Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

L'uomo secolare e la Fede

Ma dove ritrovarla quando è persa
quella fede umile che un angelo ci pose
come palma sulla culla
e una madre nutrì con zelo immenso (…)
Può rifiorire dove è passato l’uragano?
(ch. a. de saint – beuve)

INTRODUZIONE


Il sacerdote e scrittore Henri J. M. Nouwen scrisse un libro per alcuni amici e, in particolare, rivolgendosi a Fred, un amico ebreo (Sentirsi amati. La vita spirituale in un mondo secolare, Brescia 2005, pp. 115 – 122). Venne sollecitato a dire parole sullo Spirito che potessero intendere anche gli uomini secolari. Il libro, tuttavia, non ridusse le distanze tra Henri e Fred perché, secondo l’amico ebreo, l’autore aveva scritto sempre e comunque per i ‘convertiti’. Nouwen riconobbe di essersi comportato, parlando di fede, “come chi è così eccitato dall’arte della navigazione che dimentica che i suoi uditori non hanno mai visto né laghi, né il mare, per non parlare delle barche a vela!”. Fred pensava che, prima di dirgli ‘Tu sei l’Amato’, Henri avrebbe dovuto rispondere a queste domande: Chi è Dio? Perché sono qui? Come dare un senso alla mia vita? Come avere fede? Nouwen era consapevole di non essere “entrato nella mentalità ‘secolare’”. Il problema – aggiunse – non consisteva più nell’ “esprimere il mistero di Dio a persone che non sono abituate al linguaggio tradizionale della Chiesa o della Sinagoga”, bensì, era decisivo stabilire “se c’è qualcosa nel nostro mondo che possiamo chiamare ‘sacro’”. In fondo, non poteva che attingere dalla sua ‘esperienza quotidiana’ e parlare della fede solo a partire da un per me. Queste certezze sottratte all’autocritica, gli facevano sperimentare “una radicale resistenza a dimostrare alcunché a chiunque”.  L’aver fede per Nouwen era scontato e Fred, rinfacciandoglielo, l’aveva sfidato a ripensare quanto fosse poco solidale col mondo secolare! Henri, alla fine, riconobbe di appartenere, suo malgrado, a questo mondo e si convinse che la grande sfida consistesse “nell’avere tanta fiducia nell’amore di Dio da non aver paura di (…) parlare di fede” ai contemporanei. Le differenze si superano felicemente quando ‘sacro’ e ‘secolare’ si assumono “come aspetti dell’esperienza di ogni essere umano”. Occorre, pertanto, abbandonare il ruolo di “apologista dell’esistenza di Dio e del significato religioso della vita…”.
Le critiche di Fred, ammette Nouwen, gli avevano suggerito come parlare a chi è distante dalla fede cristiana: “È il mistero di Dio che si serve dei suoi amici ‘secolari’ per istruire i suoi discepoli”. Chi vuol parlare della fede preghi affinché Dio gli mandi un amico come Fred che l’interroghi sul senso del suo credere per renderlo più accorto nello scegliere le parole ed i temi quando sa di rivolgersi all’uomo secolare. Bisogna, prima di assumere il ruolo di ‘apologista del mistero divino’, farsi compagno di strada dell’uomo secolare per mostrare che l’amore evangelico, in prima istanza, si intesse con il destino di chi ne è privo. Possiamo fare nostre le parole che Pavese appuntò ne Il mestiere di vivere: “Da uno che non è disposto a condividere con te il destino, non bisognerebbe accettare neppure una sigaretta”.
Il testimone della fede non prende mai alla leggera il compito di trovare parole parlanti e non parlate per avvicinare l’uomo secolare. Anche la filosofia impone di scegliere accuratamente cosa dire all’altro se si vuole comunicare in profondità. Socrate, nel Fedone 115e, infatti, dice a Critone: “Sappi (…)che non parlare con proprietà non è soltanto falso in sé, ma, in più, reca danno alle anime”.

Madeleine Delbrêl, evangelizzò ‘per strada’ gli emarginati della periferia parigina, e si confrontò a viso aperto con gli atei ed i marxisti che proponevano ai disagi economico – sociali soluzioni diverse. Invece di muovere all’attacco di chi non la pensava come lei, denunciò una sorta di naturalizzazione della ‘nostra’ fede che si confonde con una “determinata mentalità cristiana”. Il dono di Dio si converte in una sorta di “proprietà innata del cristiano”, un bene ereditario pacificamente acquisito. La fede nel Dio vivente si riduce a buon senso e le virtù evangeliche scadono a virtù dell’onest’uomo. Educare alla fede, poi, diviene un educare al culto, alle cerimonie: fede - forma orfana di sostanza. “L’espressione esterna, anche perfetta, della fede diventa estremamente fragile quando la fede che essa esprime è devitalizzata”. Si può andare, così attrezzati, al cuore dell’uomo secolare?
Non è più possibile annunciare la Buona Novella – scrive Madeleine – perché al Vangelo “ci siamo abituati, è una notizia vecchia”. Il problema, incalza, è che, non sapendo per noi stessi cosa significhi l’assenza di Dio, non possiamo sapere neppure cosa comporti tale mancanza nella vita altrui! Quando parliamo di Dio finiamo col parlare di un’idea.
Confusi apologisti di una credenza devitalizzata,“difendiamo Dio come nostra proprietà” invece di annunciarlo “come vita di ogni vita”. La Delbrêl è nata nel 1904 e, dunque, è vicina alla nostra sensibilità; dunque, vale molto per noi raccogliere il suo invito ad esercitarci in quello che definiva l’apprendistato della carità fraterna. Consiste nell’aver chiaro come insegnare le ‘ragioni della nostra fede’: “per i non credenti cui stiamo a fianco, questo insegnamento separato dall’annuncio di una vita (…)dove Dio esiste e che esiste per Dio, non può essere evangelizzazione; questo insegnamento ridotto a sé solo, rischia anche di sterilizzare presso i cristiani il germe dell’evangelizzazione”. La posizione di Madeleine, “una delle più grandi mistiche del XX secolo” (Cardinal Martini), fa comprendere, all’inizio del breve percorso che qui promuovo, che bisogna cominciare da se stessi a porre la questione della fede. Dobbiamo comprendere che evangelizzare è “prima di tutto dire qualcosa a qualcuno”. C’è qualcosa da dire e Qualcuno da annunciare! La Delbrêl chiude la frase appena riportata, aggiungendo: “Per ‘dire’, bisogna essere là”[1].
– per lei – indica la periferia parigina degli emarginati e dei comunisti atei; per noi, – la fetta di mondo da evangelizzare – è, in prima battuta, il mondo secolare dell’ uomo postmoderno al quale va ricordato, soprattutto testimoniato, che la fede non genera pesi che schiacciano, ma dona ali per salire a Dio col mondo nel cuore[2].      

La scienza ha dimostrato la propria efficacia sulla realtà acconciandola ad ‘oggetto di calcolo’. Il male è che un modello di lettura di una parte della realtà viene esteso in ambiti nei quali risulta incompetente, pretendendo di valere anche nelle scienze dello spirito. Nefasta è la conseguenza: “In questo modo sorge un riduzionismo metodologico che impedisce di cogliere la dimensione morale dell’uomo”[3]. Mai come oggi, a fronte di antropologie che si danno come velenosi affluenti della superbia umana, scopriamo di dover recuperare l’umiltà. Nel Magnificat di Luca troviamo il termine tapeinosis che non sgnifica soltanto ‘umile’, ma ‘povero, bisognoso di aiuto’: non va inteso in senso romantico o eminentemente spirituale. La povertà dell’uomo è, direi, multilivello.
La povertà più amara è quella non solo della mancanza di senso, ma nell’incapacità di avvertire questa mancanza. Ecco che bisogna interrogarsi sulle possibilità che ha il soggetto postmoderno di rinvenire nella fede il senso.
Una riflessione sulla fede, a mio avviso, risveglia la consapevolezza dell’assenza di senso. Se la teologia, come insegna Tommaso, procede ex auctoritate, fonda su un’ Autorità, che è Dio, pur vero è che si tratta di una autorità non invadente: interviene laddove la ragione incappa in un limite insuperabile al suo operare. La fede, invece di allargarsi in ambiti eterogenei come accade per i saperi specializzati, interviene laddove se ne riconosce la necessità:
“Dio stesso, Autorità suprema, non ricorre all’argomento d’autorità se non quando è strettamente necessario, cioè nel campo che supera le forze della ragione umana”[4].
La teologia riconosce i propri limiti, in quanto, sottolinea Cottier, opera con ‘concetti umani’ e “suppone la fede”. I teologi non possono essere certi di non commettere errori. Siamo di fronte ad un sapere “delle cose della fede”, perciò, si tratta di una conoscenza sproporzionata al suo Oggetto. Riconducendo il frutto della sua ricerca nei principi rivelati, la teologia si rivela una vera sapienza eccedente quella filosofica. La fede, continua Cottier, usa ‘mezzi formali’ e non garantisce una conoscenza sperimentale di Dio, bensì “mediata ed enigmatica”[5]. La fede, per il cristiano, scaturisce dall’adesione personale e totale ad una Persona. Non si tratta di apprendere dottrine o di studiare un fenomeno storico – sociale.
Cristianesimo, infatti, è un termine che compare, per la prima volta, nella Lettera ai Magnesi (II sec.)del Vescovo Ignazio di Antiochia: “Dato che ci siamo fatti suoi discepoli, impariamo a vivere secondo il cristianesimo”.
La fede ci ha reso discepoli di Cristo e, solo per questo, possiamo dirci cristiani. Non è una questione di conoscenza, ma di vita. Ignazio parla di ‘imparare a vivere’, non ‘ragionare’. Aver fede interessa, in primo luogo, la vita dell’uomo in ogni suo aspetto.
La vita di Gesù è un termine di paragone per ogni credente. Questo spinse un teologo del Novecento a dire che, nel Credo, dopo aver scritto ‘nato da Vergine Maria’, ‘si è fatto uomo’, occorrerebbe inserire il vissuto di Gesù con queste parole: fu battezzato da Giovanni Battista e riempito di Spirito santo: per annunciare ai poveri il Regno di Dio, guarire i malati, accogliere gli esclusi, risvegliare Israele alla sua condizione di luce delle genti e mostrare pietà a tutto il popolo. Modifica, questa, dettata dal fatto che il Credo passa direttamente dall’Incarnazione alla Passione omettendo le esperienze di Gesù[6].

Il filosofo Dietrich von Hildebrand coniò l’espressione credito di fede: è quello concesso alla persona amata, per cui la valutiamo positivamente oltre le sue reali attitudini. L’elemento di fede prolunga la linea della bellezza, la preziosità dell’amato per ogni livello della sua personalità, riconoscendo bellezza e valore a zone dell’altro incognite: gli si fa, appunto, credito. A questo, poi, “si accompagna la disponibilità a interpretare tutto nell’amato ‘verso l’alto’, a interpretare ogni cosa nella direzione positiva”[7]. Anche il credente vede nell’Altro amato, qualità che ancora non conosce.  Chi ha fede, non si limita a proclamare queste qualità attraverso formule dogmatiche, ma ne è convinto personalmente. Come dice Tommaso, l’atto del credente non si ferma all’enunciazione, ma va alla realtà.
Quanto, per fede, si dice dell’Altro non si rattrappisce nell’enunciazione di una formula, di una proposizione teologicamente valida, ma va alla realtà, che è Dio. Il credente ha una convinzione che un pensatore del Novecento così esprime: “Voler salvare un senso incondizionato senza Dio, è presuntuoso”[8].
Per il filosofo Nicola Abbagnano, la fede è “un atteggiamen to dell’uomo totale”: atto intellettuale, sentimentale, pratico. Col primo, si ha la credenza in una o più dottrine; col secondo, sentiamo di dipendere da qualcosa o qualcuno che ci è superiore; con il terzo, infine, agiamo nel mondo per trasformarlo. Atti, questi, che non dicono fino in fondo cos’è la fede, né questa è riducibile ad uno solo di essi. Abbagnano sostiene che la fede separata dal dubbio non sarebbe autentica, ma solo “impulso necessitante”. Talvolta, la fede viene paragonata ad un porto di pace.
Il filosofo obietta: ciò è vero solo per chi affronta le insidie del mare e fa i conti con le situazioni limite dell’esistenza. Che senso ha parlare di ‘porto di pace’ per chi mai ha navigato nelle burrasche della vita? Abbagnano precisa che la fede non sottrae alla finitudine, ai nostri compiti umani: “esclude e condanna (…)il disperdersi dell’uomo nelle possibilità inconcludenti e fittizie che gli si offrono a caso”[9]. Aver fede rende critici verso proposte ideologiche, politiche, economiche che offrono all’uomo solo nutrimenti terrestri (Gide)i quali non immettono il senso nella sua vita.
Chi decide per la fede,va verso l’eterno senza sottrarsi alla storia: ne diviene il critico partecipante, non il giudice protetto nella torre eburnea di un moralismo infecondo. Chi filosofa, considera la fede un ‘impegno esistenziale’ ed elegge la categoria della decisione; chi la considera in accezione religiosa privilegia quella dell’accettazione. L’uomo religioso considera la ‘decisione’ come “l’atto della grazia divina”: dono, gratuità. La ‘grazia’, per Abbagnano, non è ‘dono estrinseco’, ma agisce nella nostra volontà. L’atto divino di donarci la grazia, nella fede autentica, non prescinde dall’ accettarla liberamente.
Si legge nella Dignitatis humanae (10): l’“atto di fede è per sua stessa natura un atto libero”. L’uomo di fede non è soltanto qualcuno che attende qualcosa, ma anche uno dal quale si attende qualcosa; o, meglio, che testimoni Qualcuno: “Ciò che il mondo attende dal cristiano è anzitutto una presenza reale dell’amore della verità e dell’amore fraterno”[10]. Per innervare del proprio credo una ‘prassi di vita’, però, occorre prima stabilire perché amare Dio. L’uomo religioso stenta ad essere – a volte - uomo di fede.
L’uomo del primo tipo si rivolge al divino per puntellare deficienze ontologiche, tare psicologiche o, peggio, elegge la stampella divina a supporto dei suoi interessi politici, economici. Si fa agire Dio per fini ignobili e personali. L’uomo del secondo tipo, invece, lascia agire Dio secondo il Suo modo di essere. Questo è l’uomo spirituale: “La spiritualità nasce dall’intimo degli uomini, è la forza interiore che li spinge verso l’infinito, l’assoluto (…). La religione invece è un artefatto culturale (…). La differenza tra religione e spiritualità (o fede)è che mentre la prima nasce dagli uomini ed è diretta verso la divinità, la seconda nasce da Dio ed è rivolta agli uomini (…). Nella religione è sacro il Libro. Nella spiritualità è sacro l’uomo (Mc 2, 27). Nella religione è importante il sacrificio, nella spiritualità l’amore (…) (Mt 9, 13; 12, 7; Os 6, 6)”[11].
Ora sappiamo come l’uomo deve amare Dio. Bernardo di Chiaravalle, insegna: La causa per cui si deve amare Dio è Dio stesso; il modo è amarlo senza misura).

La fede teologica si accompagna ad una chiarificazione sulla umana fiducia. Si deve ragionare su quelle che qualcuno ha definito le forme dell’affidarsi. Graziano Lingua, scrive: “non esiste (…)un sapere umano certo circa la fidatezza dell’ambiente o dell’altro uomo se non all’interno del rischio fiducioso. Il discorso è ancora più evidente quando si prende in conto la trascendenza e la sua pretesa globale di offrire senso all’esistenza”[12]. Quando ci affidiamo a qualcuno corriamo dei rischi; ma quando si tratta di garantire un credito di fede a Chi pretende di offrirci il senso pieno della nostra esistenza si corre il massimo rischio.  Questo è la fede! Può imporre alla nostra fiducia di orientarsi verso forme che, ad una ragione impregnata di convinzioni orizzontali, appaiono scandalose. Per mostrare come ecceda la misura della ragione umana il credito preteso dalla fede cristiana, Lingua ricorre all’evento della Croce: “la fede esplicita vive di affidamento al proprio oggetto: il desiderio dei discepoli non avrebbe mai potuto ‘produrre’ la croce, perché nessuno la desidera in quanto tale; essi hanno dovuto piuttosto imparare ad acconsentire che quella fosse la figura della signoria di Gesù Cristo”(cit., p. 84).
Il cristiano deve concedere il proprio credito di fiducia ad un Dio che si è spogliato (Kenosis)della propria signoria fino a lasciarsi inchiodare su una croce! Aver fede è imparare ad acconsentire alla Signoria  di Dio esplicata in una figura (la Croce)che appare pura follia. Da Dio che ribalta il modo di fidarsi, origina un corpus di credenze che – supportato dall’eccedenza del rischio fiducioso – va attraversato.
Qualcuno precede sempre qualcosa: ecco l’origine della teologia! Tommaso insegna cos’è la fede:
appartiene alla fede il credere qualcosa e il credere a qualcuno. La teologia pensa la fede, ma è sempre seconda alla Rivelazione. Con essa, infatti, viene in luce una realtà che non avremmo potuto allestire noi; rivelandosi, Dio consente che alla forma teologica dell’affidarsi di avere consistenza. Una fede che si professa fermandosi al qualcosa o si esprime emotivamente solo in preghiere stereotipate, congela in formulario e si perde l’Oggetto al quale il formulato si riferiva. Martin Walzer fa dire al protagonista del suo romanzo ‘Dopo l’intervallo’: “Ho ereditato Dio con queste formule, ma ora attraverso queste formule lo perdo”[13]. Si verifica, piuttosto, quella che un teologo ha definito l’autoevidenza dell’amore di Dio: novità gioiosa “che non possiamo dimostrare dall’esterno” perché è l’amore di Dio “stesso a rendersi convincente”[14]. La teologia ragiona su ciò e su Chi si rende evidente da sé. La realtà di Chi e di cosa diviene oggetto del nostro affidarci deve essere reale in sé. Poi, con la ragione, tenteremo di leggere dentro il mistero che liberamente si dona: “La fede vive della realtà del suo oggetto, che è l’intervento salvifico di Dio attraverso Cristo: se l’evento salvifico di Cristo non è reale in se stesso, tanto meno è reale per me[15].

La fede impone di trasmetterne i contenuti. Con la consegna della Legge a Mosé, si comprende come questa trasmissione sia obbligatoria! In Esodo 32, 15 – 16 si dice che la Legge è scolpita su pietra che, in ebraico, è parola composta da ‘ab (padre)e ben (figlio). La Parola si incide sulla pietra della genealogia: passa dal padre al figlio! Come si apprende la Parola? Un riferimento si rinviene nella missione profetica. Un pensatore ebreo si è confrontato col Profeta Geremia il cui caso è emblematico.
L’apprendimento, per Geremia (come per ogni credente) - “inizia con l’adattamento dell’apparato sensoriale alla funzione profetica”. Noi siamo impossibilitati a contenere ciò che ci supera:  “Come può un organismo fisico diventare l’organo di una rivelazione metafisica? (…).Prima di tutto ci sono l’orecchio e la bocca (…). Ma (…)Dio (…)non passa attraverso l’orecchio; la sua parola è posta immediatamente sulla bocca del profeta (…)la Parola captata è simultaneam ente (…) trasmissibile”. Dio stende la mano e tocca la bocca di Geremia che è ancora un fanciullo. Quanto ci sarebbe voluto per filtrare la Parola attraverso un orecchio inesperto? Dio pone immediatamente sulla bocca gli oracoli! “È la vittoria di Dio sugli organi maldestri o ribelli. Né Mosé, che è balbuziente; né Geremia, che è soltanto un bambino; né Ezechiele, e Giona, che serrano i denti, possono, alla lunga, rifiutare di parlare”. Testimoniare la propria fede è necessità ontologica! Dunque, “non esiste udito sensoriale della Parola profetica (…). Il popolo deve ascoltare, aprire e tendere l’orecchio. Il profeta, invece, non ascolta (…)con uno sforzo dei suoi orecchi”.
L’uomo di fede testimonia, annuncia anche se non vuole o non può e vede curate le sue deficienze da Dio stesso. Sentire profeticamente “è essere colto dalla Parola, non in un organo accessorio, ma nelle parti costitutive dell’essere”; infatti, “la bocca non è solamente il ricettacolo di una Parola che sta per essere enunciata ma di una Parola di cui l’intero organismo sta per nutrirsi[16].
Necessita l’intervento di Dio, che eleva le nostre potenzialità. Geremia, in ebraico Jeremjahu, significa Dio (Jahvé)innalza. La prima lettera dell’alfabeto ebraico, alef, si può scomporre in ‘el peh ‘Dio parla’; qui, però, non si intende un parlare meramente esplicativo.
I sapienti, leggendo alef al contrario, ottengono pele’ ‘remoto, nascosto, oscuro’ e, così, ‘el peh, Dio parla, diviene pele’ – Dio parla in maniera non immediatamente comprensibile. Nel parlare di Dio stesso, dunque, c’è la complessità patita dalla nostra comprensione. Silvano Facioni, commenta: “l’origine custodisce dentro di sé – come irriducibile residuo – un’ascosità che non si lascia uncinare e la lingua – ogni lingua – sconta di fronte e dentro tale ascosità la sua radicale, infinita finitezza”[17]. Legando quanto Nehr dice di Geremia a quanto scrive Facioni, ne deriva che l’uomo di fede ha bisogno del tocco di Dio sulla bocca per ridurre l’ascosità della Parola. L’uomo offre i suoi limiti a Dio per farsi guarire un’ontologica debolezza da non usare mai per giustificare il proprio diniego davanti alla richiesta di essere testimone della Parola.

Ci riuscisse di disertare la testimonianza, la trasmissione della fede, cosa accadrebbe? I Padri della Chiesa parlano di una patologia dell’anima, la dipsychia: ‘avere un’anima doppia’. Si tratta di una scissione interiore che rompe disastrosamente l’unità dell’essere umano. Patiamo una disarmonia più che psicologica. L’uomo, così, diviene insensato, agisce male. Nella Lettera di S. Giacomo si parla di “animo indeciso, instabile in tutti i suoi disegni”(1, 8). Nel cap. 4, al verso 8, Giacomo rivolge un invito a quelli che deviano dal sentiero della fede: “purificate i vostri cuori, o uomini irresoluti”. Nel Salmo 2, verso 1, si chiede, perché ‘tumultuano’,‘cospirano’invano le genti?
Si sperimenta quella che Isacco di Ninive (il Siro)definiva fede malata. Se il peccato ha diviso interiormente la creatura umana, la fede unifica: è solo l’“energica tensione del suo volere verso l’Uno” che “tutto quanto era nell’uomo disordine si ordina” (Dionigi L’Aeropagita)[18]. Nelle Lettere (526), san Barsanufio dice che solo aver fede “in colui che è venuto a guarire nella folla ogni malattia, ogni infermità” rende certi che, Egli, sia “capace di guarire (…)le malattie (…) anche (…)dell’uomo interiore”[19].
L’uomo si rivolge agli specialisti della psiche e pone su di sé uno sguardo inquisitorio problematizzando, inutilmente e con danno, ogni pensiero, ogni gesto. Nel Novecento, uno scrittore praghese, avversò con forza l’attiva osservazione di se stesso:
“Odio l’attiva osservazione di se stessi. Interpretazioni psichiche come: ieri ero così e precisamente per questo motivo, oggi sono così per quest’altro (…). Non è vero (…). Sopportarsi tranquillamente (…)vivere come si deve, non corrersi incontro come cani”[20].
L’uomo di fede, invece, si affida e non si accanisce in una autoanalisi che lo rende problematico a se stesso. Quando Agostino disse che si era reso problema a se stesso, solo mettendosi di fronte all’Altro assicurò la pace al cuore inquieto.
Dai campioni della fede noi, dilettanti atleti della agonica vita spirituale, sappiamo quale sia la palestra affidabile per sanare un cuore scisso e schizofrenico.
Per von Balthasar, l’uomo è “riconoscente riceversi da Dio” e possiamo mostrare la gratitudine per il dono col “tendere a far sì che la nostra stessa esistenza diventi la parola riconoscente”[21].

Il filosofo rumeno E. M. Cioran – che ha una visione pessimistica della vita, dell’uomo, della storia – sottolinea che, un tempo, la fine dell’umanità aveva un senso escatologico: il Fine della storia non si esauriva completamente nella fine della storia. Si era legati “all’idea di salvezza”[22].
Si definisce uno scettico un tempo attratto dalla religione. Quando suo padre, un pope, recitava le preghiere, lui, appena quindicenne, quasi si vergognava di non imitarlo. Pur non riuscendo ad avere fede, ribadisce di non essere indifferente “ai problemi che ci pone la religione”. La fede, a suo dire, affronta le cose in maniera assai più profonda di quanto sia concesso alla riflessione. A chi non si occupa di faccende religiose “mancherà sempre qualcosa”; ad esempio, comprendere il significato del bene e del male. Quando leggeva e rileggeva Genesi aveva la sensazione che lì si dicesse tutto in poche pagine.
“È sconvolgente – ammetteva - . Quei nomadi del deserto avevano una visione completa dell’uomo e del mondo”. Cioran è un eccentrico e, dunque, più che alla religione, la sua attenzione va alla mistica, definita il lato strano della religione. Quanta responsabilità – questa domanda mi assilla – hanno i credenti riguardo alla mancanza di fede in uomini come il filosofo rumeno?
Jean Daniel, giornalista e scrittore, è un ebreo non credente; eppure, confessa di essersi “sentito libero” di ammirare quanto, in segreto, aveva sempre tenuto in considerazione. Si riferisce a quella che definisce “l’avventura cristica[23]. La sua ammirazione si palesa dopo che il Concilio Vaticano II ha cancellato dalla Chiesa scorie antisemite. Dove Daniel aveva imparato – segretamente – ad ammirare Cristo?
Da fanciullo, racconta, “non avevo incontrato questo eroe né sul viso del curato della nostra chiesa, né sulla faccia dei parrocchiani”. Osservando quelli che uscivano dalla chiesa dopo la celebrazione della Santa Messa, venne colpito dal fatto che i fedeli, per prima cosa, “si precipitavano in pasticceria”! A Daniel i cristiani apparvero solo come dei “funzionari e impiegati antisemiti e le loro mogli piccole borghesi snob”.
Dove, allora, prese forma la sua ammirazione per Cristo? Sorprendentemente, corre con la memoria alla figura di un suo docente di storia e geografia che era, si noti bene, un esasperato anticlericale e segretario della sezione socialista. Questo inaspettato testimone della bellezza cristiana, ogni settimana, dedicava del tempo a parlare della “grande pittura”. In alcuni dipinti aventi come soggetto temi religiosi, Daniel colse “la prima emozione davanti al viso del Cristo o della Vergine”.
Quel docente ateo, quando “si trattava di scene della Passione o dell’Ascensione trovava, per fare l’elogio degli autori, espressioni che (…)riuscivano a parlare alla nostra anima”. Peccato che tutto sia rimasto, per Jean, relegato nella sfera emozionale; ma il suo racconto vale come ammonimento a chi professa la fede cristiana.
Quando il docente presentò il quadro di Leonardo da Vinci Sant’Anna e l’Annunciazione, il giovane ravvisò nella Santa sua nonna. Come mai, chiede, si stenta a ricordare che era la nonna di Cristo? Anche partendo da simili riferimenti emozionali, possiamo fare breccia nel cuore di chi non crede! Il vocabolario della fede, inoltre, arricchisce il linguaggio anche di chi non crede.
James Joyce a Trieste dovette compilare un modulo per ottenere un posto di insegnante, ed alla voce ‘RELIGIONE’, rispose con un laconico ‘Senza’! Ma quello che dichiarò sullo stampato della Scuola Superiore di Commercio Rivoltella non impedì che, quando parlava del suo lavoro di narratore, usasse una terminologia cristiana. Al fratello, infatti, disse: “Non credi che ci sia una certa somiglianza tra il segreto della transustanziazione nella Messa e il mio lavoro? In fondo, io vorrei aiutare il pane della vita quotidiana a trasformarsi in qualcosa di più duraturo”[24]. Joyce vuole – narrando – rinvenire lo straordinario nell’ordinario e, non trova di meglio per annunciarlo, che ricorrere all’immagine dell’Eucaristia!

Le parole dei credenti possono informare il linguaggio di chi si dichiara non credente perché mai la fede può configurarsi come “un pio slancio che salta il mondo”[25]. Vi sta dentro e parla di un senso altro! La fede deve consentirci di vigilare sul mondo, senza pause, per non far estinguere quei segni di speranza presenti in questo ultimo scorcio di secolo, nonostante le ombre che spesso li nascondono ai nostri occhi[26]. Vattimo, non allineato con la morale cattolica, pure dichiara “un complessivo atteggiamento amichevole” verso il Cristianesimo:“riconoscenza, rispetto, ammirazione”. Quella cristiana, conclude, non è “una tradizione di cui sento il bisogno di liberarmi”[27]. Non basta, tuttavia, annunciare che crediamo nel Dio – Amore; necessario è mostrare come ciò ci cambia: “La frase ‘Dio è amore’ – concorda un autorevole teologo – è verità formulata. Perché essa non si coaguli in formula deve essere sia vissuta che pensata”[28]. Un filosofo, un uomo di scienza, non devono per forza adottare, riguardo alla religione, un atteggiamento di esclusione.
Nel 1921, Einstein visitò l’Inghilterra ed incontrò l’arcivescovo di Canterbury. Questi chiese al famoso scienziato quali implicazioni teologiche vi fossero nella sua teoria della relatività. Nessuna – rispose Einstein -. Quella della relatività è una questione puramente scientifica e non ha niente a che fare con la religione[29].
Il ‘sapere della fede’ non mette al primo posto la ragionevolezza, la coerenza, la logica e sfida finanche il ‘buon senso’. La fede opera, nei riguardi dell’ordinario rotture significative e feconde: “il buon senso”, invece, “ragiona in maniera completamente diversa”. Il Padre della fede, Abramo, viene invitato da Dio a lasciare il certo per l’incerto: “colui che parte senza sapere dove va” – secondo categorie di pensiero umane, troppo umane – “è un uomo debole e leggero, e una fede non fondata su niente (ma la fede è sempre fondata su niente, perché è essa stessa che vuol fondare)non può essere in alcun modo ‘imputata a giustizia’”[30]. Abramo è un Giusto, in quanto ha agito spinto da ciò che ancora non comprendeva!
Un filosofo contemporaneo, scrive: “Per l’uomo religioso Dio esiste e l’esistenza di Dio è per lui così ferma da rendere superflua ogni dimostrazione, perché essa è oggetto di fede, di una scelta radicale e profonda, da cui scaturisce tutto il resto”[31].

L’uomo di fede poggia sul Fondamento/Cristo che non si può trovare da soli, né pretendere, ma è dono! Se abbiamo il peso specifico della nostra adorazione e professiamo la fede cristiana, dichiariamo:
“Cristo è risorto. È questa verità che mi dà certezze fondamentali che nella nostra era atomica, cosmica, demografica, contestataria, orientano la vita dandole un senso. La sua risurrezione mi assicura che, nonostante tutti i cambiamenti possibili, alcuni valori restano immutabili (…). State sicuri con le parole di Isaia ‘Il deserto fiorirà’”[32]. Ecco da dove può venire il senso all’uomo secolare. Il soggetto costituito dalla fede si riconosce alla luce di Cristo. E, conoscersi, è il sogno, la grandezza e la miseria dell’uomo dagli albori della filosofia, perché è da sempre che siamo alla ricerca del senso della vita. Il filosofo e sacerdote Salvatore Nicolosi, ad ottant’anni, ha tentato di rispondere al quesito cos’è la vita?
La sua è stata spesa su due strade che si sono intrecciate insegnandogli che la fede non impone l’abbandono della riflessione filosofica:
“Mi sono trovato a vivere – annota Nicolosi – ‘a tempo pieno’ con responsabilità di ricercatore e di docente (…)per necessità di vocazione interiore, dentro due mondi diversi, quello ‘laico’ e quello ‘ecclesiastico’. Ho cercato di capirli entrambi: quello ‘laico’, nella sua componente di ricerca libera e appassionata al fine di costruire una scienza ‘mondana’, opera dell’homo faber e dell’homo sapiens; quello ‘ecclesiastico’ nella sua componente essenziale di apertura verso il trascendente e il soprannaturale e, di conseguenza, nella sua natura di messaggio di salvezza. Ho cercato di guardare con ammirata ‘partecipazione’ e generosa ‘comprensione’ la secolare fatica della ragione, che scruta il mondo della nostra vita e realizza i prodigi del progresso, facendo dell’uomo una ‘immagine’ sempre più ‘simile a Dio’. Ed ho cercato anche di contemplare, con gaudio estasiato, la realtà illuminata dal dono della rivelazione divina…”[33].
Con sguardo binoculare sulla realtà, da filosofo e da credente, conclude: la vita è dono, come recita il titolo della sua autobiografia. Come si vede, il soggetto postmoderno può trovare il senso includendo e non escludendo la fede. La Chiesa, dopo il Vaticano II, si è ampiamente aperta al mondo secolare e grande spessore ha conferito alla teologia delle realtà terrestri.
Questo fece sì che, all’indomani del Concilio, Schillebeeckx, convertisse il vetusto Extra Ecclesiam nulla salus, nel nuovo motto Extra mundum nulla salus. Per coniugare la ricerca filosofica alle domande fondamentali (in chiave teologica esplodono verso la Trascendenza), scomodiamo il passo 127d ss. dell’Alcibiade maggiore di Platone. Socrate insiste sull’importanza del conoscere se stessi per prendersi cura di sé.
Chi si forma bene riverbera, poi, i frutti di questo lavoro anche sul mondo. Socrate richiama l’iscrizione sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, ‘conosci te stesso’ (“è forse facile conoscere se stessi ed era un buono a nulla colui che ha posto quell’iscrizione sul tempio di Delfi, oppure si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti?”).
Anche il pensiero filosofico, per bocca di Socrate, insegna: “che sia facile o no, per noi la questione si pone così: conoscendo noi stessi, potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi”[34].
Per chi crede, non solo è evidente che occorre percorrere questa strada, ma ancor più certo è che c’è un dio ad essersi preso cura di noi e del mondo. Il senso viene, per chi ha fede, dall’essere stati riscattati – da un dio che si è fatto come noi - dal non senso più temibile: la morte!   
                       




[1] m. delbrêl, Chiesa, ateismo, evangelizzazione, a cura di m. guasco (contributi di j. guégen, g fornero e con antologia di testi), Fossano (CN) 2005, pp. 109 – 119.
[2] Prendo l’immagine da Papa Benedetto XVI che, ai giovani, in una intervista alla Radio Vaticana (14 agosto 2005), disse: Vorrei far capire ai giovani che è bello essere cristiani…essere sostenuti da un grande amore e da una rivelazione non è un fardello (In a. scola, Vagabondi o pellegrini?, Siena – Venezia – Mestre, 2006, p. 49, nota 10).
[3] Cfr., l. clavell, Il silenzio di Dio e l’incontro con Dio, in Studi Cattolici, n. 384 (1993), p. 86.
[4] Cfr., f. viola, Concetto dell’autorità e teorie del diritto, L’Aquila 1982, p. 83. Afferma Oliver Sacks: “Si finisce nella follia quando si pretende di ridurre (…)i mondi a sistemi, i soggetti umani e categorie astratte (…)la realtà a concetti generici”(Awakenings, III ed, New York 1982, p. 123.
[5] g. cottier, Le vie della ragione. Temi di epistemologia teologica e filosofica, Cinisello Balsamo 2002, pp. 21 – 22.
[6] Cfr., j. moltmann, La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Brescia 1991, p. 175.
[7] d. von hildebrand, Essenza dell’amore, Milano 2003, p. 217 – 219.
[8] Cfr., m. horkheimer, La nostalgia del Totalmente Altro, Brescia 1972, p. 83.
[9] n. abbagnano, Scritti esistenzialisti, Torino 1988, p. 427.
[10] Cfr., j. maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia 1973, p. 41.
[11] a. maggi, ‘La bestemmia del figlio dell’uomo (Mt 9,3)’, in aa.vv., E se Dio rifiuta la ‘religione’?, a cura di n. trentacoste, Assisi 2005, pp.57 – 71, p. 57.
[12] Cit in aa. vv., p. codach. hennecke (a cura di), La fede, evento e promessa, Roma 2000, pp. 73 – 86, p. 77.
[13] Cit da r. garaventa, ‘Scetticismo e preghiera. L’esempio di Wilhelm Weischedel’, in g. moretto (ed.), Preghiera e filosofia, Brescia 1991, p. 315s).
[14] Cfr., w. kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1984, p. 172.
[15] j. alfaro, La fede come dedizione personale dell’uomo a Dio e come accettazione del messaggio cristiano, in Concilium 3 (1967), p. 69.
[16] a. neher, Geremia, Firenze 2005, pp. 25 – 26.
[17] Cfr., s. facioni., La cattura dell’origine. Verità e narrazione nella Tradizione ebraica, Milano 2005, p. 96.
[18] Cfr., j. c. larchet, Terapia delle malattie spirituali. Un’introduzione alla tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, Cinisello Balsamo 2003, pp. 318 – 388.
[19] Per una panoramica sulla psicologia della religione, vedi p. ciottim. diana, Psicologia e religione. Modelli problemi prospettive, Bologna 2005; m. aletti, Psicologia, psicoanalisi e religione. Studi e ricerche, Bologna 1992. Su psicologia e attività pastorale, i. baumgartner, Psicologia Pastorale. Introduzione alla prassi di una pastorale risanatrice, Roma 1990/1993.
[20] Cfr., f. kafka, Diari, Milano 1960, vol. I, p. 318.
[21] id., Teodrammatica. Le persone del dramma: l’uomo in Dio, Milano 1982, p. 274.
[22] Cfr., e. m. cioran, Un apolide metafisico, Milano 2004, p. 19.
[23] j. daniel., La prigione ebraica. Umori e meditazioni di un testimone, Milano 2004, pp. 58 – 59.
[24] Cit in a. holl, Lo Spirito Santo. Una biografia, Milano 1988, p. 307 e 309.
[25] Cfr., w. kasper, Introduzione alla fede, Brescia 1972, p. 34.
[26] giovanni paolo II, Lettera apostolica Terbio millennio adveniente, 10 novembre 1994, nn. 44 – 46, in Enchiridion Vaticanum 14, Bologna 1997, pp. 995 – 999.
[27] g. vattimo, Credere di credere, Milano 1997, p. 82. Si verifica il grado di maturità raggiunto nella fede agendo conformemente ad essa: “Il principio della verifica della fede cristiana (…)consiste nel fatto che i cristiani (…)mostrano nella loro vita pratica di possedere una speranza capace di trasformare il mondo già sin da ora”(e. schillebeeckx, Dio, il futuro dell’uomo, Roma 1970, p. 199).
[28] Cfr., e. jüngel, Dio mistero del mondo, Brescia 1982, p. 410.
[29] Cit in k. armstrong, Storia di Dio. Da Abramo a oggi. 4000 anni alla ricerca di Dio, Venezia 2003, p. 423.
[30] Cfr., l. sestov, Atene e Gerusalemme, Milano 2005, p. 1091. Il credente non aspetta, per agire in conformità al volere divino, di avere tutto chiaro: “Colui che ama la legge di Dio, onora anche quel che non comprende; e ciò che gli appare assurdo, ritenga di non averlo ancora compreso, ma che è cosa grande ciò che ancora gli si nasconde” (Agostino d’Ippona. Pensieri, a cura di c. cremona, Milano 1988, p. 213, n. 529).
[31] Cfr., l. pareyson, ‘Filosofia ed esperienza religiosa’, in Annuario Filosofico, I, Milano 1985, p. 50. Norberto Bobbio fece della certezza di sapere di non sapere, della conoscenza dei propri limiti, la sua religiosità. Pur restando nei limiti della ragione, visse il senso del mistero. Solo che, l’‘uomo di fede’, “riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto”(‘Religione e religiosità’, in Micromega, 2 (2000), p. 7).
[32] g la pira, in aa.vv., La risurrezione di Gesù. Meditazioni di Radioquaresima della Radio Vaticana, Roma 1987, p. 44.
[33] s. nicolosi, La vita è dono. Ricordi e speranze, Roma 2005, p. 38.
[34] Cfr., platone, Tutti gli scritti, a cura di g. reale, Milano 1991, p. 621. Su questo tema è recentemente intervenuto un teologo: “Nella lingua di Socrate (…)la cura dell’anima consiste (…)nella cura della virtù e della vita buona; nella lingua odierna quella cura è sempre più sistematicamente interpretata in senso clinico”(g. angelini, Il tempo e il rito alla luce delle Scritture, Assisi 2006, p. 12).  

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