Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Il soggetto Comunitario

Il soggetto comunitario. Una proposta cristiana

Il teologo e terapeuta Drewermann ha fatto riferimento ad  una novella di Camus che ha come protagonista un pittore diventato famoso, ma che subisce pressioni gravi dal suo pubblico. Deve rispondere alle lettere che riceve, darsi alla gente o chiudersi nella sua creatività? Jonas, questo il suo nome, si nega persino una cravatta per fare del bene a chi gli chiede un aiuto economico e dispensa opinioni politiche; insomma, un uomo ‘invaso’. Quando si dedica all’arte si sente in colpa: non sta abbandonando il pubblico? Il pittore si ritira nel piano superiore della sua casa incapace di fare alcunché. Giustifica la clausura dicendo che lavora a nuove opere ma, in realtà, non è più ispirato. La novella si chiude con la morte dell’artista e col ritrovamento di un biglietto imbrattato da un paio di parole poco comprensibili. Cosa aveva scritto, solitaire o solidaire (solitario o solidale)? Si interroga Drewermann:

“L’isolamento è uguale a identità, l’impegno uguale a tradimento di sé? Quanto può essere confusa una persona quando avverte il compito di annunciare qualcosa agli altri, ma lei stessa ci si perde, o, se solo per paura di perdercisi, si rifiuta alla fine di dire ancora qualcosa agli altri? E l’una cosa non può diventare (…)persino identica all’altra?”.

Il soggetto comunitario non è ‘assolutamente solidale’, né ‘assolutamente solitario’: riconosce ed approfondisce la sua ipseità, ma nel conatus cognoscendi comprende sempre più che ci si conosce se si è riconosciuti. Ci si spende per altri non per tacitare il senso di colpa derivante dall’essere titolari di risorse varie, ma perché convinti che sia inscritto nell’io l’esserci – per – glialtri. Donarsi non è annientarsi, ma rinunciare a tenere per sé ciò che si è e non solo ciò che si ha. D’altro canto, non si dà ciò che non si ha. Il ‘soggetto comunitario’ non fonda su di sé la possibilità del donarsi, ma si alimenta all’Altro, allo Spirito e fonda la comunione con i propri simili non solo su base psichica ed emozionale, ma sul fondamento spirituale: non ama per obbedienza all’eros, ma perché imbevuto dell’agape donata dall’amore di Dio attraverso Cristo. Tra me e l’altro vale il legame istituito ontologicamente nella fratellanza cristiana. Si poggia su Qualcuno, non su qualcosa. Solo questo modo di intendere il dono di sé evita la miseranda  fine del pittore Jonas. La stessa ‘tenerezza’, per non scadere in  sentimentalismo, poggia su base teologica. Cristo ha detto: ‘Io in loro e tu in me, perché abbiano la pienezza dell’unità…L’amore con cui mi hai amato sia in essi e io in loro’(Gv 17, 23.26). Ad un Padre del deserto posero una questione: un fratello, durante la messa, era solito addormentarsi. Cosa fare? Riprenderlo o comprenderlo? Il saggio eremita, rispose: ‘Io, per me, gli prenderei la testa e l’appoggerei delicatamente sul mio grembo cullandogli il sonno’. Avrebbe continuato a seguire la messa (pensando a sé) ed avrebbe custodito il sonno del fratello (dandosi all’altro). Qui è rappresentata la misura del giusto amore di sé e dell’altro che deve animare il soggetto ontologicamente comunitario secondo la proposta cristiana.   

Maria Zambrano sostiene che l’uomo europeo non si è sottomesso nemmeno al Dio che si è compromesso col mondo fino a mettersi nelle nostre mani. L’Europa, si chiede, nella ‘sua religione’ ha realizzato il Cristianesimo?
A noi basta, prosegue, sentirci minimamente cristiani per rispondere di no! Si è realizzata, al più, una nostra versione di Cristianesimo. Non ci lasciamo “divorare dal roveto ardente” e, pur vivendo in una religione, non ci doniamo al dio che a noi si è ‘dato in pasto’. Ha contato, per l’uomo europeo, “prima di tutto fondare la sua storia, la sua propria creazione” [1].   
È il ‘divino’ che genera la ‘domanda fondamentale’. Mai l’uomo ha chiesto alla divinità cosa siano le cose, bensì, l’ha interrogata su se stesso. Zambrano rintraccia nel Libro di Giobbe “la rivelazione dell’uomo alla maniera umana”: l’uomo disperato che si contorce per chiarire la propria condizione. Il lamento di Giobbe è quello di ogni uomo: non sa perché nasce, lo inquieta il dover morire e lo stesso esistere[2]. Un uomo che non afferma se non la propria creazione, finisce con l’autocentrarsi e si innamora dell’immagine che si forgia, non riferendola più ad un creatore: è il narcisismo:
“La comparsa dell’odierno Narciso (…) intento ad allentare i suoi rapporti con gli altri (…) sembra significativamente coincidere con il tramonto delle grandi attese collettive” – rileva Remo Bodei [3].
Si ricerca una salvezza personale attraverso utopie private e disperate. Dal solo uomo all’uomo solo:

“L’identità personale diventa (…)un fenomeno privato (…). La liberazione della consapevolezza individuale dalla struttura sociale e la libertà nella sfera privata costituiscono la base per quel senso alquanto illusorio di autonomia che caratterizza la persona tipica della società moderna” [4].

Perso il contatto col Trascendente, dunque, si è frantumato anche il senso dell’appartenenza, della comunità. Se la libertà del singolo aumenta, pure dobbiamo registrare una difficoltà sempre crescente di costruire se stessi lavorando in proprio. L’io, piuttosto, insiste un pensatore contemporaneo, si costituisce entro reti di interlocuzione: esiste, cioè, solo istituendo relazioni significative. Dunque, “la definizione completa dell’identità di una persona (…) comprende non solo la sua posizione sulle questioni morali o spirituali, ma anche un riferimento a una comunità” [5]  

Diadoco di Fotica sosteneva che sentire pienamente l’amore di Dio equivale ad amare il prossimo. Un’amicizia fondata solo sulla carne (su presupposti orizzontali) degenera in breve tempo e con facilità. Manca, spiega Diadoco, quel vincolo garantito dalla sensazione dello Spirito. Anche se la nostra anima si irritasse per il non corretto comportamento altrui, agendo Dio sull’anima, questa non rinuncia al vincolo dell’amore:
“Il fatto è che nella dolcezza di Dio l’anima consuma interamente l’amarezza della contesa”(Cento capitoli gnostici, 15).
Perché la comunità sopravviva alle pur giuste e motivate recriminazioni che muoviamo gli uni contro gli altri, occorre un garante Trascendente. Giovanni Climaco insiste sul fondamento Trascendente delle relazioni umane: “il ricordo dei dolori di Gesù guarisce l’anima dal rancore” perché il Suo amore senza condizioni anche verso i nemici turba ed invita alla imitatio Dei (Scala del Paradiso, Gradino 12 (14)). Il cammino di piena umanizzazione, che solo consente una retta relazione con altri, si compie quando la compassione di Dio diventa un modello antropologico che ci consente di abbandonare l’autocentrarsi per estendersi ai fratelli. Isacco di Ninive invita a fare in modo che il peso della compassione “faccia pendere la bilancia” fino a sentire nei nostri cuori “la stessa compassione che Dio ha per il mondo”(Discorsi ascetici, 34).
Va realizzato il progetto antropologico delle origini: l’uomo è ad immagine di Dio per raggiungerne la somiglianza. L’immagine è momento incoativo. Uomo e Dio si confrontano e diventano, come scriveva Massimo il Confessore, modello l’uno per l’altro. Se per amore nostro Dio si umanizza, ragionava, noi, grazie a questo amore gratuitamente ricevuto, tendiamo a divinizzarci (Ambigua, 10). L’equivoco da rimuovere è questo: il percorso che ci stanno suggerendo i cristiani delle origini non è orientato alla costruzione di un che goda privatamente dello sforzo di divinizzarsi, ma deve realizzarsi entro una dimensione comunitaria. Ha scritto un filosofo ebreo del Novecento:

“Attendiamo una teofania (mostrarsi di Dio) di cui non conosciamo altro che il luogo, e questo luogo si chiama comunità” [6].

Baget Bozzo e Fabrizio Gualco hanno studiato le metamorfosi della cristianità e sono giunti alla conclusione che occorre professare la nostra fede nella Cosmopoli: “è la società tecnologica e post – ideologica contemporanea in cui le grandi religioni laiche – comunismo, nazismo, fascismo – non hanno più ragione di essere” [7]. Siamo nel Terzo Millennio! Andiamo all’indietro. La cristianità medievale ha il suo epilogo storico nella Guerra dei Trent’anni mentre la modernità si inaugura con il cruento conflitto religioso apertosi con la Riforma protestante. Qui si inserisce il tentativo di Cartesio: pensare Dio come idea immanente alla ragione: “egli tenta di aprire una prospettiva alternativa capace di garantire attraverso la ragione quell’unità cristiana che la fede sembrava non solo non poter più assicurare, ma addirittura ostacolare”(cit., p. 162). Se la ragione è comune a tutti gli uomini e Dio è una sua idea, pacifico è per tutti che un solo Dio ci inabiti. Il Novecento ha mostrato che la faccenda ha avuto altro epilogo: insuperbisce la ragione che crede di avere in sé Dio e si rende astratta, autonoma producendo fallimenti e lutti. Ha “successo la tentazione di racchiudere l’eterno nel tempo”(p. 163) a danno dell’uno e dell’altro. Se la ragione prevede e pianifica tutto è chiaro che le chiavi del futuro cadano nelle sue mani: “il futuro può essere previsto con esattezza: e quello che è interamente prevedibile, risulta al contempo esattamente pianificabile, così come (…) le tempistiche giornaliere all’interno di Lager e Gulag”(p. 164). Il Dio come idea immanente alla ragione non ha fondato un soggetto comunitario. Le buone intenzioni non sempre producono frutti commestibili. È il fenomeno dell’enantiodromia: una cosa si converte nell’esatto contrario. Se le intenzioni si rivelano come anticamera del male, il tempo della Cosmopoli contemporanea è quello della inintenzionalità e dà luogo ad un paradosso: “nonostante tutte le conoscenze e le informazioni di cui possiamo disporre nei database sparsi per tutto il pianeta ed in primis presenti nel capiente hardware che è il nostro cervello”, siamo in preda all’incertezza e non conosciamo che pezzetti di realtà. Si genera una situazione di timor panico che conduce all’ottica ristretta del si salvi chi può!
Le ideologie, le proposte politiche che animavano le masse si sono frantumate ed il tempo della Cosmopoli è invaso da germi anticomunitari:
“La società post – ideologica e tecnologica che chiamiamo Cosmopoli è una società di singoli”(p. 170). Non è detto, frenano i due autori, che il futuro sarà certamente catastrofico a causa della acclarata non onnipotenza della ragione, ma resta un dato innegabile che una storia collettiva, impersonale, lascia il posto ad una storia personale che si svolge, però, su tonalità minori. L’individuo deve fare la sua parte e, privo di riferimenti un tempo solidi, paga lo scotto di un impegno ciclopico e certosino allo stesso tempo. Ci sono filosofi, come lo spagnolo Ortega, che ritengono ci sia da ben sperare nel fatto che siamo noi gli autori e gli attori della vita, giorno per giorno. Gualco afferma che la speranza sia motivata dal fatto che, essendo la vita inconoscibile, si aprono scenari sui quali ad agire e scegliere non è l’Uomo, ma la persona:
“Più che di speranze collettive, probabilmente, c’è bisogno di persone capaci di speranza”(p. 181).

L’uomo, come insegnano i sapienti ebrei, deve rispondere solo di non essere diventato se stesso. Bene, ma il soggetto non è dotato di un noi intrinseco? Nella Cosmopoli (“anche quando separata formalmente dal cristianesimo”), concludono Bozzo e Gualco, vi è spirito cristiano. Gesù abita nella memoria della Cosmopoli. Ma non eredita questa memoria la convinzione che l’uomo è immagine di un Dio Trinitario, Comunione di Persone? Poco ha che vedere questo ha con una società dei singoli. Mentre ognuno costruisce la propria vita non è esposto agli altri che fanno la stessa cosa? Si può vivere e non essere esposti? La vita alla quale diamo la forma che vogliamo non è qualcosa che abbiamo ricevuto e senza meritarcela? Si può vivere come singoli e dire che una società che incoraggi questo modus vivendi sia solo formalmente separata dal cristianesimo? Natoli ha ricordato che la parola religio indica un religare, lo stare assieme degli uomini garantito da una “simbolica comune”. Rifacendosi alla lezione di Italo Mancini, si stabilisce che la religione genera quattro fattori: evento – kerigma (predicazione, annuncio) – comandamento e, quello che qui interessa, la comunità [8]. La struttura della fede è costituita dal legame io Dio ed il prossimo ma resta imprescindibile il riferimento all’Altro. Il TU è fonte e garanzia di ogni legame anche per Natoli che si occupa del cristianesimo da ‘non credente’. L’etica naturale pure fonda relazioni, ma limitandosi all’‘orizzontale’. Cosa fa pensare che la proposta cristiana dia consistenza e possibilità di esistere ad una autentica comunità? Natoli ricorre alla kenosis di Cristo, al Suo darsi in pasto all’uomo. Si ritiene ovvio che svilupparsi, accrescersi per una personale realizzazione sia una ‘disposizione naturale’. Cosa accadrebbe se paradigma antropologico dominante divenisse quello mostrato da Cristo? Invertiremmo la nostra natura per divinizzarci:
“Letta così, l’incarnazione è una simbolica che non riguarda tanto lo ‘svuotarsi di Dio’ quanto il divinizzarsi dell’uomo attraverso il suo proprio annientamento”(ivi, pp. 58 – 59).
Istituire un legame, relazionarci agli altri responsabilmente, conclude Natoli, ci infinitizza; infatti, così facendo, mi accorgo che in me c’è il ‘passato’ (da dove e da chi vengo – relazione con quelli che mi hanno preceduto), il ‘presente’ (rapporti che intrattengo hic et nunc), il ‘futuro’ (preparo, agendo responsabilmente, il mondo per chi verrà dopo di me). E nulla come la fede cristiana impone di pensare che non siamo giunti alla fine della storia (Fukuyama). Di fatto, all’“influsso del pensiero cristiano (…) dobbiamo l’affermarsi di una visione della storia umana come un processo che va verso qualcosa. È il declino dell’idea, statica, della storia come ‘cerchio’ (kyklos)” [9]. Il filosofo, a questo punto, si trova combattuto in una questione di non poco conto: prima afferma che l’Altro (Dio) non è ‘necessario’ affinché gli uomini siano uniti e solidali, poi si interroga pensoso: “senza il Dio della tradizione ebraico – cristiana si percepirebbe in un modo così vivo, forte, determinato il valore dell’altro?”(p. 75). Se non può dirsi cristiano, afferma il filosofo, è perché non è convinto del fatto che la carità cristiana, promossa da Dio, abbia la capacità di estinguere il male nell’uomo. Natoli afferma di potersi solo riconoscere nell’orizzonte cristiano della carità, nel ‘per noi’ che ci invita – diremmo con Paolo – ‘a portare gli uni i pesi degli altri’ perché, in fondo, “non si può mai essere autenticamente felici da soli”(p. 86).

Quello che manca in Natoli è prendere in considerazione il peso della Trascendenza. Tuttavia, per trovare un senso alle relazioni umane, non può non pensare – ripeto, da ‘non credente’ – al dono di sé di Gesù. Sviluppa una personale ermeneutica dell’incarnazione: non insiste su Dio fattosi uomo, ma pensa che Gesù mostri come divenire Dio offrendoci gli uni per gli altri. Questo accade solo se si attua un contromovimento: dal ‘desiderio dell’altro per sé’ occorre passare ‘al dono di sé’. Recuperare la lezione del cristianesimo avviene, però, in un clima di scristianizzazione, pur registrando un ritorno della religiosità, ma vago e dai contorni sfumati. Jung aveva su questo idee chiare:

“Tutti (…) sentono che le (…) verità religiose si sono in qualche modo svuotate (…) non riescono a trovare un accordo tra scienza e fede, o le verità cristiane hanno perduto la loro autorità e la loro giustificazione psicologica (…)”.

Gli uomini, fatto ancora più grave, “non si sentono più redenti dalla morte di Cristo, non riescono a credere: beato chi ne è capace, ma la fede non si comanda” [10]. Non deve meravigliarci, però, se – pur in forme discutibili – l’anelito religioso, un afflato spirituale permangono nell’uomo; infatti, osserva uno studioso del fatto religioso, anche “la vita più desacralizzata conserva (…) le tracce di una valoristica religiosa del Mondo” [11]. Non è che, essendo il cristianesimo una cura radicale, tutti cercano di rimandarla? (Kierkegaard) Non è che si pensa (sbagliando assai) che istituire una ‘comunità cristiana’ sia possibile solo laddove quelli che la compongono siano ‘perfetti’, uomini pienamente compiuti? I teologi non l’hanno mai veramente vista così. Come ha scritto un teologo luterano del Novecento, se per comunità cristiana si intende la comunità dei santi, dei perfetti, questo non è l’ideale dei credenti: non si tratta di mettere assieme “dei puri che non lasciano occasione al peccatore di pentirsi. È (…) la comunità di coloro che sono davvero stati oggetto della costosa grazia divina e che in essa camminano in maniera degna del Vangelo, senza venderlo a prezzi scontati o rifiutarlo” [12].
Obbligatorio è non scoraggiare quanti, riconoscendosi peccatori, vorrebbero entrare nella comunità cristiana, ma occorre pure non lasciar loro intendere, per innestarli in essa, che il Vangelo possa ridurre o disconoscere le Sue esigenze. La grazia divina che salva non è a buon prezzo: è costata il sangue di Cristo e, dunque, pur non avendo l’obbligo della perfezione, bisogna tendervi per meritare la grazia. Se si cerca solo consolazione, una conferma alle proprie pretese orizzontali, si sta cercando non la fede autentica, bensì una metafisica o una religione che svolgano uffici di rilievo mondano. Ben altra drammaticità ha il mettersi di fronte a Dio:
“tutti coloro che cercano sanno da sempre e senza il minimo dubbio che la metafisica non può essere utile e che non c’è niente di più terribile che cadere nelle mani di Dio. Ma di questo non si parla, se non molto raramente. La stessa religione del Dio crocifisso si sforza di imitare i sistemi metafisici, e i cristiani dimenticano di solito, benché portino addosso la croce sin dal loro battesimo, che il Salvatore del mondo ha gridato dall’alto della croce: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’. A loro sembra che il Salvatore abbia dovuto conoscere quella terribile disperazione, ma che gli uomini al contrario possono farne a meno. Gli uomini hanno bisogno di una metafisica che consoli e dia ordine all’esistenza e di una religione che anch’essa consoli e dia ordine all’esistenza. Ma nessuno si preoccupa di una (…) religione che ci conduca in regioni sconosciute” [13].

Pare sia stato Paolo VI a dire che il cristianesimo è difficile ma felice. Sintesi di quanto appena detto. Forse quelli che, come Natoli, non riescono a sopportare il peso della Trascendenza, pagano il fatto di non aver incontrato il ‘vero Dio’, ma una Sua stinta imitazione. Sestov (cit., p. 1195), pensava: “quale sollievo avranno gli uomini quando scopriranno improvvisamente che il Dio vivente, il Dio vero, non è per nulla simile a quello che la religione aveva mostrato loro”. Se questa immagine non autentica di Dio viene superata, ovvio che il modo di intendere le relazioni umane ne risenta positivamente. Sanando i luoghi nei quali viviamo, purificando i discorsi che nei nostri ambiti vitali facciamo intorno a Dio migliora la percezione che se ne ha. Uno psicologo francese ha osservato che l’esperienza di Dio non è ciò che viene prima: si “giunge a parlare di Dio a partire da una rete di relazioni umane grazie alle quali ciascuno cresce, attraverso quello che di Dio si dice negli ambienti in cui si vive: quello della famiglia, della scuola, del lavoro, del tempo libero” [14]. ‘Aver fede’ non è aderire, per tangenza esterna, ad alcune idee, bensì animare un atteggiamento. Un conto è imparare a parlare a Dio, altra cosa parlare di Dio entro una comunità [15]. Il problema, nel postmoderno, è che non si ha più l’occhio rivolto verso le cose ultime, ma gli obiettivi (politici, ideologici, ecc…) si contraggono nel puntiforme. Non si crede più che sia bene far esplodere verso il Trascendente le nostre inquietudini, l’insicurezza:
“La variante postmoderna dell’incertezza non genera il bisogno di visioni escatologiche (…) genera piuttosto una crescente richiesta di consulenze esistenziali impartite da esperti nel sopire o curare i problemi di identità”. Gli uomini, ormai, “non vogliono predicatori che li ammoniscano sulle loro debolezze e sull’insufficienza della ragione e della volontà umana. Cercano invece dei consiglieri capaci di convincerli che a essi non manca niente di quanto occorre a una vita di successo, e che indichino loro come trovarlo” (Z. Bauman).

Nella teologia di Guardini si rintracciano elementi per metterci responsabilmente di fronte al mondo. Da giovane, meditò Kant e subì una grave crisi spirituale. Quando non cercò più Dio attraverso le ‘prove filosofiche’, ma confrontandosi col Vangelo, le cose mutarono. Partì da Matteo 10, 39: il passo nel quale Gesù insegna che ‘chi vuol conservare la propria anima la perderà, ma chi la dona la salva’. Dio, dirà in tarda età il teologo, ha sentito solo una mancanza: quella del finito ed ha – come dice l’evangelista Giovanni – ‘tanto amato il mondo’ da volersi compromettere con esso fino in fondo, fino a “superare la propria assolutezza” incarnandosi [16]. Con la kenosis Cristo ha rinunciato ai Suoi privilegi di Figlio (Paolo, Lettera ai Filippesi 2, 5-8). E se siamo immagine di Dio ed il Figlio ha assunto la nostra natura, se ne conclude che il Padre “è tale da potersi ‘trasferire’ nel finito (…) dall’eternità c’è in lui un ‘riferimento’ al finito”(p. 17).
Guardini rintraccia nell’amore di Dio per il mondo l’origine della nostra responsabilità verso la realtà: “il mondo è messo nelle mani dell’uomo qui ed ora” (Etica, Brescia 2003, p. 54). Sottolineare tutto questo è possibile solo partendo dal Vangelo. Guardini medita Matteo e riceve l’orientamento giusto: donarsi per non perdersi. L’uomo postmoderno, invece, si crede ‘ab – solutus’, ‘sciolto’ da ogni vincolo. Nell’Etica, Guardini ha scritto che “io divento responsabile di dove le mie parole conducono l’altra persona”(cit., p. 702). Sopra, citando Godin, avevamo affermato che è là dove viviamo che sentiamo parlare e parliamo di Dio. Ecco che uno dei doveri di chi contribuisce a costruire una comunità cristiana è divenire responsabile delle parole che rivolge ad altri. L’oblato benedettino Maurice Zundel, a quindici anni fece una particolare esperienza del Vangelo. Un suo amico, apprendista meccanico, gli chiese se conosceva il Discorso della montagna (Beatitudini). Il giovane Zundel lo aveva ascoltato più volte in chiesa, ma non lo aveva compreso più di tanto a causa, di “quel tono che usano spesso i preti”. L’apprendista meccanico, invece, glielo lesse con tanto trasporto che lo sconvolse:

“Il Vangelo divenne per me la voce di Qualcuno (…) di un amico e mi colpì come una confidenza personale, che si rivolgeva alla parte più intima di me stesso”[17].

Si prende coscienza della spiritualità dell’uomo solo relazionando si, in profondità, con altri. Ad ogni modo, si realizza comunità cristiana laddove Cristo è presente e, come il Vangelo insegna, laddove due o tre parlano del Signore, Lui è in mezzo a loro.

L’evoluzione spirituale, alimento prezioso per fare comunione, deve rendere possibile un passaggio: dalla coscienza dei valori alla coscienza ‘per’ i valori. I valori la coscienza deve avvertirli “in un orizzonte di trascendenza” sapendoli assoluti.
La coscienza ontologica è la “prima originaria forma di” coscienza assiologica perché, quando l’uomo ha coscienza della sua natura spirituale, ottiene anche quella di ciò che questa natura vale, “degli impegni che comporta l’essere di questa natura” [18]. A che serve prendere coscienza della propria natura spirituale, strutturare una coscienza assiologica se poi non siamo consapevoli che questo deve riverberarsi sul mondo della vita, tradursi in impegno verso gli altri? Un prendersi cura degli altri che assume aspetto tridimensionale. Si tratta di attuare una responsabilità verso il passato ed il futuro, ma

“questi due tipi di responsabilità, l’una prospettica verso il futuro e l’altra retrospettiva verso il passato, vengono a confluire nella responsabilità verso il presente che diventa una sorta di ricapitolazione di ogni responsabilità. Essere responsabili verso quel mondo che noi tutti abitiamo, percepirlo come qualcosa di cui prendersi cura, di cui rendere conto agli uomini, a Dio, è la prospettiva a partire dalla quale è oggi necessario impostare i rapporti tra tutti quegli ambiti in cui l’uomo si trova a vivere” [19].

Questo deve diventare ancora più vero ed urgente laddove si vuole rendere cristiano il mondo. Dalla qualità della cura che mostriamo verso il mondo e gli altri si decide se la proposta cristiana è credibile:

“una società religiosa, nazionale, etnica deve giudicarsi secondo la qualità dello sguardo che porta sullo straniero; l’uomo o la donna secondo il valore reale che attribuisce all’altro sesso; le generazioni secondo la considerazione che provano per le generazioni differenti. Ciascuno è giudicato secondo l’immagine che si fa dell’Altro[20].

L’altro, scriveva Giovanni Crisostomo, è un altro Cristo. Questo si dice con convinzione quando si verificano quattro convinzioni radicate nella lezione evangelica:
1) si realizza il ‘nuovo comandamento’ dell’amore reciproco (Gv 13, 3); 2) ci facciamo riconoscere come discepoli di Cristo se amiamo gli altri (Gv 13, 35); 3) crediamo che fare del bene al più piccolo dei fratelli è farlo a Cristo (Mt 25, 35.40); 4) promuoviamo l’unità tra i fedeli (Gv 17, 21). Una comunità cristiana è pensabile solo da chi non ha dubbi sul fatto che l’amore “non può essere concepito se non in modo personale e interpersonale” [21]. Si può giungere, ardisce insegnare la Bibbia, ad amare e difendere l’altro al punto da insorgere contro Dio! Mosé così si rivolge a Dio difendendo l’infedele Israele: ‘Se tu hai perdonato il loro peccato, perdonali. Se no, cancella anche me dal libro che hai scritto’ (Es 32, 31). Paolo: ‘Io vorrei essere separato da Cristo per i miei fratelli’(Rm 9, 3). Il regista Kieslowski ha diretto un film sui ‘dieci comandamenti’, Decalogo I. In una scena, un bambino gioca al computer; improvvisamente, si ferma e rivolge una domanda alla zia: Com’è Dio?
Lei non risponde attingendo alla teologia ma, in silenzio, si avvicina a lui abbracciandolo stretto e baciandolo. Quando fa per ritrarsi, il piccolo fa capire di voler prolungare quel momento perché, dice, sta provando una sensazione bellissima. La zia, di fronte a questa reazione, conclude: ‘Ecco, Pavel, Dio è così’. In questo momento di grande tenerezza tra zia e nipotino si configura già quello che deve essere una comunione cristiana. Stiamo attenti, però, a non scivolare nel sentimentalismo. Per attrezzarci contro questo fraintendimento, riflettiamo attentamente su cosa significhi davvero la vita comune.

Bonhoeffer sostiene che la ‘comunione cristiana’ rischia un letale ‘inquinamento’ quando si mescola il “naturale desiderio di comunione che nasce dal cuore devoto con la realtà spirituale della fraternità cristiana”. La ‘fraternità autentica’ fonda su questa convinzione:
non è un ideale ma una realtà divina (…) realtà pneumatica, non della psiche [22].
Il Dio a fondamento della fraternità cristiana, non è “un Dio delle emozioni dell’anima, ma un Dio della verità”(ivi., p. 22). L’affettività è una componente delle relazioni umane immancabile, ma sarebbe pericoloso far coincidere con essa il valore, il senso della fraternità cristiana. Secondo Bonhoeffer, “non possiamo vivere in nessun modo delle nostre parole e azioni, ma solo dell’unica parola e azione che ci unisce nella verità”(p. 23). Non si possono avere pretese sulla ‘comunione cristiana’ in quanto è un dono di Dio. Se la comunione è spirituale, l’amore che la anima è agape; se essa è, invece, psichica, il tipo di amore in gioco è l’eros. Nel primo caso realizziamo un “servizio fraterno ordinato”; nel secondo, c’è un godimento disordinato dello stare assieme! “L’amore psichico ama l’altro per amore di se stesso, l’amore spirituale ama l’altro per amore di Cristo”(p. 27).
L’amore spirituale ama anche il nemico perché fonda su Cristo ed il Suo insegnamento. Bisogna diffidare di una comunione di vita che sia soltanto spirituale in quanto sarebbe ‘anormale’, ‘pericoloso’: “Niente di più facile che suscitare l’ebbrezza della comunione per pochi giorni di vita comune (fa riferimento ai ‘ritiri spirituali’) e niente di più deleterio per una non patologica, non esaltata, fraterna comunione di vita nella quotidianità”(p. 31). Anche un attento osservatore dei costumi postmoderni ha stigmatizzato quel sentimento vago di religiosità e spiritualità che appare sempre più una scialba disintossicazione dello spirito e non invita ad impegnarsi concretamente nella storia:

“è apprezzata (…) una settimana in convento (…) per sottoporsi a una proficua dieta spirituale (…) curioso questo incontro con l’eternità vissuto come (…) emozione provvisoria”. Piace “vivere (…) la vita dei monaci. Ma solo per qualche giorno (…). Vivere la fede senza un’idea di Dio (…) emozione, non (…) testimoni anza (…) vacanza (…) non impegno di esistenza (…). L’importante è poter poi riprendere (…) il viaggio nei piaceri della vita” [23].

Problematico, in questa atmosfera, annunciare che la Chiesa è un modello adottabile di comunità senza suscitare le ire di quelli che in essa vedono solo autoritarismo, rigorismo. Chi sta fuori di essa e pensa di essersi sottratto una volta per sempre all’autorità, sbaglia in maniera grossolana:

“nel corso della storia moderna l’autorità della Chiesa è stata sostituita da quella dello Stato, quella dello Stato dall’autorità della coscienza e nel nostro tempo quest’ ultima è stata sostituita dall’autorità anonima del senso comune e dell’opinione pubblica quali strumenti di conformismo. Essendoci liberati dalle vecchie forme palesi di autorità, non ci rendiamo conto di essere individui autonomi”[24].

Non ‘rendersi conto’ che si è autonomi, a mio avviso, vuol dire non esserlo.

Ai confusi uomini postmoderni giova l’esempio di Gesù? Devo riandare a Natoli che, in alcuni scritti sottolinea le valenze positive della vicenda gesuana. Secondo il filosofo, anche “per chi non crede, Gesù è un uomo che ha amato la vita (…) tuttavia non si sottrae alla morte; soprattutto non si vendica (…) e sa essere compagno di chi muore: oggi sarai con me in paradiso. E si tratta – credo – di un paradiso in nulla diverso dalla terra, ma (…) di una terra redenta dall’amore, ove ogni uomo prende su di sé il peso dell’altro in reciproca gratitudine (…). Un’interpretazione di questo tipo non è certamente cristiana, ma non è neppure il contrario. A ogni modo, ritengo possa consentire ai cristiani di scoprire nella loro tradizione segreti nascosti e di reinterpretarli alla luce delle istanze che emergono prepotenti nella fine tempestosa di questa modernità” [25]. Chi vuole contribuire a costruire la comunità cristiana non è né ottimista né pessimista. Giovanni Paolo II, nella Catechesi tradendae, era realistico: “Noi viviamo in un mondo difficile”(56, EV 6, 1259); tuttavia, sappiamo quanto questo Pontefice abbia creduto nell’uomo futuro. Dobbiamo avere e lo spirito di Qohelet (tutto è vanità) e lo spirito dei profeti (che non si fermano alla triste fenomenologia). Qohelet “registra lo scandalo accecante del non senso di certi sviluppi storici (…) e si ferma qui; non protesta, non denuncia, non invita alla conversione. I profeti invece registrano ma al tempo stesso denunciano (…) protestano, affermano e interrogano, notano e gridano” [26].

La ‘ragione pratica’ è principio e misura della morale e, si dice, è legge a se stessa. Non dimentichiamo, però, che è nella comunità umana che essa deve attingere materia e travasare proposte. Viene da dire, dunque, che se si dà, “l’autonomia della morale è relazionale (…). La ragione impara dal contatto con la realtà (…) riconosce le intenzioni che operano nella realtà, nel loro rapporto al pieno essere dell’uomo” [27]. E la realtà consiglia di non dimenticare le zone affettive della persona, le sue domande di senso che, ad una ragione pratica di tipo formale, paiono fantasmi da irridere. La Zambrano aveva fatto del cuore una delle categorie centrali del proprio pensiero; lamenta, ne I beati (Milano 1992), che Freud si sia affaticato per tentare di sottrarci a forze che ci inibiscono, ma scartando l’ipotesi di lavorare ad un “metodo apertamente rivolto a liberare la speranza imprigionata nel fondo del cuore affinché essa liberi a sua volta lo stesso cuore dove questo giace come in un sepolcro”(p. 116).
Soppressa una speranza forte, che sa di Assoluto, non resta che trastullarsi con i surrogati della felicità: “ci trasformiamo in esseri che tutto inghiottono e tutto digeriscono. E (…) per la facilità con cui mandiamo giù i bocconi, non avvertiamo già più che stiamo inghiottendo e cosa stiamo inghiottendo” [28].
Siamo diventati, aggiunge Anders, soggetti il cui essere si caratterizza come l’“essere-nel-mondo-pubblicitario” e questo inaugura uno stato ontologico di tipo particolare: ci corteggiano senza sosta prodotti, religioni, proposte soteriologiche ci tirano da una parte e dall’altra e disorientano. Questa confusione imperante nell’ontico ci immiserisce; invece, l’indecidibilità ontologica di sé apre ad un cammino di ricerca che umanizza sempre più, particolarmente se condiviso con altri. C’è una domanda alla quale, chi si vuol dire cristiano, è chiamato a rispondere e questo ancora ha che vedere con una riflessione sulla comunità cristiana.

Enzo Bianchi ha formulato così la domanda: cristiano, che cosa dici di te stesso? Oggi rispondere è spesso impossibile. Ci affligge una afasia anche se la patologia interessa il pensiero e non il linguaggio: sono ammalate, sottolinea Bianchi, la ‘nostra fede e la nostra carità’. Se la prima è una dimensione profondamente personale, la seconda interessa la nostra relazione col mondo. Il cristianesimo “è un modo di vivere nella storia e nel mondo” e tenta di dare un senso, una spiegazione all’esistenza. Se è stato, continuerà ad esserlo, “liturgia, preghiera, arte e bellezza” lo deve e lo dovrà al saper custodire “la sua fonte”; molto dipenderà anche dal fatto che dalla fonte i cristiani attingano l’acqua “della loro vita: la fede operante attraverso l’amore[29]. Non riuscire più a parlare da cristiani consegue dal non attingere dalla fonte la fede che, per mezzo dell’amore, rende efficace nel mondo il messaggio annunciato.
Bianchi, per far comprendere come tutto si giochi nel mondo e nelle relazioni umane, parla di compagnia degli uomini:
è quella “situazione che vede il cristiano ‘compagno degli uomini’ (…) che sta con gli uomini abitualmente”(ivi., p. 64). Stare con gli altri non occasionalmente, ma fare comunione con loro! E – approfondisce Bianchi – “questa compagnia ha un fondamento creazionale e redentivo: ogni uomo è creatura di Dio, ogni popolo è voluto da Dio (…). ‘Compagnia’ significa (…) voler raggiungere l’uomo la dove egli è, anche nello spazio del suo peccato e del suo rifiuto di Dio” [30]. Il tipo di amore che dobbiamo irradiare nel mondo lo si può rinvenire nella biografia di Serafino di Sarov. Subì una aggressione nel suo eremo da parte di due energumeni e, pur sapendosi difendere (era un uomo robusto) si fece percuotere quasi fino a morirne. Pregò, poi, per gli aggressori e, quando vennero arrestati, si adoperò per non farli condannare a morte. Chi ha citato l’episodio, commenta: “In questa come in altre situazioni difficili egli trasse la propria capacità d’amare da Dio, perché ‘Dio ama coloro che lo amano’” [31].
Andare all’altro, istituire una comunità a prescindere dal fondamento / Dio non consente di realizzare quanto hanno fatto i campioni della fede cristiana. Basti pensare che, nella Bibbia, finanche Dio si pente del male che minaccia e che meritiamo (Es 32, 14; Ger 18, 7; 26, 3.13; Gio 3, 10). Dio si affratella a noi quando soffriamo ed è il grande compagno (Whitehead). Un acuto lettore del Vangelo ha osservato che la traduzione di Matteo 10, 29 ‘nessun passero cadrà al suolo senza la volontà del Padre vostro’ non è corretta. Quello che si intende dire, in realtà, è che nessun passero precipiterà al suolo senza il Padre vostro; cioè, senza che Egli sia là, assieme al passero che cade (M. Volkenandt).

Chi volesse affrontare l’argomento ‘vita comune’ senza considerarne la dimensione spirituale,  rifletta sulla lezione di Frances Vaughan.
A suo dire, chi si priva di esperienze trascendenti autentiche, si espone irrimediabilmente a “sentimenti di privazione e malessere spirituali” [32]. Se cerchiamo ‘gratificazioni sostitutive’, ‘surrogati’, siamo sulla strada sbagliata e non ne traiamo benefici poiché “sappiamo intuitivamente quando non siamo in contatto con la base psichica”. Il ‘benessere spirituale’ non può derivare da una adesione formale ad una religione, ma occorre una apertura verso le dimensioni transpersonali dell’esperienza. Se la ricerca spirituale coincide con la ricerca della verità, questa va vista per come è se vogliamo la pace interiore. Quello che caratterizza il ‘benessere spirituale’, infine, è, per questo studioso, “compassione per gli altri, rispetto per la vita (…) apprezzamento sia dell’unità sia della diversità. La spiritualità sana implica anche (…) trascendenza di sé, amore incondizionato” (ibidem). La spiritualità non è fremere egoisticamente per uno stato di benessere interiore attinto dai surrogati di una vita spirituale sana. L’apertura agli altri, il dono di sé fanno comprendere come lo stare con gli altri, fare comunione sia fondamentale anche per una psicoecologia. Dobbiamo, se davvero vogliamo proiettare nella comunità energie positive e forze costruttive, restaurare il nostro intimo nel mentre ci apriamo agli altri. Abbandoniamo pure, così agendo, quella che è stata definita l’ossessione del definitivo:

“La storia moderna dell’Europa attesta l’ossessione del definitivo (…) di un ordine da stabilire su regole universali, ma astratte (…) una permanente tentazione di razionalismo ideologico e di esperienze condotte attraverso il rigore della deduzione, dell’amministrazio ne e della violenza. Una filosofia della storia, una dialettica che conduce alla pace tra gli uomini è ancora possibile dopo il Gulag e dopo Auschwitz?”[33].

Vediamo se nella proposta cristiana si trovi l’occasione di rispondere affermativamente.  Il fatto è che – stando alla storia più recente – non ce la sentiamo di dare torto a chi afferma che fissare un dovere incondizionato, una esigenza etica categorica non rientra nelle possibilità umane e che occorra, invece, fondare su qualcosa di incondizionato, un assoluto che, solo, “può conferire un senso superiore e che abbraccia e pervade il singolo uomo, la stessa natura umana” e, ci riguarda più da vicino, “l’intera comunità umana” [34]. Hans Küng auspica una regola aurea il cui rispetto venga richiesto dalle grandi religioni affinché si dia un ethos mondiale. Per quanto riguarda la tradizione cristiana, la regola è: fate agli altri ciò che vorremmo facessero gli altri a noi. Dalla ‘regola aurea’ discendono, scrive il teologo, “quattro comandi irrinunciabili”:
1) l’obbligo verso una cultura della non violenza ed il rispetto per ogni vita; 2) l’obbligo verso una cultura della solidarietà e della giusta economia; 3) l’obbligo verso una cultura della tolleranza ed una vita all’insegna della veracità; 4) l’obbligo verso una cultura dell’uguaglianza che assicuri anche pari dignità all’uomo ed alla donna. Il Dio dei cristiani facilita il compito perché “è in primis il Dio compassione (…): l’imago Dei è propriamente l’uomo compassionevole”[35]. La prefigurazione della comunità nel soggetto è, così ragionando, ontologica:

“C’è una struttura soggiacente alla mia soggettività, una struttura di comunione da cui emergo come veicolo cosciente di un noi che in me pensa e vuole e spera (…). Se, al livello dei rapporti coscienti, incontro l’altro (…) è perché in me sono presenti tutti gli io (…). L’umanità è compresente ontologicamente in ogni uomo”[36].

Direi di più: la stessa struttura della persona ammette una visione sinfonica dell’io. Ci sono vari livelli nei quali si realizza e si manifesta, come scrive un pensatore francese:
“l’esperienza del Cogito include l’io desidero, l’io posso, l’io vivo e, in generale, l’esistenza come corpo”[37].

Come suggerisce Morin, siamo esseri poli – identitari; in noi, cioè, si accumulano molte identità!

Una studiosa, recentemente, ha fatto notare che communitas (comunità) deriva da cum – munis, ‘condizione comune’. Il sostantivo ‘munis’, arcaicamente, esprime un obbligo ed indica ‘colui che fa il proprio dovere’. Quando facciamo riferimento alla radice dell’uso sostantivale di munis, andiamo al termine munus che fa pensare anche alla gratuità. Secondo Flora Colavito, dunque, communitas contiene una paradossalità di fondo: munus è dono, gratuità ma anche dovere, obbligo! Il cum (condizione comune) richiama un vincolo proprio nell’essere il munus dono – doveroso. Paradossale che, in uno stesso termine ci sia e l’idea di obbligo, dovere e quella di dono, gratuità da realizzare entrambi nel ‘cum’, nella situazione vincolante, cioè, della condizione comune.
Munire, poi, significa anche ‘costruire, fortificare, mettere mura di difesa’.
Cosa ne è, dunque, del dono, della gratuità, dell’accoglienza che pure entrano a costituire l’anima ed il destino del termine communitas?

Com’è possibile esperire la libertà nel dono – impegno dell’esperienza comune? È possibile far dialogare queste paradossalità? E, ancora, quale potere occorre fortificare per rendere praticabile e ‘proteggere’ la condizione comune di libertà?[38].

Ma il dono e la gratuità possono contenere l’idea di dovere, obbligo senza innervosire nessuno solo se dovere ed obbligo non li si pensa come qualcosa si estrinseco alla persona. Occorre proteggere la convinzione di essere immagine di Dio che, essendo Comunione, relazione intratrinitaria di Persone divine, imprime in noi il marchio della comunione, prefigurazione ontologica della comunità. Ora, se uno ha il dovere di realizzare la propria natura, non può – se è stato creato per dono e per essere dono – non sentire l’obbligo di donarsi. Non che qualcuno lo costringa, ma tutto è inscritto nel conatus col quale vuole realizzare pienamente se stesso. Far dialogare le paradossalità insite in communitas (compresenza di dono ed obbligo) è possibile se viene tolta la dimensione paradossale alla questione; si tratta, infatti, dell’insopprimibile obbligo di realizzare ciò che si è! E se ci accettiamo dalle mani di Dio, accettando la vita come donao, portiamo nell’essere la propensione a darsi. Ecco che non è paradossale che il dono sia anche obbligatorio. Cristo si è donato per amore, liberamente eppure dice di aver ‘obbedito’ al Padre!
C’è paradosso? Si tratta, piuttosto, di integrarsi perfettamente in un progetto d’Amore assoluto e, dunque, si dona la stessa vita non per costrizione, ma in ossequio alla propria natura. Dio è amore ed i Suoi doni sono obbligatori e doverosi solo perché Egli non può mostrarsi se non essendo Se stesso. L’uomo, Sua immagine, deve far dialogare, agendo allo stesso modo, le paradossalità giustamente evidenziate dalla studiosa e fare del dono di sé obbligo amorevolmente avvertito fin dalle pieghe più intime del suo essere, dove il Creatore ha posto quella struttura soggiacente alla nostra soggettività e che altro non è che l’umanità compresente ontologicamente in noi.

Del nostro tema si è occupato anche Pietro Prini mostrando come la visione cristiana dell’uomo non possa appiattirsi su di un infelice soggettivismo, né patrocinare ottuse cause di una antropologia soggettocentrica. Secondo Prini, l’uomo “è inter – soggettivo fin dall’inizio[39]. Il filosofo professa non il personalismo (Maritain, Mounier), bensì, l’interpersonalismo. Non si pensa ad un io “come un terreno cintato” che solo col tempo, gradatamente si apre agli altri; il nostro autore ritiene che nel soggetto è radicato, ‘fin dall’inizio del suo concepimento’, un noi intrinseco. Cita, per esemplificare, il rapporto madre/feto: la madre lo sente subito ed il feto “si adatta già a cogliere il pulsare del cuore della madre”. L’uomo, già nel grembo materno, è reciprocità! Il dono di sé, l’aprirsi all’altro è obbligatorio, senza per questo cogliere una paradossalità insuperabile della questione. Se è costitutivo del soggetto, questi non può che realizzarsi come apertura, obbligo di rispondere all’altro.
Nel munus (dono – obbligo) che costituisce la communitas non c’è affatto contraddizione, né paradossale convivere di significati oppos ti. “L’uomo, esplicita Prini, nasce come uomo, quando entra nella comunità umana, ossia nel suo primario rapporto di reciprocità con un altro essere umano”. Venire al mondo significa darsi come presenza agli altri. Siamo “esseri essenzialmente manifestativi di se stessi”, in quanto ci sono gli altri a ricevere il manifestarci. Rosmini definiva gli altri con soggetti – “espressione più appropriata del noi”(p. 20).
Prini non nega che il soggetto sia ipseità, autorelazione, ma il senso del riferimento a se stessi si fonda nella etero – relazione. Habermas, riprendendo Wittgenstein, ci ricorda che seguire una ‘regola’ non si può assolutamente privatim; infatti, seguire una regola senza che su di essa sia possibile un ‘controllo reciproco’ equivarrebbe, al più, ad osservare una ‘emozione’. Oltre al ‘controllo reciproco’, per poter dire che ‘seguiamo una regola’, occorre si dia anche “un reciproco ammaestramento”.
In fondo, prosegue Prini, “la normatività del piano morale non è raggiunta” se una regola non vale ‘per me’ e per ‘gli altri’: “se non abitassimo (…) in un Noi ontologico, nulla potrebbe impedire il dissolversi della scelta di sé nell’immoralismo delle scelte puramente arbitrarie”(p. 21).
Il solo modo, infine, di conferire legittimamente ‘diritto di cittadinanza’ a “tutti i sistemi di valori” è quello di renderli “compossibili con gli altri che accettano questa stessa condizione” (pp. 21 – 22). Come Guardini, Zundel, anche questo pensatore innesta il suo impianto teoretico sul terreno della Buona Novella:

“Il Vangelo di Gesù Cristo, raccogliendo l’antica Legge nel precetto dell’amore di Dio e del prossimo, ha svelato alla coscienza morale questa motivazione assoluta: non c’è pienezza della libertà delle nostre scelte fuori dal progetto infinito del realizzarsi del nostro essere insieme, dell’ecumene del nostro Noi tutti”(p. 22).

Possiamo dire che la stessa teologia è plurale?
Quello che è certo è che, nelle più alte e autorevoli espressioni della teologia contemporanea, si afferma il carattere e valore relazionale della Rivelazione. Questa tesi è stata esplicitamente sostenuta dalla Chiesa e, precisamente, da Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam, 41:
“La storia della salvezza narra questo lungo e vario dialogo che parte da Dio e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione”; insomma, rivelazione è “colloquio paterno e santo tra Dio e l’uomo” (Ibidem).
Ad incoraggiare una risposta positiva è anche una considerazione dell’allora Cardinale Ratzinger (Benedetto XVI). A suo dire, il pluralismo non si dà perché viene ‘cercato’, ma deriva dalla ricerca, decisa e convogliante tutte le forze del soggetto, della verità. Volerla impone di non fare di se stessi il criterio esclusivo per emettere un giudizio, bensì che ci si apra, ci si rivolga alla Chiesa ‘voce e via della verità’. Ci si appella all’ekklesia, all’assemblea, alla comunità pur se talvolta prevalente nel Suo aspetto ‘normativo e dogmatico’. Le teologie particolari (africana, latino – americana, francese, ecc…) non sono nate per essere qualcosa di ‘specifico’, ma sempre a seguito dello sforzo di cercare la verità esprimendola nella maniera più adeguata. La teologia, così, è diventata tanto ‘particolare’ quanto ‘universale’! Papa Ratzinger trae una conclusione fondamentale per proporre un soggetto comunitario:

“non abbiamo davvero raggiunto la cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati da soli (…). Abbiamo veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicini alla verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è riferito all’unità, è veramente grande[40].

Il fondamento del soggetto comunitario si trova nella figura di Cristo perché in Lui si realizza una convivenza di contrari inattesa ed eccedente infinitamente la ragione: quella tra Trascendenza ed immanenza. Mi piace ragionare con Kierkegaard: il divino e l’umano, da sempre separati, entrano in collisione in Cristo; mentre, però, nelle comuni collisioni la conseguenza è l’esplosione, qui si ha un abbraccio.
La comunione divino/umana è non solo fondata ontologicamente, ma anche affettivamente e senza che una dimensione squalifichi l’altra!

Blumenberg sottolineava che la storia della salvezza cristiana si è trasformata nell’idea di progresso e, da qui, il triste corollario: alla domanda di valori si è sostituita la sempre più insistente richiesta di beni. La religione da fattore di ‘identità pubblica’ discende a fattore di ‘identità privata’.
Se ognuno coltiva il proprio credo, a proprio uso e consumo, non si dà più pluralismo in vista dell’unità, bensì coesistenza di contrad dittorie verità in conflitto che respirano in una fragile atmosfera di tolleranza che, spesso, sfocia nell’indifferentismo: qualsiasi cosa si creda, va bene così; basta non disturbare o turbare il prossimo. Questa caratteristica negativa del postmoderno è corollario di una condizione moderna tratteggiata in un’affermazione di un filosofo francese:

“Il mondo moderno (…) è spersonalizzazione massiva (…) si è oggettivi, si è neutri, si hanno idee generali o delle opinioni. Si è soprattutto indifferenti” [41].

Un sociologo contemporaneo ha parlato positivamente delle chances di vita, delle opzioni di cui il soggetto, liberato da antichi riferimenti morali, gode; tuttavia, si trova costretto a porre dei limiti a tutto questo:

“le opzioni da sole non bastano. Le possibilità di scelta debbono avere un senso. Ma ciò avviene solo quando esse siano inserite in un certo quadro di valori che fornisce dei criteri di valutazione. Qui sta la grande e minacciosa debolezza di un atteggiamento postmoderno, quello (…) della sostanziale indifferenza di qualunque opzione” [42].

Capita che i cristiani escano da questo gap imitandone le modalità di comportamento: rinchiudendosi, cioè, nel guscio del proprio credo per paura di irritare l’opinione comune proponendo il vero cristianesimo che non può non essere scandaloso (nell’accezione positiva del termine). Necessita un cambiamento di status. Quale? Passare dalla religione alla fede:
“La religione è una ‘faccenda privata’? – si chiede Moltmann – La religione potrà anche esserlo – risponde - , la fede cristiana non lo è. Cristo non ha annunciato una religione privata, bensì il regno di Dio…La teologia del regno di Dio non soltanto si riferisce alla realtà pubblica della società come essa è data, ma porta alla luce del pubblico quegli individui che nella società sono relegati nel sottofondo e nel privato. Essa investe della luce escatologica della futura redenzione la realtà pubblica e porta in superficie il bisogno di redenzione degli uomini” [43].
La teologia non può rimanere confinata nelle università o confondersi con la filosofia della religione cristiana. Ha una innegabile responsabilità verso il creato, l’umanità e sconfesserebbe la speranza nel regno di Dio se non si misurasse con istanze universali o si sottraesse ad un confronto pubblico sui temi essenziali dell’umano vivere. Secondo Moltmann, la ‘teologia cristiana’ ha gli strumenti per scongiurare questi pericoli:

“non rappresenta semplicemente una comunità religiosa nel proprio paese o una religione territoriale, ma esprime la chiesa ecumenica per l’ecumene umana, la terra abitata. La chiesa universale e il cristianesimo mondiale stimolano continuamente la teologia a uscire dalle università di una nazione e a dilatarsi oltre i confini e gli interessi particolari di un determinato paese. Non esiste una teologia tedesca, ma una teologia cristiana che si fa in Germania. E ciò, vale per tutti i paesi”(cit., pp. 243 – 244).

Il soggetto comunitario non è tale nell’orticello di una limitata appartenenza ad un credo, ad una teologia nazionale, ma nel villaggio globale.

La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana ha prodotto un testo fondamentale per il nostro tema: Progetto culturale orientato in senso cristiano. Una prima proposta di lavoro e data 28 gennaio 1997, festa di san Tommaso d’Aquino. Chiude con una esortazione che mostra come il soggetto della fede è comunitario in senso universale o, se si preferisce, globale:
“Occorre uscire incontro ai diversi ambienti e alle molteplici visioni del mondo, con il coraggio di chi sa accogliere, discernere, purificare, rinnovare. Quando la Parola eterna incontra le mutevoli parole con cui l’uomo dice se stesso e la realtà, il disegno di Dio si compie. Spesso al gesto largo del seminatore non corrisponde purtroppo una crescita altrettanto generosa; ci conforta la promessa che la parola del Vangelo non mancherà di dare frutto là dove incontrerà la disponibilità di un terreno buono. È nostra responsabilità favorire tale incontro, perché il lievito del Regno fermenti tutta la storia (cfr. Mt 13, 33 par.)”. Il soggetto comunitario cristiano sa che semina spesso su terreno arido, ma non deve guardare alle proprie capacità, bensì al seme che si ritrova tra le mani: la Parola di Dio, sempre efficace. Tra le mutevoli parole con le quali l’uomo ordina e costruisce il mondo deve operare la Parola, ma non si può pretendere, per essa, accoglienza immediata ed acritica. Orientare in senso cristiano un progetto culturale significa non essere testardi, invadenti, prevaricare, ma perseverare; termine, questo, che indica non una convinzione personale, meramente soggettiva circa la validità del progetto cristiano, bensì fondata ontologicamente sulla Parola.

Il soggetto autoreferenziale teoricamente pensa l’altro, ma non lo incontra veramente. A Sartre dobbiamo una lezione: restiamo, nella condizione egologica, prigionieri del nostro più grande nemico, la prospettiva dall’alto: “Chi ha mai riflettuto sulla forma d’un cappello duro visto da un sesto piano? Gli uomini (…) non sanno combattere questo grande nemico (…): la prospettiva dall’alto”. Osservati da un sesto piano, come ci appaiono gli uomini? Ecco la descrizione sartriana: “spiaccicati sul marciapiede e due lunghe gambe mezzo rampicanti uscivano da sotto le loro spalle. Sul balcone d’un sesto piano: è qui che avrei voluto passare tutta la vita”. Certo, di lassù gli altri non possono minacciarci, non vengono ad urtarsi con noi, a polemizzare. Ma è possibile vivere a questa distanza dal nostro prossimo? “Bisognava talvolta ridiscendere in strada (…). Quando si è sullo stesso piano degli uomini è molto più difficile considerarli come formiche: ci toccano”. La condizione di totale distacco dall’altro, se auspicata come definitiva, è utopica. Sarebbe, infatti, se la si potesse mantenere, una posizione di superiorità fittizia: “qual è la mia superiorità sugli uomini? Nient’altro che una superiorità di posizione” [44]; dovuta, cioè, alla vile decisione di proteggersi osservandoli da un sesto piano. Spesso è l’uomo pago di se stesso a voler restare al sesto piano osservando uomini ridotti, ma solo per un gioco di prospettiva, a formiche inoffensive.
Ci si chiude nelle elaborazioni e creazioni di un ego absolutus, sciolto da ogni legame con l’altro, con la realtà. Proviamo a pensare a due individui: l’uno, in cima ad un colle, osserva l’altro che rema nel fiume sottostante. Il primo, rappresenta il soggetto pago di un approccio teoretico agli altri ed alla realtà; il secondo, il soggetto che si immerge, a suo rischio e pericolo, nella storia (questo intendo per soggetto comunitario). Chi guarda dall’alto si accorge agevolmente che dietro l’ansa del fiume minacciano le rapide; chi sta in barca non ha la stessa possibilità: affronterà il pericolo solo quando, improvvisamente, lo vedrà materializzarsi! Allport, padre di questa metafora, afferma: “chi agisce non può considerare le sue azioni in un’ampia matrice spazio – temporale (…). Per chi agisce la scelta è un fatto di primaria importanza” [45]. Il rematore non può che usare una preventiva prudenza. L’uomo in cima al colle, invece, pur vedendo in anticipo il pericolo è utile a nessuno; anche se gridasse, il rematore non potrebbe sentirlo! Il rematore non prevede tutto, ma è previdente. Quello che conta non è stare in cima al colle per ottenere una inutile conoscenza dei pericoli nascosti nel fiume – storia; piuttosto, ha valore il remare ed essere previdenti fin dove si può. Pochi orientamenti di valori – ammette Allport – conoscono completa realizzazione; eppure, i fini importanti, “benché irraggiungibili, hanno un immediato effetto dinamico sulla nostra condotta quotidiana, e in tal modo dirigono il corso del nostro divenire” (cit., p. 106).

Uno studioso di Lévinas ritiene che la comparsa di un ‘essere morale’ costituisca il ‘miracolo della creazione’. Inoltre, se l’io è ‘creato’, non è primo. Lo precede, infatti, l’Altro! “La creazione ci permette di pensare all’altro come unico e a rispettarlo nella sua alterità” [46]. Ci viene ricordato che Lévinas, che ha fatto del volto dell’altro che ci richiama alla nostra responsabilità verso di lui la categoria fondante l’etica, non a caso usa il termine francese autrui che evoca il latino alter, ‘un altro tra due’; non usa alius perché indica ‘un altro tra molti’. Il vero rapporto responsabile è ‘tra due’, non ‘tra molti’; responsabilità, insomma, è interpersonalità. L’altro, ancora, non è uno qualsiasi, ma il prossimo! Una relazione di questo tipo non è riducibile a qualcosa di semplicistico, ma va attentamente coltivata. Il filosofo ebreo – francese è di una chiarezza adamantina: “La relazione con l’altro non è un’idillica ed armoniosa relazione di comunione, né una simpatia grazie alla quale, mettendoci al suo posto, lo riconosciamo come simile a noi ma esterno a noi; la relazione con l’altro è una relazione con un Mistero” [47]. Stefano Curci, studiando le valenze pedagogiche del pensiero levinassiano, si chiede (op. cit, in nota 46): “Perché un’etica fondata sull’altro?”. Partiamo dal fatto che siamo stati immessi non a caso in un determinato contesto spazio – temporale, “ma in un mondo in cui ci sono gli altri. Perciò – conclude Curci – io non posso essere la misura di tutte le cose (…): prima di me è successo qualcosa per cui io sono nato dopo” (p. 62). Chi si ferma all’io sono e devo essere evitando di cogliere il Noi che fa da sfondo e da cartina di tornasole per il valore dell’identità, si condanna a respirare nell’atmosfera ontologica impermeabile a qualsiasi responsabilizzante provocazione etica. Curci, ricorrendo ad un celebre episodio biblico, tira una conclusione significativa per comprendere che il soggetto comunitario cristiano deve essere attento all’essere (ontologia), ma solo se inteso come essere-per-e-con-gli-altri (etica):

“Quando, dopo che Dio gli ha chiesto ‘dove è tuo fratello?’, Caino risponde ‘sono forse io il guardiano di mio fratello?’, risponde in modo coerente perché dà una risposta senza etica ma piena di ontologia, per cui io sono io e lui è lui, in una separazione che è indifferenza a – morale” (p. 90).  

Il soggetto comunitario rema nella storia e non si fa sedurre dalla comoda posizione di chi si colloca sulla cima di un colle per una anticipata e rassicurante, ma inutile, visione dei pericoli riservatici dal fiume – storia. Il soggetto compromesso vive teso tra solidarietà e la solitarietà. Impara che c’è un retto modo di pensare a se stesso perché ha compreso che non può non manifestarsi nel mondo e che conoscersi è possibile solo se si viene riconosciuti. La letteratura può insegnarci qualcosa a questo punto della nostra riflessione. Eca de Queiros, in un racconto, presenta la figura di Teodoro, un impiegato che opponeva alla sua miseria profonde letture. Una sera, mentre stava per farsi catturare dal sonno, un passo del libro filosofico che aveva tra le mani lo fece trasalire. Veniva proposto un dilemma etico. In una zona assai remota della Cina abita l’uomo più ricco del mondo: un nobile mandarino, di cui non si hanno le generalità, non se ne conosce la storia. Ereditarne le ricchezze è facile! Basta suonare un campanello sul libro, lui morirà e tutta la sua ricchezza verrà condotta a chi ha compiuto il gesto. Teodoro impatta con una terribile questione: “Tu che mi leggi e sei un uomo mortale, suonerai il campanello?”[48].L’impiegato vorrebbe passare oltre, ma compare il diavolo invitandolo a suonare il campanello. A chi giovava che quel vecchio cinese, di cui non si conosce nemmeno il nome, il volto, continuasse a vivere? Il diavolo inventa questo subdolo racconto. Una povera sartina londinese non vorrebbe, per rallegrarsi un po’, che veder fiorire nel suo abbaino un vaso con almeno una rosa. In quel momento, ciò che potrebbe essere fiore è materia sotto altra forma: un uomo di Stato. Un delinquente, però, lo sgozza e la corrente porta via le sue budella:

“Lo seppelliscono con un corteo di carrozze; la materia comincia a disgregarsi, si mescola alla straordinaria evoluzione degli atomi e il superfluo uomo di governo va a rallegrare, sotto forma di viola del pensiero, la soffitta della bionda sartina. L’assassino è un filantropo!”(cit., pp. 11 – 12).

Qui trionfa una visione materialistica, utilitaristica dell’uomo. L’altro, finendo, dà luogo a qualcosa che è bene per me; viene percepito solo in quanto utilizzabile per i miei scopi, anche se nobili e motivati. Teodoro, sedotto da una diabolica logica mercantile, suona il campanello. Abbandonate le demoniache seduzioni verbali comprenderà che l’altro, anche quando non immediatamente visibile,  non è un fantasma o un mezzo, ma uomo reale, un fine:

“Lo avevo eliminato, da lontano, con un campanello. Era assurdo, fantastico, beffardo. Ma questo non sminui va la tragica brutalità del fatto: avevo ucciso un vecchio” (p. 28).

Solitamente, in un omicidio si ha l’occasione di guardare negli occhi la vittima; qui, è stato compiuto da lontano! Pensiamo a cosa accade in noi quando vediamo in televisione tragedie, fame, morti insensate: ci indigniamo, ma soffriamo anche per la nostra impotenza? Ci chiediamo cosa effettivamente possiamo fare per chi viene colpito dalla sventura? Siamo condannati a rimanere tele – spettatori non inter – agenti [49]. Eppure, Teodoro sa che aver agito a distanza non lo giustifica. Avesse optato per la proposta cristiana, avrebbe sentito come suo prossimo anche il vecchio ricchissimo mandarino laggiù, negli sperduti confini della Cina. I sapienti ebrei dicono che l’uomo viene guidato sulla strada che si è scelto. Scegliere la strada che conduce ai beni piuttosto che al Bene moltiplicherà i campanelli come quello messo tra le mani di Teodoro e renderà sempre più inconoscibile l’altro come uomo reale, con nome e cognome. Si deve scendere dal sesto piano di Sartre, ma non per impugnare il campanello di Teodoro. Chi vuole proporre un soggetto aperto alla Trascendenza ed all’altro non può non prendere sul serio, combattendole, le tentazioni che fanno dell’io un ricettacolo di cose che non potranno mai valere la gioia autentica che deriva soltanto da una sana convivialità.
                       


[1] m. zambrano, L’agonia dell’Europa, Venezia 1999, pp. 76 – 78 e p. 64.
[2] id., L’uomo è divino, Roma 2001, p. 35 e p. 59.
[3] r. bodei, Destini personali, Milano 2002, p. 259.
[4] th. luckmann, La religione invisibile, Bologna 1976, p. 137.
[5] Cfr., ch. taylor, Radici dell’io, Milano 1993, p. 54.
[6] Cfr., m. buber, Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo 1993, p. 192.
[7] Cfr., Le metamorfosi della cristianità. Cristianesimo e società tecnologica, Milano 2005, p. 161.
[8] s. natoli, Il cristianesimo di un non credente, Magnano, 2002, p. 19.
[9] Cfr., l. canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Milano 2004, pp. 34 – 35.
[10] c. g. jung, ‘I rapporti della psicoterapia con la cura d’anime’ (1932), in Opere, vol. XI, Torino 1981, p. 318ss.
[11] Cfr., m. eliade, Il sacro e il profano, Torino 1976, p. 20.
[12] Cfr., d. bonhoeffer, Sequela, Brescia 1971, p. 264.
[13] Cfr., lev sestov, Atene e Gerusalemme, Milano 2005, p. 1125.
[14] Cfr., a. godin, Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Brescia 1993, p. 15.
[15] Dunque, “sarebbe meglio dire che una persona è nella fede, invece che ha fede”(e. fromm, Avere o essere?, Milano 1977, p. 67). La fede “è in primo luogo uno slancio ad agire”(e. durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Torino 1963, p. 471). Inoltre, “si può parlare a Dio pregando, nell’atto di unirsi a Dio, ma non si può parlare di Dio per non trasformarlo in un idolo”(e. fromm, Voi sarete come dei, Roma 1970, p. 25).
[16] Cfr., r. guardini, Sul limite della vita. Lettere teologiche ad un amico, Milano 1994, p. 15.
[17] Cfr., m. zundel, Scintille, Milano 1990, p. 124.
[18] Cfr., d. campanale, Scienza, ontologia, valore, Bari 1963, p. 167.
[19] Cfr., g. coccolini, Credenti nel mondo, Molfetta (Ba) 2005, pp. 26 – 27.
[20] Cfr., c. j. pinto de oliveira, La crisi della scelta morale nella civiltà tecnica, Roma 1978, p. 76.
[21] Cfr., w kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia 1987, p. 398. Abba Antonio, uno dei Padri del Deserto, diceva che “se guadagniamo il nostro fratello, guadagniamo Dio” (Apoftegmi 9 (PG 65, 77)).
[22] Cfr., id, Vita comune, Brescia 2003, p. 21.
[23] Cfr., m. veneziani, La sconfitta delle idee, Roma – Bari 2003, pp. 55 – 56.
[24] Cfr., e. fromm, Fuga dalla libertà, Milano 1994, p. 199.
[25] s. natoli, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Milano 2002, p. 174.
[26] Cfr., g. ravasi, Il Profeta Geremia, Bologna 1992, p. 61. 
[27] Cfr., a. auer, ‘L’autonomia della morale secondo Tommaso d’Aquino’, in k. demmerb. schuller (a cura di), Fede cristiana e agire morale, Assisi 1980, p. 39.
[28] Cfr., g. anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino 1992, p. 125.
[29] id., Cristiani nella società, Milano 2004, pp. 34 – 35.
[30] Ivi., pp. 64 – 65. Stare con gli uomini anche nella cultura nella quale sono stati chiamati a pensare, vivere ed agire. Una scrittrice lettone, che dall’età di sei anni divenne paralitica, acquistò nella sofferenza uno sguardo ampio sul mondo. Sebbene fisicamente costretta in un ambiente angusto, si aprì agli altri senza tradire le sue origini: “È colto e civile chi sa essere inglese con Shakespeare, francese con Pascal, italiano con Dante, russo con Dostoevskij, tedesco con Goethe, e tuttavia non perde la sua individualità, il suo primordiale legame col proprio popolo”(z. m. raudive, Briciole di speranza, a cura di elisabeth bruhl, Cinisello Balsamo 2003, p. 28).
[31] Cfr., p. a. sorokin, Il potere dell’amore, Roma 2005, p. 74.
[32] id., Spiritualità e salute nella psicologia transpersonale, Assisi 1988, p. 35.
[33] Cfr., e levinas, Nell’ora delle nazioni, Milano 2000, p. 155.
[34] Cfr., h küng, Progetto per un’etica mondiale, Milano 1991, p. 75. Ancora: “Soltanto il legame con qualcosa di infinito rende liberi nei confronti di tutto ciò che è finito”(Ibidem).
[35] Cfr., a. rizzi, Pensare la carità, San Domenico di Fiesole 1995, p. 111.
[36] Cfr., e. balducci, La terra del tramonto, San Domenico di Fiesole 1992, p. 189.
[37] p. ricoeur, Filosofia della volontà. 1. Il volontario e l’involontario, Genova 1990, p. 13.
[38] f. colavito, ‘Libertà, relazione, comunità’, in aa. vv., Libertà e comunità, a cura di m. signoreg. scarafile, Padova 2005, pp. 609 – 610.
[39] id., ‘Alcune riflessioni sopra l’interpersonalismo delle scelte e della responsabilità’, in aa. vv., Libertà ed etica della responsabilità, a cura di g cacciatore, Assisi 1997, p. 19.
[40] j. ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea, storia e dogma, Milano 1993, p. 87. Questioni analoghe si discutono in h. u. von balthasar, La verità è sinfonica, Milano 1991.
[41] Cfr., e. mounier, Révolution personnaliste et communautaire, Paris 1935, pp. 79 – 80.
[42] Cfr., r. dahrendorf, Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Roma – Bari 2003, pp. 34 – 35. Il concetto viene ripreso molte pagine dopo: “Le chances di vita hanno senso soltanto quando le opzioni rimangono inserite in coordinate di solidarietà, di appartenenza e di comunanza (…). Se tutto ha lo stesso valore, vuol dire che tutto diventa indifferente”(p. 133).
[43] j. moltmann, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, Brescia 1999, p. 240.
[44] Cfr., j. p. sartre, ‘Erostrato’, in id., Il muro, Milano 1987, pp. 101 – 102.
[45] Cfr., g. w. allport, Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità, Firenze 1963, p. 118.
[46] s. curci, Pedagogia del volto. Educare dopo Lévinas, Bologna 2002, pp. 21 – 22.
[47] e. levinas, Il tempo e l’altro, Genova 1987, p. 46.
[48] Cfr., id., Il mandarino, Roma 1987.
[49] “siamo quotidianamente esposti alla conoscenza ‘mediata’ della miseria distante e della crudeltà distante (…) abbiamo tutti la televisione (…) pochi (…) hanno accesso ai mezzi della tele – azione” (z. bauman, Amore liquido, Roma – Bari 2004, p. 134). 

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