Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

La concretezza della proposta Cristiana

Sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita
(D. M. Turoldo)

Questa riflessione del sacerdote e poeta Turoldo ci immette subito nel discorso che intendo sviluppare:
la ‘questione Dio’ non ammette né discussione né, semmai fosse possibile, una conclusione neutrale che siano indifferenti alle sorti del mondo, della storia, dell’uomo.
La vita la si realizza o fallisce, inevitabilmente, a seconda di come abbiamo pensato Dio.
Ignorare la questione finanche produce frutti, destinati o no a marcire, non importa; resta che il ‘pensare teologico’, anche fosse per giungere ad una negazione di Dio, intacca la realtà, incide sul concreto.
Sembra, a leggere in profondità le derive nichilistiche del nostro tempo, che si finisca sempre – o per negazione, o per adesione – col precipitare nel Trascendente.
Il teologo luterano impiccato dai nazisti, Bonhoeffer, ebbe modo di sottolinearlo:

“attraverso ogni evento, cioè, quale che sia eventual mente il suo carattere non – divino, passa una strada che porta a Dio” [1].

L’ineluttabilità della questione chiama, soprattutto noi cristiani, a non lasciare il mondo orfano di una parola chiara, alta, capace di mostrare la propria concretezza.
In primo luogo, occorre che il cristiano si senta chiamato, attraverso il progetto antropologico biblico, a costruire la propria humanitas.
Un sacerdote spagnolo, in un libro scritto in gioventù e dedicato soprattutto ai giovani, indica chiaramente un percorso:

“Oggi più che mai, noi cristiani dobbiamo essere molto uomini (…) il mondo ha bisogno di cristiani forti, di (…) gente che sappia armonizzare la vita di orazione con il lavoro quotidiano (…) unire il rapporto intimo con Dio alla convivenza con i genitori, con i figli (…), i fratelli, con gli amici e con i nemici” [2].

Coniugare la nostra intima scelta di fede con la realtà, con il mondo della vita è far valere la categoria, immancabile nell’ agenda cristiana, testimonianza che è sempre partecipazione appassionata alla storia. Aveva ragione Turoldo: ne va della vita. Pensare Dio testimoniandoLo nel mondo è il manifesto programmatico del cristiano, teologo, pastore o semplice credente che sia.
Il sacerdote spagnolo, poi, mostra come la questione cristiana, sebbene declinabile assolutamente in prospettiva comunitaria, si accenda a partire dal coinvolgimento personale:

“Vogliamo cristianizzare la società, ma è necessario in primo luogo ricristianizzare noi stessi” (p. 26).

La fatica di cristianizzare il mondo passa inevitabilmente attraverso l’urgenza di ricristianizzare il nostro mondo interiore. Evangelizzare comincia sempre da una evangelizzazione ad intra! Loidi, però, avverte:

“Troppi uomini di Cristo si sono imborghesiti” (p. 31).

Verniciare con distensivi colori di perbenismo borghese la fede cristiana è un errore che si paga con la conseguente sfiducia che irrora il messaggio evangelico.


Salvare l’aspetto concreto della fede significa espungere da essa quanto la annacqua per renderla potabile ad anime assetate di carezze psicologiche o commestibile per spiriti affamati di un senso a buon mercato.
Essere cristiani comporta delle scelte radicali; il cristiano sa bene e deve ricordarlo ininterrottamente a se stesso ed agli altri, che il riscatto dalla morte passa per la sofferenza della croce e non si ottiene con pratiche magiche o attraverso formule consolatorie. Colpito da un grave lutto, lo scrittore C. S. Lewis, che si convertì al cristianesimo dopo lunghe lotte interiori, annotava:

“Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite” [3].

Il suo era un dolore forte, concreto, ed aveva bisogno di risposte certe, non di consolazioni. Il senso offerto dal cristianesimo non è mai a buon mercato.
La vita è di certo riserva di luoghi concreti che si presentano come occasioni di annuncio e testimonianza, ma quei luoghi vanno addirittura cercati per arricchirli della Parola.
Rivolgendosi in particolare a noi laici, il Concilio Vaticano II, esige proprio queste ricerche:

“il vero apostolo cerca le occasioni per annunciare Cristo” [4].

Non basta aspettare che le concrete esigenze della vita ci pongano nell’urgenza di curvare i grandi temi esistenziali in possibili interpretazioni cristiane, ma ci dobbiamo attivare personalmente nel ricercare quegli ambiti di vita che esigono una lettura fatta con gli occhi di Cristo.
I laici, continua il Concilio, vengono esortati vivamente a ricorrere al loro ingegno, alle loro doti, fedeli all’insegnamento della Chiesa, per “enucleare, difendere e rettamente applicare i principi cristiani ai problemi attuali” (ibidem).
Come a dire:
i principi cristiani possono risultare ‘lettera morta’ senza una adeguata, retta ‘traduzione’ in parole concrete che incidano sulla realtà. Si deve contribuire pesantemente alla realizzazione piena dell’umanità dell’uomo, al rendere crogiuolo di prestazioni agapiche il nostro vivere.
Lo ha rimarcato, in maniera lapidaria, uno studioso in un recente articolo. A suo dire, infatti, evangelizzare non può intendersi come ‘conquista, proselitismo’, bensì come qualcosa che è “molto più vicino al termine coniato da Teilhard de Chardin: amorizer le monde, amorizzare il mondo” [5]. Ci sono due compiti, inseparabili e conseguenti, complementari, da assumere per rendere davvero beneficamente concreta la proposta cristiana.
Ce li affida la CEI. In primo luogo, si deve compiere “lo sforzo di metterci in ascolto della cultura del nostro mondo”, perché anche in essa sono presenti (pur velati) i semi del Verbo; insomma, dobbiamo fare “attenzione a ciò che emerge nella ricerca dell’uomo” senza che ciò equivalga – ed è questo il segmento da saldare necessariamente a quanto detto – a far sbiadire, se non scomparire, la differenza cristiana, la trascendenza del Vangelo; ascoltare il mondo, ma senza scadere nell’acquiescenza verso le “attese più immediate di un’epoca o di una cultura” [6].

Non ridurre il messaggio cristiano a mera consolazione, non imborghesirlo, non diluirlo nelle istanze del mondo dando vita ad uno sterile irenismo. Sono punti fermi sulla strada di quanti vogliano rendere davvero concreto il Vangelo.
A tutto questo va premesso che l’annunciatore deve partecipare con tutte le sue facoltà (intellettive ed affettive) a quanto del suo credo si sforza di conoscere e di comunicare al mondo scristianizzato. Prescindendo dai doveri del cristiano, del teologo, lo studioso della religione in generale deve esperire un coinvolgimento profondo con quanto indaga.
Si può essere un buon matematico senza dover necessariamente identificarsi totalmente con i contenuti di questa nobile materia; non si può asetticamente respirare, da accademici, atmosfera religiosa senza farne una questione di vita.
Lo sapeva molto bene uno dei più grandi studiosi di storia delle religioni, il rumeno Mircea Eliade.
In una intervista, affermò qualcosa che può valere un insegnamen to irrinunciabile per tutti noi:

“Lo psichiatra mette in pericolo la sua ragione nella frequentazione della malattia mentale. Lo stesso avviene per lo storico delle religioni. Ciò che studia lo tocca profondamente. I fenomeni religiosi esprimono delle situazioni esistenziali. Partecipate al fenomeno che vi sforzate di decifrare: come se si trattasse di un palinsesto, della vostra genealogia personale e della storia di voi stessi. È la vostra storia” [7].

L’esergo del mio intervento, riporta un’affermazione di Turoldo che possiamo considerare strettamente imparentata con questa dello studioso rumeno:
nelle cose della religione, della fede, di Dio ne va di noi stessi, della vita. Siamo di fronte a questioni concrete e che entrano, non senza conseguenze, come lievito del senso, nella pasta del concreto.
Un santo teologo – nel cuore della cristianità medievale – aveva fatto risaltare la concretezza del kerygma agganciandolo direttamente alla figura del Verbo.
Bernardo di Chiaravalle (1090 – 1153), nel Trattato sui gradi dell’umiltà, sosteneva che quanto Gesù conosceva dall’eternità, l’apprese, gradualmente, per esperienza, nel tempo: quod natura sciebat ab aeterno, temporali didicit  experimento.
La Sapienza, acquisita ab aeterno, nell’Incarnazione, concreta – piena manifestazione di Dio, diventa temporale experimento! La concretezza della Sapienza è stata sperimentata, in prima persona, dal Verbo e, dunque, può divenire paradigmatica, per noi, riguardo alla prassi (etica) cristiana.
Saldata non a caso, credo, a questa argomentazione, vi è nei Sermoni Diversi di Bernardo, una indicazione significativa sul modo di essere testimoni della Parola. Il santo teologo dice che si ‘ama in modo spirituale’ quando ex caritate (per amore della carità) mettiamo al secondo posto le pur nobili e necessarie ‘attività spirituali’ e ci diamo a praticare quanto è a beneficio dei fratelli (fraternae utilitati).
L’amore spirituale, cioè, si esprime pienamente nella carità che è l’attività contemplativa tradotta in aiuto concreto.  

Stare nella Chiesa non è come rifugiarsi in una baita ben riscaldata, attrezzata e ricca di viveri, mentre fuori, sulla montagna innevata, furoreggia una tempesta.
Nella Chiesa, diceva Congar, siamo tutti equipaggio e nessuno è passeggero. Dobbiamo garantire, lavorando sodo, che la nave viaggi sicura.
L’8 dicembre del 1950 si registrò – a beneficio di chi professa una ecclesiologia del servizio, della concretezza – un’affermazione di Pio XII che non smette di apparirci attuale:

“nella Chiesa non manca a nessuno abbondanza di lavoro e di sudore, perché è immenso il campo da lavorare con la fatica apostolica”.

Essere apostoli è fatica!
Il campo nel quale lavorare è l’intero creato che, come ricordava Paolo, pure geme in attesa di redenzione. Se non è attenta al concreto la Chiesa
Gregorio Magno, precedendo gli ingegni cattolici più vicini a noi cronologicamente, aveva detto:
“Ci eleviamo alle altezze della contemplazione per le scale della vita attiva”.
Contemplazione:
l’agire, come si vede, è connaturato all’elevazione. Credo di poter dire che tanto si eleva un cristiano, quanto più è disposto ad abbassarsi verso l’altro. Goethe, che teologo non era, ci ha lasciato una massima che, a chi fa teologia, si rivela come un lascito prezioso: la ‘felicità suprema’ di chi ‘ama pensare’ – diceva – è sondare il sondabile e venerare in pace l’insondabile. In altre parole, e per la nostra utilità: chi pensa la fede (teologo) deve sondare, immergersi nel sondabile, in quanto è concretame nte, visibilmente intorno e, allo stesso tempo, venerare in pace (contemplare) ciò che è oltre il fenomenico.
Sono i due momenti inscindibili, pur se distinti, di un retto vivere e pensare la fede cristiana. Non si può negare che Giorgio La Pira, fervente cristiano, uomo di azione e di pensiero, fosse ricco di spiritualità; ebbene, non ne fece una torre dorata, ma scese nelle strade non tranquille della storia quando ciò si rese necessario. Chiesero a questo testimone della concretezza evangelica cosa avesse pensato nell’accettare di candidarsi come capolista della Democrazia Cristiana a Firenze:

“Non mi ascolto mai. Ho constatato delle situazioni oggettive. Quando è emerso che la mia presenza, oggettivamente, poteva essere una concreta forma di servizio (…) non ho avuto problemi” [8].

Analizziamo.
La Pira non ascolta i propri desiderata (“non mi ascolto mai”); piuttosto, sceglie di impegnarsi in politica facendo attenzione a situazioni oggettive. Sente, direi, in maniera comunitaria. La sua presenza, dopo una attenta analisi, risulta oggettivamente necessaria perché la finalità del fare politica è quella – usa la parola chiave della mia riflessione – di prestare una concreta forma di servizio. Avrebbe portato i suoi principi cristiani ad incontrare la politica perché ciò gli avrebbe consentito di prestare un servizio, di renderli operativi, concreti. Un insegnamento che dovrebbe ispirare tutti noi cattolici quando ci afferra la tentazione di ritrarci dalla partecipazione politica fondando su argomenti che hanno in sé soltanto veleni moralistici e nessun succo di senso distillato dal Vangelo.

Nella Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane stilata durante il Vaticano II, la Nostra Aetate (28 ottobre 1965), al numero 1, si legge:

“Gli uomini…attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo”.

I cristiani cattolici, in particolare i teologi, gli intellettuali credenti, devono fare i conti con queste istanze nelle quali ne va della vita. Proprio qui sta l’anello di salda congiunzione tra Chiesa e mondo: come i credenti, anche gli uomini lontani dalla fede sentono di doversi porre nelle domande fondamentali, di immergersi nella ricerca di valori che indirizzino la vita verso una piena e concreta realizzazione.
Su questo suolo condiviso occorre dialogare, lavorare. Il filosofo ateo Jean Paul Sartre aveva posto chiaramente il problema:

“Siccome ho soppresso Dio padre è pur necessario qualcuno per inventare i valori…dire che noi inventiamo i valori (…) significa (…): la vita non ha senso a priori. Prima che voi veniste alla vita, la vita era nulla sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che voi scegliete” [9].

Notiamo:
sopprimere Dio non equivale, automaticamente, a gettare alle ortiche la questione assiologica.
Senza valori non si può stare. Se tocca a noi inventarli, vuol dire che la questione è soggettocentrica: ogni uomo che nasce deve, daccapo, stilare la sua tavola di valori e dare, in proprio, un senso alla vita. Si pensi a che compito immane ci si assume e, in definitiva, pericoloso per la stessa sopravvivenza umana.
C. S. Lewis, invece, affermava la necessità, l’urgenza di un parametro oggettivo alla luce del quale stabilire ciò che è ‘bene’; esso deve collocarsi obbligatoriamente al di sopra delle opinioni degli individui  e dei popoli. Chi stabilisce, altrimenti, che una ideologia sia migliore di un’altra?

“A meno che il metro di misurazione sia indipendente dalle cose da misurare, non si può fare nessuna misurazione” [10].

Se l’uomo vuole essere misura di tutte le cose, diviene smisurato e, dunque, non può più vestirsi di umanità attingendo al suo corredo ontologico e soffre una elefantiasi dell’ego che scade in un disperato anything goes, ‘tutto va bene’! Questo rende quanto mai urgente che la Chiesa intervenga per ricordare all’uomo che la dipendenza da Dio non è subordinazione a qualcuno; che nella scelta pro o contro Dio, come diceva Turoldo, eleggere la parte sbagliata, comporta il fallire la vita (personale e collettiva).
Cacciare Cristo ed essere costretti, come Sartre, ad ammettere che qualcuno deve pur inventare i valori, significa accecarsi per non vedere la luce, salvo l’andarla a cercare nella notte non potendo più nemmeno vedere che si è nella notte.
In un suo libro sempre fecondo di positive indicazioni, Giovanni Paolo II, tenne a rimarcare come alcuni regimi volessero inculcare la convinzione che “il mondo appartiene esclusivamente allo Stato”. La Chiesa, invece, è confinata in un ambito tutto suo. Il Concilio, però, la vuole ‘nel’ mondo sottolineando, in più, la questione dell’apostolato laico inteso come presenza attiva dei cristiani nella vita sociale. I cristiani devo partecipare alla vita sociale per mostrare la concretezza del Vangelo.
Se nel XX secolo, continuava Giovanni Paolo II, si è fatto non poco per cacciare Cristo dal mondo, va rilevato che queste forze malefiche si sono indebolite, ma non c’è da rallegrarsene. Lo sguardo acuto del Pontefice polacco, infatti, non mancava di rilevare che i guasti di quelle ideologie del male hanno prodotto “una grande devastazione (…) delle coscienze” causando rovinosi guasti nella morale (personale e familiare) senza risparmiare l’etica sociale. Bisogna curvare tutto verso il polo – Vangelo proprio in tempi come i nostri, nei quali, concludeva Papa Wojtila, risulterà sempre più disastrosamente chiaro che i “programmi politici, orientati prima di tutto verso lo sviluppo economico, non basteranno da soli a sanare simili piaghe. Possono anzi perfino approfondirle” [11].

Per dare un indirizzo più umano ai programmi politici, dunque, pur evitando indebite ingerenze della Chiesa, occorre ascoltare, sì, quanto meno ascoltare, le proposte cristiane, ma anche quelle provenienti dalle altre religioni. Una studiosa portoghese ha – per sostenere identica tesi – richiamato una pagina di un saggio di Marilyn Ferguson (The Aquarian Conspiracy). In essa, infatti, viene riportata la dichiarazione che alcuni leader spirituali, nell’ottobre del 1975, rilasciarono all’assemblea dell’ONU:

“Le crisi del nostro tempo sfidano le religioni mondiali a liberare una nuova forza spirituale capace di trascendere le frontiere religiose, i limiti culturali e nazionali e di condurre ad una nuova coscienza dell’unità della comunità umana, capace di creare un dinamismo spirituale per la soluzione dei problemi del mondo” [12].

Anche in questo appello, non cristiano in maniera stringente, vi è l’intuizione che le questioni religiose interessano i problemi del mondo, gli aspetti concreti del vivere. Il dialogo e la pace tra le religioni, dunque, non interessano un manipolo di togati teologi e capi religiosi; piuttosto, si tratta – in un mondo che ha sempre più bisogno di un supplemento d’anima (Bergson) – di estrarre dalle religioni una nuova forza spirituale che non stia inoperosamente confinata nel ristretto perimetro di un credo religioso, ma si riverberi sul mondo per operare in esso concrete trasformazioni (in positivo).
L’Assoluto non va più inteso in senso esclusivo, bensì inclusivo. Ne va delle sorti del mondo. In Svizzera, a Davos, il 29 febbraio 1995, il cardinale Roger Etchegaray parlò al Forum economico mondiale. Attingiamo una sua significativa presa di posizione in merito al tema ancora dal libro della Gonçalves:

“L’incontro, o anche lo scontro, tra le religioni – disse lucidamente il cardinale – è senza dubbio una delle più grandi sfide della nostra epoca, una sfida più grande di quella dell’ateismo. Si tratta, per l’uomo religioso, di imparare a pensare l’assoluto di Dio che legittimamente difende come un assoluto relazionale e non come un assoluto esclusivo o inclusivo. La cosa più urgente da imparare, da parte di tutte le religioni, consiste nell’aprirsi alla verità degli altri salvaguardando la propria verità” (cit. pp. 113 – 114).

Quello che emerge con potente chiarezza da questa affermazione è che imparare a pensare l’assoluto di dio in maniera relazionale decide molto delle sorti dell’umanità; che le visioni religiose del mondo sono davvero, come sopra ricordavamo con Mircea Eliade, la nostra storia e, oserei aggiungere all’affermazione dello studioso rumeno, qualcosa che può prepotentemente decidere se la nostra storia deve continuare.

Nel ripercorrere l’operato di Cristo, nel tracciare i sentieri della storia secondo le mappe evangeliche recuperiamo il valore dell’altro, una cultura del servizio doveroso a beneficio di altri. Un filosofo contemporaneo, non a sproposito, ha parlato – come recita il titolo di una sua opera - di le crépuscule du devoir: il senso del dovere è al crepuscolo.
Quelli che chiama, nel sottotitolo del saggio, i nouveaux temps démocratiques, i nuovi tempi della democrazia, hanno dato vita a ciò che Lipovetski, è lui l’autore al quale facciamo riferimento, chiama l’éthique indolore, l’etica indolore. Non sentiamo più il pungolo del dovere verso l’altro e, dunque, ci adagiamo in un egoismo che anestetizza il dolore che dovremmo provare davanti all’indigenza degli altri. Il senso del dovere declina e l’etica, ad un soggetto deresponsabilizzato ed insensibile, non procura dolorosi dilemmi. Viviamo, allora, un’epoca che, dice Lipovetski, è riuscita ad “atrofizzare nelle coscienze stesse l’autorità dell’ideale altruistico”; ha saputo “decolpevolizzare l’egocentrismo” finendo col “legittimare il diritto di vivere per se stessi” [13]. 
L’uomo deve lavorare alacremente a costruirsi in una prospettiva di complessiva umanizzazione della realtà e, perciò, non può non iniziare da se stesso. Significativa, in tal senso, l’esperienza di Saint – Denys Garneau (pseudonimo di Hector Garneau). Era un mistico del ‘nostro tempo’. Nacque a Montreal (Canada) nel 1912 e, dopo aver scritto alcune opere (poesie e prose), lasciò questo mondo a soli trentuno anni. Il suo cuore si ammalò quando era appena sedicenne.
Tenne un diario, confessò, per conoscersi meglio e perfezionarsi nell’ordine morale ed intellettuale. Il suo nutrimento, per questa ‘doppia crescita’, fu la fede cristiana. Un modo, dunque, per rendere ‘concreta’, ‘operativa’ la sua credenza. Iniziò laddove molti disertano: dal comprendere in quale humus (culturale, religioso, politico…) si radicasse chi vive nel mondo contemporaneo. A Westmount, il 2 ottobre 1932, annotava:

“L’anima moderna è molto raffinata e acuta, soprattutto è molto complessa”.

Le risposte di un tempo sono di nuovo domande e “le soluzioni sono insufficienti” ed i “problemi angoscianti” [14]. A ben guardare, le parole di Lipovetski sono come l’anima moderna: acute, ma incapaci di non rinnovarsi se non in maniera vanamente interrogativa ed incapaci di offrire soluzioni.
In questa atmosfera pesante, inquietante e disperatamente inter rogativa, si cala l’insegnamento del giovane mistico canadese: dobbiamo scegliere!
Si chiedeva (indirettamente chiedeva a noi):

“Avrò il coraggio di cominciare da domani a lavorare efficacemente alla mia salvezza (…)? (…) È impossibile non decidermi”.

Alla fine si risolveva nell’andare a Dio:

“Ora che non posso più passare dall’una all’altra parte, si tratta di avanzare risolutamente verso l’unica possibile” (cit. pp. 41 – 42).

Tutti noi dobbiamo inquadrare la scelta di Dio come una presa di posizione concreta ed una decisione non più rimandabile. Garneau sottolinea come la sua decisione derivasse dall’avere ormai chiaro che, operare scelte in materia di fede, ne va della vita; perciò, essa è quanto di più reale ci sia:

“La fede è sempre reale (…). ‘Ti credo’, movimento sintetico che ammette una realtà al di là di ciò che è compreso, spiegato, in virtù di una adesione alla verità, alla realtà di un essere” (p. 43).

Ora è il momento giusto per ricordare che concreto significa con – cresco, crescere insieme. Quanto più Dio ‘cresce in noi’ (ne diveniamo consapevoli), tanto più noi ‘cresciamo’ e lo possiamo fare, insistiamo, solo con Lui! Chi non crede, diceva il giovane mistico, è l’indifferente, non lo scettico che non si spinge al limite estremo della sua ragione di non credere.
L’uomo, oggi, è indifferente più che scettico nei confronti della fede: un tempo, il dubbio era ricerca appassionata e negazione infuocata del Trascendente; ormai, la questione semplicemente ‘non ci interessa’ perché ritenuta sganciata dalla concretezza del vivere. La fede, diceva Garneau, è impegno ed è l’indifferente a vivere da cronico disimpegnato:

“La fede, la speranza e la carità potrebbero essere distinte, ma di fatto sono una sola cosa, uno stesso movimento che consiste nell’impegnarsi. Sono realtà che si provano, si vivono; non si pensano” (Ibidem).

Se la carità è la prassi della fede che fa sperare e credere, se – inoltre – carità è sinonimo di fede, risulta che una dinamicità concreta la costituisce. Le realtà della fede (diverse e pur profondamente intrecciate) sfociano nella prova, nella vita; sono, potremmo dire col termine abusato nella nostra riflessione, concrete.

Il grande statista e sacerdote siciliano Luigi Sturzo visse, nel primo dopoguerra, le lotte intestine, di stampo ideologico, che divisero i partiti e causarono la crisi dello Stato liberale. Non poteva non intervenire in prima persona per mostrare come i valori cristiani, sottesi e motivanti il suo impegno politico, avessero reale incidenza nella cosa pubblica. Non giustificava quanti, in nome della purezza del dettato cristiano, si tenevano lontani dalla politica ritenendola sporca e degradante. Definiva quelli che (anche per giustificare la loro pigrizia o codardia) pensavano in tal modo, cristianelli annacquati e ribadiva che, di per sé, la politica è un bene: è, aggiungeva, “un atto di amore per la collettività” poiché “l’amore del prossimo in politica deve stare di casa” [15]. L’amore del prossimo – precetto eminentemente cristiano – può e deve trovare diritto di cittadinanza, assumere concretezza, nella politica. Avere una formazione cristiana e non travasarla, come succo vitalizzante e apportatore di senso, nel terreno malato della politica, della democrazia, significa – per riprendere una nota parabola evangelica – sciupare i talenti affidatici. Ne dovremo rendere conto.
Don Sturzo è di una chiarezza adamantina riguardo all’argomento:

“Se la democrazia moderna ha delle grosse tare, la colpa va direttamente a coloro che, pur vedendole, non si sforzano di rimediarvi. In prima fila metto coloro che hanno le convinzioni cristiane (e quindi morali) e se le tengono ben conservate nel cervello o nell’ambito delle loro case, come il servo del Vangelo che ebbe un talento e l’andò a nascondere per paura di perderlo: il Signore lo chiamò serve nequam, servo cattivo” [16].

Affrontare i temi politici scottanti del proprio tempo significa sempre personalizzare e storicizzare il proprio credo cristiano; rendere concretamente operante il Vangelo negli ambiti delle realtà terrestri. Il sacerdote/statista, infatti, indica i luoghi concreti nei quali rendere operativa la nostra riflessione cristiana:

“che debbo io fare oggi per la famiglia, per la classe, per la città, per il Paese, per la cultura, per la scuola, per la Chiesa? Qual è il mio dovere? Che cosa mi dice il cuore? Che cosa mi insegna Gesù? L’oggi è vita, è lavoro, è combattimento, è sacrificio: coraggio, piccolo gregge, a voi è dato il regno; perché ogni buona azione ogni atto di dovere, ogni buona parola è il tesoro con il quale si compra il regno dei cieli” [17].

Sturzo, ad ogni buon conto, non tralasciò una chiarificazione fondamentale soprattutto riguardo ai laici:
il proprio credo religioso, per riprendere quanto in A Diogneto si asseriva in riferimento ai cristiani, deve essere nel mondo, nella politica, non del mondo, della politica. La fede come lievito nella pasta del concreto e non come ostaggio.
Scriveva il nostro autore:

“noi solo vogliamo che la religione non venga compromessa nelle agitazioni politiche e ire di parte. Però nel campo delle attività pubbliche, imiteremo i primi cristiani, che portavano il Vangelo nascosto sul petto, e alimentavano alla santa parola la loro fede, mentre come cittadini invadevano i fori e la curia e gli eserciti e i campi e fin nelle officine degli schiavi, per poi al momento opportuno parlare avanti ai presidi e ai re le parole dello Spirito Santo”.

Queste parole venivano pronunciate il 17 dicembre 1918, a Roma, in presenza di amici che si apprestavano a stilare il programma e lo Statuto del futuro Partito Popolare. Non sono forse ancora valide, dopo che il Concilio Vaticano II ha fornito chiare direttive su come rendere concreta la propria appartenenza alla Chiesa cattolica? Don Sturzo riprendeva la figura mitologica di Anteo che, in un combattimento, più veniva sbattuto in terra e più acquistava forza; intendeva dire, cioè, che più si è radicati nel mondo e più si rafforza la fede del cristiano:

“come Anteo toccando la terra centuplicava le sue forze nella lotta titanica, noi centuplicheremo la nostra attività politica, rifacendo il nostro partito agli ideali e alle attività religiose dell’azione cattolica”.

Togliere quello che il sacerdote/statista definiva il senso del divino dall’agenda delle questioni politiche, dei temi fondamentali riguardo alla vita civile, indebolisce e il messaggio cristiano e le proposte politiche che, lasciate a se stesse, si sfiniscono in giostre di litigiosa verbosità e finiscono col mummificarsi in ideali sempre più lontani dalla vita delle persone o, nel peggiore dei casi, incidenti in maniera cruenta, sfigurante sull’humanum. Ecco le parole (ma sarebbe bene conoscere integralmente il pensiero sempre attuale di Sturzo) che potrei eleggere a testamento spirituale di questo genio del cristianesimo contemporaneo:

“La missione del cattolico in ogni attività umana, politica, economica, scientifica, artistica, tecnica, è tutta impregnata di ideali superiori, perché in tutto ci si riflette il divino. Se questo senso del divino manca, tutto si deturpa: la politica diviene mezzo di arricchi mento, l’economia arriva al furto e alla truffa, la scienza si applica ai forni di Dachau, la filosofia al materialismo e al marxismo; l’arte decade al meretricio” [18]-  

Il sacerdote e psicoterapeuta Alessandro Manenti ha scritto che, nei trattamenti psicoterapeutici effettuati, gli è parso evidente che i cristiani patiscono la sensazione dell’imbuto. I suoi pazienti che si professano cristiani, infatti, quando vengono toccate le radici inconsce della loro adesione al messaggio, vengono presi dalla sensazione che il cristianesimo sia una forza restrittiva nei confronti dell’agire, della libertà. “Rimane, in fondo in fondo, la paura di perdere qualcosa (…): non ci si può più permettere certe licenze” e si teme di trasformarsi in bigotti o “almeno, si ha paura che gli altri lo pensino” [19].
Ci si sente come in un imbuto: prigionieri di un credo letto come imposizione a rinunciare a delle cose, piuttosto che come scelta concretamente affacciante su un modo altro di vivere. Garneau, abbiamo visto, coglieva nella scelta di Dio una decisione nella quale giocarsi il senso della vita, non – come nel caso dei soggetti analizzati da Manenti – un pericolo per la propria immagine sociale. Da questa preoccupazione, onestamente di piccolo cabotaggio, origina ciò che Manenti inquadra come il complesso della testa fasciata. È tipico di quei cristiani “che fanno di tutto per non apparire ciò che loro temono di essere e di apparire” e questo perché si dice che i cristiani sono paurosi, adulti mancati facendo di questo giudizio una equazione inconscia.
Insomma: prima che ci rompano la testa, per paura che ciò accada, ce la fasciamo. Troppo facilmente cediamo al giudizio di chi tende a considerare chi ha fede come un uomo mutilato, un bimbo che si rifiuta di sperimentare qualcosa che, per comodità, si pone sotto l’etichetta di ‘peccato’. Si tratta, se vogliamo essere cristiani maturi, traducendo nella concretezza del vivere il messaggio della fede cristiana, di superare il complesso della testa fasciata e di annientare la sensazione dell’imbuto. Come diceva il giovane credente canadese:
scegliere se stare dalla parte di Dio è necessario ed è sensato perché la fede è reale.

Maurizio Ferraris ci rimprovera che, quando affermiamo di credere in Dio, lasciamo pensare a quel dio ignoto al quale gli Ateniesi avevano eretto un altare e del quale riferisce Paolo, in palese difficoltà ad annunciare il Dio ebreo – cristiano al mondo ellenico. Si tratta, suggerisce il filosofo, di chiedersi seriamente in che cosa crede chi crede? Evitare questa domanda, soggiornare in una vaga atmosfera religiosa, non è cristiano, non è nemmeno concreto per un pensare che voglia declinarsi in ambito teologico. D’altro canto, precisa, Voi chi dite che io sia? – è la “domanda continuamente rilanciata da Cristo ai discepoli” [20].
Se questioni come quelle della ‘natura di Dio’, o quelle inerenti a cosa sarà di noi dopo la morte, ed altre domande fondamentali e fondanti della fede vengono eluse, che resta del nostro dirci cristiani?
Ferraris chiede: non sono conosciute perché non interessano? – non interessano perché non sono credute? Troppo poco fare della religione una ‘guida morale’; anzi, il messaggio cristiano spesso comporta addirittura il capovolgimento della morale corrente. Con ironia intelligente, il filosofo italiano chiede: ci sarebbe, oggi, un giudice tutelare che esiterebbe a togliere ad Abramo la patria potestà se sapesse che Egli non uccide il figlio solo grazie all’intervento di un angelo?
Qui in gioco è (come pure Kierkegaard notava) non la morale, bensì la fede.
Ferraris incalza: “Quanti, oggi, sarebbero disposti a credere che Cristo è veramente risorto? Che cioè la risurrezione è un fatto fisico, come le meteore e gli equinozi” e nel quale si gioca la nostra salvezza? (p. 46).
Chi, detto con parole nostre, crede che sia un ‘fatto’, qualcosa di ‘concreto’ la Risurrezione? Quanto Paolo (il quale considerava centrali nella sua teologia ‘Crocifissione’ e ‘Resurrezione’) riteneva essere elementi irrinunciabili di una autentica cristologia, a noi pare marginale, se non inessenziale. Per il nuovo credente, argomenta il filosofo, quanto era costituivo indiscutibile del cristianesimo non è credibile “se non in termini allegorici, cioè narrativi. Quello che conta non sono i fatti, bensì le interpretazioni” che sostengono sia inutile interrogarsi sulla Risurrezione; utile, piuttosto, è considerare il messaggio di Cristo perché è “pieno di tolleranza” (p. 71).
Togliere la dimensione verticale, lo sbocco Trascendente al fatto religioso, non è renderlo concreto: equivale soltanto a fare del cristianesimo ciò che non è e non può essere. Se per i credenti contava (ed incideva tale credenza concretamente nelle loro vite) sopra ogni cosa il Cristo risorto, per molti nuovi credenti vale il “Cristo che si è fatto carne dimenticandosi di essere Dio (…): l’importante è la kenosi (…), l’umiliazione” (p. 73).
Se l’aspetto etico della Rivelazione viene confuso con il tutto della Rivelazione cade l’intero impianto della fede cristiana: un Dio che si fa uomo, muore, ma non riscatta l’uomo dal limite insuperabile umanamente della morte, che senso ha per noi?

Il fondatore della logoterapia, diceva: io agisco non soltanto in conformità con ciò che sono, ma io divento anche in conformità a come opero [21]. Se – come recita l’antico assioma Scolastico – operare sequitur esse  (l’agire consegue dall’essere), pur vero è che l’agire, la prassi ci fa diventare ciò che siamo. Traduciamo tutto in ambito teologico e leggiamo la frase di Frankl con occhi di credenti. Se sono (consapevolmente) cristiano, agirò conformandomi alla mia identità; d’altro canto, se, oltre ad essere e pensare da cristiano, agisco, opero in quanto tale, lo divento. Agisco come sono e divento come agisco. Il senso è chiaro: c’è sempre l’elemento prassi nella costruzione, difesa ed ampliamento della mia identità (in questo caso, quella cristiana). Un percorso di fede, dunque, per quanto lo si voglia definire ‘pensato’, non può non ammettere un lato pratico, pur – sempre bene è precisarlo – senza esaurirsi nello sviluppo unilaterale di esso. Tutto questo è possibile, però, se il nucleo della nostra fede, come suggerisce Ferraris, rimane non toccato dal tarlo dell’usura temporale; cioè, se quel nucleo rimane problematicamente acceso e ci provoca ancora ad una vita di fede intensa, con interrogazioni vivificanti noi ed il messaggio cristiano stesso.
Tra gli scritti di Hegel figura una affermazione che ci può dire qualcosa in proposito:

“In Svevia si dice riguardo a qualcosa accaduto molto tempo fa: è così lontano che presto non sarà più vera” [22].

Gli eventi cristiani fondamentali (crocifissione/ morte/ risur rezione) sono cronologicamente assai lontani da noi:
finiranno, per questo, col non essere più veri? Il fatto è che l’evento Cristo interessa la kairologia, non la cronologia: non il tempo quantitativo, bensì il tempo nuovo nel quale Dio entra nella storia. Si tratta di qualcosa di udito e che non rinuncia a mostrarsi come inaudito. Da quanto il cielo è divenuto, per noi cristiani, il luogo nel quale il Figlio di Dio si è recato per prepararci una dimora accanto al Padre, è farsi solo del male parlarne alla stregua di un personaggio di Louis Ferdinand Céline: le ciel comme un couvercle noir.
Il cielo non è affatto come un coperchio nero. Non chiude e non oscura: è, piuttosto, la nostra vera Patria. Non si tratta di fumo metafisico, di un delirio da disperati. Non si vive allo stesso modo se si guarda al cielo con occhi cristiani o se si alza lo sguardo ad esso certi di non poter scorgere che un covercle noir. Cambia concretamente qualcosa (se non tutto) per chi educa lo sguardo in maniera cristiana.

Dio si storicizza in Cristo e, così, possiamo dire:

“Dio proviene da Dio, ma non vuole venire a sé senza di noi. Dio viene a Dio, ma con l’uomo. Perciò appartiene già alla divinità di Dio anche la sua umanità. Questo è ciò che la teologia deve finalmente imparare” [23].

Se Dio stesso non ha rinunciato ad assumere la nostra carne, alla   concretezza dei fenomeni, perché noi, per radicarci nel Fondamen to, dovremmo agire diversamente?
In Cristo è inequivocabile: Dio viene a Dio, ma con l’uomo. A modificarsi è soltanto la riflessione su tutto questo, ma il nucleo intoccabile, irrinunciabile della nostra fede è stato ora espresso.
La teologia, pur dovendo fare i conti (per meglio comunicare il Depositum fidei) con linguaggi e saperi del tempo nel quale opera, non deve dimenticare quanto è inamovibile dall’agenda delle sue preoccupazioni.
È stato detto:

“La teologia è una scienza in cammino, come tutte le altre (…) e (…) possiede la nota della ‘falsificabilità’ (…) le teorie o i sistemi teologici sono sempre soggetti a revisioni e sostituzioni da parte di nuovi sistemi più adeguati e coerenti con la parola di Dio (…). Non esiste una ‘theologia perennis’, a meno che con questo termine non si vogliano intendere i postulati di fede, sottesi ad ogni riflessione teologica” [24].

La teologia può e deve dialogare con la cultura, confrontarsi con i modi nuovi di dire la fede per salvare la propria scientificità e per non perdere il contatto (vitale) con la realtà, con quanto è concreto; tuttavia, se non si vuole snaturare definitivamente il nucleo vitale del cristianesimo, occorre mantenere intatti i postulati di fede che sottendono la riflessione teologica. Sottolineando con forza il legame che i teologi devono mantenere con la realtà, Groppo, conclude:

“la teologia oltre ad occuparsi di Dio, deve occuparsi dell’uomo e dei suoi problemi” (cit. p. 792).

Il punto fermo, però, è sempre quello di credere che già nella proposta cristiana siano le ragioni sufficienti per l’aggancio saldo, inossidabile, del Trascendente all’immanente.
Kant riteneva, ad esempio, che pensare la Trinità fosse lavoro ininfluente per la realtà umana; invece, un teologo, ha ritenuto di dover mostrare che credere nel Dio – trinitario fornisce una concezione ‘altra’ della realtà. Cade, in primo luogo, la centralità dell’unità della sostanza dell’essere-in-sé/essere-per-sé, né si ren de protagonista l’essere collettivo cancellando le distinzioni. Accade, invece, che “alla luce del Dio uni – trino il mondo relazionale della persona” diviene il “paradigma decisivo” per interpretare correttamente e ben abitare la realtà che, ora, mostra quale sua “essenza più profonda” l’essere-in-relazione.
Il teologo tira le somme del suo argomento in termini apodittici:

“La realtà più alta e vera sia nel campo creaturale e più ancora nel campo divino è l’essere-insieme gli uni con gli altri” [25].  

Il profeta Geremia lamentava che Israele aveva rinunciato alla fonte di acqua viva per mettersi a scavare cisterne screpolate inadatte, perciò, a contenere l’acqua (Ger 2, 13).
Tutta la storia – specialmente quella contemporanea – ha preferito costruire le cisterne screpolate delle ideologie, piuttosto che abbeverarsi alla Fonte della Parola.
Il Depositum fidei è stato apparentato alla metafisica e, attraverso l’ateismo semantico che ritiene priva di significato la parola Dio, lo si è relegato tra gli attrezzi inservibili per costruire la storia. Sappiamo bene come è finita, se uno studioso come Fukuyama ha potuto addirittura parlare di fine della storia. Aveva ragione Turoldo, citato ad esergo di questo saggio:
essersi sbagliati su Dio è stata una tragedia per tutti. Dio vuole venire nel mondo, ma non da intruso: ha bisogno che, come ricorda l’Apocalisse, al Suo bussare – fatto di attesa carica di pathos – corrisponda il nostro aprire gioioso e consapevole. L’uomo, però, è troppo occupato a fare il dio per prestare attenzione all’autentico Trascendente. Lo studioso tunisino Alì Mezghani parlò, in una conferenza tenuta a Monastir (Tunisia), della secolarizzazione (il suo intervento venne riportato da “Le Monde”, 20 aprile 1993).
A suo dire, l’uomo, da soggetto a Dio, “sottomesso alla fede”, passa ad essere soggetto di diritto, sottomettendosi alla ‘legge umana’. Il progetto di Feuerbach, rovesciare la teologia in antropologia, è riuscito, ma l’esito non è mai stato quello sperato. In fondo, il mondo moderno è

“sempre più imbevuto del riferimento al Soggetto (…) che pone come principio del bene il controllo che l’individuo esercita sulle sue azioni e la sua situazione (…). Il Soggetto è la volontà di un individuo di agire e di essere riconosciuto come unico attore” [26].

Qualcuno disse, riferendosi all’ateismo dominante in Russia, che un Paese nel quale KGB si scrive con la maiuscola e Dio con la minuscola, non ha un grande futuro.
Il fatto è che l’uomo non ha la necessaria pazienza per attendere che la proposta cristiana, che richiede una lenta pedagogia divina, mostri, man mano che la storia procede, la propria concretezza, la sua indubbia validità per la nostra sorte. Siamo ansiosi, pieni di preoccupazioni per il presente e non possiamo accettare si diano verità non immediatamente comprensibili e subitamente realizzate.
Il già citato Alessandro Manenti, richiama uno studio di Polster nel quale risalta l’espressione mentalità digitale per indicare l’abitudine, tutta moderna e postmoderna, di pensare la vita al presente. L’orologio digitale, per Polster, assurge a simbolo ‘particolarmente appropriato’ di un ‘presente isolato’.Esso, infatti, segna soltanto l’ora presente; è l’unica che su tal genere di orologio ci è dato leggere.
L’ora data, insomma, è al di fuori di ogni contesto:
non c’è un prima ed un dopo con i quali relazionarla.
Manenti spiega l’immagine di Polster:

“Sui vecchi campanili potevamo vedere il quadrante dell’orologio e riconoscere l’ora presente nel contes to della scansione del tempo fra un prima e un dopo. Nelle torri moderne, c’è l’ora digitale che indica il presente isolato e l’ora segnata è l’unica che si possa vedere, avulsa dal continuo in movimento” [27].

La verità cristiana ha bisogno di contestualizzarsi e concretizzarsi in una lunga e lenta progressione temporale. La Verità è fondame ntalmente e necessariamente intrecciata (solo a questa condizione esiste per noi) alla scansione temporale. Conclude Manenti:

“il celarsi del senso totale non è un dispetto ma un rispetto dei nostri tempi di assimilazione” (cit p. 115).

La Verità, inoltre, certo non si può realizzare, concretizzare se non nella scansione temporale, ma esige che noi si sia attori consapevoli nell’inserirla nella trama del mondo. Vorrei, perciò, rivolgere a noi tutti un invito la cui paternità appartiene al fondatore dell’Opus Dei:

“la tua vita non sia una vita sterile. Sii utile. Lascia traccia. Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore. Cancella con la tua vita di apostolo, l’impronta viscida e sudicia che i seminatori impuri dell’odio hanno lasciato (…) incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore” [28].  




CONCLUSIONE

Come entra concretamente Cristo in una vita?

Per concludere e rispondere a questo difficile quesito, non trovo di meglio che riportare l’esperienza (cosa è la fede se non esperienza?) di Richard Wurmbrand.
A molti questo nome dice nulla.
Era un pastore evangelico che ha patito ben più di 14 anni di carcere, di torture in Romania quando venne occupata dai russi nel 1945.
Le chiese, secondo gli sciagurati propositi degli invasori, dovevano piegarsi alla loro causa, ma Richard iniziò un ministero clandestino presso il suo popolo.
Venne arrestato nel 1948 con la moglie Sabina e, da qui, iniziò un percorso che, senza difficoltà, possiamo definire un prolungamen to nel proprio corpo e nell’anima, della Passione di Cristo.
Non posso, ovviamente, cedere alla pur forte tentazione di slargare il discorso su di lui quasi a rasentare una biografia. Racconto solo un episodio nel quale si assiste a come, mettendo fortemente in risalto la concretezza della figura di Cristo, riuscì ad accendere il cuore di un ufficiale russo facendolo innamorare della bellezza cristiana.
Un suo amico, un prete ortodosso, gli inviò, lui che parlava russo, un ufficiale invasore che voleva confessarsi.
Questi, pur aperto in qualche modo a Dio, mai aveva visto una Bibbia.
Sarà l’incontro con Wurmbrand l’impatto salutare, salvifico con una Bibbia vivente.
Quell’ufficiale “amava Dio senza possederne la minima conoscen za” [29].
Attingendo alle labbra del pastore evangelico il Sermone sul mon te, alcune parabole evangeliche, gioiosamente l’ufficiale russo si mise a danzare per la stanza.
Confessa Richard:

“Era la prima volta che avevo visto qualcuno rallegrarsi per Cristo con una tale manifestazione di gioia”.

Poi, continua, “commisi un errore”.
Anticipando di molto i tempi, parlò al neofita della crocifissione. Interpretata come la sconfitta del Salvatore, scatenò nel neofita russo tristezza e pianto.
Era talmente forte l’afflizione dell’ospite, che il pastore evangeli co, non poté non ammettere:

“mi vergognavo d’essermi chiamato cristiano (…). Io stesso non avevo mai partecipato così alle sofferenze di Cristo” (p. 19).

Quando comunicare la fede si configura in una relazione vera con l’altro, si insegna e si impara allo stesso tempo.
La fede la si approfondisce davvero solo esprimendola ad altri come qualcosa per la quale e nella quale ne va della vita.
Richard passò, poi, al racconto della Risurrezione.
Di nuovo l’ufficiale russo si mise a saltare, colmo di gioia, per la stanza:
il suo Dio non era definitivamente morto.
Il pastore evangelico, dopo avergli fatto sperimentare concretam ente, affettivamente le principali vicende di Gesù, invitò a pregare il suo ospite:

“Non conosceva le nostre frasi pie. Insieme a me cadde in ginocchio e la sua preghiera fu questa: ‘O, Dio, che buon tipo sei! Se io fossi te e tu fossi me, io non ti avrei mai perdonato i tuoi peccati. Ma tu sei un tipo veramente eccezionale. E ti amo con tutto il cuore’. Io credo che tutti gli angeli del cielo, in quel momento, si siano fermati per ascoltare questa sublime preghiera di un ufficiale russo. L’uomo era stato guadagnato a Cristo” (pp. 19 – 20).

Soltanto quando il rapporto a Cristo diviene vita in noi, un concreto/esistenziale aderire alla Sua Parola, alla Sua Persona, si guadagna un uomo a Dio.
Wurmbrand fu martire e testimone clandestino del Vangelo, insegnandoci che i semi del Verbo non cadono mai invano sul terreno della storia reso fertile di possibilità salvifiche proprio dal sangue versato dal Figlio di Dio.
Continuare in noi la Passione di Cristo, mostrare che siamo certi e gioiosi della Sua Gloria significa guadagnare il mondo e l’uomo a Dio perché, come diceva il compianto poeta e sacerdote Turoldo, sbagliarsi su di Lui è sfigurare mondo e creature; da un sano, corretto e concreto rapporto con Lui, invece, il mondo e gli uomini escono Trasfigurati.                           


[1] id, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo 1988, p. 236.
[2] jesús urteaga loidi, Il valore divino dell’uomo, Milano 2007, p. 13.
[3] Cfr., id, Diario di un dolore, Milano 1990, p. 31.
[4] Decreto “Apostolicam Actuositatem”, sull’Apostolato dei laici (18.11.1965), n. 6.
[5] Cfr., a. paoli, ‘Gettati nel mondo’, in “Rocca”, 10 (2006), p. 52.
[6] conferenza episcopale italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (29. 6. 2001), n. 34, n. 35.
[7] m eliade, La prova del labirinto. Intervista con Claude – Henri Rocquet, Milano 2002, p. 113.
[8] Intervista del 27 giugno 1976, col titolo ‘Perché La Pira’, in g. la pira, Il fondamento e il progetto di ogni speranza, a cura di c. alpigianolamionip. andreoli, Roma 1992, p. 387.
[9] id, L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano 1974, p. 88.
[10] id, Riflessioni cristiane, Milano 1997, p. 107.
[11] Cfr., giovanni paolo ii, Memoria e identità, Milano 2005, pp. 146 – 147. Per questo non è bene ignorare le radici cristiane dell’Europa. Quando il regnante Pontefice Benedetto XVI era ancora cardinale, a Subiaco, presso il Monastero di Santa Scolastica, ottenne il Premio San Benedetto. Motivazione: per la promozione della vita e della famiglia in Europa. L’allora cardinale Ratzinger, era il 1° aprile del 2005, salutò i convenuti con una conferenza nella quale disse che se la “menzione delle radici cristiane dell’Europa” – a detta di molti – può ferire i sentimenti dei non – cristiani, siamo di fronte ad una polemica inefficace; infatti, la tesi è “poco convincente visto che si tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può seriamente negare”.
[12] Citazione in teresa osório gonçalves, In attesa di una nuova era. I percorsi alternativi della religiosità, Roma 2007, p. 111.
[13] Cfr., g. lipovetski, Le crépuscule du devoir. L’éthique indolore des nouveaux temps démocratiques, Paris 1992, p. 151.
[14] Cfr., saint denys Garneau, Catena di fuoco, Milano 1999, p. 7.
[15] l. sturzo, La vera vita, Bologna 1960, p. 247.
[16] Cfr., id, Politica e morale (1938) – Coscienza e politica (1953), Bologna 1972, p. 369.
[17] id, La Dc al bivio, Napoli 1958, p. 77.
[18] Messaggio al Circolo di Cultura “Luigi Sturzo”, “Il Popolo”, 16 dicembre 1956, ora in id, Politica di questi anni (1946 – 1956), 5 voll., Bologna 1954 – 1968, (1954 – 1956), p. 383.
[19] a. manenti, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio/1, Bologna 2002, p. 159.
[20] Cfr., m. ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede, Milano 2006, p. 17.
[21] Cfr., v. e. frankl, Logoterapia e medicina dell’anima, Milano 2001, p. 96.
[22] Cit in j. hoffmeister, Dokument zu Hegels Entwicklung, Stuttgart – Bad Connstatt 1974, p. 358.
[23] Cfr., e. jüngel, Dio mistero del mondo, Brescia 1982, p. 58.
[24] g. groppo, “Psicologia e teologia. Modelli di rapporto”, in Orientamenti pedagogici 27 (1980), p. 791.
[25] g. greshake, La fede nel Dio trinitario. Una chiave per comprendere, Brescia 1999, p. 34. L’ontologia trinitaria, essendo intrinsecamente relazionale, va assunta come modello per costruire anche una etica sociale incardinata sulla categoria relazione. Il fine, però, è sempre soprannaturale. L’uomo cammina sulle strade della storia per incontrare, nel tempo escatologico, Dio. Siamo nel già e non ancora. Come scrisse Agostino nel Sermone 4, 1: “il cristiano cammina nella speranza, sperando ciò che ancora non possiede, credendo ciò che ancora non vede, amando ciò a cui non è ancora completamente unito. Ora, l’esercizio dell’anima nella fede, nella speranza, nella carità, lo rende idoneo a ricevere ciò che verrà”.
[26] Cfr., a. touraine, Critica della modernità, Milano 1993, p. 267.
[27] e. polster, Ogni vita merita un romanzo; quando raccontarsi è terapia, Roma 1988; cit in a. manenti, Vivere gli ideali/2. Fra senso posto e senso dato, Bologna 2003, pp. 118; 207 – 208.
[28] josemaría escrivá de balaguer, Cammino, Milano 1979, n. 1.
[29] Cfr., r. wurmbrand, Torturato per Cristo. Una relazione delle sofferenze e la testimonianza della Chiesa Clandestina nei paesi dietro la cortina di ferro, editrice Uomini Nuovi, Marchirolo (Varese), 1977, p. 18.

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