Il fiore e l’acqua:
il reciproco dono della chiesa al mondo e del mondo alla chiesa.
Mi è stato chiesto di aprire una serie di riflessioni sulla Chiesa; ebbene, inizierei col dire che una discussione sull’ecclesiologia non può non restare aperta; ciò è dovuto, in realtà, dall’Oggetto stesso del confronto.
Paolo VI – a conforto di quanto appena detto – inaugurando la seconda sessione del Vaticano II, disse:
“Mistero è la chiesa, cioè realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di più profonde esplorazioni”.
Se non fosse per l’inesauribile fondo misterico che la sottende, l’ecclesiologia potrebbe dire qualcosa di definitivo; non che la chiesa sia assoggettabile al panta rei delle mode e delle ideologie, ma resta che in essa il mistero si declina – nel tempo – in chiave cronologica.
Sui sentieri della cronologia si sviluppa e si comprende (parzialmente) l’escatologia. Sempre Paolo VI, nella Sua prima enciclica, Ecclesiam Suam, sostenne che il mistero della chiesa “non è semplice oggetto di conoscenza teologica”, ma un fatto di vita vissuto del quale, prima che se ne abbia chiara conoscenza, “l’anima fedele può avere quasi una connaturata esperienza”.
Se vive in noi il ‘mistero della chiesa’, ascoltando la nostra interiorità, di essa possiamo fondatamente sperare di discernere adeguati, validi modelli. Abbiamo detto due cose che più avveduti relatori potranno sviluppare:
1) il mistero inesauribile che la sottende, rende la chiesa non un argomento esauribile in un saggio, in una serie di conferenze, ma la missione che ha è chiarificabile parzialmente soltanto negli inesauribili sviluppi storici che, di volta in volta, la interessano; è, infatti, lo Spirito che la conduce. Lo Spirito, si sa, soffia dove vuole;
2) non basta la competenza teologica a conoscere la chiesa, ma occorre viverla perché il discernerne adeguati modelli è questione di ispirazione, anche questa ‘dono dello Spirito’.
Un punto da sviluppare, credo, debba essere anche questo: riguardo al fenomeno contestazione, dovremmo pensarlo quale movimento biunivoco: dalla chiesa al mondo e dal mondo alla chiesa. L’una fermenta l’altro e viceversa! A monte, però, occorre pensare la fede stessa come critica. Il dialogo è apertura, capacità di ascolto e, laddove fosse necessario, coraggio di rinnovarsi.
La chiesa – e come potrebbe non essere così – deve porsi in dialogo con le nuove realtà, ma anche in ascolto del mondo contemporaneo.
Giovanni XXIII, rivolgendosi ad un ambasciatore, affermò:
“Occorre scuotere la polvere imperiale che si è accumulata sul trono di san Pietro”.
Il potere della chiesa deve esercitarsi con una autorità mai dimentica dell’amore perché, come Benedetto XVI ha rimarcato nella Sua prima enciclica, Deus caritas est!
L’ecclesiologia deve sempre onestamente riconoscere che il Regno di Dio travalica la realizzazione storica di un modello di chiesa. Questa, il Regno, come dice Hans Küng, non lo porta e non lo sostiene; piuttosto, ne è la ‘voce’, il “suo banditore”. Ekklesía, poi, sta a significare le persone (ek – kletoi) convocate dal banditore.
Non è un caso, inoltre, che nel suo libro La natura della fede, il teologo Gerhard Ebeling intitolasse il capitolo sulla chiesa ‘La convocazione della fede’.
Ci si deve sentire chiamati, dalla fede, alla vita comunitaria. Per il cristiano, comunità non equivale a stare insieme obbedendo ad un vago sentimento di fraternità, ma rispondendo, col dono di sé, all’irrefrenabile desiderio di essere membra vive del Corpo di Cristo.
Il fondamento della nostra comunità non è fenomenologico, ma ontologico. Si appartiene non per apparire o per sentirsi bene con se stessi e gli altri, ma per essere. Se pensassimo all’Ekklesía come ad una semplice riunione di persone, la ridurremmo ad un macro – organismo – etico e ci parrebbe superfluo approfondirne il contenuto dogmatico.
Sono d’accordo con il teologo protestante Emil Brunner quando afferma che la chiesa biblicamente intesa più che una istituzione è una Bruderschaft (una fraternità), una Personengemeinschaft (pura comunione di persone), ma non lo seguo più appena conclu de che da ciò segua la possibilità di ignorare, rigettare leggi, sacramenti ed ufficio sacerdotale.
L’equivoco da rimuovere quando si affrontano temi ecclesiologici – penso da non esperto, è quello di ritenere ‘popolo’ un ‘ammasso di individui’; in realtà, come una casa non è soltanto un semplice ammasso di pietre (pur fondamentali), ma anche (soprattutto) ordine/progetto, così pure la chiesa è composta da individui secondo un ordine ed un progetto che solo una miopia dovuta ad una libertà liberticida definisce in accezione negativa gerarchia.
I binari – amo questo esempio – costringono, è vero, il treno ad andare in una certa direzione, ma se esso si potesse ribellare non ne conseguirebbe che un disastroso e cruento deragliamento.
Nella chiesa, intesa come gerarchia, si sente spesso dire, non c’è libertà! Anche qui, avrei a cuore che quanti dopo il mio intervento (necessariamente lacunoso) parleranno dicano chiaramente di che genere sia la libertà del cristiano. Il mio contributo si ferma a questa espressione di Paolo rubricata nella lettera ai Galati (5, 13):
“Siete stati chiamati alla libertà”.
La libertà è vocazione declinata in termini comunitari. Che senso avrebbe essere liberi in solitudine?
Liberi rispetto a chi, a che cosa?
Come tutto ciò che nasce dalla condivisione, non la si può dissociare dalla responsabilità.
Il cristiano deve essere capace di rispondere (responso – abile) alla chiamata alla libertà!
Vita ecclesiale è progetto di vita cristiana compresa, sentita, vissuta responsabilmente e liberamente accolta. Si tratta di una libertà per più che di una libertà da. Sartre dice, invece, che siamo stati condannati alla libertà.
Il filosofo francese ritiene che non vi è, perciò, differenza tra essere un eroe ed ubriacarsi da soli in fondo ad una cantina! Il progetto – uomo che la chiesa propone non cade in questa trappola anassiologica, indifferentista. Come Dio liberamente si è donato all’uomo, così questi deve liberamente donarsi a Dio ed ai fratelli, coi fratelli, per i fratelli; divenire, dunque, uomo entro una dimensione comunitaria.
Non si tratta, capite bene, di un progetto che si fermi al sociale, all’etico di natura umana, troppo umana, bensì di un dinamismo antropologico sorretto, ispirato e reso sensato dal movimento del Dio che, per primo, viene a noi.
Giuseppe Dossetti non mancò di fornire un insegnamento che, per chi voglia vivere una vera vita ecclesiale (che non significa asserragliarsi, al sicuro, in un tempio), resta imprescindibile:
“Tutta l’antropologia dell’evangelo e del Nuovo Testamento può essere condensata in due termini eleutherìa ed agápe, libertà e amore. L’uomo del Nuovo Testamento è un uomo reso libero per amare Dio e i fratelli”.
Nella chiesa ha autentico significato di libertà, non ciò che consente di fare come ci pare, ma quanto è finalizzato all’amore (che è anche desiderio di retta conoscenza del dogma) per Dio e per gli altri (da qui la necessità di seguire le direttive morali della gerarchia).
In tema di fede e morale, dunque, la gerarchia ecclesiastica attinge non ad una teoria elaborata iuxta principia propria, bensì dal Vangelo, dall’insegnamento stesso di Cristo.
Se nella chiesa fossimo – ubbidendo ad un concetto di uguaglianza malamente inteso – tutti sullo stesso piano, commetteremmo l’errore di credere che uniformità valga unità. Bisogna avere il coraggio, che pur rende impopolare chi ce l’ha, di ribadire questa distinzione. Chiarire i concetti essenziali per proporre una illuminata ed illuminante ecclesiologia a quanti troppo confuse hanno le idee è servizio urgente e santo. Lo dico pensando a quanto è importante scoprire cosa davvero la chiesa ha fatto e fa per il mondo. Cito solo un dato che, sicuramente, altri vi articoleranno in discorso compiuto.
Il teologo morale Marciano Vidal ha mostrato che il concilio Vaticano II dei 26 usi che fa del termine fraternità dodici li pone in una cornice discorsiva di natura ecclesiale (Chiesa/comunità in quanto esprimono la natura dei legami tra i cristiani) e ben 14 interessano riflessioni sul sociale per lumeggiare l’ideale della convivenza umana. Questo rivela l’esistenza di una ben consolidata ecclesiologia di servizio. Il luterano Bonhoeffer, diceva:
“La chiesa è chiesa soltanto se esiste per gli altri”.
Quale madre usa per se stessa il proprio latte? È ammalato, spiegano i medici, l’occhio che vede se stesso. Quando la chiesa si prefigge come suo unico compito di servire se stessa – diceva il teologo protestante Karl Barth nella sua poderosa Dogmatica ecclesiale – “porta in sé le stigmate della morte”.
Non si tratta, però, semplicemente di rivolgersi agli altri per impartir loro lezioni o elargire, dall’alto, direttive etiche e dottrinarie. La chiesa ha interesse innanzitutto ad unire gli uomini non in maniera paternalistica, ma consentendo che tutti apportino all’unità (che, per questo, non scade ad uniformità) la propria originalità. Il programma è stato caldeggiato da Rahner. Riguardo alla dimensione ed al fondamento ecclesiale della fraternità, il teologo tedesco, scrive:
“L’unità europea della chiesa, che in passato può essere stata inevitabile, deve cedere il passo a una vera unità della chiesa mondiale. Questa unità, però, si può realizzare solo se un atteggiamento fraterno, senza arroganza paternalistica, lascia che tutti i membri della chiesa abbiano veramente gli stessi diritti”.
Diritti, non compiti e doveri:
gerarchia come armonia e non come egemonia e, in ogni caso, tutto finalizzando alla diakonia (servizio).
Se dovessi scrivere un saggio di ecclesiologia, eleggerei a frase di apertura una affermazione di Jean Daniélou. A suo dire, non c’è gerarchia nella chiesa che non sia essenzialmente servizio. Anche i teologi che hanno preso piena coscienza delle provocazioni della secolarizzazione convergono su questo punto fondamentale. Harvey Cox, ad esempio, scrive che, nella città secolare (che è anche il titolo di una sua fortunata opera), la chiesa deve agire come diakonos; cioè, vestire i panni del “servo che si impegna nella lotta per l’integrità e la salute della città”.
Il teologo anglicano A. T. Robinson, con più audacia, giunse a sostenere che è il mondo e non la chiesa ad essere la casa di Dio.
Ad ogni buon conto, per evitare confusioni spiacevoli e lo snaturamento del fine autentico e primario della chiesa, sarebbe bene tenere davanti agli occhi fissa la lezione di Yves Congar che accentuava l’aspetto pneumatologico (spirituale) della chiesa, la cui vita, tutta – precisava, non è che un generare ed educare alla santità.
Cammino difficile, ma non è cristiano pensare che le difficoltà possano tradursi in impossibilità. Si tratta di comprendere che, sebbene animata e guidata sul piano ontico da uomini, la chiesa è ontologicamente sorretta e fondata su Cristo!
Commentando un salmo, Agostino sostiene che possono anche vacillare le fondamenta della chiesa, ma domanda:
“come potrebbe vacillare Cristo?”.
La pietra angolare è Cristo e, dunque, l’edificio, in qualunque caso, resterà saldo.
Per J. B. Bossuet, la chiesa “continua Gesù, lo comunica e lo diffonde nel tempo e nello spazio”. Per non soccombere alle reali e potenti minacce che le vengono da ogni luogo ed in ogni tempo, non ha, diceva Fénelon, che una sola arma:
la chiesa è il Vangelo che continua (Charles Journet).
Continua anche, tenetelo fermo questo concetto, nelle nostre case perché, come scrisse Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, la ‘famiglia cristiana’ è “una chiesa in miniatura” (Ecclesia domestica).
La chiesa è ontologicamente santa in quanto la sua santità è completa, intoccabile grazie al suo Fondamento (Cristo), ma perfettibile riguardo alle sue realizzazioni storiche.
Dovete tenere presente, quando giustamente si parla della chiesa semper reformanda, una distinzione fondamentale che ho appreso da Charles Journet:
possiamo tranquillamente sostenere che la chiesa è senza peccato, ma non affermare che è senza peccatori.
Molti amano, allegramente e non sempre disinteressatamente, identificare i peccatori nella chiesa con i peccati della chiesa. Anche il più avveduto credente può vacillare, ma la chiesa è inabitata dallo Spirito di Dio che, insegnava Ireneo, laddove è presente “c’è la chiesa e ogni grazia”.
Va riconosciuto a Giovanni Paolo II anche il merito di aver messo al cuore della Sua teologia non l’ecclesiocentrismo, bensì, il cristocentrismo. Si è, in tal modo, evitato di pensare che la chiesa possa autonomamente fare qualcosa per la salvezza dell’uomo. Nel suo bellissimo ed illuminante libro Varcare la soglia della speranza, il compianto pontefice polacco, annotava:
“La salvezza si ha soltanto ed esclusivamente in Cristo. Di questa salvezza, la chiesa in quanto è corpo di Cristo è semplice strumento”.
Per parafrasare uno scrittore cattolico francese del Novecento, gli studiosi di ecclesiologia (perdonate se lo dice uno che non lo è) devono fare in modo che si eviti di giudicare chiesa, Dio e Cristo a partire dalla balbuzie dei loro servitori.
Necessario è che la chiesa – per fare memoria di questo – si interroghi con onestà critica e senza sosta.
Giovanni Paolo II, infatti, pensava che la domanda fondamentale soggiacente al Vaticano II, fosse: Ecclesia, quid dicis de te ipsa? (Chiesa, che dici di te stessa?)
Questa è la domanda che gli incontri che si svolgeranno – e che immeritatamente introduco – prenderanno sul serio. Il fine delle discussioni che seguiranno: mostrare quanto più chiaramente è possibile dove va la chiesa e, contemporaneamente, comprenderne genesi e natura.
Ad una – potrei dire – ecclesiologia archeologica deve sempre affiancarsi, è necessario, una ecclesiologia teleologica.
Diceva il cardinale P. E. Léger che, all’autentica vocazione della chiesa, dovrebbero risultare inammissibili termini quali ‘abitudine’ ed ‘invecchiamento’. Chi volesse mostrare la propria fedeltà alla chiesa – continuava – ritenendone inaccettabile il ‘rinnovamento’, non può che “compromettere la sua più autentica fedeltà”.
Cristo stesso non è figura congelata nei racconti evangelici, ma Presenza viva (ha detto, sarò con voi fino alla fine dei tempi); e, come amava ripetere santa Giovanna d’Arco, la chiesa e Gesù Cristo sono una sola cosa.
Nel Vangelo Cristo è amato, ma anche odiato; seguito, ma pure abbandonato. Perché mai la chiesa non dovrebbe conoscere la stessa tensione? L’autentico cristiano, come il suo Signore, non deve mai cercare facili compromessi, ma incontri rispettosi dell’altro e, allo stesso tempo e per il bene di chi sta di fronte, del messaggio veicolato.
Scrive Rahner:
“molte cose nella chiesa possono dispiacere. Ma perché debbono proprio piacere a qualcuno? Se la chiesa dovesse essere proprio come piace a qualcuno, che cosa farebbero gli altri?”.
Se qualcosa piace a qualcuno, vuol dire che altri la troveranno non gradita. A chi piacere? A chi non andare a genio? Qui, si badi, discutiamo di gusti e la verità non interessa.
La chiesa, invece, deve annunciare inalterata la verità cristiana, non piacere o dispiacere a chicchessia. Cristo non predicava per il consenso, ma per il Regno; non per prestigio personale, ma per la nostra salvezza. I cristiani sono tenuti a capire, comprendere gli altri e non a stabilire se piacciono o no; non grazie ad una analisi basata su preferenze si decide se gli ‘altri’ possano o no entrare in comunione con noi. Rahner, sottolinea:
“Ci sono abbastanza europei, ma anche molti africani, latino – americani (…) che con la loro mentalità non sono subito simpatici a noi europei occidentali tardo – individualisti, ma che hanno lo stesso diritto di cittadinanza nella chiesa quanto noi. La loro mentalità, che lo vogliamo o no, influisce nell’unica chiesa in modo tale da coinvolgere anche noi”.
Il mondo irrompe nella chiesa con le proprie istanze, con voci variegate che non vanno discriminare per ragioni di gusto. Lo stesso il mondo: quando la voce della chiesa irrompe in esso, a prescindere se le cose udite siano o non siano di suo gusto, farebbe bene a farci i conti.
La chiesa non deve piacere a qualcuno, ma parlare a tutti attingendo alla propria anima; il mondo non deve piacere alla chiesa a secondo della mentalità che da esso si affaccia sulla soglia di Pietro.
La chiesa deve amare pur rimanendo fedele alla verità. Essere in ascolto, ma non subire il canto delle sirene del nostro tempo.
La fede deve essere critica ed autocritica.
Il gesuita e geologo Teilhard de Chardin amava ripetere che al prete è stato concesso il lusso di poter amare tutti.
Sarebbe bene che quanti, dopo essere stati semplici sacerdoti, sono entrati a far parte della gerarchia ecclesiastica, non smettano di concedersi questo lusso, pur senza snaturare (irenismo) in nome di una pace voluta per pigrizia, il sacro deposito della fede.
Un filosofo francese del Novecento, Merleau – Ponty, ha sollecitato la chiesa a proiettarsi nel mondo, nella realtà contemporanea ferita e non raramente disorientata.
Diceva:
“Dio sarà davvero venuto sulla terra solo quando la chiesa comincerà a non sentire più doveri verso i suoi ministri che verso gli altri uomini, o verso i suoi templi più che verso le case di Guernica”
che, come sappiamo anche grazie ad un quadro di Picasso, venne distrutta da bombardamenti nazisti. Curare la magnificenza e lo splendore dei templi, ma avere a cuore anche le case di Guernica dilaniate dalle bombe naziste. Amare, impegnarsi ad intra e ad extra; come per il cuore: sistole e diastole.
Il protagonista di un romanzo di De Musset, in piena modernità, diceva che “non è chiaro se si cammina sui germi del futuro o sui cocci del passato”; la disperata lirica del contemporaneo Montale, si augurava può darsi che sia vero che tendono alla chiarità le cose oscure.
A noi che sappiamo cosa sia stato il Vaticano II, l’aporia non procura angoscia.
La chiesa ha mostrato inequivocabilmente che cammina sui germi del futuro e che ha tutto l’interesse di portare alla chiarità le cose oscure (o ritenute tali) dei propri insegnamenti. Si tratta di assicurare alla chiesa almeno l’ascolto attento del mondo.
Essa, dal canto suo, deve prendere in seria considerazione quanto diceva Schleiermacher:
con le religioni accade come con gli esseri umani.
In che senso?
In ogni uomo c’è, a prescindere dalla razza e dai convincimenti religiosi, tutto quanto è negli altri uomini; in ogni religione c’è tutto, anche se in ognuna quel tutto è strutturato diversamente. La chiesa viene, per lo più, rappresentata con modelli, metafore e linguaggio femminili e se, come canta un poeta spagnolo, la donna è ospitale, capite cosa intendo dire: essa deve praticare l’accoglienza, non chiudersi per preservare se stessa.
Teilhard de Chardin ammetteva, ovvio, l’importanza della chiesa per il mondo, ma affermava pure che essere nel mondo (non del mondo) le è necessario, altrimenti appassirebbe come un fiore fuori dell’acqua.
Ecco spiegato il titolo del mio intervento.
Il fiore è distinto dall’acqua (è fiore e non acqua), ma non ne può fare a meno; l’acqua c’è a prescindere dall’importanza che ha per il fiore, ma questo mostra ad essa una motivazione in più perché ci sia e ne amplifica valore e uso.
Portare acqua al fiore o il fiore all’acqua conta assai meno del gesto concreto che li fa incontrare, perché è in gioco la vita ed il senso dell’esserci di entrambi.
Così è riguardo al rapporto chiesa/mondo-mondo/chiesa: circolo virtuoso e non vizioso; tensione salvifica, non tenzone mortifera. Incontro, non scontro…
Mi fermo qui.
Ho gettato semi, insinuato piste traboccanti di provocazioni tentando di monetizzare al massimo il breve tempo concessomi. Ubi maior minor cessat.
Voci più autorevoli offriranno grani di saggezza ecclesiologica.
A me non resta che concludere, attingendo al Sermone CXXXVIII 10 di Agostino, con un augurio – esortazione:
Amate questa chiesa, siate tale chiesa, siate in tale chiesa.
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