino, la storia è triste, desolante e disperante». La questione è aggrumata intorno a questo ‘nucleo problematico’: eleggere un punto di vista dal quale guardare la storia! Sgombrare il campo da riferimenti alla Trascendenza declinata effettivamente in termini di adesione al progetto antropologico e storico del Dio ebraico – cristiano, non ha fatto altro che mostrare quale tarlo mostruoso eroda finanche i migliori propositi sorti in ambito esclusivamente mondano. Un poeta e drammaturgo tedesco non a caso ha parlato di Verhältnisse; termine tedesco che potremmo tradurre così: incertezza degli umani rapporti. L’argomento è stato, dal nostro autore, messo in versi. Eccoli: «Essere buono! Chi non lo vorrebbe?/ Ai poveri – ma sì – fare buon viso…/ Fossimo tutti buoni, si vedrebbe la terra trasformarsi in paradiso/ Essere buono chi non lo vorrebbe?/ Ma, ahimé, questa è la sorte di noi vivi:/ i mezzi scarsi e gli uomini cattivi/ Chiediamo, sì, pace e fraternità,/ ma nell’atto pratico non va, non va!/ […] /Lo so che è saggia la mia voce,/ che il mondo è miseria e feroce/. Il paradiso in terra, che ideale!/ Ma nell’atto pratico tutto va male!» [8]. Ecco la questione: il paradiso in terra progettato con categorie meramente umane non è che un poco apprezzabile inferno. L’uomo non può volere essere buono se non riferendosi alla Bontà e non a teorie (non sempre disinteressate) su di essa. I mezzi, dice Brecht, sono scarsi; non solo: sono inadeguati perché la traduzione pratica di teorie, ideologie dimentiche della concretezza del singolo uomo non possono essere che un ideale che, sinistramente, fa rima con letale!
Si tratta, a mio avviso, di mettere a frutto la disperazione che erompe, rendendo impossibili argini di facili ottimismi, dai naufragati ‘progetti di bontà, giustizia’ seminati nei solchi scavati da personaggi come Yanek, Clov… Si appoggia ogni speranza a teorie irricevibili dall’uomo per come è nelle intenzioni di Dio; si fonda su quanto è destinato a mostrare una strutturale inconsistenza e si scopre che essere buono tutti lo vorrebbero, ma all’atto pratico… La “disperazione” dell’uomo, ormai, viene dallo scoprire che non ci sono parapetti teorici che gli evitino il precipitare nel mare burrascoso della disillusione. Un filosofo che ha lucidamente indagato, benché ricco di fede, gli aspetti sinistri del cuore umano, scrisse: «Ogni concezione che fa dipendere il senso della vita da qualcosa di esteriore è disperazione. Così volere il dolore è disperazione proprio allo stesso modo che volere la gioia, perché è sempre disperazione avere la propria vita in qualcosa il cui senso è quello di svanire» [9]. La ricerca della gioia finanche incenerisce in disperazione se la linea generale che ispira il nostro cercare mira a qualcosa che è costituita da un senso destinato a svanire. La lezione kierkegaardiana è ricevibile in quanto aiuta a far riflettere sul fatto che, non solo Dio non è esteriore, ma rappresenta il Senso che non svanisce! Non è esteriore perché non è ‘oggettiva teoria’ posta di fronte alla coscienza del soggetto, bensì è esteriorità Soggettiva che chiama alla relazione, al dialogo. Di solito, catturati da certa psicologia spicciola e preoccupata di un cloroformizzato benessere psicologico, avvertiamo come un nemico chiunque osa pronunciare il termine “disperazione”. È un letterato a correggere il tiro ed a mostrare quanto possa essere feconda la disperazione a fronte di una narcotizzante e falsamente rassicurante ideologia, fosse pure di ispirazione “democratica”. Si leva, dunque, alta nel Novecento (“secolo delle ideologie”), la voce di Thomas Mann: «Credo […] che la disperazione sia una condizione migliore, più umana, più morale […], più religiosa del fideismo parolaio, dell’ottimismo rivoluzionario, e che l’umanità nello stato della disperazione sia più vicina a salvarsi che nello stato della fede nella natura della democrazia […]. Ogni disperazione è di natura religiosa» [10].
Se si elegge la strada seguita dal rivoluzionario di Camus, Stepan, e non si prende sul serio la disperazione (religiosa), insita nella consapevolezza di sacrificare due bambini per quello che Mann definisce ottimismo rivoluzionario; se si accetta la posizione di Yankov convinto di uccidere non uomo, ma un dittatore; se come Clov non si comprende che la disperata ricerca dell’ordo rerum impedisce di provare la disperazione (religiosa) derivante dall’uccisione di un bambino in quanto potenziale procreatore, distruggendo così l’ordo amoris, si è costretti a far proprie le parole di Astrov, personaggio di una opera teatrale di Cechov: «Quelli che vivranno cento, duecento anni dopo di noi, e ai quali noi apriamo la via, ci ricorderanno con una buona parola? No […], non lo faranno» [11]. Se – come sopra ricordava Kierkegaard – non c’è nulla da sperare laddove si fonda la propria esistenza su qualcosa il cui senso è quello di svanire, qui si dice, con l’autore russo, che lo stesso ricordo di noi sarà amaro se abbiamo aperto la via ai posteri ispirati da ottimismi, fideismi ciechi ed acritici. La democrazia, ad esempio, fonda sull’uguaglianza, la giustizia… ed altri valori che nessuno, in prima battuta, oserebbe mettere in discussione; ad ogni modo, pur ispirati da una gerarchia assiologica di tutto rispetto, si può annidare nelle nostre scelte etiche la serpe. Nel capolavoro di Dostoevskij, “Delitto e castigo”, il giovane Raskol’nikov matura la decisione di uccidere una vecchia usuraia. In una trattoria un giovane instilla in lui il veleno pur muovendo da una rivendicazione che, ingenuamente, si può ritenere fondata: cento, mille opere buone e iniziative che si potrebbero avviare, aiutare coi denari di quella vecchia… L’astrazione filantropica che fa ottimisticamente pensare che un delitto possa essere all’origine di un bene muove i primi passi verso la perdizione del soggetto. Dice a Raskol’nikov lo studente: che cosa conta sul piatto della bilancia collettiva la vita di quella vecchiaccia stupida e malvagia? Sacrificare una vita, se intendiamo fare la storia, per riprendere il citato Journet, da un punto di vista meno elevato di quello divino, diviene atto indiscutibilmente etico.
Il protagonista del romanzo dostoevskijano è di fronte ad una “sfida” e, saltando fuori dal recinto delle indicazioni cristiane, la perde. Scrive una filosofa siciliana: «la sua sfida “moralistica” al mondo è, al pari delle sue teorie, destinata a fallire […]. L’assassino è diventato, al pari della sua vittima, un disgustoso “pidocchio”. Nulla di “grande” è derivato dal suo delitto; al contrario, uccidendo un essere umano Raskol’nikov ha soltanto sofferto, ancor più di prima, della sua dolorosa separazione dall’umanità. Scissione che neppure il suo apparente altruismo (il suo continuo spogliarsi da ogni seppur misero avere) riesce a celare» [12].
Le teorie del personaggio dostoevskijano, non dissimili dai costrutti teoretici sopra discussi in altri autori, portano a questo: alla dolorosa separazione dall’umanità. Ad ogni buon conto, anche per questo ‘fallimento esistenziale’, si apre uno spiraglio di luce e viene dalla fede cristiana. Il giovane assassino incontra Sonja, una prostituta: una creatura disastrata che, tuttavia, lo riaccosta a posizioni cristiane. In un momento di altissima intensità emotiva, lui le chiede di leggere, dal Vangelo di Giovanni, l’episodio della resurrezione di Lazzaro: «Il mozzicone di candela già si andava spegnendo nel candeliere storto, illuminando di luce scialba in quella misera stanza l’assassino e la peccatrice, stranamente uniti nella lettura del libro eterno» [13]. La luce è scialba, la stanza è misera: il luogo esprime fedelmente la situazione esistenziale dell’assassino e della peccatrice; tuttavia, il Vangelo li mette assieme per introdurli in una “dimensione altra”. In primo luogo, la voce di Sonja ha potere di redimere in quanto parla con la Parola. Se la stanza è quasi buia, entrando la voce di Dio per mezzo di quella della peccatrice, Raskol’nikov comincia a comprendere dov’è, per lui, la Luce! Sofocle fa pronunciare, dirette al corifeo, queste parole ad Edipo, quasi cieco ed abbandonato da tutti: «tu sei il solo compagno che ancora mi resti, che ancora si indugi col cieco e ne senta pietà […]. Io so dove sei perché ancora nel buio che mi copre riconosco la tua voce» [14]. Trasponendo tutto sul piano cristiano, ecco cosa il giovane assassino potrebbe dire: Tu, Dio, sei il solo compagno - Whitehead definiva Dio il Grande Compagno - che mi resti e Ti fermi, grazie a questa donna che mi legge la Tua Parola, presso di me, reso cieco dal peccato. So che sei qui perché, nel buio della mia esistenza devastata dal male, riconosco la Tua voce. Non sapremo mai dove andare se qualcuno non presta la sua voce a Dio e ce lo rende presente. Ed è proprio quanto, quasi con tono profetico, l’ubriacone Marmeladov aveva detto, in tempi non sospetti, a Raskol’nikov: «Bisogna pure, vedete, che ogni uomo abbia la possibilità di andare da qualcuno! Arrivano infatti certi momenti in cui occorre assolutamente andare da qualcuno!» (cit. p. 19). Ora, pur nella misera stanza debolmente illuminata, prestando Sonja la voce alla Parola, la luce (intellettuale, spirituale) si fa addirittura straripante; al giovane, dunque, appare chiaro che occorre assolutamente andare da qualcuno per essere salvati da Qualcuno! Non sono le teorie, il filantropismo becero che costruiscono la persona, ma la relazione viva con qualcuno capace di mostrarci Qualcuno. Quello che conta, però, è innanzitutto evitare il pericolo di perdere i contatti con la vita reale, col concreto. E proprio questa – così ora gli pareva – era stata finora la sua grave malattia, di non saper amare nulla e nessuno. Così chiude l’esergo al mio lavoro uscito dalla penna geniale di Hesse.
La malattia dell’uomo, curvo sui propri costrutti teorici, è perdere la capacità di amare e solo l’annuncio di una resurrezione reale (come quella di Lazzaro raccontata nel Vangelo di Giovanni rievocata da Sonja) ci riscatta senza schiacciare nessuno. Dostoevskij aveva le idee chiare: vivendo in atmosfera teorica, ideologica, si arriva, dopo essersene disabituati, a provare addirittura disgusto per la vita concreta [15]. Laddove l’uomo, sedotto dai suoi miraggi teorico - ideologici, si convince di essere, come dicevamo con Durkheim, contemporaneamente, il fedele e il Dio, la legge morale imperante sarà sempre infettata da innumerevoli rivoli di ferocia. Sarà proprio Sonja – che legge il Vangelo all’assassino – ad indicare la “giusta misura” dell’uomo per come era – anche queste sono parole di Dostoevskij – nelle intenzioni di Dio. Ha ucciso l’usuraia fondando sulla sua idea di giustizia? Ma, oppone la peccatrice, come «può essere che ciò dipenda dalla mia decisione? E chi mi ha dato il potere di giudicare: chi deve vivere, chi non deve vivere?» (p. 486).
Mi ha sempre impressionato – ho letto il romanzo dello scrittore russo che ero appena quindicenne – il fatto che la Parola passi attraverso la voce di una peccatrice. Quando, anni dopo, imparai a conoscere il pensiero del geologo e teologo gesuita Teilhard de Chardin, mi venne da pensare che le creature come Sonja siano quelle più vicine alla santità! Diceva il gesuita francese che il “santo” è colui che cristianizza in sé tutta l’umanità della sua epoca. La peccatrice russa incontra “una parte” dell’umanità sofferente della sua epoca in Raskol’nikov e non si può negare che contribuisca non poco a cristianizzarlo… a cristianizzarlo in sé. Lei non tiene discorsi intrisi delle migliori teorie etiche, né appella (è una creatura non acculturata) a una morale teologica catturata nelle derive del legalismo… lei mette Qualcuno (Cristo vivo nel Vangelo) di fronte a qualcuno. In primo luogo, la redenzione del giovane assassino passa per la Promessa cristiana riguardante la resurrezione “totale” dell’uomo. Sia l’Antico che il Nuovo Testamento, infatti, non sono codici etici, né tracciati ideologici, ma percorsi di vita che interessano figure concrete: «La Bibbia è – ha detto un teologo – una memoria dei passi della vita così significativi da rimanere attraverso le generazioni» [16]. Solo la modernità, in maniera spiccata con Cartesio e Kant, ha preteso di poggiare tutti i pesi sulle spalle del soggetto [17]. Ora, però, impariamo a parlare di Dio agli uomini perché, ammet tiamolo, non siamo esentati dal prendere in carico il rimprovero di un prete inventato da un ingegno letterario francese del Novecento: «Troppo sovente, si potrebbe credere che noi predichiamo il Dio degli spiritualisti, l’Essere Supremo […] in nulla, in ogni caso, di somigliante a quel Signore che abbiamo imparato a conoscere come un meraviglioso amico vivente» [18]. Solo quando l’uomo stordito, deviato dalle pasque laiche fallite incontra il Dio come amico vivente, inizia un percorso autentico di piena umanizzazione.
Per quanti saldano a filo doppio il proprio pensiero ed agire alle ideologie vale la qualifica che dava a se stesso il poeta e gesuita Gerard Manley Hopkins: time’s eunuch, eunuco del tempo. Sterile la sua opera di eunuco nella storia. And not breed one work that wakes, continua: e non produco un’opera che viva. L’uomo solo con se stesso, allora, si rende improduttivo nel tempo o, se qualcosa esce dalle sue mani, porta morte e muore a sua volta [19]. Alla fine, il poeta, invoca: «Mio, o tu Signore di vita, manda pioggia alle mie radici» (Ibidem.). Il grido di Hopkins potrebbe diventare quello dell’Europa che vede, priva dell’acqua realmente dissetante che solo Cristo può dare (come nel Vangelo sperimenta la Samaritana), le proprie radici (culturali, ideologico – politiche) patire una secchezza dolorosa. Solo seguendo Qualcuno, non chiunque, possiamo muovere verso il Bene non inquinato da superbia antropologica. Se l’uomo ricorda di essere “immagine del Padre”, allora educa gli uomini ad essere “cittadini del Regno di Dio”; una guida paterna, autorevole forse, ma mai autoritaria e mossa da bieco volontarismo appoggiato sui vacillanti trampoli di teorie, ideologie. Divenendo, a partire dalla Sua realtà di filosofa atea, carmelitana, l’ebrea Edith Stein imparò questa lezione: «la sequela di Cristo porta a sviluppare in pieno l’originaria vocazione umana: essere vera […] immagine del Padre, generando e educando – per paternità e maturità spirituale – figli per il regno di Dio. L’elevazione al di sopra dei limiti della natura, che è l’opera più eccelsa della grazia, non può certo venir raggiunta con una lotta individuale contro la natura o con la negazione dei suoi confini, ma solo mediante l’umile soggezione al nuovo ordine donato da Dio» [20].
La sequela di Cristo, dunque, porta all’umile soggezione al nuovo ordine donato da Dio! Un “ordine” che è, in maniera totale, ordo amoris che, poi, ispira un “nuovo” ordo rerum che risulta non costruito arbitrariamente da uno sforzo individuale o acriticamente collettivo, bensì si configura come “dono di Dio”. Ci siamo troppo girati e rigirati su noi stessi tenendo gli occhi fissi sulle nostre elucubrazioni ideologiche. Parole sagge, ma rivelanti un pericolo mortale, quelle che, già nel 1893, pronunciò un intellettuale austriaco: Oggi, due cose sembrano moderne: l’analisi della vita e la fuga dalla vita (H. von Hofmannsthal).
Il mito del Progresso appare molto più deludente della proposta cristiana. Da grande idea portante, infatti, è diventato qualcosa di debolmente estetico, come rileva un pensatore assai critico nei confronti del nostro tempo: «Poco a poco (la modernità) perde l’essenziale valore del progresso che originariamente le faceva da base, per diventare un’estetica del cambiamento per se stesso… Alla fine, si confonde puramente e semplicemente con la moda» [21].
Con Benedetto Croce possiamo tentare un riassunto delle “disillusioni” patite dall’uomo nel corso della storia. A differenza dei Greci, sosteneva il filosofo napoletano, non crediamo più nella “felicità” della vita terrena; né più, come i cristiani, siamo disposti a credere nella felicità di una vita oltre la nostra; a differenza dei filosofi ottimisti della modernità, infine, non siamo più convinti che l’umanità di certo sperimenterà una felicità inattaccabile nell’ avvenire. Prima si è scippato la Storia dalle mani di Dio per affidarla all’uomo; poi, per riconosciuta incapacità a svolgere il compito, abbiamo ritenuto essere la stessa Storia priva di senso. Se priviamo della dimensione Trascendente l’idea di Progresso, da cristiani non possiamo che dire di essere di fronte ad una “eresia”; però, occorre riconoscere che essa sorge proprio dalla corruzione di una visione cristiana: «Lo schema storico cristiano e soprattutto la costruzione storico – teleologica di Gioacchino crearono un clima spirituale e una prospettiva in cui divennero possibili certe filosofia della storia […]. Senza l’idea di progresso non vi sarebbe stata né la rivoluzione americana, né quella francese né quella russa; e senza la fede originaria in un regno di Dio non sarebbe sorta l’idea di un progresso secolare verso un compimento» [22].
Il secolare, come si vede, non è che una filiazione diretta (purtroppo, spesso distorta) del Trascendente. La differenza, non è poca cosa, sta nel fatto che la fede originaria in un regno di Dio era confortata proprio dalla certezza di una Presenza; l’idea di progresso secolare, invece, trova garanzia in un complesso teorico decapitato da riferimenti più alti. L’uomo che deve vivere senza certezze si apre ad avventure umane entusiasmanti per un certo verso; tuttavia, troppo presto, accortosi della sproporzione tra l’ambire e l’effettivo potere, comincia a patire quella che uno psicologo definisce la fatica di esistere. La stessa idea di libertà, sganciata da nutrimenti cristiani, si converte nel suo contrario per la nota legge dell’eterogenesi dei fini. Un intellettuale ebreo ha spiegato la differenza che intercorre tra l’educarsi alla libertà ossequiando i parametri culturali del nostro tempo e l’educarsi ad essa sull’esempio della Bibbia. Libertà è «nella Bibbia, una realtà immediata. Per i profeti è qualcosa di concreto, una funzione biologica in qualche modo intrinsecamente legata al normale svolgersi della vita. Una delle parole che in ebraico significano “libertà”, dror, designa anche la rondine, i cui voli presentano un che di libero e imprevisto. L’uomo, che nella Bibbia viene spesso paragonato all’uccello, deve […] essere […] libero soprattutto di volare verso il bene, verso l’infinito dell’Essere. La verità biblica si situa non nell’ideale edonistico di una felicità materiale, ma nella libertà e nella gioia della nostra incessante ricerca dell’Essere» [23].
C’è una differenza – riguardo alle proposte di vita – da tenere in considerazione. Non è detto che si debba abbeverare la sete di futuro unicamente nei pozzi – ridotti a cisterne screpolate – delle ideologie; c’è una riserva di senso che la fede ebraico – cristiana può elargire come acqua viva. La libertà dalla modernità ad oggi si è mostrata, se percorriamo i tracciati teorici delle pasque laiche, irrealizzabile e, laddove pare averne introdotta un po’, era viziata dall’oppressione ai danni di altri. L’uomo può farsi “idoli”, ma “Dio” lo può ricevere soltanto da Dio. Chiude Chouraqui: «Il mondo moderno, fiero dei suoi progressi, delle sue invenzioni, delle sue speranze più inebrianti e spesso più folli, non può dichiararsi libero da ogni idolo né da ogni ideologia finché tali ideologie o tali grandi uomini saranno per lui dei sostituti del divino da cui esso deve ancora affrancarsi per ottenere finalmente la sua vera libertà» (cit. p. 101).
La menti più illuminate, talvolta, donano momenti di sincerità ed informano sull’infondatezza della pretesa di poter fondare e sostenere, con mezzi umani, troppo umani, i valori irrinunciabili per garantire all’uomo un futuro. Ricordate che, citando il romanzo di Dostoevskij “Delitto e castigo”, ho riportato la frase della peccatrice Sonja: chi è il soggetto per stabilire chi deve vivere e chi non deve vivere? Per precisare cosa è giusto, oppure no? Si dirà: è letteratura!... Vi sorprenda pure, allora, quanto nella sua ultima lezione a Berkeley (17 maggio 1952) disse agli studenti il padre del “positivismo giuridico”: «non so, né posso dire, che cosa è […] quella giustizia assoluta di cui l’umanità va in cerca. Devo accontentarmi di una giustizia relativa e […] dire che cosa è per me la giustizia» [24] . La cautela necessaria nella formulazione dei criteri di giustizia, di bene, se vogliamo evitare le aberrazioni che i richiami letterari denunciano nel mio intervento, deve scaturire da una convinzione etica da proteggere ad ogni costo: «Amare – insegna Aristotele – significa desiderare per l’altro tutto quello che si reputa buono, ma non a beneficio di sé medesimo, bensì dell’altro» (Retorica, 2, 4, 80b). Si può negare che la più affidabile scuola di alterità si rivela essere il cristianesimo?
L’amore umano, per essere cristiano, non può ispirarsi a motivazioni “orizzontali”, “filantropiche”, ma deve essere il fedele riflesso dell’Amore del Padre. Ha scritto un filosofo che ha donato la sua intera vita alla comprensione del cristianesimo: «Nessun amore e nessuna espressione d’amore devono umanamente sottrarsi alla relazione con Dio […]. L’amore è relazione […] ad altri uomini, ma di fatto non è né può assolutamente essere […] una relazione puramente umana, […] chiunque si relaziona amorosamente […] con il prossimo deve in primo luogo relazionarsi con […] le esigenze di Dio» [25]. Le esigenze di Dio – se ripercorriamo le tappe della Rivelazione – non sono mai di natura astratta, ma entrano nelle trame della Storia attivamente. Quando annunciamo verità cristiane non possiamo procedere per sillogismi o per mere concettualizzazioni. Il motivo ispiratore deve essere la preoccupazione di donare all’altro la Parola inalterata. Tenendo le Sue note conferenze, l’antico autore Giovanni Cassiano, infatti, metteva in primo piano i “riceventi”: «È la vostra applicazione, figli miei, ad avermi portato a discorsi tanto lunghi, e io sento che un fuoco misterioso dona alla mia conferenza più anima e calore, proprio in ragione del vostro desiderio». Il “desiderio d’ascolto” dell’altro è l’anima, il calore del nostro dire intorno alle cose della fede! Aggiungeva il nostro autore: «Più riconosco in voi zelo nell’esigere quanto vi è dovuto, più debbo aver cura di sdebitarmi» [26]. Chi ci ascolta esige quanto gli è dovuto: non si annuncia per scelta, ma per rispondere alla chiamata dell’altro! Più cresce lo zelo col quale veniamo interrogati circa la verità cristiana, più siamo in debito di una risposta. Chi può negare che essere cristiani sia un impegno forte, reale, concretamente in favore dell’altro? Rafforzare la propria fede conduce anche a prestare un ascolto più fine alle istanze religiose altrui e, siccome patiamo una “ignoranza teologica” di fondo, abbiamo paura dell’altro perché non abbiamo fondamenta sul quale accoglierlo per dialogare. La situazione è stata perfettamente inquadrata dallo studioso di storia contemporanea Alberto Melloni: «Nel 1873 vennero abolite in Italia le facoltà di teologia, nella convinzione che sarebbe stato un duro colpo per la Chiesa […]. Sono passati tanti anni e forse oggi vediamo meglio che è proprio il grande analfabetismo teologico e religioso ciò che a volte ci impedisce di capire molte questioni e ci rende semplicemente più duri, più ignoranti e più inclini a spaventarci di fronte al nuovo e al diverso» [27]. Nella nostra fede ci vengono affidate le realtà terrestri, gli uomini (senza discriminazione). Siamo affidatari di un campo, la Storia; l’assenza (momentanea) del Padrone ci deve responsabilizzare ancora di più!
Sto pensando alla parabola del padrone che affida, prima di partire, i beni ai servi (Mt 25, 14). Mi devo attardare sul valore della “parabola” in generale, poiché ciò aiuta a comprendere non poco come si possa dire, senza tema di smentita, che il cristianesimo non è una teoria. Attingere a questo materiale evangelico – sia detto per inciso – non è semplice dovere accademico; le “parabole”, infatti, sono non rivestimenti narrativi di “concetti”, ma un invito ad agire, nella realtà, secondo le intenzioni di Dio. Nulla nel Vangelo manca di riverberarsi nel concreto; tutto ci suggerisce “come” agire: «le parabole di Gesù non sono insegnamenti di cose difficili offerti attraverso l’uso accorto di immagini utili a semplificare le idee: sono invece racconti in cui l’uditore è chiamato a coinvolgersi personalmente con i modi di agire e reagire degli attori messi in scena, così da illuminare e correggere, se è il caso, il comportamento suo proprio»; dunque, «la parabola è una chiamata all’azione» [28]. Torniamo al brano di Matteo.
Cosa vuol dirci Gesù nel raccontare la partenza improvvisa del padrone? Il campo è libero ed affidato alla responsabilità dei servi che, nel frattempo, ne devono aver cura come se fosse loro proprietà. Si tratta, a ben vedere, di un atto di fiducia che esige risposte concrete! Il cristiano ha sempre compiti concreti perché, nel campo della Storia, anche quando la presenza di Dio appare oscurata, deve lavorare come se il Signore fosse là. Si deve operare tanto più responsabilmente quanto più liberi da condizionamenti. Sulla parabola, che è un invito ad operare concretamente nella storia a prescindere della presenza certa del Signore, ha ragionato un teologo: «La vita sarebbe più facile e meno rischiosa, se il padrone non partisse! Ma Dio vuole essere assente per essere colui che libera lo spazio della storia, della fatica del fallimento, e del successo, l’unico spazio in cui l’uomo può costruirsi. Dio vuol essere assente per essere colui che viene (Ap 1, 4) e quindi colui che l’uomo attende mentre vive l’avventura di lavorare concretamente nel grande cantiere della vita» [29]. L’uomo, il “cristiano”, dunque, non deve “attendere passivamente” il “ritorno di Dio”, ma lavorando concretamente nel grande cantiere della vita!
L’avverbio (concretamente) rispecchia sinteticamente e fedelmente il vero agire cristiano. D’altro canto, la “vita ecclesiale” non è un rassicurante ripiego sulle proprie convinzioni godute, quali consolanti ripari dal mondo minaccioso, in ristretti gruppi; la vita della Chiesa – che è la vita di noi tutti – si fa dono, apertura universale… Ha scritto un teologo del Novecento: «‘Voi siete la luce del mondo’, ha detto il Signore alla sua Chiesa. La luce non splende per se stessa, ma per gli esseri che ne hanno bisogno per prosperare, vedere, crescere, riscaldarsi» [30]. Se vogliamo “essere luce” in senso cristiano, non possiamo che esserlo in “favore del mondo”; non dobbiamo limitarci ad illuminare lo stanzino delle nostre convinzioni. La Chiesa deve avere preoccupazioni dogmatiche, ma la via privilegiata a Dio resta l’uomo, l’altro. Continua von Balthasar: «la Chiesa non deve vigilare soltanto su formule concettuali, ma anche e soprattutto sulla vita cristiana concreta» (cit. p. 100). Ecco il fulcro del mio ragionamento: la vita cristiana concreta! Annunciare la “certezza inossidabile” della proposta soteriologica cristiana significa entrare nel campo della Storia perché il Padrone ce lo ha affidato; significa non limitarsi a vigilare sulla scorza della fede, ma impegnarsi affinché coli, a beneficio di tutti, il succo vitale del cristianesimo. Le “certezze” sono il pane che evita all’uomo di morire per “fame di senso”.
Uno scrittore che si convertì al cristianesimo, in un suo diffusissimo romanzo, scrisse: «Nelle prove più tristi della vita ci salviamo […] per avere conservato nell’anima il seme di qualche certezza incorruttibile» [31]. Che tutti conservino nell’anima quel seme dipende anche dal lavoro che siamo in grado di svolgere a fianco di ogni uomo che è uno dei campi che il Padrone ci ha dato fiduciosamente in custodia. Il cristianesimo, qui, davvero – come ha detto un autore cristiano – diventa il sacramento del fratello. Aggiungeva lo scrittore: «vi sono certezze irriducibili […] sono […] certezze cristiane. Esse mi appaiono talmente murate nella realtà umana da identificarsi con essa. Negarle significa disintegrare l’uomo» (cit. p. 149).
Ecco un altro punto fondamentale: le certezze cristiane – come affermava con adamantina chiarezza Silone – sono murate nella realtà umana al punto di identificarsi con essa. Se questa saldatura è ontologica, non occasionale, resta che – per riprendere l’espressione di Gide riportata nella premessa – si distrugge l’uomo negando le irriducibili certezze cristiane. L’uomo non vuole conoscere ma, soprattutto vive se viene riconosciuto: l’Altro/altro mi confermano nel mio esserci! Gli orientali, che hanno molto da suggerirci, hanno compreso che perfino un fiore, per crescere in bellezza, ha bisogno di specchiarsi, di vedersi nel mentre si sviluppa. Lo ha sottolineato un filosofo francese: «Ho letto, non ricordo più dove, che nei giardini d’Oriente, affinché i fiori fossero più belli e fiorissero più rapidamente, consapevoli della propria bellezza, ci si preoccupava di sistemare due lampade e uno specchio accanto allo stelo vigoroso e gravido d’un nuovo fiore. Così, il fiore appena sbocciato poteva rimirarsi durante la notte e gioire del suo splendore» [32].
Pieghiamo questa usanza orientale al modus operandi cristiano. Di fronte all’altro che si avvia alla maturazione della propria umanità, affinché ciò avvenga in maniera più rapida e bella, facendo sì che sia “consapevole” di tale crescita, poniamo la “lampada” della Parola e lo “specchio” del vissuto cristiano per come è stato rivelato in Cristo; appena l’altro sboccia nell’umanità, così, si può rimirare durante la notte del travaglio che sempre è una crescita e, pur nel buio ancora situato, gioire del percorso fino a quel punto compiuto. Ci si deve specchiare nell’Altro per capire chi siamo: questo insegnamento è radicato nel dettato biblico. Un esegeta, infatti, meditando sul verso 5 del Salmo 8 – Che cosa è l’uomo? – ci istruisce: «la sorpresa è che nel Salmo la domanda è rivolta a Dio, non all’uomo stesso. L’uomo ne è incapace. L’uomo biblico non chiede a se stesso, o ad altri, la propria identità, ma a Dio. Per conoscersi guarda in alto» [33]. Si guarda in alto – dunque – non per inscenare una infruttuosa fuga mundi, bensì per riceverne la “conoscenza autentica di se stesso”; non per coltivare la facoltà di astrazione si alza lo sguardo, bensì per sapere realmente chi siamo. Si tratta, allora, di decidersi a non frequentare più le questioni religiose ed in particolare il “mistero cristiano” per filosofare; i tempi in cui viviamo esigono ben altro modo di accostare certi territori che non abbiamo difficoltà a riconoscere minati. Escludere nulla di quanto ci amareggia, ma parlare un linguaggio più spirituale, sarebbe la sola strada per incontrare l’uomo nelle sue più concrete esigenze; sì, perché passare dalla posa intellettuale all’acceso annuncio sapienziale equivale a rendere più belle le relazioni tra le persone. Il cristianesimo è concreto perché fatto di uomini che donano le proprie braccia affinché il campo della Storia affidatoci dal Padrone che momentaneamente si assenta sia sempre rigoglioso; è concreto perché non invita a “guardare in alto” per dimenticare il “qui ed ora”, bensì per consentire all’uomo di ricevere la propria identità da Dio. Possiamo sintetizzare quanto si è snodato in questo percorso con le parole di un teologo esperto di vita spirituale:
«La storia è una continua pasqua dell’Amore, di un difficile rapporto divino – umano. E forse si è giunti alla fine di un periodo storico in cui la divino umanità è stata compresa in modo […] prevalentemente filosofico, concettuale. Oggi siamo forse invitati dalla stessa crisi in cui si trova la nostra civiltà a ripensare questo rapporto in termini più spirituali. Nulla togliendo all’epoca che si conclude, nulla rifiutando, ma includendo tutti gli smisurati sforzi di questi secoli in una visione più spirituale, partendo dal Padre, dalla Persona trinitaria, adoperando pure una terminologia più spirituale, meno astratta, più filosofico – sapienziale e più teologica. Per far di nuovo scorrere la fede, dunque la vita, che può far rifluire nella nostra cultura e nella nostra civiltà un contenuto vitale, reale ed attivo. Per ricomporre i nessi, le relazioni, e rendere la vita più bella» [34].
[1] Cfr., l. tolstoj, Le confessioni 1878 – 1881, Sonzogno, Milano 1915, pp. 15 – 16.
[2] h. hesse, «Demian», in id., Romanzi, Mondadori, Milano 1977, pp. 245 – 246.
[3] a. camus, «I giusti», in id., Tutto il teatro, Bompiani, Milano 1988, p. 134.
[4] Cfr., s. beckett, «Finale di partita», in id., Teatro, Mondadori, Milano 1969, p. 155.
[5] Cfr., t. mann, I Buddenbrook, Einaudi, Torino 1952, p. 646.
[6] Ivi. p. 645. Si muove, potremmo dire, un attacco alle fondamenta dell’esistere. Clov vuole uccidere un bambino per impedire che procrei ed il personaggio di Mann addirittura rifiuta di farne nascere uno perché ogni uomo è uno “sbaglio, un passo falso”. Un pensatore contemporaneo risale ancora di più la corrente ed attacca addirittura lo spermatozoo: «Lo spermatozoo è il bandito allo stato puro» (e. m. cioran, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano 1993, p. 123). Lo stesso Cioran, a mio avviso, in un'altra raccolta di aforismi, spiega come ciò possa accadere: «L’uomo non vive più nell’esistenza, ma nella teoria dell’esistenza» (Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996, p. 147).
[7] Cfr., e. durkheim, «L’individualismo e gli intellettuali», in La scienza sociale e l’azione, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 291.
[8] b. brecht, «L’opera da tre soldi», in I capolavori di Brecht, Einaudi, Torino 1963, vol I, p. 40.
[9] Cfr., s. kierkegaard, Aut – Aut, Mondadori, Milano 1956, p. 83.
[10] id., Considerazioni di un impolitico, De Donato, Bari 1967, p. 345.
[11] Cfr., a. cechov, Lo zio Vania, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1960, p. 144.
[12] serena passarello, Dilemmi etici, Giunti Editore, Firenze 2008, pp. 100 – 101. Non a caso, infatti, in un passo del romanzo, il giovane assassino ammette che non ha ucciso la vecchia usuraia, ma se stesso!
[13] Cfr., f. dostoevskij, Delitto e castigo, Einaudi, Torino 1981, pp. 390 – 391.
[14] sofocle, «Edipo re», in Il teatro greco, Sansoni, Firenze 1980, p. 310.
[15] «Tutti noi siamo disabituati alla vita […]. Ce ne siamo, anzi, talmente disabituati che sentiamo a volte un certo disgusto per l’autentica “vita vivente”» (Dostoevskij, cit. in p. pascal, Dostoevskij: l’uomo e l’opera, Einaudi, Torino 1987, p. 324.
[16] Cfr., mark ivan rupnik, Dall’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Lipa, Roma 2000, p. 75. Importante, tuttavia, che nemmeno si riduca la Scrittura ad un Libro di esempi edificanti. Solo se in essa troviamo Dio in Cristo, abbiamo certezza di redenzione. Non si tratta tanto di leggere, quanto di lasciare che l’Altro ci parli. Chiunque abbia affrontato tempeste esistenziali può pronunciare – avviandosi alla conversione – queste parole: «Sono vissuto male e da me sono stato capace solo di darmi la morte. Ma ora in te io rivivo. Parlami tu, sei tu il mio maestro» (agostino d’ippona, Le Confessioni XII, 10, Città Nuova, Roma 1965, p. 415).
[17] Qui mi limito a richiamare un segmento esemplificativo della questione: «se sopprimessimo il nostro soggetto […] tutti i rapporti degli oggetti, nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero […]. Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli» (i. kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari 1996, p. 68).
[18] Cfr., g. bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Verona 1965, p. 37.
[19] g. m. hopkins, «JUSTUS QUIDEM TU ES, DOMINE», in id., La freschezza più cara. Poesie scelte, a cura di a. spadaro, Rizzoli (BUR), Milano 2008, p. 151.
[20] Cfr., e. stein, Incontro a Dio. Antologia di scritti spirituali, a cura di M. Cecilia del Volto Santo, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1998, p. 101.
[21] j. baudrillard, «Modernity», in Canadian Journal of Political and Social Theory, II (3), pp. 63 – 72; qui, pp. 68 – 69.
[22] Cfr., k. löwith, Significato e fine della storia, Comunità, Milano 1965.
[23] a. chouraqui, I dieci comandamenti. I doveri dell’uomo nelle tre religioni di Abramo, Mondadori, Milano 2001, p. 45.
[24] hans kelsen, cit. da d. antiseri, «Cattolico, dunque libero e laico», in id. – g. giorello, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Bompiani, Milano 2008, p. 92. Forse è soltanto la paura di sprofondare nel non senso che fa aggrappare all’idea di Progresso, alla convinzione che libertà, giustizia possano essere, pur rimanendo su posizioni meramente orizzontali, degli assoluti. Nel suo “The Idea of Progress”, Sidney Pollard, infatti, scrive: «Il mondo oggi crede nel progresso perché l’unica alternativa possibile alla fede nel progresso sarebbe la disperazione totale» (cit. in c. lasch, Il progresso e la sua critica, Feltrinelli, Milano 1992, p. 36).
[25] Cfr., s. kierkegaard, Gli atti dell’amore, Rusconi, Milano 1983, pp. 274 – 275. L’amore umano unisce l’altro all’Altro e solo ciò che “unisce” va inteso come amore realmente cristiano: «Quando parliamo dell’amore sia esso divino o angelico o intellettuale o animale o naturale, pensiamo a una forza unitiva e connettiva [henotiké Kai synkratiké]» (dionigi areopagita, De divinis nominibus, 15, 180).
[26] Cit. da guy stroumsa, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, Einaudi, Torino 2006, p. 136. Il cristiano, quando parla ad “altri” della sua fede deve far propri i versi di un mistico: «non ho più altra cura,/ ché solo nell’amare è il mio esercizio» (giovanni della croce, «Cantico spirituale», in Opere, Postulazione generale dei Carmelitani, Roma 1979, p. 501).
[27] Cfr., e. bianchi – g. kepel, Dentro il fondamentalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 44. Chi muove da una “salda fede nel Dio ebraico – cristiano”, può solo compitare entro le direttive inderogabili di una “grammatica dell’amore”. Diceva puntualmente Agostino nel Libro IV de «Le Confessioni»: «Felice chi ama in te, Signore, l’amico in te, il nemico per te. L’unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti i cari in chi non ha mai perduto». Chi perde l’Altro finisce, inevitabilmente, per perdere l’altro!
[28] Cfr., d. pezzini, L’Altro e gli altri. Verso una spiritualità dell’incontro, Ancora, Milano 2008, p. 42.
[29] f. varone, Un Dio assente? Religione, ateismo e fede: tre sguardi sul mistero, EDB, Bologna 1995, p. 219.
[30] Cfr., h. u. von balthasar, Abbattere i bastioni, Borla, Roma 2008, p. 76. Il cristiano deve portare la “luce” facendosi “pellegrino” sulle strade della Storia; non si può restare seduti in chiesa! Scrive Domenico Pezzini: «Non possiamo stare sempre seduti attorno all’altare a cantare le lodi di Dio! Lì possiamo trovare gioia e risorse, ma ci attende sempre il pellegrinaggio sulle strade del mondo» (id., L’Altro e gli altri. Verso una spiritualità dell’incontro, cit. pp. 106 – 107).
[31] i. silone, Uscita di sicurezza, Vallecchi, Firenze 1965, p. 129.
[32] Cfr., g. bachelard, Il diritto di sognare, Edizioni Dedalo, Bari 2008, pp. 12 – 13.
[33] b. maggioni, Davanti a Dio. I Salmi 1 – 75, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 35. Dobbiamo rendere concrete, operative le parole della Scrittura perché la Parola mai cade nel mondo senza effetto. Uno scrittore ateo, parlando di libri profani, ci ha sorprendentemente suggerito anche come rapportarci in maniera “patica” alla Bibbia. Provate a riflettere sulle sue parole andando, però, col pensiero al modo con il quale conviene rivolgersi alla Scrittura: «Ho letto quel certo libro […]; l’ho riposto sulla mensola della mia libreria, ma in esso c’era quella certa parola che non posso dimenticare […]. Non posso più tornare a essere quello che ero prima di averla letta. Come spiegare il suo potere? Il suo potere viene dal fatto che quella parola mi ha rivelato qualche parte di me ancora sconosciuta a me stesso; è stata per me una spiegazione […] di me stesso […]: le influenze agiscono per somiglianza» (a. gide, Consigli ad un giovane scrittore, Rosellina Archinto, Milano 1993, p. 34).
[34] Cfr., mark ivan rupnik, «Cerco i miei fratelli». Lectio divina su Giuseppe d’Egitto, Lipa, Roma 1998, p. 110.
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