Il nucleo della felicità: voler essere colui che sei. (Erasmo da Rotterdam)
Hegel ha scritto che “la più alta maturità e grado che qualcosa può raggiungere si ha là dove comincia il suo tramonto”. Laddove tramontano certe idee di Dio, di uomo, di mondo, là trovano la propria maturità; dunque, da esse si può, finalmente, attendere qualcosa di nuovo e, si spera, di buono. Ricoeur dice che la confusione che affligge l’uomo deriva dal fatto che non sa, al mattino, perché si è alzato. Non sappiamo il ‘senso’! Voglio tentare di rintracciare nel cuore della nostra falsa onnipotenza il positivo di una reale impotenza. Il potere del limite è liberarci dal delirio di onnipotenza al quale ci hanno incatenato filosofie ed ideologie ingannevoli. Forse è più rassicurante riposare su un letto di spine (perché vi siamo abituati)che svegliarsi ad una vita nuova e migliore, ma sconosciuta e che richiede sacrifici enormi. Se il cammino che propongo verso una visione positiva del limite e dell’imperfezione umana vi apparisse rischioso, vi ricordo come la pensava Kierkegaard che si studiò in rapporto a Dio ed agli altri tutta la vita: “Non rischiare nulla significa mettere in gioco la propria anima”. Alla cultura imperante del ‘divertimento’ bisogna opporre questa tesi: godere del mondo è cosa buona! Non bisogna, tuttavia, rendere assoluto l’estetico a scapito dell’etico (il godimento non deve soppiantare una seria ristrutturazione dell’anima; il fenomeno (ciò che appare)non deve valere più del fondamento). Come diceva Jung, chi guarda fuori sogna e chi guarda dentro si risveglia. Un uomo completo deve saper sognare la vita che vive e saper vivere la vita che sogna. Ho raccolto voci che incoraggino a parlare su questi temi. Quello che conta è affermare che l’essere è sempre cosa buona. Attraversiamo e lasciamoci attraversare da queste annotazioni, ma senza pretendere che si annidi da qualche parte una soluzione che esoneri dal compiere un personale percorso di vita per scoprire la potenza del limite. Qui ci sono solo parole e, come disse la Hillesum che conobbe l’orrore dei campi di sterminio (perché certi uomini volevano la perfezione e si sentivano onnipotenti), “a volte qualunque parola accresce i malintesi su questa terra troppo loquace”. Se alla fine di questa lettura pensi che il silenzio in cui rimani sia un limite, sappi che esso ha il potere di rivelarti che le parole non dicono granché se raccontano di un’onnipotenza che non ci appartiene. La terra è troppo loquace: ora ha bisogno del gesto concreto che celebri quello che uno dei Padri della Chiesa definì il sacramento del fratello. Dove finisce il sogno dell’onnipotenza del soggetto si apre la realtà dell’incontro tra soggetti che sanno i loro limiti, la loro imperfezione e per questo comprendono che desiderare l’altro e l’Altro è sì denunciare una indigenza, ma anche accendere una tensione che mostra in che direzione guardare.
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La nostra è un’epoca nella quale non si è più disposti a ‘sacrificarsi’ per valori verticali’, ma solo per interessi mondani (Ferry). Quanto viene dall’alto ci pare senza valore. La realtà non gode di amore disinteressato. Per dirla con umorismo: Odio la realtà, ma è ancora l’unico posto dove posso trovare una bistecca decente (Woody Allen). Disgregazione dell’io e del mondo procedono assieme. Il mondo è l’io per come si rapporta alla realtà! Valery diceva che nel nostro intelletto, in qualche modo, è contenuta la simmetria del piano in base al quale è strutturato l’universo. Instabile il soggetto, precario il mondo. L’impoverimento si verifica anche a livello ‘affettivo’: abitiamo un runaway world, ‘un mondo privo di legami’(A. Giddins). Cadono le pretese dell’idealismo hegeliano secondo il quale la Storia è realizzazione dello Spirito che supera il negativo come momento che conduce necessariamente alla piena realizzazione del Bene. Dahrendorf pensa che finanche la “tanto decantata globalizzazione” finirà con l’essere appena un episodio nell’avventura umana. La domanda che lo inquieta, infatti, è: si possono edificare strutture solide di lunghissima durata in un mondo instabile? Non tutto ciò che è vecchio e consolidato merita di durare, né va bocciato senza appello. Se l’io è frammentato, si deve accettare che l’identità sia plurale. Questo è positivo solo se l’io valorizza la propria insufficienza trasformandola in tensione verso l’altro! Giovanni Paolo II disse, in occasione della XVI Giornata Mondiale della Gioventù, che occorre andare incontro all’uomo che è un ‘mistero insondabile’; il Papa specificò che si deve andare verso tutti gli uomini. Questo accade se accettiamo che ci sono limiti ontologici all’espansione dell’io che impongono una strategia di crescita personale ispirata dal valore ‘alterità’. Diveniamo degni di un futuro dal volto umano se sappiamo progredire individualmente senza che ciò equivalga ad un potenziamento egoistico di sé. Come dice Bauman, si pospetta “un lungo cammino da fare prima di poter sperare di vivere in una società civile in cui gli individui riconoscano la propria autonomia e al tempo stesso i vincoli di solidarietà che li uniscono”. Come mai la ragione non ci spinge sempre su queste strade? Perché ci si è rivoltata contro? Marcello Veneziani pensa che la parabola discendente nel processo di razionale umanizzazione sia stata tracciata quando la razionalità è stata contrapposta alla ragionevolezza; cioè, quando la ragione divorziò dalla vita! C’è da registrare la morte delle idee causata dal trionfo degli idoli. La visibilità esasperata degli idoli uccide l’invisibilità del pensare. Tra ‘morte delle idee’ e ‘morte di Dio’, c’è stretta parentela: le idee erano scale che – in un ‘itinerario mentale’ – conducevano a Dio. Tolto valore alle idee, svuotato il soggetto della tensione intellettuale che aveva Dio come Telos, che rimane? Nel film di I. Bergman ‘Persona’, una donna disperata, dice: Io vorrei essere, non sembrare di essere. La vita scade completamente a farsa? Non sarei così drastico. La sociologa D. Hervieu – Léger, in Religione e memoria (il Mulino, Bologna 1993), fornisce elementi degni di assenso per dimostrare che la modernità non elimina, né a livello individuale né collettivo, il ‘bisogno di credere’. Sapere non è necessariamente la strada che conduce alla miscredenza e la fede non ci consegna inesorabilmente al disprezzo per il sapere. Se vogliamo che Dio Io e Mondo siano in reale relazione realizziamo il programma di de Liaňo: conduciamoci nella vita mantenendo “l’armonia dei termini cognitivi e affettivi”. Non si può credere nell’uomo quando, come dice Bauman, trionfa Mann ohne Verwandtschaften (l’uomo senza legami). Non tutto ciò che riguarda l’uomo deve passare attraverso il paradigma economico. Non è liberandolo dai bisogni che lo si fa crescere in umanità. Marcuse affermò che libertà economica sarebbe libertà dalla economia – “dalla lotta quotidiana per l’esistenza, dal problema di guadagnarsi la vita”. Non che questo sia male, ma se diventa la sola preoccupazione, fa correre un rischio mortale: pensare che abbiamo solo bisogni e nessun desiderio. Il secondo termine dice di una tensione che ci caratterizza come Homo viator; come esperienza e non statica essenza. Plotino, neoplatonico, sosteneva addirittura che è il desiderio a generare il pensiero. Chi è l’uomo? Capire il bisogno è capire cos’è la vita biologica; quali esigenze soddisfare; comprendere cos’è desiderare è comprendere anche la vita intellettuale. C’è fame e fame; quella del senso non è meno importante. La domanda corretta è: chi è l’uomo nella sua duplice fame? L’uomo del ‘bisogno’ e del ‘desiderio’; l’uomo come ‘unità inscindibile di cognitivo ed affettivo’.
La parola chiave quando si fa una riflessione sull’uomo, in ogni tempo, è speranza. Massimo Cacciari ritiene di doverne parlare all’interno di tre paradigmi che si differenziano radicalmente: 1) paradigma tragico. La sapienza greca definisce ‘demoni’ Elpis e Kindynos (Speranza e Rischio); demoni che si oppongono con ferocia a promatheia e pronoia (prevedere e sapere prima). Speranza e sapere sono, dunque, rivali. In un testo di Tucidide, si narra di un confronto tra Ateniesi e Meli: Atene deve radere al suolo la città dei nemici? Gli Ateniesi sono ‘coloro che sanno’, che possiedono l’Episteme (sapere certo); i Meli, invece, ‘confidano in cieche speranze’. Forza è Episteme. Sapere è potere. Ad inquietare di più, è il Prometeo di Eschilo che ritiene di aver fatto una cosa buona avendo donato agli uomini ‘cieche speranze’. Ma allora…sono un bene o un male? Prometeo contraddice Tucidide? Hanno ragione entrambi! Laddove non si dà risposta univoca, c’è conflitto e si entra in atmosfera tragica. L’uomo tragico non sa se sperare sia bene o male. Il logos tragico è ‘doppio’ e “non può essere risolto secondo il metodo della Ragione”. Non è filosofico. Per dire ‘uomo’, il greco usa due parole: mortale (sinonimo di uomo)si può dire sia thnetoi che anthropoi; nel primo caso, si tratta dell’uomo consegnato al fato, che volge lo sguardo a terra e non ha consapevolezza di sé e del mondo; il secondo termine, invece, denota l’uomo che guarda, che si accorge di sé e del mondo. Anthropos significa ‘volgere in alto lo sguardo’. L’uomo, dice Prometeo, era proderkomai: ‘incatenato al pensiero della morte e non riusciva ad essere produttivo’. Le ‘cieche speranze prometeiche’, consentono all’uomo di sviluppare delle attività, lo rendono ‘homo faber’, ma non promettono salvezza: la morte arriverà inesorabile e senza riscatto. Questa speranza è un’arma “che ci permette di resistere al male, ma allo stesso tempo segna la nostra completa disperazione su ogni speranza di salvezza, perché i mali che si liberano dall’orcio di Pandora vanno ovunque (…)e nessuno potrà mai vincerli”. 2) paradigma filosofico. Qui si parla della ‘buona Speranza’: trovare, cioè, un fondamento che non verrà meno e sul quale accasarci (Episteme). Ora la speranza stessa diviene superflua “per resistere ai mali, poiché possiamo (ben più che sperare)sapere, conoscere, comprendere, possedere”. Sapere è certezza, mentre Speranza è legata all’incertezza. I Meli, nel testo di Tucidide, non avendo il sapere si abbandonano alle decisioni dei nemici. 3) paradigma cristiano – europeo. I paradigmi precedenti, pur differendo per molti aspetti, sono accordabili per questo aspetto: Elpis non sarà e non varrà mai Episteme. La Cristianità pensa l’opposto: la Speranza ha un fondamento certo ed individuabile. Il Greco ritiene Elpis cieca, un vago sentire del cuore debole; il cristiano ritiene che la speranza si fondi sulla pistis (fede). Si tratta, specifica Cacciari, di una pistis esi, ‘una fede verso’ (la speranza). Il Fondamento della Speranza cristiana ‘ora’ non Lo vediamo, ma “la Fede rende come visibile l’Invisibile”. La speranza per il Greco è quella dell’Uomo; per il cristiano è divina: “la forza della speranza (…)sul fondamento della fede (…)conduce a una conseguenza inevitabile (…): la nostra vita ha senso, ha valore soltanto nella misura in cui si infuturi”. C’è un futuro che è novità e non ripetizione ciclica di eventi (tempo escatologico). Negli ultimi secoli, pistis si è separata da Elpis e trionfa la promatheia – pronoia, un sapere, cioè, che tenta di programmare (tecnicamente)il futuro. Episteme ha preso il posto di pistis (il sapere soppianta la fede)e si è eletta fondamento di Elpis. Speranza è progetto umano e non attende il futuro come Chari, ‘dono, grazia’. Lo storicismo è il credo dominante: ritiene che il relativo si converta in Assoluto e che la Verità si realizzi necessariamente nella storia (Hegel); dunque, “la verità è davanti a noi, qualcosa che dobbiamo raggiungere, ma non più sul fondamento della Fede, bensì sull’Hypostasis che è la nostra Episteme, che è il nostro conoscere, (…)la nostra capacità progettuale”. Dalla ‘pistis’ prendiamo la tensione verso il futuro, ma poi pensiamo che solo l’Episteme realizzi questa tensione in cammino storico. L’Elpis ritiene che Episteme, non pistis, conduca ad un futuro meritevole di una nostra felice adesione.
Bisogna far notare – e lo fa Luigi Negri – che l’etica, fino alla modernità, si fondò sull’antropologia della verità: l’uomo si relazionava in maniera vitale col Mistero. La modernità, mortificata questa relazione, inaugura il soggetto a scapito della persona. L’uomo diviene ‘soggetto’ perché considerato innanzitutto nell’atto di fronteggiare un ‘oggetto’ (per dominarlo). Ob – jectum, ‘gettato innanzi’: anonima denominazione di ciò che ci sta di fronte. Persona, invece, evocava la ‘struttura della Trinità’: imitando il modello divino, ogni uomo era in relazione con ‘Dio’, con ‘sé, gli altri’ e col ‘Cosmo’. Soggetto, indicando volontà di conoscere la realtà ridotta ad oggetto, ha “una connotazione di carattere gnoseologico”; spostandosi nella sfera sociale, il soggetto diviene ‘cittadino’. Tra l’egemonia del sapere e del politico, viene stritolato ogni riferimento al Trascendente: Dio non è più necessario. Non è detto, però, non ci sia del positivo nella modernità: “c’è una modernità (…)delle ‘Idee assassine’ (…). Tuttavia, c’è anche la modernità delle grandi istanze di liberazione, di partecipazione, di democratizzazione”. Sintetizzando: si passa da “un uomo che ha il problema del vero, ad uno che è capace di risolvere problemi”. Negri cita Guardini: l’uomo moderno nega la creaturalità e reclama l’autonomia. Berdjaev rileva che l’umanesimo di Pico della Mirandola, Erasmo…non si accaniva contro Dio; tuttavia, il germe dell’indifferenza verso l’Altro, era annidato nel cuore di quella visione del mondo. Esasperata l’attenzione per il mondano, trasferita ogni riflessione sul piano antropologico, si carica l’uomo di un peso insostenibile: giustificare da se stesso l’essere nel mondo. La ragione, dea moderna, è “segnata da due patologie: l’impotenza e la strapotenza”. Ha contribuito a farci conoscere gran parte della realtà, ma sempre in termini quantitativi! Quando si presentano ‘questioni di senso’, la ragione nega la sua imperizia in questi domini e relega ciò che non può trovare diritto di cittadinanza in essa nell’insignificante. Si tratta di una ‘strategia denigratoria’ che salva ad essa – apparentemente – la faccia. Ragione e Mistero si combattono, dice Maritain, in nome di una inimicizia assoluta. Il pensiero moderno vuole dimostrarsi vero proponendosi unicamente come movimento capace di cambiare la realtà, la storia. Non ritenendo più che la dignità della persona si fondi sull’essere creatura di Dio, sul rapportarsi all’Assoluto, la mentalità moderna si affida alla Legge, alla volontà generale, alla politica. Negri nota che nella Dichiarazione di indipendenza americana (Filadelfia, 4 luglio 1776)vennero formulati i ‘diritti dell’uomo’ attraverso un riferimento al Trascendente: “gli uomini – si legge – nascono uguali; (…)il loro Creatore li ha dotati di certi diritti inalienabili”. Non passano vent’anni e, il 26 agosto 1789, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – redatta in Francia – rovescia i termini della questione e non è più Dio a dispensare ‘diritti inalienabili’: “I rappresentanti del popolo francese, costituiti in assemblea nazionale (…) hanno deciso di esporre in una dichiarazione solenne i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo”. Rileva Furet: “si mette l’accento su un certo volontarismo politico: a suprema garante dei diritti veniva posta la legge, prodotta dalla nazione sovrana”. Nel 1848 ricompare il riferimento a Dio ridotto a testimone: “Alla presenza di Dio e in nome del popolo francese…”. Si dà una impostazione legicocentrica dei diritti umani, gestita da una ‘volontà generale’. Il potere politico stabilisce a chi e fin dove estendere diritti. Dio lascia spazio allo Stato. La modernità è certa che la realtà umana sia inquadrabile razionalmente e se ne possa dare una visione unitaria. L’uomo moderno vive soprattutto in funzione della sua appartenenza sociale; in primo luogo, è animale politico. Il soggetto moderno è autonomo, ma si realizza pienamente solo affidandosi al super Soggetto: lo Stato. Ma laddove si osservano solo esteriormente regole (legalismo)non c’è autentica convivenza tra persone. Il teologo Pannenberg, scrisse: “Si pensa generalmente ed è un errore, che la vita sociale debba essere regolata dalle leggi nel modo più completo possibile. La legislazione più vasta, più minuziosa non può mantenere una società nella quale sia scomparso il senso dell’amore per il proprio simile e per tutto ciò che costituisce il destino comune”. Il teologo aggiunse che le relazioni fra gli uomini sono umane solo se ognuno consente all’altro di essere una persona. Negri nota che, ad ogni modo, non è totalmente anticristiana l’origine della modernità e ricorda come in Cartesio, Spinoza e Leibniz vi fosse ancora “una impostazione metafisica” della filosofia. Quando, però (proprio con Cartesio)Dio viene chiamato a garante del sapere scientifico, della solidità del Cogito, inizia a morire; la stampella Trascendente serve a superare i primi ostacoli epistemici, poi la ragione farà da sola.
L’uomo, da che si entusiasmava troppo di ciò che era in grado di produrre, si è ritrovato a fare i conti con la sua pochezza esistenziale. Si registrano, nelle pagine degli intellettuali postmoderni, dichiarazioni che invitano a comprimere recenti velleità. Horkheimer è categorico: “I concetti fondanti della civiltà occidentale stanno andando in rovina”. La maggior parte di noi potrebbe scrivere di se stesso queste parole di Bataille: Ero piccolo ed ero certo che un giorno io spinto da una felice insolenza, avrei dovuto rovesciare tutto, necessariamente tutto. Non ci sono aspetti del razionalismo ancora in vita. Chi parla ancora di Spirito, Volontà, causa finale, ecc…? La ragione, dice Horkheimer, diviene un fantasma generato dalla consuetudine linguistica. Non è tanto merito delle recenti riflessioni sul linguaggio se la ragione ha visto diminuire il proprio potere; si tratta, piuttosto, di un fenomeno nuovo: più che come entità, come forza viva ed operante nella storia, la ragione viene riconosciuta come funzione, strumento. Interessa la prassi, ma non la crea! Mathiez pensava che c’è un culto della ragione e porta ad una ‘religione della ragione’, non meno intollerante di quelle forme religiose che gli illuministi (non sempre a torto) contestarono. Quando si considerava autonoma la ragione era facile dimostrare l’autonomia dell’uomo che era la sola creatura a possederla. Crisi della ragione, ergo, significa crisi di un modello di uomo (non dell’uomo): “i soggetti apparentemente autonomi esperiscono ora la loro nullità”. Se la ragione è utile, ed è quanto di più prezioso abbia l’uomo, questi non può che avere interesse per l’utile. Siamo pronti a rispondere solo a quanto ci mette di fronte ad una situazione pratica. Gli uomini sono, ormai, “senza sogni e senza storia”. Dobbiamo parlare come ‘si’ parla, assumendo i linguaggio della radio, dei quotidiani, del cinema. Il futuro conta nulla; ci si deve adeguare, piuttosto, alle necessità del momento se si vuole sempre essere in ovunque. Prevale l’individuo isolato, l’‘atomo sociale’. Quest’uomo ferito, mutilato di speranza e deluso dal sapere, non crede più all’avvenire: “La lotta per l’esistenza sta nella decisione dell’individuo di non essere fisicamente annientato ogni momento, nel mondo degli apparati, delle macchine e della manipolazione”. Siamo obbligati a reagire ‘subito’ ad ogni stimolo e costretti a rintracciare affinità tra noi e macchine di varia utilità. Non c’è tempo per pensare con calma e fare scelte di vita o professionali. Siamo condannati a sviluppare una capacità automatizzata di comportarci correttamente. Questi guasti indussero Marcel a scrivere che l’uomo è ridotto a fascio di funzioni alienanti. Quando l’avere trionfa sull’essere, produce alienazione dell’io e tensione possessiva dell’io. Ci perdiamo perché posseduti da un desiderare mai soddisfatto. Marcel scrive una frase terribile: la struttura del nostro mondo è tale che la disperazione assoluta sembra possibile. Provate solo un istante ad immaginare cosa vorrebbe dire essere ‘disperati assolutamente’!
René Girard si chiede perché la violenza imperi nel mondo contemporaneo. La più grande minaccia, tuttavia, siamo noi stessi. Si danno, tradizionalmente, due tipi di approccio al tema della violenza: 1) filosofico: l’uomo, buono per natura, è guastato dalla società; 2) biologico: la vita animale è, per natura, pacifica e solo la nostra specie conosce la violenza. Girard, invece, propone una terza lettura del fenomeno e, nella sua teoria, la ‘parola chiave’ è imitazione. Abbiamo aspirazioni indeterminate, ma la ‘passione ed il desiderio’ le indirizzano verso un modello che ci dica cosa desiderare. Trasformiamo in ‘modello’ ciò che per noi è dotato di prestigio. C’è un desiderio di ‘imitare’ il modello scelto (creato). Si tratta del desiderio mimetico. Si profila uno scenario bellico: “Dato che desideriamo quello che desidera un modello che ci è molto vicino nello spazio e nel tempo (...)l'oggetto a cui l'altro mira diventa alla nostra portata, noi ci sforziamo di togliere all'altro quell'oggetto, e la rivalità con lui, si fa inevitabile. Questa è la rivalità mimetica (...)ed è responsabile della frequenza e dell'intensità dei conflitti umani”. Si tende ad occultare tutto questo, eppure si combatte fino alla morte in ossequio al ‘desiderio mimetico’. Il meccanismo si rafforza perché, quando l’imitatore vuole sottrarre l’oggetto desiderato al modello, questi reagisce ed il desiderio per l’oggetto cresce in entrambi. Ci illudiamo di essere ‘individualisti’, ma poi tutto, in realtà, è dominato dalla concorrenza e ciò fa si che i nostri desideri abbiano una natura sociale. Girare scrive che lo ‘spirito competitivo’ è, malgrado i guasti che lo tarlano, assai amato in Occidente perché – quel che è certo – procura notevole ricchezza a molti. Il pericolo, in tutto questo, però, è che il ‘modello occidentale’ affascina i popoli affamati. Si tratta di popoli che ci odiano non perché sostenitori di una mentalità diversa, né perché contrari al progresso, ma piuttosto perché anche loro possiedono uno ‘spirito concorrenziale’: “Anziché allontanarsi sul serio dall’Occidente, questi popoli non possono fare a meno di imitarlo (…)senza neppure confessarlo a loro stessi”. Se ci sono vincitori, ahimè!, devono esserci per forza dei vinti! Da qui scaturisce la violenza…Si pensa che liberarsi della ‘responsabilità della violenza’ sia possibile semplicemente non prendendo l’iniziativa violenta. Anche i più violenti – visto che nessuno si accorge mai di iniziare una violenza – si convincono che stanno solo reagendo, a buon diritto, ad una aggressione. L’Occidente tenta di opporsi all’autoesaltazione fingendo di esaltare un’altra cultura. Qui – il mondo occidentale è unico in questo – si dà la critica all’etnocentrismo: non siamo il centro dell’universo (da intendersi anche metaforicamente). Si danno, in questo caso, due ragionamenti: si denigrano le società arcaiche per far brillare quelle occidentali. L’umanità viene – arbitrariamente – “in due compartimenti stagni”. Chi idealizza le società arcaiche, per svilire la civiltà occidentale, commette, col segno rovesciato, lo stesso arbitrio. In questo caso, però, si ravvisa un comportamento anomalo: “Rigettare la colpa della violenza su un mondo arcaico che in realtà non può più minacciare nessuno, dal momento che stavolta, è davvero scomparso, significa farsi beffe della nostra intelligenza”. C’è un altro motivo che impone di evitare manicheismi tanto pericolosi quanto inutili. Girard fornisce questo motivo con un’affermazione inattaccabile: “Tutti gli uomini hanno ormai lo stesso interesse vitale al mantenimento della pace. In un mondo veramente globalizzato, la rinuncia alle ritorsioni violente sta diventando per forza di cose (…)la condizione sine qua non della nostra sopravvivenza”.
Siamo in un epoca – scrive il filosofo Peter Sloterdijk – che rende l’apocalissi dell’uomo qualcosa di quotidiano. Riguardo al futuro dell’uomo, il pensatore tedesco, ritiene di dover dire che al sé non resta da fare niente altro che precipitare nel senza fondo della ‘cosalità’ e della ‘esteriorità’ e perdervisi. Sloterdijk ha definito la modernità l’epoca del mostruoso fabbricato dall’uomo. Una mostruosità che si palesa in tre ambiti: spazio, tempo e nelle cose. Con le forme del mostruoso intratteniamo un “rapporto di routine”. Il mondo, per noi, non è più quello ‘dato’ e la nostra missione non è più scoprirlo perché esso “è tutto quello che può essere costruito attraverso azioni di routine”. Quello che caratterizza l’uomo, ormai, è la sua capacità di padroneggiare ‘prodotti artificiali di grado superiore’. Il filosofo sostiene, inoltre, che si sono date ben cinque modernità generate da altrettante ‘crisi o reazioni’: controriforma romanticismo vitalismo fascismo. Stiamo passando, aggiunge, alla sesta modernità: vi signoreggia l’evento globalizzazione intesa “come produzione del presente permanente sulla terra”. Che epoca ci attende? Vengono date due risposte: catastrofica o di continuità. Prevalendo la prima, ecco come l’articola Sloterdijk: la totale realizzazione della modernità può subire una interruzione solo da “un evento del tutto smisurato rispetto ad essa” e che può causare un movimento che la orienti verso esiti imprevedibili (disastro biosistemico, epifania teologica, intervento extraterrestre”. Il filosofo, in numerosi interventi, insiste nel dire che la modernità è caratterizzata dal “crescente peso che l’artificiale acquisisce nei moderni mondi della vita”. Modernizzare = artificializzazione. L’equazione disumanizzante è svelata! Cultura e politica, evolvendosi, hanno addomesticato la natura umana e ci fanno vivere in un luogo recintato, un parco, come metaforicamente definisce Sloterdijk il ‘mondo tecnologico’. Eppure, la storia del ‘pensiero dell’essere’, la metafisica si è opposta sempre a tutto questo! Ormai, sembra che il lavoro del pensiero dell’essere sia considerato superfluo e che “al centro della modernità pensata in modo ulteriore un ruolo chiave (…)lo possano giocare solo inventori, artisti, imprenditori, e non più (…)i pensatori nel senso rigoroso della tradizione filosofica”. Prevarranno i soggetti che abbandonano la ‘cura’ di ‘quello che c’è’ (es gibt)ed ex abrupto propongono il ‘mai visto prima’. L’essere, dice con bella immagine il filosofo, già da oggi sembra una cappella tra i grattacieli. Ormai, la ‘casa dell’essere’ – “si mostra come qualcosa in cui non è quasi più possibile (…)abitare”. Siamo in una modernità protetica. Che vuol dire? Le macchine, spiega il pensatore tedesco, sono protesi che potenziano aspetti naturali ed umani. Viviamo in un parco protesi globale. Abitiamo una modernità che, inesausta, appronta “estensioni operative, sensoriali e cognitive dei corpi”. Sloterdijk rilegge il detto di Bacone ‘sapere è potere’ in questi termini: sapere è possedere un ‘sapere operazionale’ e, cioè, la competenza giusta per gestire macchine. Questo è vero potere! Addirittura ci dice che ‘Illuminismo’ significa essere competenti costruttori di macchine. Purché una cosa sia fattibile ed accresce le nostre capacità operative, va fatta! “Il regno di ciò che si può è l’elemento dell’uomo moderno”. È così già da molto tempo e, come recitano questi versi tratti da ‘I fiori del male’ di Baudelaire, i luoghi dell’uomo sono tristi anche se finanche il mostruoso stigmatizzato da Sloterdijk, ci attrae: Nelle pieghe sinuose delle vecchie capitali/Dove tutto t’incanta, anche l’orrore/Tengo d’occhio, da miei fatali umori astretto/Creature decrepite, curiose, affascinanti.
Ehrenberg ha parlato della fatica di essere se stessi: la modernità ci ha trasformati in “uomini senza guida” che devono, cioè, tutto autonomamente giudicare fondando in solitudine i “punti di riferimento”. Nulla è più ‘permesso’ o ‘vietato’, ma si deve solo stabilire se qualcosa è ‘possibile’ o ‘impossibile’. Non si è OK se si è docili, se ci si inserisce in un tessuto sociale, culturale e politico dato, ma solo se si è in grado di prendere iniziative. Per essere se stessi, ci vuole uno sforzo sovrumano. La nevrosi, spiega Ehrenberg, è sì una malattia ed interessa la medicina, ma è anche “il portato della civiltà”. Il depresso è “l’uomo in panne” perché si è guastato correndo dietro ad una vita che rapidamente si trasforma e diventa sempre più esigente. La depressione, paradossalmente, prospera nella società dall’abbondanza. Si cura l’uomo con ‘tecniche di miglioramento’, ma non troviamo strumenti efficaci per ‘ristrutturarsi’. La depressione, tuttavia, ci istruisce: chiarisce quanto costa dibattersi tra “l’anelito a essere semplicemente se stessi e la difficoltà di esserlo”. L’uomo è patologia e non ha patologia; siamo di fronte ad un individuo traumatizzato, allo sbando, vuoto, esasperato, con una interiorità cronicamente fragilizzata. Freud sosteneva che la nevrosi deriva dal non riuscire a sopportare la frustrazione patita a causa della società; la depressione, invece, viene fuori dal dover “sopportare l’illusione che tutto è possibile”.
Una vita esemplare che descriva l’incapacità dell’uomo contemporaneo di abitare il proprio tempo è quella del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin. Qui tracceremo solo le linee guida che servono al nostro itinerario. Walter aveva piacere di ricordare, dell’infanzia, l’aroma della mela cotta che la governante, ogni mattina, gli preparava. In quel profumo, il bambino avvertiva una forza che – scrive Giulio Schiavoni – “lo rassicurava e lo riconciliava di prim’ora con le cose che il giorno teneva in serbo per lui e che recavano anch’esse uno specifico profumo a lui ben noto (…)egli esitava quasi a portarsi fino alle labbra la mela (…), per tema che il messaggio promesso da lei veicolato potesse vanificarsi”. Giunto a scuola, però, pativa la scomparsa di quelle piacevoli sensazioni: entrava nel mondo del dovere, del non gratuito, della competizione, dell’ordine. Benjamin lamenterà sempre la ‘monotonia’ e la ‘fredda ottusità’ dell’insegnamento scolastico. In famiglia imparò presto che il mondo non consente a lungo di fantasticare sul profumo di una mela cotta; infatti, Walter non vincerà mai la tristezza che gli dava sentir dire a sua madre, ogni volta che lui commetteva un errore - ‘con tanti saluti al signor Maldestro’. Si mosse davvero in maniera impacciata nella vita. Alla severità della madre si aggiunse l’acido versato nella sua delicata psiche da una insegnante inflessibile e intransigente: la signorina Helene Pufahl. Il giovane si divertì a giocare con le iniziali del suo cognome: ne ricavò un ritratto fedele della torturatrice. P stava per Pflicht (dovere), per Pünktlicheit (puntualità), per Primis (dovere di primeggiare); F stava per folgsam (docile), per fleißig (diligente), fehlerfrei (chi non sbaglia); L rinviava alle qualità che non solo Helene, ma il mondo stesso richiedeva: lammfrom (essere mansueto come un agnello), lobenswert (lodevole), lernbegierig (desideroso di apprendere). Quando Walter tentò di ottenere la libera docenza, presentò un lavoro: Dramma barocco tedesco; però, dovette incassare un netto rifiuto dai professori: non ne compresero una parola! Sarcastico, Rothacker, disse: ‘al genio non si può conferire la libera docenza’. Si allontanava sempre più il tempo in cui il profumo di una mela cotta lo rassicurava. Non è un caso se, tra le frasi che Kafka elargiva a Max Brod, Benjamin ripetesse questa: Esiste un’infinita speranza, ma non per noi. Quando scrisse il racconto ‘Luna’, ci rese partecipi dello stupore che provava di fronte allo spettacolo dei raggi lunari. Per Schiavoni, fecero sì che la luna rivelasse “al bambino (…)un versante notturno dell’esistenza dell’uomo: (…)un versante altro, beffardo, insidioso, vicario dell’essere diurno”. Questo lato oscuro dell’esistenza fu predominante nella sua vita! Scriverà che “non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibile”. Un conflitto mondiale, l’odio per gli ebrei furono il ‘versante notturno dell’esistenza’ che lo sconvolse. Iniziate le persecuzioni naziste, dovrà allontanarsi dalla Francia, ma non sarà facile. L’11 gennaio 1940, scrive a Scholem che era il tempo in cui “il numero di quelli che riescono ancora a cavarsela in questo mondo si assottiglia sempre più”. Lui stesso non ne uscì vivo. Benjamin, racconta Lisa Fittko, le chiese di aiutarlo a passare dalla Francia alla Spagna. Dopo una marcia massacrante, giunse al confine, ma ebbe una amara sorpresa: le leggi erano mutate ed ora, per entrare in terra spagnola, occorreva il visto d’uscita del governo francese! Doveva tornare indietro ma non voleva rischiare di cadere nelle mani della Gestapo. Amareggiato ineluttabilmente, da Port – Bou, il 25 settembre 1940, scrisse in una lettera: “non ho altra scelta che farla finita. E la mia vita terminerà in un paesino dei Pirenei in cui nessuno mi conosce”. Poco dopo compiuto l’insano gesto (assunse una overdose di morfina)il provvedimento venne revocato ed altri profughi entrarono agevolmente in Spagna. Una beffa del destino: un uomo, in fondo, non può mantenersi felice aggrappandosi al ricordo del profumo di una mela cotta. Troppo brutale il suo tempo! Brecht, in una poesia scritta per il filosofo suicida, lamenta: il futuro è nelle tenebre, e le forze del bene sono deboli. Debole era anche Walter. Aveva appreso da Brecht che l’uomo può vivere nella disperazione, se sa come vi è arrivato. Non fu così. Sapere le ragioni della sua disperazione non bastò ad evitargli una fine immeritata. Di Brecht, Benjamin amò una lirica che per la vita del filosofo (e di molti suoi contemporanei)è emblematica: ‘Il susino’: Nel cortile c’è un susino/Quant’è piccolo non crederesti/Gli hanno messo intorno una grata/perché la gente non lo pesti/Se potesse, crescerebbe:/diventare grande gli piacerebbe/Ma non servono parole:/quel che gli manca è il sole/Che è un susino, appena lo credi/perché susine non ne fa/Eppure è un susino e lo vedi/dalla foglia che ha. Il susino vorrebbe diventare un albero come un uomo un vero uomo, ma non c’è sole, non c’è pace, amore, che aiutino la crescita. Le parole, i proclami, gli slogans, possono nulla. Ma se un susino non fa susine ed un uomo non si umanizza, se ne ricava che un susino non è un susino ed un uomo non è un uomo. Resta solo una foglia a garantire per l’identità di quella pianta malandata. Quale traccia resta in noi per dire che siamo uomini? Io credo che una traccia attendibile sia la debolezza, la poeticità di una vita come quella di Benjamin. Quando, impaurito ed ammalato, si rivolse a Lisa Fittko per entrare in Spagna, così si presentò: “Voglia scusare il disturbo, signora. Spero solo di non giungere in un momento poco opportuno”. Lisa commenta: “Il mondo sta cadendo a pezzi, pensai, ma (…)Benjamin conserva intatta tutta la sua cortesia”. Quando una pianta è fragile e bisogna proteggerla con una grata (il filosofo poteva proteggersi con il ricordo di una aromatica mela cotta?)vuol dire che la ‘grazia’ diserta il mondo; quando la pianta non dà frutti e l’uomo non si umanizza, ecco una foglia superstite a ricordarci che quello è un susino, proprio come quel po’ di cortesia elargito, in momenti difficili, da Benjamin a Lisa, ci ricorda che un uomo – benché stanco e piagato – è sempre un uomo.
Karel Kosik, pensa che l’individuo è proiettato in un mondo che era lì prima di lui e, dagli apparati che lo sovrastano, subisce l’‘espropriazione di sé’ ogni giorno. Un suo libro contiene uno scritto intitolato ‘Metafisica della vita quotidiana’: la quotidianità alienante esige non che l’uomo cambi la realtà, ma il modo di porsi di fronte ad essa. Nell’economia capitalistica si ha, dice Kosik, un capovolgimento mortale di termini: le cose si personalizzano e l’uomo si cosifica. Gli stessi rapporti produttivi e sociali utilizzano la coscienza individuale per farne la forma della loro esistenza. Dobbiamo riappropriarci della coscienza soggettiva. In una intervista, Kosik afferma che abbiamo barattato il desiderio di manipolare le cose con la possibilità di relazionarci alla verità, all’Essere. Immaginazione, fantasia, risultano mortificate da un dittatoriale e ininterrotto scorrere di immagini. Ci viene mostrato tutto e nulla origina dalla nostra creaività. Eppure, oppone Kosik, sono proprio le nostre risorse creative che potrebbero salvarci! Siamo fuori della realtà, prigionieri di una ‘caverna’ attirati dalla possibilità di accaparrarci “comfort e felicità”. Ha senso rinunciare alle nuove seduzioni per mettersi su strade polverose a cercare i confini dell’anima il cui logos pare irraggiungibile tanto è profondo?(Eraclito). Il dramma è che il postmoderno stabilisce che non si può distinguere il vero dal falso, perché ha previamente affermato che la verità non esiste. Raul Vaneigen ha scritto il Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (Vallecchi, Firenze 1973). In questo saggio si dice, apertis verbis, che non vale la pena garantirsi le cose a spese del senso. Una frase forte nella introduzione al saggio possiamo considerarla un manifesto programmatico contro l’alienazione: si deve saper dire di ‘no’ ad un mondo in cui la garanzia di non morire di fame si scambia contro il rischio di morire di noia. Dice un poeta indiano: non ci hanno dato le cose per rallegrarci della vita, bensì ci è stata donata la vita per rallegrarci delle cose.
Berger constatava che, da più parti, si lamenta l’impossibilità di definire con precisione cos’è l’individualismo moderno. Ipotizza che il romanzo possa fornire qualche elemento capace di fare maggiore chiarezza. Sceglie Musil: L’uomo senza qualità. Un romanzo che costò venti anni di lavoro all’autore, migliaia di pagine, e…incompiuto! Il protagonista, Ulrich, come Musil, esercitò numerose professioni e si costruì molteplici identità. L’autore di quest’opera inquietante, studiò filosofia con Ernst Mach e scelse, come argomento per la tesi di dottorato, una convinzione del maestro: la nozione classica del sé (soprattutto quella cartesiana)è, ormai, insostenibile. Ulrich, in questo romanzo la cui trama si svolge in un anno, è un trentenne matematico con una notevole carriera alle spalle che torna in Austria per tentare di chiarirsi le ragioni della sua cronica insoddisfazione. Concluderà che affermare di avere un vero sé è illusorio. Il sé è un buco da riempire agendo. Si è qualcuno (o qualcosa?)solo accettando di svolgere ruoli assegnatici dal mondo esterno. Un capitolo del romanzo ha questo lungo titolo: idealità e morale sono mezzi migliori per colmare il gran buco che si chiama anima. Idealità, morale, termini generici…un uomo senza qualità non ha interesse a chiarirsi che tipo di ideali incarnare, né che tipo di morale trasformare in etica, cioè in percorso di vita. Scrive Berger: “l’uomo senza qualità è ipso facto l’uomo delle possibilità (…)il sé moderno si caratterizza per la sua apertura infinita, per il suo essere sempre in progress”. Ulrich arriva addirittura a sostenere che Dio parla del mondo col ‘congiuntivo potenziale’: Lui che ha creato questo mondo, pure pensa che potrebbe essere fatto diversamente! Nel romanzo è detto che viviamo in una condizione tale da farci ritenere possibile che ‘ad ogni minuto’ si apra ‘una nuova era’. Le qualità – paradossalmente – sono indipendenti dall’uomo; si relazionano tra loro, non con noi. Musil sostiene che ‘amore’ e ‘brutalità’, invece di contrapporsi, stanno l’uno accanto all’altra come “le due ali di un grande uccello muto e variegato”. L’individuo, un tempo, pur minacciato da eventi esterni e naturali, apparteneva a se stesso. Nel romanzo c’è una figura di conservatore, il conte Leindsorf. Questi è certo che riflettere a lungo sull’idea di Stato conduce ad atteggiamenti sovversivi: si può essere leali politicamente quando la lealtà dipende dalla riflessione su di un concetto? No! Il problema, però, è che l’uomo moderno non crede alle appartenenze stabilite su basi affettive. Le certezze intuitive non hanno più valore e non solo in politica. Si pone tutto, togliendo una sana immediatezza al vivere, sotto il dominio di quella che Schelsky chiama riflessività permanente. Nel mondo moderno “tutti i sistemi di ordine sono posti in questione”. Altrettanto dicasi per quei sistemi filosofici che pretendevano di aver ordinato le facoltà umane in una granitica identità. Nel romanzo, alle battute iniziali, viene dichiarato che ogni individuo è costituito da almeno nove caratteri: nazione, Stato, classe, contesto geografico, sessualità, conscio, inconscio, vita privata. Si danno tutti assieme in ogni momento della nostra esistenza e ne dobbiamo rispondere. Quando Ulrich dovrà arredare la casa di Vienna, non riuscirà a decidere ‘che stile adottare’; indecisione dovuta alla “ben nota discontinuità delle idee con il loro pullulare senza un nucleo centrale, incoerenza che contraddistingue il nostro tempo e ne determina la bizarra aritmetica, la quale salta di palo in frasca senza unità”. Lascerà tutto in mano ad un esperto e il risultato sarà comunque deludente. Anche in scelte di poco conto si patisce una confusione mortificante, perché le possibilità, essendo sterminate, disorientano e snervano. Jedlowski, che cura il saggio di Berger, tira le somme: “Il soggetto moderno è effettivamente il soggetto delle possibilità (…)è (…)unfinished, interminato (…)un individuo che non vive più nel mondo del destino, ma in quello della scelta”. L’uomo, ontologicamente e fenomenologicamente è homeless, ‘senza dimora’. La vita di un soggetto simile è narrabile in maniera coerente? Credo di no! Musil stesso ritenne improponibile raccontare sensatamente la vita dei suoi personaggi: “la storia di questo romanzo – ammette in un’annotazione del 1932 – viene a dire che la storia che in esso si doveva raccontare non viene raccontata”. Il soggetto moderno fa esperienze, ma non sa fare esperienza: subisce cose e fatti, ma non riesce a connetterli in una narrazione coerente. Sarà questa, credo, la ragione per la quale Ulrich ritiene infruttuoso combattere i mali del mondo; appena lo si svuota di un po’ di male, argomenta, altro ne prende il posto – “come se il mondo scivolasse sempre indietro con un piede quando l’altro avanza”. Un modus vivendi insopportabile, ma, conclude Jedlowski, al destino di un’epoca è difficile sfuggire.
Cioran non vede differenze tra l’uomo com’era e com’è: troglodita era quando abitava le caverne e lo è ora che ha preso possesso dei grattacieli. L’uomo oggi non trema di paura per le minacce della natura o di qualche divinità, ma per l’inumanità delle istituzioni, degli apparati. Se le ‘epoche di terrore’ durano più di quelle pacifiche lo si deve al nostro disamore per la quiete! Preferiamo, fossero luttuosi e cruenti, numerosi avvenimenti ad un tempo pacifico, ma infarcito di fatti irrilevanti. La storia si presenta come “il prodotto sanguinoso” del nostro rifiuto della noia. Cioran ritiene che a nulla valga il tentativo di contrapporre qualcosa di duraturo alla decadenza; anzi, non combattendola, la si lascia crescere, maturare e finire. Solo dalla crescita e dalla morte di forme di vita possono darsi ‘nuove’ forme di vita. Dovremmo andare, perciò, incontro alla fine della storia con un fiore all’occhiello. Abbandonate regole, consuetudini, non ci resta che da munirsi delle ‘doti di attore’; la franchezza, ormai, è una sventura perché la vita non è tollerabile se non per il grado di mistificazione che vi si mette. Se la vita è disastrata, nessuna meraviglia che l’uomo viva nell’epoca della pietà di sé; è tarlato ed impossibilitato a pensarsi ‘in termini di aurora’, non può che “studiare la propria perdita” e “correrle incontro”. Siamo, per Cioran, un nulla lucido: lucidi, in quanto capaci di ‘sorvegliare tutti gli oggetti’; nulla, perché di nessuno degli oggetti controllati disponiamo. In questa lacerazione diveniamo polvere invaghita di fantasmi. Ci innamoriamo di cose seducenti, ma senza consistenza. Non ci sostengono le capacità critiche, in quanto restano solo idee neutre come occhi aridi e fatichiamo a rianimare le zone affettive depotenziate da un cuore dimissionario. Idee, cuore: cognitivo ed affettivo in crisi! Eppure, non c’è uomo che non si adori. Ci raccontiamo come se parlassimo di eroi, ma – per dirla con Cioran - creiamo la vita nel delirio e la disintegriamo nella noia. Siamo in affanno in una civiltà affannata e corriamo senza meta elevando canti di lode ad una ateleologica iperattività. Sempre più difficile uscire dall’illusione dell’atto per ristrutturarci nella santità dell’ozio. La febbre del fare ha avuto inizio in un preciso momento storico: nel Rinascimento, con quella che il filosofo chiama l’eclisse della rassegnazione. L’uomo antico quanto accadeva accettava, convinto che tutto avesse una motivazione anche se a lui non ancora evidente. L’uomo moderno, invece, discute tutto, e si passa dal tempo del destino al tempo delle scelte. Anche per Cioran prendere sulle proprie spalle il bene ed il male, porta in alto solo per garantirsi una più rovinosa caduta.
Franco Crespi pensa che si debba ‘imparare ad esistere’ e trovare i nuovi fondamenti della solidarietà sociale. Esistere, tuttavia, è un’esperienza della quale non si può avere piena cognizione: dovremmo metterci fuori dall’esistenza ed osservarla. Crespi sottolinea che non potremmo mai occupare ‘la posizione di un Dio’. Esistere viene da ex – sistere, ‘star fuori’. Da cosa? “Dall’unità e dall’immediatezza dell’essere naturale”. Nel ri – flettere su di sé e sul ‘come si vive’, si arretra di fronte al reale di un passo. Solo una pietra, un animale, coincidono immediatamente con l’esserci. C’è, tuttavia, differenza tra ‘imparare a vivere’ ed ‘imparare ad esistere’. Imparare a vivere significa imparare delle regole sociali, culturali per conformarsi al gruppo umano al quale si appartiene; oppure, farsi furbi e agire per il proprio vantaggio; imparare ad esistere, invece, non può mai riferirsi all’apprendimento di regole. Si tratta, piuttosto, di essere attenti al modo di ‘essere nel mondo’, di apprendere dalle esperienze che facciamo ed accettare le potenzialità realmente realizzabili. A nessuno si insegna ad esistere, ma si può aiutare l’altro ad imparare ad esistere autonomamente. L’esistenza si impara esistendo ma c’è qualcosa da apprendere. Quando si guarda solo ad altri, si finisce nel ‘conformismo’. Se questo rassicura e ci ottiene il riconoscimento altrui presenta, alla fine, un conto salato: la rinuncia al nucleo fondante la nostra personalità. La società ci protegge ed allo stesso tempo mette in pericolo la nostra autonomia: da un lato, ci forma l’ambiente sociale, ne siamo il prodotto; dall’altro, apportando il contributo della propria esperienza, siamo i produttori della società. Qui si affaccia la necessità dell’etica che è l’invito a realizzarci sviluppando le effettive possibilità di cui siamo dotati. L’etica ha il suo criterio fondante nell’‘autenticità della propria esistenza’. Autenticità vuol dire rischio perché non ci si può rifare ad un modello di vita già dato. La domanda ‘chi sono io?’ esige una ‘trasformazione’ e non una ‘definizione’. Se cerco il mio essere autentico, devo demolire ogni identità precostituita. L’etica invita ad una esperienza rischiosa perché vissuta nel fuoco “di una interrogazione radicale”. Sviluppare una esistenza autentica è il solo modo per non condurre una vita eterodiretta. Si naufraga stando in superficie, nelle cose della vita, non spingendosi sotto. Disse Kierkegaard: sarei andato a fondo, se non fossi andato fino in fondo.
Analizzarsi è reso più difficile dal fatto che l’uomo stenta a pensarsi come creatura, ad accettarsi dalle mani di un Altro! La psicanalista Marie Belmary ci parla di un libro del filosofo Jean – Joseph Goux. Interessanti le riflessioni su Edipo. Questi, non combatte ed uccide la sfinge, ma la batte sul piano intellettuale e senza ricevere aiuti esterni. Il suo successo è ‘ateo e intellettuale’. Lo si può considerare il precursore del tipo di filosofo che oggi conosciamo: non un ‘iniziato’, ma un uomo che ritiene di poter accedere alla verità in virtù della propria riflessione liberata da ogni eredità. A detenere il sapere era il sacerdote, il re titolare di un ‘investimento divino’; ora, depositario del sapere, è il filosofo. L’atteggiamento di Edipo di fronte alla sfinge è quello del pensatore occidentale di fronta agli enigmi gnoseologici. Le menti pensanti, ormai, si sforzano di risolvere ogni questione con una intelligenza atea. Questo modo di fare interessa anche la conoscenza di sé ed è tipico, secondo Goux, di Cartesio. Scrive la Belmary: “Scrivendo quel ‘io…dunque io…’, egli mostra che non gli è necessario dire ‘tu’ – al dio, agli uomini – per dire ‘io’”. Insomma, “l’uomo che si è eretto in Occidente non intende più entrare curvo e prosternato nel soggiorno degli dei”. L’uomo è solo e diventa ‘assoluto’ nel senso peggiore del termine: ab – solutus, sciolto! È solo perché ha reciso legami importanti. Saggio è Hölderlin: è un bene sorreggersi agli altri. Poiché nessuno sostiene da solo la vita.
Di fronte agli sconvolgimenti epocali del Novecento, l’intellettuale e politico cattolico Giorgio La Pira, invitata a ritrovare una bussola tra i marosi paurosi dell’oceano. Auspicava una ‘rivoluzione di carità’ innervata dall’impegno con Cristo. Pensava si dovesse ricostruire a partire dal valore della persona umana; valore derivante dalla presenza di Dio nell’uomo. La crisi politica del Novecento ha radici religiose; i movimenti politici derivavano, in fondo, da un lento e complesso “processo di disincaglio e di apostasia dal cattolicesimo iniziatosi nel 500” e durato fino ad oggi. Si tratta di ricapitolare società e civiltà in Cristo! Deve essere così, insiste La Pira, anche se si dovesse inaugurare un nuovo Medioevo. Tutto, pur di far valere questo concetto: “vero uomo è quello che il Cristianesimo ha rivelato”. Il cristiano deve avere – uscendo dall’ “orto chiuso dell’orazione” – coscienza del fatto che Dio ci affida questa missione: ‘scendere in campo’ – impiegando al meglio ‘riflessione, cultura, parola, lavoro’ – per “riparare la casa dell’uomo in rovina!”. Orazioni, vita interiore, ottime di per sé, non possono più giustificare la pigrizia di certi credenti. Fare ‘apostolato’ non è solo ‘convertire singoli’, ma soprattutto ‘convertire la città’. Un apostolato valido deve essere attento “alle parti e al tutto”. Il Vangelo parla di ‘conversione’ riferendosi a “stirpi intere”. L’evo moderno, rileva La Pira, pur presentando una “estrinseca apostasia da Cristo”, origina comunque dall’humus evangelico. La Rivoluzione francese non volle condurre al culmine idee radicate nel valore cristiano dell’uomo? La Pira non contesta alla sociologia contemporanea lo slogan ‘politica sovra tutto’ solo perché convinto che l’uomo si forma bene solo se è socialmente ben ambientato. I Pontefici del nostro tempo hanno detto tanto sulla vita sociale! Coincidono ‘problemi umani’ e ‘problemi cristiani’. Una cristianità che sia davvero ‘nuova’, non può avere altro obiettivo che quello di favorire “una rifrazione ampia della città celeste nelle strutture interne della città terrena”. Quale orientamento politico scegliere? La Pira sostiene che se ogni ‘forma di politica’ è una Weltanschauung (visione del mondo)non si tratta di una scelta tecnica. In primo luogo, viene stigmatizzato lo Stato totalitario, ma non per l’economia o la struttura politica che propone…il rifiuto deriva dall’avere esso una visione antiumana ed anticristiana dell’uomo! A chi gli contestava che cose buone avevano fatto anche fascismo e nazismo, La Pira opponeva: “e sia pure: perché (per una felice incoerenza)anche l’azione male ispirata può produrre, accidentalmente, frutti buoni: ma posso io, per questi frutti accidentalmente buoni, accettare l’albero che ha la radice insanabilmente guasta?”. Un orientamento politico va scelto solo se veicola una Weltanschauung che consenta la costruzione dell’uomo com’è inteso dal cristianesimo. Si pensi ad uno dei dogmi del cattolicesimo: il Corpo Mistico. La fraternità e cominione tre le Persone divine, tra i Santi, può ispirare fratellanza e convivenza nella città terrena. Già Socrate e Platone, ricorda l’intellettuale e politico cattolico, riflettevano su Dio, uomo e il loro relazionarsi. Questa tradizione ci può dire molto ed aiutare tantissimo in tempi bui a realizzare quella che è stata definita l’utopia di La Pira: fare sì che “di là dalle cose del tempo” fiorisca “nel cuore e nella mente dell’uomo un primo inizio delle cose e dell’eterno”.
Nell’ambito della conoscenza si registra un capovolgimento impressionante. Per Raffaele Simeone, fino a qualche generazione fa, erano i ‘vecchi’ a dover trasmettere conoscenze ai ‘giovani’. Dopo il 1970 ci si è trovati di fronte a forme complicate di conoscenza pratica: nulla o poco sanno i vecchi, i giovani sanno tutto; “i nuovi ‘vecchi’ – quanto a esperienza e a sapere – sono oggi in molti campi i giovani”. Le conoscenze nella società tradizionale, poi, erano soggette a bassa stabilità: facilmente deteriorabili i supporti sui quali la memoria si fondava per custodire il sapere. Si pensi alla biblioteca di Alessandria: vi si voleva conservare l’intero scibile umano, ma un incendio incenerì il sogno! Il sapere ha non più nell’uomo il privilegiato supporto sul quale installarsi; infatti, nessuno deve ‘tenere a mente’ tutte le conoscenze utili: “possono essere lasciate dormienti su supporti esterni, per risvegliarle solo quando servono”. La banca dati deresponsabilizza l’uomo nel tenere presenti certe conoscenze. In computer sempre più piccoli vengono depositate sempre crescenti informazioni. Con Ferraris concordo quando individua un limite insuperabile a tutto questo: “che si possano costruire computer sempre più piccoli trova un limite obiettivo non nella miniaturizzabilità dei chips, bensì nella non – miniaturizzabilità delle mani”. In fondo, come scrive Plessner, un uomo è “sempre e comunque corporeità (…)anche se è convinto di avere una anima immortale che sta in qualche modo al suo interno”. Ma laddove si ha facile accesso a qualsiasi conoscenza, si producono in serie ‘tuttologi’: si sa tanto, si potrebbe sapere tutto, ma superficialmente: “il diffondersi della conoscenza (…)non ha scacciato le conoscenze approssimative e generiche. Di una quantità di conoscenze abbiamo soltanto (…)una sorta di ‘schedina’ mentale che contiene il ‘nome’ dell’informazione e qualche generica notizia al proposito. Ma oltre questo spesso non sappiamo andare: dinanzi a molte conoscenze generiche, non siamo in grado di valutarle o controllarle”. La massima disponibilità di conoscenze è proprio ciò che limita conoscere. Un potere che limita perché non si è compreso il potere del limite! Utilizziamo le infomazioni (che non sono vere e proprie conoscenze)come merci e le consumiamo a velocità impressionanti. Siamo alla figura dell’uomo consumatore. Consumiamo cose? Mario Pezzella spiega che le ‘immagini’ condizionano i nostri acquisti. La merce viene dopo la stimolazione subita dal suo simulacro televisivo. Desideriamo “prima le immagini (…)poi le merci”. Conta meno la ‘qualità oggettiva’ di ciò che compriamo che ‘l’immagine fascinatoria’ apparecchiataci. Quando incontriamo le merci nel negozio esse, raggiunteci precedentemente in immagini, non entusiasmano avendole già godute, egoisticamente, “in una condizione di immobile visualità”. Né le conoscenze, né le merci rendono felici. Pezzella torna sul tema dell’informazione che è, ormai, ‘elettronica’: ci vengono segnali con tanta velocità che la nostra attenzione si contrae nel ‘puro istante’. Non siamo noi che ci muoviamo di fronte alla merce ma, ridotta ad immagine, essa viene esposta con moto frenetico davanti all’immobile spettatore. Avere una identità forte in un mondo che privilegia la velocità, il fluire è impossibile. Nella società elettronica prende forma un ‘intelletto generale’ nel quale c’è una “massa simultanea e così vasta di scambi informativi, che la persistenza dell’individuo diviene un intralcio al suo fluire istantaneo”. Un paradosso: “Quanto più il nulla emerge dall’intima profondità del moderno, tanto più si esaspera il bisogno di fantasmagorie che realizzino un simulacro di vita e fervide apparenze”. Il nulla, combattuto con un ‘simulacro di vita’ e col proliferare schizofrenico delle ‘fervide apparenze’, sarà sempre più forte!
Gellner parla dell’uomo modulare. Si ricorre ad un linguaggio tipico dell’industria dell’arredamento. Un armadio tradizionale constava di un solo pezzo; quando occorreva più spazio, lo si sostituiva con uno nuvo e più grande. Un armadio componibile, all’opposto, possiamo modificarlo a seconda delle cangianti esigenze. Non c’è momento in cui non possiamo aggiungervi un elemento e non si può dire che in un dato momento raggiunge uno status definitivo! Proprio così è l’uomo modulare: ha molteplici qualità, aspetti e tutti mutevoli. L’onnipotenza delle possibilità è, in realtà, impossibilità di realizzarle tutte e questo fa sentire il limite come un’impotenza assassina. L’uomo, preso in questa molteplicità di compiti (solo apparentemente tutti assolvibili)patisca la fluidità dei legami e la condizione di modularità è l’unsicherheit, ‘l’incertezza’. Ne risente anche la fiducia nella Verità e, come già disse Nietzsche, “falsa sia, per noi, ogni verità che non sia stata accompagnata da una risata”.
Baudrillard sostiene che la realtà, in fondo, esiste solo da quando è sorto un ‘pensiero razionale’ in grado di comprenderla e di rappresentarla in “segni codificabili e decifrabili”. Oggi è in crisi proprio il pensiero razionale. Trionfa l’aleatorio sostenuto da “quelle teorie moderne che danno importanza agli effetti imprevedibili delle cose”. Il mondo è aleatorio, poiché soggetto ed oggetto non sono più “ripartiti armoniosamente nel sistema del sapere”. Se il soggetto (gnoseologico)svanisce nell’evanescenza del reale, il pensiero non è più in grado di occuparsi della verità. Si commette, dice Baudrillard, il delitto perfetto: l’ “eliminazione del mondo reale”. Il mondo viene eliminato dalla convinzione di poterlo, con calcoli e verità oggettive, ‘verificare’. Il delitto avviene, a danno del mondo, del tempo, dei corpi, quando si dà luogo alla dissoluzione di essi per mezzo della “verifica obiettiva delle cose” e si dà campo libero “alla smania di identificare a qualunque costo”. Se davvero si potesse cancellare ogni traccia di quanto c’è di negativo, si darebbe un mondo insignificante anche se unificato. Il ‘delitto perfetto’ è sopprimere l’alterità. Il mondo in cui si sopprime l’altro, coincide con se stesso. Per questo, dunque, il nuovo titolare della conoscenza deve essere capace di sopportare che il pensiero trovi nell’incertezza una regola del gioco gnoseologico. Baudrillard sostiene che se, nel passato, si è dato un soggetto statico, data la situazione paradossale in cui si trova oggi il mondo, si rende necessaria l’attivazione di un pensiero paradossale; o, come si esprime, un pensiero – evento che “non lavora per identificare le cose, come (…)il pensiero razionale, ma (…)agisce in funzione della deformazione – alterazione a dispetto della sua volontà (…)di unificare il mondo sotto un suo progetto e in suo nome”. È un pensiero catastrofico. Il nostro autore usa questo aggettivo per indicare un pensiero che provochi una reazione di fronte ad un mondo che vuole passare sotto silenzio limiti ed il limite dei limiti, la morte. Un pensiero inumano nella sua furia provocatoria? Non è l’intento di Baudrillard: un pensiero nuovo deve pur sempre “restare umanista, preoccuparsi dell’uomo”. Un pensiero che rendesse ‘verificato’ il mondo, non sacrificherebbe l’uomo? Per questo – come disse Heidegger – nelle cose del pensiero ne va della vita. Fare filosofia giammai a danno dell’uomo è un lavoro urgente.
L’eccessiva mobilità dell’uomo è un rimedio, dice Severino, contro l’angoscia del nulla. Nel passato, un mercante viaggiava con la confortante certezza che sarebbe tornato a casa, luogo si stabilità e sicurezza. Ormai, stabilità coincide con ‘monotonia, precarietà’ e stare a casa fa pensare allo stare in prigione. Se non c’è più un ‘Luogo sacro originario’, conclude Severino, ci si sente sicuri solo cambiando sempre luogo. Il viaggio deve avvenire con velocità sempre crescente, perché non assuma “i tratti della monotonia e della precarietà domestiche”. Il viaggio si candida a diventare l’abitazione stabile dell’uomo. Se non c’è Luogo sacro originario, siamo figli del vento. La crisi dell’abitare, il disamore per la casa prova che viviamo nell’esteriorità. Non comprendere che qui c’è un pericolo è pericolo ancora più grande. Paghiamo caro la mancanza di un fundamentum. Un relitto poetico il manifesto di Wilkin che invitava a regolare la nostra rotta sulle stelle e non sui fanali di qualche nave che passa. Eppure il mondo è ancora visitato dagli dei! Sono al centro della vita quotidiana. La TV rende presente Marte: scene di guerra, violenza; tra noi è Venere attraverso la sensualità, la pubblicità fatta di erotismo. Domina Hermes, dio messaggero; anzi, si parla di intossicazione ermetica: sono troppi i messaggi nell’etere (Hillman). Nonostante ciò, pare che il mondo sia disincantato ed in balia dell’imprevedibile. A tal proposito, Morin riprende una lezione di Euripide: l’atteso non si compie, all’inatteso un dio apre la via. Una visione deterministica della storia non è sostenibile. Si pensava di poter prevedere, analizzando il presente e comparandolo al passato, cosa sarebbe accaduto; il Novecento, invece, ha subito eventi che non erano attesi, prevedibili. Le sanguinose smentite all’ottimismo ottocentesco devono “incitarci a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso per affrontarlo”. Si potrebbe pensare, provoca Morin, che, tacitassimo l’affettività, si darebbe un corso più tranquillo degli eventi; invece, è utopico aspettarsi un progresso della razionalità scompagnato dalla crescita affettiva. C’è differenza tra razionalità e razionalizzazione. La ‘razionalità costruttiva’ offre teorie coerenti con le quali verificare se c’è compatibilità tra le idee che formano una teoria ed i dati empirici ai quali quella teoria fa riferimento. Quando la ‘razionalità costruttiva’ non ammette verifiche, smentite, nega se stessa e si muta in dottrina; a questo punto, si passa dalla ‘razionalità’ alla razionalizzazione’. Questa, infatti, è ‘chiusa’, mentre la prima è ‘aperta’. Il reale oppone resistenza alle teorie elaborate dalla razionalità e questa deve tenerne conto. L’affettivo, anche se disturba il cognitivo, merita considerazione da parte della ragione critica che è tale soprattutto se è autocritica. In fondo, la ‘nostra realtà’ non è altro che la ‘nostra idea di realtà’. Saggio atteggiamento non si elegge propendendo totalmente per il ‘realismo’ o per l’‘irrealismo’, ma solo riflettendo sul fatto che la ‘realtà è incerta’. Morin sa bene che le cose del pensiero mettono in gioco la vita e ci invita a pensare sempre – come diceva sopra Baudrillard – badando che il pensiero resti umanista: “Quante sofferenze e smarrimenti sono stati causati dagli errori e dalle illusioni (…)in modo terrificante nel XX secolo! Così, il problema cognitivo è d’importanza antropologica, politica, sociale e storica. Se può esserci un progresso di base nel XXI secolo, sarà quello per cui gli uomini e le donne non saranno più vittime incoscienti non solo delle loro idee, ma neanche delle menzogne nei confronti di sé”.
George Steiner fa un excursus sui problemi del nostro tempo e si convince che è segnato da una stanchezza profonda. I valori umani hanno collassato nel Novecento. Quello che più atterrisce, però, è che a provocare il collasso non sono stati “cavalieri della steppa o (…)barbari (…)”. Il peggio delle ideologie assassine novecentesche origina “dal contesto, dal terreno, dagli strumenti amministrativi e sociali dei luoghi eccelsi della civiltà, dell’istruzione, del progresso scientifico e degli sforzi umanitari”. Si è invertito il corso dell’evoluzione: dalla civiltà alla bestialità. C’è un paradosso nella nostra civiltà e lo denuncia Sophie Bessis: “Il paradosso dell’Occidente risiede nella sua facoltà di produrre principi universali, di erigerli al rango di assoluti, di violare con un affascinante spirito di sistema i principi che ne trae, e di sentire la necessità di elaborare le giustificazioni teoriche di queste violazioni”. L’Occidente prepara una delizia che trasforma in croce e dimostra che non si tratta di una metamorfosi orrenda. Mostri ha partorito, accanto ad innegabili valori e stili di vita positivi, l’Occidente. Massimo Fini sostiene che abbiamo allestito “un sistema che, nonostante si definisca (…)democratico e liberale, è fondamentalmente (…)totalitario (…)non concepisce e non tollera ‘l’altro da sé’”. Siamo nel paradosso perché crediamo di essere il Bene, di volerlo eternamente e, di fatto, operiamo il Male. Quello che Fini chiama il vizio oscuro dell’Occidente sta nella “distinzione manichea fra Bene e Male e nella pretesa prometeica di aumentare continuamente il Bene”. L’economista Amartya Sen comprime i nostri entusiasmi da evoluti europei scrivendo che “non c’è (…)un grande spartiacque che divida la tolleranza occidentale dal dispotismo non occidentale. Quando, nel XII secolo, il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a fuggire da un’intollerante Europa, trovò benevola accoglienza nel mondo arabo e ottenne un posto d’onore e d’influenza alla corte dell’imperatore Saladino al Cairo”. Fini sostiene che la “concezione occidentale della globalizzazione è questa: libera circolazione dei capitali e delle merci ma non degli uomini”. Il filosofo arabo Ibn Al Muqaffa (VIII secolo)fu tra i primi pensatori musulmani che nella filosofia islamica introdusse la ‘ragione critica’ e parlò del valore del ‘dubbio’. Sempre lui, tradusse in arabo delle favole indiane che ispirarono La Fontane quando scrisse le sue. Abbiamo crediti e debiti.
Bauman segnala uno studio nel quale si ragiona sull’ambiguità dell’individualismo moderno. Ambiguo perché, da un lato emancipa gli individui, dall’altro ne accresce l’insicurezza ritenendo ogni uomo il solo responsabile del futuro. Il moderno inocula la passione per la ‘trasgressione emancipatrice’, ma non sappiamo incontro a quali mete andiamo con tanta fretta! Il cammino è reso più aspro dal fatto che ogni individuo deve difendere le proprie ‘istanze’ da quelle, magari altrettanto sacrosante, altrui. La società, poi, si tira fuori da questa gigantomachia perché ‘indifferente al bene ed al male’. La conclusione: “Se la ‘società’ non ha preferenze se non quella che gli esseri umani (…)scelgano le proprie preferenze, allora non c’è modo di sapere se una preferenza è migliore di un’altra”. Tutto va bene. Se la ‘politica della vita’ si preoccupa in primo luogo di far ottenere in fretta la quota più alta di felicità possibile ad ogni individuo, ad un domani migliore si preferisce un oggi diverso. Un progetto di ‘buona società’ che richieda tempo non avrà successo. Le vite umane risentono di questo clima stressante. Ne viene fuori una esistenza ‘frammentata’ e si riduce, spiega Bauman a Benedetto Vecchi, ad “una successione di episodi mal collegati fra loro”. L’identità diviene un prodotto della nostra capacità di inventare e non più la scoperta che corona uno sforzo zetetico. Questo fa sì che l’‘identità’ divenga “la questione all’ordine del giorno”. Tramontata la ‘comunità’, esplode con maggior vigore l’interesse per stabilire chi sia io! Cerco, tramontate istanze Trascendenti e filosofiche, di definirmi in base alla mia frenesia di consumatore e, qui, l’identità si stabilisce su parametri egoistici: “La solidarietà è la prima vittima dei trionfi del mercato dei consumi”. Se come individui siamo ‘insostituibili’, come attori impegnati in ruoli sociali imposti e come consumatori, siamo intercambiabili. Se l’altro può valere me, allora, è un potenziale avversario. Marvell, ha composto un distico che esemplifica un modo di pensare che difficilmente si può mascherare: Sarebbero due paradisi in uno/Vivere in paradiso da solo. L’inferno, dirà Sarte, sono gli altri! Mi conforta che Heinrich Böll ci ricordi che quando uno uccide, uccide sempre suo fratello. Spezzare legami significa rendere insensato vivere che è sempre convivere. Scrive Augé in Perché viviamo? (Biblioteca Moltani, Roma 2004)che chiamiamo senso “la coscienza condivisa (…)del legame rappresentato e istituito con l’altro (…). Quando oggi siamo indotti a dubitare del senso del sistema educativo e della vita politica, quando parliamo della ‘crisi d’identità’ consustanziale alla nostra epoca, stiamo in realtà alludendo a qualcosa di più profondo: alla difficoltà di pensare il legame con gli altri”.
Viviamo, secondo Benasayag e Schmit, nell’epoca delle passioni tristi (espressione presa da Spinoza)perché trionfa il ‘quotidiano della precarietà’. La ‘crisi’ non è una eccezione, bensì, una costante del vivere sociale. Le ‘passioni tristi’ vanno combattute sviluppando ‘passioni gioiose’. Soffriamo due perdite: 1)la certezza che il progredire storico vada necessariamente verso il meglio (rottura dello storicismo teleologico). Anche il messianismo scientifico è polvere; 2)il tramonto della fiducia nel futuro: dall’ottimismo esagerato siamo percipitati nel pessimismo invincibile(cambiamento di segno del futuro). Sono due sbagli! Nell’‘inconscio collettivo’ si agita una ‘coscienza ferita’ che patisce la dittatura di una ideologia dell’emergenza: non c’è tempo per programmare il futuro perché l’immediato è già troppo minacciato. Le ‘passioni tristi’, il fatalismo, esercitano su di noi un certo fascino; sulla bocca di certi intellettuali i vocaboli della catastrofe paiono melodia gradevole (e, spesso, remunerativo è solfeggiare in tonalità minori). Benasayag e Schmit consigliano di animare un mondo “di desiderio, di pensiero e di creazione”; da qui possono erompere “legami (…). La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio (…). Educare alla cultura e alla civiltà (…)significa (…)creare legami sociali e legami di pensiero”. A soppiantare l’‘economicismo’ deve essere la profonda e ontologica inutilità della vita: quella parte di noi che si realizza, cioè, nella ‘creazione e nell’amore’. Perroux ritiene che anche la ‘scienza economica’ abbia stretti legami con l’assiologia, col ‘mondo dei valori’; infatti, come ogni scienza, non può non poggiare saldamente sulla ‘fede nella verità’; ma c’è parentela anche perché l’economia è una scienza che mira alla conservazione ed all’accrescimento della vita. C’è una utilità dell’inutile: la creazione, l’amore, il desiderio fanno della vita qualcosa di più che una collezione di cose e di danaro e del prodotto di una razionalizzazione che trasforma in deserto l’affettività. Bisogna sfatare, allora, il mito secondo il quale il rapporto affettivo è inconciliabile con la razionalità. Non è così perché, spiega Antonio Malo, non è “qualcosa che si impone necessariamente a colui che lo sperimenta (…)perché chi lo sperimenta è un essere personale (…) dotato della libertà di sentire e di accettare o rifiutare il giudizio spontaneo proprio dei sentimenti”. Si può parlare di relazione tra pathos e logos, pur non essendo il rapporto affettivo originariamente razionale, perché “il rapporto affettivo si fa sentire dal logos, che ha la capacità di interpretarlo, valutarlo e rettificarlo (…)le tendenze si aprono sempre, attraverso la razionalità, ad un mondo (non a un ambiente perfettamente definito e adatto a determinate inclinazioni)e, soprattutto, all’atto umano. Il logos (…)non è (…)impersonale e astorico, ma affonda le sue radici nelle esperienze biografiche”. L’uomo del logos coincide con l’uomo del pathos e se il mio logos non è rivolto all’uomo del pathos è accademico, inumano. Per Panikkar l’uomo aspira alla Verità, ma anche al Bene: la prima va com – presa, il secondo, realizzato. Questo eclettico intellettuale propone uno hieros gamos, uno ‘sposalizio sacro’, tra CONOSCENZA ed AMORE. La conoscenza vuole ‘unità’ e l’amore l’‘unione’. La conoscenza ha che vedere con l’amore perché “è non solo comunicare con l’oggetto, ma anche comunione fra i soggetti. Possiamo comunicare conoscenze perché queste vanno oltre l’individuale e non ci appartengono come proprietà private”. Si tratta di idee propedeutiche alla proposta di Panikkar che è quella di passare ad una visione cosmoteandrica della realtà: questa “non gravita attorno a un singolo punto, né Dio, né l’Uomo, né il Mondo (…). I tre coesistono (…)sono in interrelazione (…) non possono essere isolati, perché questo li annienterebbe”. L’uomo ha una ‘storia sociologica’ ed una ‘avventura cosmica’ da vivere; dunque, collabora alla storia dell’universo! Sia chiaro: “ciò che ha bisogno di essere risacralizzato è la vita stessa dell’uomo”. Qui la potenza umana non è male perché si estrinseca servendo la vita cosmica. La ‘superficialità’ con la quale oggi si affronta la vita, secondo Panikkar, deriva dal fatto che non crediamo più che nel temporale si decide il nostro destino eterno. Si è reciso il legame tra cosmologia e antropologia: l’uomo è solo entità storica occupata a manipolare le cose piuttosto che lasciarle essere. Panikkar ci avvisa: “Quando l’uomo obbedisce alla realtà e non la vuole dominare, la sente parlare”. Se il mondo diventa as – surdo è perché l’uomo si rende surdus, ‘sordo’ al mondo!
Fromm disapprova chi pensa che l’arte di vivere sia facile e che difficile sia il ‘guadagnarsi da vivere’. Le macchine cambiano le cose: se tutte le attività sono votate al consumo e le macchine ci agevolano, non si richiede più la ‘concentrazione’, bensì bastano le ‘istruzioni per l’uso’. Se è facile mantenere in vita il corpo, per la vita psichica le cose vanno diversamente. La crescita del corpo è inevitabile, quella della psiche no! Si pensa diversamente perché l’importanza dell’uomo viene riconosciuta solo relazionandolo alla macchina: contiamo in quanto servitori di macchine. Gli ‘oggetti’, nell’imperante ‘mentalità mercantile’ appaiono solo come ‘merci’ e l’uomo stesso si cosifica sul mercato della personalità. All’individuo, più che essere felice, interessa essere vendibile. Di fronte alle richieste del mercato del lavoro, del divertimento, rispondiamo ‘sono come tu mi desideri’: “la maggior parte degli uomini diventano come la società desidera che essi siano per avere successo”. Si struttura l’uomo consumatore e si oblia che è, in realtà, la ‘produttività interiore’ a garantire la gioia. E poi, aggiungendo nero al grigio, oggi si considera degno del nome di ‘attività’ soltanto l’essere indaffarati. A questo si giunge perché si è deciso che l’attività prevalente dell’uomo sia quella che garantisce i migliori risultati economici. Fromm ritiene che ci sia bisogno di un grande progetto di liberazione che sconfessi questo assioma: un’economia sana è possibile solo al prezzo di esseri umani malati. In alternativa, occorre “costruire un’economia sana per gente sana”. Già “nell’istante della nascita l’uomo viene posto di fronte a un problema cui dovrà dare risposta in ogni attimo della sua vita, la domanda di cosa significhi essere uomo”. Ci si aspetta “non una risposta teorica bensì una risposta che investa la personalità nel suo complesso”. Di fronte alla barbarie contemporanea, Fromm ha gridato io difendo l’uomo! Se l’uomo moderno è libero, pur vero è che ha paura di questa libertà. Dalla pretesa di essere considerato ‘uomo adulto’alla mortificazione di rivelarsi un atomo ansioso sballottato di qua e di là: ecco la disillusione che occorre non accettare passivamente. Ci indebolisce anche quel perverso fenomeno che ha conferito diritto di cittadinanza nel ‘mondo della vita’ ai parametri ed alle categorie del mondo della produzione: bilancio, quantificazione, contabilità. Questa la parabola involutiva che ci riguarda: nell’Ottocento si proclamò, con affrettato entusiasmo, la ‘morte di Dio’ e, nel Novecento, si denunciò (Strutturalismo, Foucault…)la ‘morte dell’uomo’; oggi il motto è ‘l’uomo è morto, viva la cosa!’. Anche la forma del male è mutata: la ‘nuova disumanità’ risiede nella totale indifferenza verso la vita e nello sforzo di renderla quanto più ‘alienata’ possibile. In una ‘società mercantile’ tutto è in vendita: anche ideali e sentimenti! Ne derivano nefaste conseguenze: 1)si riduce sempre più il numero di coloro di cui potersi fidare: se quello che conta è sapersi vendere, come sperare che una legame tra persone si fondi sulla fiducia?; 2)sono sempre meno coloro che hanno convinzioni: pensiamo come ‘si’ deve pensare e qualcosa pensa attraverso noi. Non siamo autori dei nostri pensieri; 3)Si cerca il piacere, l’eccitazione e, più che ‘essere molto’, si vuole ‘avere molto’; 4)La gente è attratta dai processi inanimati e non da ciò che è vivo. Si ammira un panorama sullo schermo di un computer e lo si trova noioso dal vivo! Bisogna innamorarsi della vita riandando al messaggio autentico della tradizione greco – romana / giudeo – cristiana. (Deteuronomio 30, 19: “Oggi vi propongo la scelta tra vita e morte (…): scegliete dunque la vita”). Questo è urgente fare, perché siamo “uomini impotenti nella nostra apparente onnipotenza”.
La filosofa Catherine Chalier, che studia le radici ebraiche della nostra cultura, lamenta che si accosta la Bibbia, spesso, non tenendo conto delle sue ‘potenzialità affettive’. Un approccio apatico non ci giova. Viene attaccato Spinoza: diceva che, delle cose umane, non si deve né ‘ridere’ né ‘piangere’; non resta che capire. Dunque, l’affettivo è un limite per la conoscenza? Una ‘debolezza cognitiva’? Quando Pascal sperimenta Dio, invece, piange ‘lacrime di gioia’; il pianto, ora, attesta conoscenza (che è, ovvio, di altro tipo). Un rabbino, cita la Chalier, scrisse che la tenerezza è la forza nascosta su cui si fonda la creazione. Dobbiamo abbandonare chi, come Filone d’Alessandria o Maimonide, ritengono squalificante per Dio assumere atteggiamenti umani, mostrare di avere un’affettività. I cabalisti, al contrario, ritengono che Dio simpatizza con le creature esprimendo, così, il Suo lato femminile, la Shekhina (Presenza di Dio in mezzo al popolo). Dio partecipa alle nostre gioie e dolori e, come dice Cordovero, si può pensare ad una divinità malata d’amore – per citare il ‘Cantico dei Cantici’, 2, 5. Un rabbi insegnava che le lacrime hanno il potere di rendere meno duro, almeno temporaneamente, il peso schiacciante della materialità. Le lacrime, viste come debolezza, limite, dunque, pure hanno un potere! La Chalier, aggiunge: “Nella sua povertà nuda e fragile, l’acqua delle lacrime addolcirebbe, almeno per un certo tempo, la durezza (…)dei legami che chiudono in se stessi (…). Nella loro sostanziale incapacità ad afferrare e trattenere, nella loro estrema passività (…)nella loro insignificanza irriducibile ad ogni sapere”, le lacrime denunciano l’equivoco della millantata onnipotenza dell’uomo. L’occhio velato di lacrime vede confusamente, ma vede! “Velando la chiarezza del mondo, le lacrime obbligano a ritirarsi lontano dalle evidenze, ordinarie o raffinate, del mondo comune e condiviso”. L’occhio che piange fa tremolare le forme delle cose che vedevamo nitide e solide e conduce la persona che piange a non voler giudicare, sapere e la rende aperta ad “una passività senza fondo”. Si sperimenta un’abdicazione delle lacrime: col pianto, l’anima si comporta in maniera rinunciataria nei confronti delle ‘proprie forze’; non vi ricorre “per lottare contro il proprio dispiacere o il proprio dolore”. Se rinuncia alle proprie forze, l’anima ora ritrova (le lacrime si versano sempre rivolgendosi a qualcuno, pur un qualcuno invisibile) – “per un istante il cammino verso un’alterità, magari destinata a restare innominata, capace di consolarla e di liberarla”. L’alterità verso la quale andiamo, per chi ha fede, non resta innominata: è Dio! Nel Talmud si racconta che Dio nella notte si trova a piangere per i Suoi figli in esilio; due lacrime cadono nel mare. In Geremia (31, 15 – 17), Rachele sale sulla collina di Rama e piange sulla sorte dei suoi figli in esilio, uccisi. Al suo pianto risponde Dio promettendo ‘un compenso’: “torneranno dalla terra nemica”. Rachele piange perché non accetta il male, ma denuncia anche la consapevolezza dei suoi limiti con le lacrime che testomoniano l’avvenuta abdicazione dalle proprie forze. Dio si commuove percependo quella voce debole: “Il linguaggio senza parole del pianto di Rachele sarebbe dunque udito dall’Eterno che, lungi dal considerarlo come un semplice abbandono a una passività senza coraggio o un misero sfogo, vede in esso una vera e propria azione”. La ‘fibra materna’ di Dio viene azionata. Rachele, abdicando con le lacrime alle proprie forze, si apre necessariamente all’Altro. Nessuno piange credendo che nessuno ascolti. Compie un’azione e “Dio le risponde (…)per dire (…)la sua presenza nel pianto umano”. Il Talmud associa il pianto di Rachele alle lacrime che Dio versa in mare, durante tre veglie nottune, per il Suo popolo in esilio. Le lacrime, si sa, salgono agli occhi involontariamente e sono passive, ma ciò nulla ha in comune con ‘inerzia ed apatia’; infatti, “le lacrime si rivolgono (…)sempre ad un altro da sé, sia pure ostinatamente assente e (…)sconosciuto”. Il Talmud sostiene pure che se le porte del cielo appaiono inesorabilmente chiuse, finanche alla più accorata preghiera, le lacrime possono riaprirle. Il Salmo 39 (v. 13), recita: Non essere sordo alle mie lacrime. Perché non è scritto ‘guarda le mie lacrime’? I saggi rispondono: Dio percepisce le lacrime anche non vedendole. C’è una ‘visione vera’ grazie alle lacrime, aggiungono i saggi, perché attirano ‘sguardo’ e ‘misericordia’ divini. Sono un ‘merito’ perché con esse non si danno delusione e disperazione, ma avviene “il riconoscimento di fronte agli altri di una debolezza che si annida nel più profondo dell’essere” e non superabile con accorgimenti o artifici. È la ‘Presenza’ che piange nella nostra anima e, ammettiamolo, solo “la respirazione dell’Infinito nei quattro cubiti della finitudine umana dà senso a una vita”. La tradizione ebraica parla di ‘luoghi segreti’ nei quali Dio si ritira per piangere non visto. Dove sono? Per la tradizione hassidica “nelle pieghe più profonde dello psichismo umano”. Una comune debolezza fa incontrare Dio ed uomo. Le lacrime sono legate strettamente alla bontà ed alla Torah. Per la Cabala l’acqua simboleggia hesed, ‘bontà’ (quarta emanazione divina). La Torah è paragonata all’acqua che, dall’alto scorre verso il basso; così le Sue parole giungono a chi è disposto ad abbassarsi, a non disconoscere che c’è una potenza nei nostri limiti. Essendo acqua che dall’alto scende verso il basso, la Torah “invita ad aprire in sé uno spazio vivente per accoglierla (…). La pressione di quest’acqua deve (…)far crollare le difese solide e impermeabili dell’essere – per – sé dell’uomo della sua propensione a voler cancellare in sé ogni traccia di emozione”. L’affettività è un limite forse per la conoscenza oggettiva, ma ha il suo potere: quando si estrinseca in lacrime, ci permette di rinunciare alla falsa onnipotenza che ostentiamo contro il male ed insegna ad aprirci all’Altro. Qui si comincia a delinerare la possibilità concreta di parlare di potenza del limite inviando un messaggio all’uomo contemporaneo lontano dall’autoesaltazione, ma anche dalla disperazione che deriva dallo sperimentarla come impossibile ed infondata.
C’è un potere buono, salvifico nel sapere del limite; una potenza che protegge. Siamo alla proposta per noi uomini contemporanei formulata dal filosofo/psicoterapeuta Ricardo Peter: affidiamoci ad una terapia dell’ Imperfezione. Si è solo se si è limitati!; illimitato non può che riferirsi ad un ente irreale. C’è una concezione negativa del limite: è ‘dato’ (quasi una condanna); la visione positiva, invece, recita: è ‘dono’. Ciò che mi limita mi costituisce sì come indigente, ma mi apre all’altro liberandomi dalla minaccia egologica. La perfezione, per Peter, è una malattia; mentre, salutare è il coraggio di riconoscere i nostri limiti. La ‘terapia dell’Imperfezione’ ha presupposti filosofici; si basa su una filosofia dell’uomo che parte da un assioma: col limite ‘dobbiamo’ fare i conti perché ‘imposto all’uomo’ e non ‘posto dall’uomo’. Alla configurazione teorica della questione (‘antropologia del limite’)si affianca quella ‘psicoterapeutica’ (‘terapia dell’Imperfezione’). Si tratta di imparare ad accettarsi per ciò che si è; dice Jung: accettarsi è l’essenza stessa del problema morale. Bisogna fare una riflessione etico – spirituale sul concetto di limite con radici filosofico – psicoterapeutiche. Questa terapia vuole correggere le pericolose devianze causate dall’aspirazione alla perfezione ed inaugurare un igiene degli ideali. L’antropologia del limite vuole dimostrare che la perfezione è una strada impercorribile per la nostra realtà umana. Tracciando la storia del concetto di perfezione, Peter chiarisce che nella cultura ebraica esso non si applica a Dio. Sarà il Cristianesimo – quando subirà l’inculturazione del pensiero greco – ad identificare Dio con la Perfezione. Nell’Antico Testamento ci si riferisce a Dio per lo più con il termine ‘Santo’; anzi, ‘perfetto’, in ebraico, si usa in riferimento ad esseri limitati (perfetto indica qualcosa di finito, che non ammette nuovi sviluppi; una cosa…morta?). La Bibbia greca usa aghios in riferimento a Dio: è semanticamente l’equivalente ebraico di ‘separato, sacro’. Se nel Vangelo di Matteo (5, 48 e 19, 21)il termine ‘perfetto’ compare è perché – redatto per i cristiani di origine ebraica – ci è arrivato solo nella terza redazione, quella greca. La prima redazione, che non abbiamo, era in lingua aramaica. Si sa che Matteo 5, 48 è il ‘discorso della Montagna’; qui l’invito di Gesù non è (come leggiamo) ‘siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli’, bensì ‘siate misericordiosi’. Quello che è scritto in greco va pensato in ebraico: siate hesed o rehamin (pietosi, misericordiosi). Usando impropriamente riferimenti filologico/teologici – avverte Peter – “la perfezione può convertirsi in prigione in nome di Dio”. Ma se il limite ci rende indigenti, rivelandoci bisognosi, spinge ad “un’immensa apertura”. Qui, più che lamentare la mancanza di cose, si avverte il desiderio di una presenza/Presenza: “in fondo l’indigenza è fondamentalmente indigenza dell’altro”. Ecco ribadita la necessità di legami: vivere autenticamente è convivere sull’asse Verticale (esistenza teologicamente fondata) e sull’asse orizzontale (fedeltà alla terra). L’uomo completo si tiene tra le due dimensioni. Il desiderio dell’altro è volere disinteressatamente l’altro; quando si tratta di incontrare qualcuno perché soddisfi una nostra esigenza, se ne sente il bisogno. L’impianto etimologico, semantico del termine ‘desiderio’, evoca la metafisica: “Il desiderio – docet Giorgio Bonaccorso – è il sentimento che gioca con le stelle (…)de – siderium indica la mancanza di sidera (…). La situazione è quella del ‘mancare’ (…)ma è anche quella del ‘tendere’ verso ciò che si sente mancante (…). L’immagine della stella è illuminante, poiché anche quando è presente allo sguardo non è del tutto raggiungibile (…). Questa dinamica tra il tendere e il non raggiungere mai pienamente rivela (…) l’insuperabilità della sfera emotiva: non vi è soddisfazione che possa spegnerla (…). Il desiderio mantiene l’uomo nella verità del pathos (…)patisce (…)è ‘passivo’, ma in questo patire è quanto mai ‘attivo’, perché il desiderio che gli consente di sentire e patire è un atto della sua persona”. Il bisogno lo subisco: non posso fare a meno di avere fame, sonno…il desiderio è una tensione metafisica che posso ignorare, ma solo a danno mio e di chi non si giova della mia capacità di stare tra ‘cielo e terra’. La creatività non germoglia grazie all’insoddisfazione? L’indigenza, però, può compiere due movimenti: 1)un ‘movimento rischioso’: si mira ad ideali troppo alti. Qui, cercare la perfezione, non garantisce dall’errore che, quando arriva, ci opprime; 2)un ‘movimento realista’: ci porta ad accettarci coi nostri limiti. Qui si commettono errori e si è disposti ad accettarli con serenità. Il desiderio di essere e fare di più rivela il suo volto terrificante quando non vuole assolutamente riconoscere la possibilità dell’errore! Se vivo col terrore di sbagliare, la tensione che avrei dovuto investire per andare verso il meglio, diviene ostaggio della paura di commettere errori (meccanismo circolare perverso). Rischio la paralisi esistenziale! In termini psicologici, il ‘perfezionismo’ è un atteggiamento nevrotico con fondo narcisistico (Dorsch). È patologico il perfezionismo, non “la (…)tendenza alla perfezione”. Nulla va bene fin quando non si accetta che un uomo matura commettendo errori. Non si può mutare il ‘risultato oggettivo’ di un fallimento, ma se ne può leggere in positivo il valore. Si può “fare un uso costruttivo dell’imperfezione”. Se la mente è consapevole del limite è ‘sana’. A livello terapeutico, accettare il limite, conduce ad un contatto autentico con la realtà. Peter avverte, però, che questo non è un atteggiamento che può imporci lo psicologo! “La decisione di accettare i nostri limiti dipende inizialmente solo da noi, non dallo specialista”. Se ispirano il nostro agire le idee – guida di cui ci fidiamo, ne segue che l’idea dominante decide modalità e qualità del nostro vivere. Se l’idea di affidarci ad una terapia dell’imperfezione prevale, perveniamo ad un genuino contatto con la realtà. Quando ‘mi accetto’ coi miei limiti sono io che conto davvero, non l’errore. Un non – errore non è l’errore non fatto, ma quello che ho saputo accettare. Non sbaglia, pur sbagliando, chi riconosce senza drammi di aver sbagliato. Vigiliamo: è facile che un paradigma esistenziale viziato da errori nocivi (come quello dell’acritico aspirare alla perfezione)si insinui in noi e ci governi. Gli schemi mentali che ci accompagnano tutti i giorni finiscono col sembrare naturali, familiari. Ascoltiamo una lezione di Peter che ci dice cosa veramente conta per noi: “Il fine più alto dell’uomo non è l’ideale della perfezione, c’è un fine ancora più alto (…). Un obiettivo che non possiamo eliminare senza eliminare nello stesso tempo noi stessi (…): divenire umani”. In realtà, “l’antropologia del limite non è un elogio del limite in quanto tale, né dell’imperfezione in se stessa (…)è un elogio dell’essere”. La positività dell’essere la si afferma ‘autenticamente’ quando si accetta che si dia attraverso la nostra imperfezione. Salutare è ritenere imperfetto l’impianto concettuale della nostra civiltà finendo con l’imparare qualcosa da altre culture. Importante è non smarrire il fine: recuperare un amore sincero per la vita colta nella sua immediatezza. I pigmei del Congo insegnano ad avere fiducia anche nel ‘buio del mondo’. Quando elevano i loro canti non chiedono mai una caccia più ricca, una guarigione e, se qualcuno muore, ci si riunisce, di notte, attorno al fuoco e si canta così: “Intorno a noi c’è il buio; ma se il buio c’è e il buio è parte della foresta, allora il buio deve essere buono”.
Qui si fermano le mie riflessioni, che potete approfondire grazie alla bibliografia. Moltissime altre cose avrei dovuto dire, ma credo valide due regole: 1)Novalis diceva che il vero lettore deve essere il proseguimento dell’autore (sta a voi aggiungere altro); 2)Lessing insegnava che un grosso libro è un grosso male ed io sono stato quanto più sintetico possibile.
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