L’uomo al centro. Marco 3, 1 – 6. Riflessioni.
Essere attirati dal Cristo, è (…) trovare la propria delectatio nella verità, nella beatitudo, nella giustizia, nella vita eterna, perché Cristo è tutto ciò (agostino, Tract in Io. Ev., XXVI, 4)
L’uomo non basta più a se stesso, né gli basta più alcun bene, quando si allontana da Colui che solo basta (agostino, De trin., X, 5, 7)
Un giorno, Paul Valéry era molto annoiato e sostava di fronte alla finestra; con lo sguardo perso nella trasparenza del vetro, disse: ‘Come si cancella un uomo?’. Gide, che era presente, impressionato, non replicò. Kafka, un pomeriggio, andò a trovare Max Brod e, attraversando il salotto, svegliò senza volerlo il padre dell’amico. Per scusarsi, gli disse: ‘mi consideri un sogno!’. Lévi – Strauss definiva se stesso “il luogo in cui qualcosa accade”; concluse che non c’era nessun io, nessun ‘me’! L’uomo non agisce è agito ed è una costruzione filosofica da cancellare (Valéry), evanescente come un sogno (Kafka), un luogo nel quale qualcosa agisce malgrado lui (Lévi – Strauss). Büchner disse che non siamo altro che ‘marionette’ e forze ignote ci muovono.
Non si può negare che, messo in crisi il soggetto, si rende dubbio il valore di ‘ogni soggetto’: decade il valore dell’altro. L’uomo, di fronte alle strutture, agli accadimenti, diviene periferico e ad essi subordinato. La proposta cristiana articola la questione antropologica su ben altri registri assiologici e teoretici. Alessandro Pronzato propone un brano di Marco (3, 1 – 6) nel quale Gesù guarisce un uomo dalla mano atrofizzata. La mano consente all’uomo di modellare, umanizzandolo, il mondo; di toccare l’altro, di prendersi cura di se stesso. Avere la mano atrofizzata è un handicap che interessa un mondo di relazioni vitali ora interrotte. La guarigione, con sommo scandalo dei giudei, avviene nel tempio e di Sabato! Luogo sacro e tempo sacro, in ambiente evangelico, non valgono in se stessi; l’uomo non è cancellato a loro beneficio. Nel guarire l’uomo, Gesù, dice: ‘Mettiti nel mezzo!’. Il verbo greco è égheire e dovremmo tradurre ‘svegliati, sorgi, alzati’; si tratta, infatti, di un verbo che viene usato in riferimento alla risurrezione dello stesso Gesù. L’uomo deve alzarsi in mezzo circondato da tempo e luogo sacri irraggiando il senso del loro essere.
Pronzato commenta: il Maestro fa “sorgere l’uomo, lo risuscita dai testi sacri (…) e lo piazza in mezzo alla sinagoga. Lo sottrae alla scuola e alle sue dispute dotte per collocarlo al centro, in carne e ossa. Come a dire: adesso possiamo discutere. Soltanto con l’uomo al centro, è possibile ragionare”. Nella sinagoga i maestri, i sacerdoti avevano una mentalità legalista: le norme valgono più dell’uomo, i luoghi ed il tempo agiscono nell’ uomo, e questi vi soggiace! Alla domanda di Valéry risponde la pericope di Marco: l’uomo si cancella quando è collocato non al centro, ma alla periferia di ciò che lo riguarda, se non addirittura posto sotto di esso come ad un giogo mortificante e doloroso.
Tempio, Sabato smettono di essere assoluti e si convertono in cornici che acquistano senso e valore da chi contengono.
Scrive Pronzato: “Gesù (…), all’interno della sacralità del luogo e del tempo, inaugura una nuova sacralità: quella della persona”. Quando il Maestro chiede se sia lecito operare una guarigione di Sabato scavalca norme legali e pone la questione assiologica in termini personali: inquadra la morale in funzione del soggetto, non viceversa. In Matteo 12, 9 – 14, testo parallelo, Gesù stesso risponde al quesito: un pastore, se una pecora cade in un fosso, non la salverebbe di Sabato? E l’uomo, conclude, è più prezioso di una pecora! Pronzato ne ricava una lezione teologica: “La gloria di Dio viene promossa allorché si ridona vita, salute, speranza all’uomo”. Trionfa l’altro perché si privilegia il debole, chi patisce. La festa del povero cade sotto la nostra responsabilità: “Non mi è consentito ‘fare Sabato’, ossia osservare il precetto festivo, accontentandomi di lodare Dio (…) ignorando chi soffre, trascurando chi non ha pane o speranza”. Dio, facendosi carne in Cristo, diviene concreto: non cancella l’uomo, ma lo trasfigura umanizzandoSi! Balthasar sottolinea che Gesù è l’universale concretum: “né un individuo tra gli altri, poiché è il Dio senza uguali in persona, né è la norma come universale, poiché è questo singolo”. Gesù è universale nella Sua essenza divina e concreto nella Sua esistenza umana: è al centro! La creatura, concreta umanamente, diventa titolare di valore assoluto ed universale proprio grazie al Logos sarx. Il Vaticano II, nella Gaudium et Spes (n.10), sostiene che Gesù è la ‘chiave, il fine’ “di tutta la storia umana”, ma ne è anche il centro! Da Lui irraggia il senso che raggiunge ogni cosa. Qui si innesta una configurazione suggestiva della teologia della Croce (Moltmann).
Atanasio di Alessandria sostenne che Cristo doveva morire in croce perché su di essa si muore stendendo le mani: con una mano attirò a Sé gli ebrei (antico popolo); con l’altra, i gentili. Se sul ‘piano invisibile’ – sosteneva Ireneo di Lione – il Verbo è coestensivo all’intera creazione, crocifisso diviene coestensi vo alle ‘quattro dimensioni’ sul ‘piano visibile’: rivela “la sua azione sul piano invisibile” nella fenomenologia della Croce. Illumina di senso l’altezza, la profondità, la lunghezza (dall’oriente all’occidente) e dirige, conclude Ireneo, “come un pilota la ‘larghezza’ dal polo nord fino al polo sud”. Cristo, così, “chiama da tutte le parti i dispersi alla conoscenza del Padre”. Sul piano antropologico, ne viene questa dirompente considerazione: se Cristo stesso è al centro e da lì riconduce tutto all’unità, al Padre, mettendo l’uomo al centro del Tempio e del Tempo, gli conferisce la Sua stessa posizione! La via all’uomo è Lui e la via a Lui è l’uomo. Agostino ne era consapevole: “in Cristo ho tutto. Vuoi amare il tuo Dio? Lo hai in Cristo. Vuoi amare il tuo prossimo? Lo hai in Cristo”. Il Verbo è al centro tra Dio ed uomo e li pone in relazione vitale: è il canale che conduce la grazia divina all’umano ed il nostro desiderio della grazia a Dio. La centralità di Cristo è, dunque, non un privilegio, ma un progetto sulla creatura; per dirla con Varillon, ciò che Cristo è “noi dobbiamo diventarlo. È la regola assoluta, il modello dell’umanizzazione compiuta”. Modello al quale tenere fisso lo sguardo per rendere davvero umano l’uomo.
Lui è al centro, inchiodato sulla Croce, a tendere interamente verso tutte le direzioni! Il cristianesimo non è un’etica perché non dà precedenza alle norme, ma al soggetto: è una fenomenologia del Volto che si riflette nella valorizzazione dei volti. La necessità che attanaglia l’uomo è decisiva, non la norma che ne regola il vivere. La creatura non è in funzione della Legge, ma risorge, con nome e cognome, al centro del tempio e del tempo sacri. Hubaut, studioso delle religioni, dopo aver esplorato le credenze dei popoli, le loro teologie, concluse che solo nel cristianesimo aveva “trovato un Dio che avesse una tale passione per l’uomo come il Dio che mi è rivelato in Gesù Cristo”. Cristo mostra che si va a Dio, Lo si glorifica, stando attenti all’indigente, al malato…
Un umanesimo sano è possibile solo seminando nel solco cristologico. Maritain ha detto che, se vogliamo lasciarci alle spalle la barbarie ed aprire spazi ad un’era di civiltà davvero nuova, è alla “santificazione della vita profana” che dobbiamo lavorare; si tratta di consentire all’esperienza spirituale, alle energie contemplative, all’amore fraterno di fecondare l’esistenza sociale – temporale.
Se, come gli scandalizzati giudei nella sinagoga, carichiamo la ‘vita profana’ di norme rigide; se alla ‘spiritualità’, alla ‘contemplazione’, all’‘amore per l’altro’ opponiamo una ottusa applicazione di regole, la civiltà dell’amore è improponibile. L’uomo resterà atrofizzato interiormente ed esteriormente; sfigurato, privato della sua vera identità e, come voleva Valéry, cancellato. Oggi più che mai questi temi meritano di tenerci occupati. Qualche giorno prima della sua elezione papale, Ratzinger, in un discorso a Subiaco il primo aprile 2005, sentenziò: “Viviamo un momento di grandi pericoli e di grandi opportunità per l’uomo e per il mondo”.
Pericoli ed opportunità, realtà bipolare, e noi al centro: a quale polo tenderemo?
Occorre ripensare l’antropologia alla luce della cristologia ed operando precise scelte in favore della nostra piena umaniz zazione. Negli Orientamenti pastorali che la Conferenza Episc opale italiana offre in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, si rintracciano tre livelli sui quali lavorare per apparec chiare un mondo più umano:
1)orizzontale: promuovere, risvegliare il “desiderio di prossimi tà, di socialità, di incontro, di solidarietà, e di ricerca della pace”(n.37). Una precisazione: sia Gesù che i frequentatori della sinagoga erano vicini, quel Sabato, all’uomo dalla mano atrofizzata; eppure, solo il Maestro gli era prossimo. Nessuno più del carnefice è vicino alla vittima, ma a lei è prossimo solo chi soccorre; un violentatore è vicino alla donna che subisce violenza, ma solo un innamorato è prossimo alla sua donna; 2)noetico: animare una “rinnovata ricerca di senso” (n.38); 3)verticale: mantenere sempre vivo e forte “un anelito alla trascendenza”(ibidem).
Questo poderoso impianto di buoni propositi è minacciato al punto 1 (a mio avviso decisivo) dal fatto che, scriveva Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte, “gli strumenti esteriori della comunione” si converto no, quasi sempre, in “apparati senz’anima, maschere di comunione più che vie di espressione e di crescita” (n.43). Purtroppo gli apparati, i mezzi di comunic azione divengono centrali a discapito dei comunicanti; si potenziano i mezzi per comunicare, per fare comunione, ma sottostimandone la reale finalità. Tutto diviene chiacchiericcio assordante, assenza di temi forti, perché l’uomo non è al centro dell’evento comunicativo. Non ci può essere comunione vera laddove l’uomo è solo il pretesto per far agire, funzionare, gli strumenti del comunicare.
Negli Atti Gesù, per Luca, è choregós, ‘guida, corifeo’, chi cammina davanti a tutti per condurli alla meta: potremmo dire, una Persona esemplare. Nella prima lettera di Pietro, si legge: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio”(2, 20 – 21). Bruno Maggioni rileva che il termine greco che traduciamo ‘esempio’ è upogrammon: “indica il modello di scrittura tracciato dal maestro sulla tavoletta, che lo scolaro deve fedelmente ricopiare per imparare a scrivere”. L’agire di Gesù, dunque, è da ricopiare fedelmente nella nostra vita, nei nostri comportamenti. La centralità dell’uomo è realizzabile solo se il primato spetta a Cristo. Paolo, scrivendo ai Filippesi, dirà: Emoi to’ zên Christos. Di solito si traduce ‘la mia vita è Cristo’, ma nella frase greca soggetto non è ‘la mia vita’; è corretto leggere: Cristo è per me il vivere! Individuare il vero soggetto della frase rivela che è Cristo a dare la vita che dedichiamo a Lui, Origine e Fine di ogni cosa. Paolo, scrivendo agli Efesini, enuncia: anankephalaiósasthai tà pánta en tô Christô, ‘ricapitolare tutto in Cristo’. C’è più che una interpretazione di respiro cosmico!
Nel verbo greco che sta per ‘ricapitolare’, infatti, c’è il termine kephálaion: è l’asta attorno alla quale si arrotolava la pergamena.
Commenta Ravasi: “attorno a Cristo, vero suo asse, si compongono tutta la storia scritta sul libro di Dio, tutte le nostre parole, tutte le nostre azioni, e assumono il loro vero senso”.
Cristo è l’asta attorno alla quale tutto si arrotola e, dunque, è il punto di convergenza, centrale, delle parole di Dio e nostre, dell’agire umano. Se Lui, che è il Centro di ogni cosa e di ogni parola, mette al centro l’uomo, occorre prendere esempio e, come lo scolaro riproduce fedelmente l’esempio (upogrammon) di scrittura che il maestro traccia sulla tavoletta per imparare a scrivere, così il discepolo di Cristo deve riprodurre fedelmente, nel suo modo di vivere, il comportamento del Maestro per avere la vita piena.
Nel romanzo di Camus, La peste, un medico ateo potrebbe lasciare il paese in preda ad una disastrosa epidemia, ma non lo fa; come si giustifica questa scelta? Studiando questo passo del romanziere francese, Rizzi individua una “misteriosa dimensio ne di trascendenza” nell’esperienza morale: “Il carattere di imperativo che la coscienza presenta, e il simbolo della voce che lo esprime, sono simboli della sua irriducibilità al volere dell’uomo: la coscienza è nell’uomo non dell’uomo: è l’istanza della trascendenza su di lui”. La coscienza è in noi, non è nostra, è la Trascendenza che ci inabita. Gesù mette l’uomo al centro del tempo e dello spazio sacri perché non lo si può emarginare in base ad una morale legalista. Se Dio sceglie di mettere in noi la Sua voce ci elegge a compiti impegnativi, finalizzati a promuovere l’altro in tutte le sue dimensioni. Gesù è l’esempio non trascurabile di questa intenzione di Dio. Il 5 ottobre del 1955, parlando all’Assemblea Generale dell’ONU, Giovanni Paolo II evidenziò come sia necessario – seguendo l’esempio di Cristo – mettere al centro l’uomo perché dotato di una dignità infinita. Sostenne che né dell’uomo, né del futuro occorre avere paura perché, in ognuno di noi, c’è sapienza e virtù.
Con queste risorse, più la ‘grazia di Dio’, dobbiamo costruire una civiltà degna della ‘persona umana’ e far fiorire “una vera cultura della libertà”. Gesù, nel guarire di Sabato e nella sinagoga, non libera solo dalla patologia, ma anche dalle morali rigide, rendendo periferico quanto non è finalizzato alla salvezza dell’uomo integrale.
Vedere l’altro e non le fruste categorie di pensiero attraverso le quali viene filtrato; mettere al centro l’altro e non le regole morali che lo ingabbiano mortificandolo nella sua realtà esistenziale.
La vera cultura della libertà non è mera emancipazione dalle sudditanze economico – politiche, culturali, ma riconoscimento della non negoziabile dignità della persona. Giovanni Paolo II, in quel discorso, aggiunse di essere consapevole che “le lacrime” del XX secolo “hanno preparato il terreno a una nuova primavera dello spirito umano”.
I greci chiamavano lo ‘schiavo’ apròsopos: colui che non ha volto. L’altro è sfigurato da una concezione legalista della morale; non ha volto, ma è ridotto ad una funzione, subordinato a regole che ne ignorano il valore. L’assiologia si sgancia dall’antropologia e diviene ab – soluta, sciolta da ogni reale relazione col soggetto ed il suo valore intrinseco, ontologico e si congela in norme dotate di valore formale che si pretende indiscutibile. Qui si risponde al quesito di Valéry: l’uomo viene cancellato perché lo si imprigiona dietro il cancello delle norme rendendolo inavvicinabile nel suo concreto essere nel mondo della vita. L’uomo dalla mano atrofizzata presentatoci da Marco è out dalla stima, dalla considerazione degli altri: emarginato in nome di regole che si fanno derivare dal divino. Dio ha preso il Volto in e di Cristo – che è volto umano – per comunicarci che è al centro dell’intersezione divino/umano che si trova la Verità. Berdjaev ha scritto: “Nel Cristo, Dio diventa un volto, e l’uomo a sua volta conosce il proprio volto”.
Gesù chiama l’uomo dalla mano atrofizzata e già inizia a salvarlo. Se lo chiama lo riconosce come soggetto degno di attenzione: se ci sono per un Altro sono certo di essere! L’antropologia teologica capovolge il lascito cartesiano. Se, per Cartesio, cogito, ergo sum (penso, dunque sono), in ottica cristiana vale la formula qualcuno mi pensa, dunque sono. Cusano ha una espressione potente: vocas igitur ut te audiant, et quando te audiunt, tunc sunt; tradotte, queste parole rivolte a Dio, suonano: tu chiami le creature perché ti ascoltino, e quando ti ascoltano, allora sono quel che sono. Gesù chiama al centro del tempo e dello spazio sacri l’uomo che soffre e, questi, collocato, per la sua dignità, nella posizione a lui congeniale, diventa quel che è: non un soggetto funzionale alla legge morale, ma l’essere che la giustifica e la rende sensata. L’etica che si può rintracciare (ma il cristianesimo non è riducibile toto coelo ad etica) in questa provocazione di Gesù non è minimalista. Di fronte alla proposta cristiana, direi con Paolo, dobbiamo sforzarci di discernere (dokimàzein) “il meglio”(Fil 1, 10). Il meglio consiste nel fare “la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”(Rm 12, 2). Già nei Profeti, il Signore dice di non gradire olocausti, ma il cuore che ama, l’attenzione a chi soffre. Gesù mostra come discernere ciò che è meglio secondo Dio: l’uomo, la sua salvezza integrale, il cuore libero...Si tratta di fare, dice Paolo, “ciò che piace al Signore”(Ef 5, 8 – 11). A Dio piace, scrive nella stessa lettera (4, 15), che si faccia la verità nella carità (aletheùein èn agàpe). Le norme, date da Dio, sono vere ma non accettabili fuori della carità. La verità della legge morale non va contro la carità. Dio è fonte e sostegno della morale, ma la fa agire nella carità che consiste nell’attenzione totale all’uomo con nome e cognome; ne vivifica il portato veritativo mettendo l’uomo al centro perché la legge si faccia servizio e non giogo che umilia la creatura.
Chi si paralizza in una osservanza esteriore della Legge riduce Dio ad un monumento freddo su di un piedistallo screpolato che, toccato, ferisce. Paolo, nella lettera ai Romani (6, 4) usa il verbo greco peripatein, ‘camminare’, per dirci che dobbiamo muovere verso “una vita nuova”. Gesù, per mettere in movimento l’uomo dalla mano atrofizzata, dice alzati nel mezzo! Lo invita a lasciare una posizione periferica rispetto al sacro per risorgere al suo centro. Quel sofferente, non solo nel corpo, conosce una vita nuova. Nella seconda lettera a Timoteo Paolo dice: so in chi ho riposto la mia fiducia (1, 12). Il malato che Gesù risana sa grazie a chi vede la propria esistenza restaurata. Dio, nell’agire di Gesù, vuole meritare la fiducia dell’uomo.
L’uomo dalla mano atrofizzata sperimenta la liberazione integrale. La malattia interrompe innanzitutto una serie di legami vitali: con la famiglia, con il mondo del lavoro, con le forme (anche religioso/cultuali) del vivere comunitario. La patologia è una clausura psicofisica che chiude dietro un cancello il soggetto e lo cancella. Gesù, di Sabato, in sinagoga, libera un uomo da tutto ciò, ma ha dovuto compiere il primo passo: farlo risorgere al centro; proporre la sacralità della persona in luogo di quella del tempo e dello spazio. Merton ha scritto: “Ogni scelta che ci fa liberi è la risurrezione di Cristo nella nostra vita”. Prefigurata nella risurrezione di un uomo sofferente è la Risurrezione di Cristo. La vita non va riscattata solo dalla morte, ma anche da quelle morti – direi – regionali rappresentate dalle tare fisiche, psichiche che ci catturano. L’attenzione al sofferente, metterlo al centro di quanto, perché sacro, riteneva di poterlo emarginare rivela chi è veramente l’uomo: la riproduzione stupenda di una immagine stupenda – come diceva il filosofo ebreo Filone Alessandrino. Restaurando nel corpo e nello spirito l’uomo, Gesù mostra che Dio ci vuole sani integralmente.
Se avessi di fronte l’uomo guarito di cui parla Marco, non potrei trattenermi dal riferirgli cosa diceva Diodoco di Fotica: l’uomo non si trasforma in ciò che non era, si rinnova gloriosamente in ciò che è già. L’uomo che Gesù guarisce non diventa nuovo nel senso che prima era un mezzo uomo; piuttosto che trasformarsi in altro, si rinnova come riproduzio ne stupenda di una immagine stupenda che era già. Riassumendo, viene fuori la verità antropologica: l’uomo è la riproduzione stupenda dell’immagine stupenda (di Dio)(Filone Alessandrino) e che non è frutto di una trasformazione, come se prima fosse qualcosa di meno; si tratta, invece, di rinnovare, restaurare una dignità piena ed incoercibile che ci appartiene ontologicamente, non in maniera accessoria, accidentale (Diodoco di Fotica)
Agostino, nel XXII Libro del De Civitate Dei, insegna: initium ut esset, creatus est homo (XX, 4). Siamo stati creati, cioè, per essere un inizio. La libertà è poter rinnovare il nostro essere minacciato da patologie e da irrigidimenti in codici morali. Questa la decisione di Gesù: mettere l’uomo al centro; vedere tempo e luogo sacri in funzione dell’uomo e non questi subordinato ad essi. L’uomo debole, malato, povero è oggi ‘al centro’ dei poteri economico/politici, della comunità? Ormai, per lo più, il soggetto viene considerato un lastrone di una strada lastricata e non una pietruzza in un mosaico. Le metafore le devo al caposcuola della logoterapia, Victor Frankl, psicologo che conobbe il lager, la morte dei familiari nei campi di sterminio nazisti e, in mezzo all’inferno, elaborò una concezione della psicologia che riteneva centrale salvare il senso dell’esistenza. Seguiamo il suo ragionamento.
In un mosaico la pietruzza acquista valore solo in riferimento al tutto; così, spiega Frankl, il singolo va considerato nella comunità e questa riceve, a sua volta, pieno significato dall’ esistenza del singolo. Ecco la differenza tra ‘società’ e ‘pura massa’ che, invece, non tollera la singolarità. Se per illustrare il rapporto singolo/comunità Frankl ricorre all’importanza della pietruzza nel mosaico, per quello tra singolo/massa evoca un lastrone di pietra normale ed una strada lastricata “ove ogni lastrone può essere agevolmente sostituito con un altro uguale. In questo caso la qualità della lastricatura non subisce dal cambio alcun danno, giacché qui il tutto (e cioè la lastricatura) non è in realtà un tutto, ma semplicemente una grandezza: la monotona pavimentazione di una strada non ha nemmeno più il valore estetico di un mosaico, ma soltanto un valore d’utilità (…): la massa non conosce che l’utilità dell’uomo: non il suo valore, non la sua dignità”.
Un uomo è una pietruzza del mosaico comunità: non è se non relazionandosi ad altri ed il mosaico non può esistere senza l’apporto di ogni singolo che non è un lastrone di pietra qualunque e di grandezza equivalente ad un altro. La vita in comunità ha la sua bellezza, come un mosaico; la vita della massa è monotona, non esteticamente rilevante perché riduce ogni soggetto alla stessa grandezza. L’uomo che Gesù guarisce vale per se stesso. Per i sacerdoti, per i pii giudei era solo uno dei tanti che, forse per qualche colpa sua o dei suoi antenati, soffriva per castigo divino; uno dei tanti che doveva non ricevere la grazia di Dio solo perché venisse salvaguardata una norma morale ed una indicazione cultuale. Dio non si adora e glorifica aggrappandosi esclusivamente al pur sacrosanto precetto del Sabato o nell’esaltazione delle funzioni svolte con acribia ragionieristica nel tempio: siamo noi stessi pietre vive del vero Tempio di Dio che è il Corpo di Cristo. La speranza dell’uomo non può alimentarsi di codici che, osservati pedis sequalmente, condurrebbero soltanto ad una salvezza dalle modalità vaghe, imprecisate. Si spera sensatamente solo in un Tu che sia, per dirla con Buber, una potenza che abbraccia. Stare alla periferia di regole, norme morali da osservare con timore e tremore significa vivere nella paura! Non si può lasciare l’uomo solo e dargli il pannicello caldo della regola morale; occorre chiamarlo per nome ed indicargli la sua giusta collocazione nei confronti del sacro.
Per Marcel la speranza non si dà mai senza una comunione: “Questo è talmente vero, insisteva, che ci possiamo domandare se la disperazione e la solitudine non siano in fondo identiche”. Lo sono, lo sono…L’uomo dalla mano atrofizzata era sommerso da una serie di norme morali che avrebbero potuto tenerlo, conservando una intoccabile patina di legittimità, lontano dalla grazia (gratuita) di Dio.
Gesù interrompe il relazionarsi giuridico con Dio non perché ne disconosca il valore, ma solo per evitare di farne un cerchio incantato, un maleficio teologico entro il quale il soggetto resta intrappolato fino a non vederlo più, fino a cancellarlo. Quel pomeriggio, quando Valéry era annoiato e sostava di fronte alla finestra, come dicevo, c’era anche l’ateo André Gide che, di fronte alla sussurrata domanda come si cancella un uomo? nulla disse! Magari qualcuno avesse posto all’attenzione di Valéry il passo di Marco! Ai due letterati francesi, a quanti nutrono un pessimismo antropologico – a volte solo umorale – potrebbe rispondere Giovanni Paolo II che, nella lettera apostolica del 6 gennaio 2001, Novo millennio ineunte, scrisse: “ci salverà (…) una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!” (n. 29).
Se bastò un pomeriggio di noia perché Valéry si ponesse un quesito così spinoso e inumano, cosa accade nei cuori di quanti tessono, per loschi interessi, trame d’odio? La parola del vangelo non può tacere di fronte alle minacce odierne. Merleau – Ponty disse che la religione fa parte della cultura non come dogma o come credenza, ma come grido: si tratta di interromp ere le chiacchiere, le razionalizzazioni a danno dell’uomo e gridare una proposta altra per lacerare la sordità interessata di chi preferirebbe ignorarla. André Louf muove dal Salmo 130, versetto 1: Dal profondo grido a te, Signore! per dire che c’è una preghiera ‘primitiva’ ed ‘elementare’ pronunciata con un grido. Uno dei momenti più importanti della vita di un credente è quello in cui esprime a Dio la propria disperazione gridando (si pensi a Giobbe). Louf, per indicare che è una esperienza fondamentale della vita, definisce il ‘gridare’ “un’attività profondamente umana”. Nasciamo e, siccome i polmoni sono ancora chiusi, corriamo il rischio di soffocare; allora, si grida – “abbiamo inventato il grido”! Questo primo grido consente all’aria di entrare nei polmoni ed è esso “che ci ha salvato dalla morte e ci ha dato la vita”. La nostra psiche, continua Louf, è rimasta impressionata da questo grido primale e, in ogni situazione difficile, lo riproponiamo. Gesù stesso morì gridando (Lc 23, 46).
Per questo la sofferenza espressa da una creatura non troverà mai sordo Dio. Egli non è surdus, radice del terribile termine assurdo. La sottolineatura decisiva del nostro autore è: “Un grido non è solo l’ostentazione di una disperazione: si rivolge sempre a qualcuno”. Quando il credente vive ore d’angoscia, non bestemmia nel gridare, perché lo fa verso Qualcuno! Vale molto lo sgraziato grido di chi sa di non gridare nel deserto. È un fondamentale ‘luogo teologico’, come insegna Giobbe, il rivolgere a Dio, a voce alta, l’insostenibilità del proprio dolore. Le peggiori bestemmie sono rassegnazione e mutismo (altro valore teologico ha il silenzio). Una mancanza di rispetto verso Dio è parlare a Lui, in certi momenti, con frasi di circostanza, o congelate in preghiere rituali. Nella pericope di Marco che ci tiene occupati c’è qualcosa di simile. Un grido vale per la sua intensità più che per la sua durata: l’invito di Gesù è veloce, lapidario, tagliente come un grido: Alzati nel mezzo! Non spiega evocando i capisaldi dell’etica ebraica quale sia il posto dell’uomo: lo comunica con una sferzata verbale. Non un dogma viene scomodato, né ci si appella ad una credenza, ad una scuola filosofica. Il programma del cristiano: comunicare, con l’incisività tipica di un grido, che il posto dell’uomo nelle realtà sacre e profane del mondo è un posto d’onore. Accade se non si ha vergogna di parlare di Verità, di senso ultimo; se, per facile irenismo, rinunciamo a questi vocaboli, depotenziamo pericolosamente il kerygma cristiano. Giovanni Paolo II, nella Fides et ratio (102), affermò: “non vi è oggi preparazione più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di conoscere il vero e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo dell’esistenza”.
Quando nel vangelo si dice che Cristo prova pietà per le folle affamate, il termine greco è splanchnízomai: sentirsi torcere le viscere. Non una indignazione formale, di circostanza si accende in Gesù di fronte alla messa in ombra dei deboli, ma una sensazione addirittura fisica di dolore; una empatia con chi soffre che sommuove le viscere, luogo del profondo sentire non meramente psicologico. Questo sentimento non si esaurisce all’interno di chi lo prova; infatti, comprendere cosa sia in Dio la pietà, diventa una provocazione per noi. L’ha detto Paolo nella lettera ai Romani: toû theoû eis metánoián se ágei ‘la bontà di Dio ti spinge alla conversione’. Ernst Jünger, in Sulle scogliere di marmo, parla di un religioso, fratello Ottone e, presentandocelo, mostra come l’agire di Cristo essenzialmente promuova l’umano com’è nelle intenzioni di Dio e come ciò debba tradursi nella nostra condotta di vita da credenti: “Il suo (di fratello Ottone) principio fondamentale era di trattare coloro che ci avvicinavano come rari e preziosi esemplari che avvenga di trovare in un viaggio di ricerca. Ed egli denominava (…) gli uomini gli ottimati, per accennare in tal guisa che ciascuno di essi è partecipe (…) di una innata nobiltà (…) li considerava quali vasi atti a contenere ogni meraviglia e riconosceva loro (…) diritti principeschi. Veramente io vidi tutti coloro che gli si avvicinavano dispiegarsi simili a piante che si ridestano dal sonno invernale: non già che divenissero migliori, sebbene divenivano meglio se stessi”. Chi fissa l’altro con lo sguardo di Cristo, non lo cambia: lo rende, piuttosto, consapevole di chi è davvero!
L’uomo di fede traduce in prassi i fondamenti di una antropologia rivelativa: chi si sforza di conoscere Gesù, nello stesso tempo, si conosce. Non si tratta, qui, di una rivelazione che stia unicamente su di un terreno psicologico; si tratta, invece, di ciò che ci riguarda sul piano dell’essere e, di conseguenza, incide anche a livello fenomenologico. Chi ha fede, spera ed esercita la carità vive a livello spirituale e non meramente psicologico. Scrive Tresmontant: “Per la teologia cristiana, la fede, la speranza, la carità, non appartengono all’ordine psicologico, ma all’ordine spirituale. Il che significa questo: la fede è l’intelligenza comunicata dallo Spirito di Dio; la carità è l’amore creatore comunicato da Dio che è Spirito; la speranza è un’attesa che, contro ogni speranza umana, si affida a Dio creatore per la vittoria finale”. L’uomo si deve preoc cupare di sopravvivere, ma anche gioire di supervivere nella sua indistruttibile dimensione spirituale.
Per mettere al centro del tempo e del luogo sacri l’uomo occorre comprendere che la verità, nella fede, non è qualcosa, bensì Qualcuno. Si tratta di promuovere la concentrazione cristologica della verità. Adolfo Russo riprende delle provocaz ioni di Andrea Milano: per la teologia comprendere la verità significa esporla a Gesù interrogandoLo e lasciandosene inter rogare. Per troppo tempo la teologia cristiana in generale si è occupata della verità mettendo in ombra Cristo. Si è preferito ricorrere ad una pre – comprensione attinta dai vari sistemi filosofici e di rado, molto dopo, si è fatto riferimento, scrive Russo, “alle paradossali esigenze della fede cristiana”. L’ausilio filosofico presuppone la presa in considerazione di una ragione che non può avere che valore e potere assai limitati in rapporto alle cose della fede che sempre la eccedono. Non è con la logica, con argomenti teoretici che Gesù accorda una posizione centrale all’uomo malato, indigente; si tratta di un gesto deciso, rapido: alzati (risorgi) nel mezzo! Non dobbiamo indagare filosoficamente se ci sono i presupposti per dire questo ad un uomo: ci deve bastare che questa verità sulla creatura è concentrata in Cristo. In realtà, in teologia spesso è prevalsa la ricerca di un’essenza astratta della verità “fino a mettere in ombra – afferma Russo – quella dimensione (…) ‘personale’ (…): chi è la verità”. Ecco il punto:
passare dalla concentrazione teologica (ragionata) della verità alla concentrazione cristologica di essa. Non cos’è, ma chi è la verità? Se diventa centrale il Chi (Cristo), essendo Persona, fonda stabilmente la centralità dell’uomo; se, viceversa, la teologia ritiene la verità un fascio di dogmi e di norme morali l’uomo viene, per la soddisfazione di Valéry, cancellato.
Sequela significa agire, amare come Cristo ha agito, amato. Quel ‘come’ è l’incommensurabile costitutivo dell’ethos cristiano. Di recente, Hans Küng si è chiesto quali novità questo ethos apporti a quello ebraico. Credo che la pagina marciana scelta possa fornire utili indicazioni in tal senso; inoltre, il teologo tedesco, domanda: l’etica contiene qualcosa di specificamente cristiano? Se c’è non va cercato astrattamente, non in una idea o principio qualsiasi o, aggiunge Küng, “in un orizzonte di senso o in una nuova disposizione o motivazione”. Il perdono, l’amore, la libertà, anche se il cristiano non vi può rinunciare, non costituiscono, tuttavia, la specificità del cristianesimo. Qual è, dunque, il ‘caratteristico cristiano’? “Non è un qualcosa di astratto – risponde il teologo tedesco - , nemmeno un’idea di Cristo, una cristologia o un sistema di pensiero cristocentrico, ma il determinante è semmai il concreto Gesù crocefisso come Cristo vivente”.
Se il centro dell’ethos cristiano è la Persona , ne discende che l’uomo è legittimato da Cristo ad essere il centro delle preoccupazioni etiche e non un passivo destinatario residente alla periferia di esse. La concretezza di Cristo, essendo anche vero uomo, induce a meditare sull’indeterminabile valore che la creatura umana ha agli occhi di Dio. E si tratta di avere a cuore proprio l’uomo coi suoi limiti, con le sue carenze strutturali, perché è questo l’uomo che Dio ama. Come scrive Cozzi, è volontà di Dio accompagnarsi “con quest’uomo finito e mortale nella sua storia reale”. Cozzi richiama un saggio di Werbick nel quale si analizza la ‘dinamica sacrificale’ della religione consistente nell’identificazione depressiva ed usurpativa col Dio e che determina una relazione giocata su registri negativi: ‘amore – sottomesso’/‘odio – rivale’.
L’uomo, cioè, si scopre carente dal punto di vista ontologico e offre tutto a Dio (dinamica depressiva del sacrificio) per ottenerne ciò di cui manca (dinamica usurpativa). Si deprime la propria essenza sacrificandola, offrendola a Dio, ma solo per accrescersi ricevendo forza da Lui, per tentare di usurparne un quantum di potenza! Sacrificare tutto a Dio per ottenere potenza e protezione è sbagliato. Dio ci ama come siamo e l’agire di Gesù lo dimostra di continuo. Scrive Cozzi: “l’uomo non è nemico di Dio perché è mortale o finito; al contrario, Dio si fa vicino all’uomo che soffre e muore, poiché vuole essere Dio di quest’uomo e con quest’uomo”. La relazione con Dio, dunque – precisa il nostro autore – va sviluppata non alla luce della religione, ma della fede. Nel primo caso, si sacrifica a Dio per piegarlo ai nostri desideri meschini. Gesù libera dalla religione perché mostra che la fede è accettare quanto Dio dona in piena libertà. Anche di Sabato, sotto gli occhi scandalizzati di pii ebrei e sacerdoti, se Dio vuole donare la Sua grazia all’uomo, lo fa!
Gesù – per come ci è mostrato nella pericope di Marco ed in altri brani dei vangeli – spiega Cozzi, “vive l’avventura profetica di rivelare un Dio differente”; non perché più potente di altri dei, ma in quanto altro “rispetto alle attese dell’uomo. Dio si rivela nella debolezza dell’uomo, intesa come situazione di verità del desiderio, che non si maschera dietro a strutture di potere che nascondono la sua paura”. Il profeta sperimenta Dio al centro “della vita reale degli uomini”, nel luogo in cui sperimentano la loro fragilità. L’evento della croce, poi, va compreso proprio nell’agire profetico che rivela un Dio differente che prende sul serio l’uomo concreto, debole, povero. La risurrezione mostra che è nella ‘verità’ del ‘Dio differente’ che il desiderio umano si realizza pienamente. “La salvezza – conclude Cozzi – opera come rivelazione del desiderio di Dio di dare la vita in pienezza all’uomo concreto”.
Il Dio di Gesù si rivela, nella guarigione dell’uomo dalla mano arida, davvero differente perché si mostra radicalmente altro rispetto alle attese dei frequentatori della sinagoga e dei sacerdoti. Dio, in Cristo, si lega all’uomo in maniera viscerale. La teologia paolina – fa rilevare Sabino Palumbieri – ha meditato sull’unità degli uomini risorti nel Cristo risorto. Paolo ha dovuto coniare dei termini specifici. “Il mistero della unità profonda in Cristo – scrive infatti lo studioso salesiano – non aveva un corrispettivo termine corrente di espressione. C’è voluta la coniatura di nuovi termini per questa realtà tutta nuova, rivelata da Dio nel mistero del Cristo risorto”. A parole tratte dal vocabolario corrente, Paolo aggiunge la particella sun che – spiega Palumbieri – “significa assieme – strettamente”. Per comprendere l’intreccio profondo tra antropologia e cristol ogia, ecco l’elenco dei termini paolini propostoci dal teologo salesiano: Sumpáscho (con – sofferenti, Rm 8, 17; 1Cor 12, 26); sustauróomai (con – crocifissi, Rm 6, 6); sunapothnésko (con – morti, 2Tim 2, 11; 2Cor 7, 3); suntháptomai (con – seppelliti, Rm 6, 4; Col 2, 12); sunegheíro (con – risorti, Ef 2, 6; Col 2, 12; 3, 1); suzào (con – viventi, Rm 6, 8; 2Cor 7, 3; 2Tim 2, 11); suzoopoiéo (con – vivificati, Ef 2, 5; Col 2, 13); sumphúomai (con – naturati/co – innestati, Rm 6, 5); summorphízomai (con – fugurati/con – formi, Fil 3, 10.21); sunkleronoméo (co – eredi, Rm 8, 17; Ef 3, 6); sunkatízo (con – assisi, Ef 2, 6); sumbasileúo (con – regnanti, 1Cor 4, 8; 2Tim 2, 12); sundoxázomai (con – glorificati, Rm 8, 17). Potremmo definire l’insieme di questi termini paolini i momenti dell’infinita storia d’amore di Dio con l’uomo vissuta in Cristo.
André Louf, interrogandosi su come parlare della fede svolge una considerazione che merita di venir registrata nella mia riflessione. Col battesimo abbiamo ricevuto la fede fin dall’infanzia ma, ritiene Louf, non è sufficiente. Padrino e madrina, malgrado si assumano il compito di sostenere quella fede inconscia nel bambino, come anche i genitori, non mantengono l’impegno. Senza una progressiva, ininterrotta catechesi, dunque, “la fede del piccolo battezzato continuerebbe a sonnecchiare nel cuore a tempo indefinito e finirebbe per soffocare”. Non trapiantare, non far agire nel nostro vivere quotidiano il senso (antropologico/teologico) contenuto nei termini paolini sopra ricordati; non attualizzare il gesto in favore dell’uomo sofferente che Gesù compì di Sabato nella sinagoga, ci blocca in quella fede inconscia che rende, forse, per sempre infantili in fatto di fede. Molti cristiani adulti hanno non la mano atrofizzata, arida, come il personaggio di Marco, ma l’anima rattrappita perché nessuno ha aiutato in loro il lavoro della grazia. Come si lavora a questa fede inconscia? Louf è ipercritico, ma non credo si discosti dal vero: “In molti casi, non si fa altro che aggiungere a questa fede inconscia un sistema di verità puramente intellettuale, mentre sul piano dell’agire concreto ci si limita a trasmettere alcuni principi di buona educazione, chiamati morale”. Non è la sovrastruttura etico/cultuale che spinge i frequentatori del tempio ed i sacerdo ti a rimproverare Gesù perché privilegia l’uomo concreto? Lo stesso ethos cristiano può, se imprigionato nell’intellettualismo e nel moralismo, promuovere, per dirla con la abusata formula di Valéry, la cancellazione dell’uomo.
Continua Louf: “solo raramente si è insegnato come confrontarsi concretamente a questa fede ricevuta, come essere attenti alla vita della grazia in sé e come vivere e amare in sintonia con questa vita. Allora, quando verrà anche per noi il momento di trasmettere questa fede ai più giovani, ne saremo assolutamente incapaci”. Vivere e amare sono i momenti salienti, i capisaldi indiscutibili dell’ethos cristiano e, come mostra Gesù nella pericope marciana esaminata, devono prevalere sopra ogni ritualismo e regola morale. Solo così possiamo ritenere sensato che fruttifichino fede e speranza. La prima, nota Palumbieri, “è lo sguardo sull’umano invisibile”; la seconda, “è la fiducia sull’umano impossibile”.
Se si usano espressioni come ‘sguardo sull’invisibile’ e ‘fiducia nell’impossibile’ umani, non sarà che aver fede equivalga a non essere realistici? Ma c’è una accezione del termine realismo che Palumbieri richiama: “il vero realismo non è solo vedere le cose, ma intravedere le potenzialità delle cose, presenti nelle loro pieghe”. Se Gesù, quel Sabato in sinagoga, si fosse limitato a vedere nella sofferenza di quell’uomo un castigo di Dio; se si fosse fermato alle pratiche cultuali ed a considerare i precetti dell’etica ebraica, sarebbe stato un realista di infimo livello: avrebbe visto solo l’aspetto fenomenico delle cose! Il Suo sguardo, profeticamente realista, ha visto nell’uomo detur pato dalla malattia, una splendida immagina della splendida immagine divina; ha visto un potenziale uomo di fede, laddove tutti vedevano un poveraccio destinato a rimanere nella sua disperazione. Per questo, se non si impara – come suggeriva Louf – a crescere nella grazia ricevuta nel battesimo, si rischia di mancare l’appuntamento col nucleo centrale e vivificante dell’ethos cristiano costituito dall’intreccio del vivere e dell’ amare.
Qualche insano realista sorge, di tanto in tanto, e pretende di insegnarci che si è troppo occupati a rendere vivibile, abitabile il mondo per dedicarsi all’Oltre. Ma la pagina del vangelo di Marco ci ha mostrato che le realtà sacre perfino vengono messe in secondo piano quando Dio si incontra con l’uomo concreto.
Il Vaticano II, va detto a beneficio di quanti della Chiesa hanno ancora una concezione bloccata in pregiudizi oggi ingiustificati, nella Gaudium et spes, ha conferito ampio spessore alla teologia delle realtà terrestri: “L’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova, che già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo”.
Si pensa davvero, inoltre, che si possa operare in favore del mondo dimenticando che a dover decidere in tal senso è l’uomo? E se la creatura non ha una coscienza morale retta, ma solo una coscienza psicologica vacillante e piegata alle circostanze, come si può pensare ad un progetto di vasta portata e di lunga durata?
Se non ci si occupa dell’uomo non ci si può occupare del mondo. Gesù, di fronte all’uomo dalla mano arida, mostra che è amando l’uomo concreto che vince sulla natura che lo aveva sfigurato; non sana il male, ma l’uomo; non cura l’organismo, ma restaura la persona. Se mettiamo a posto il volto umano (modellato sul Volto), acquista senso ed armonia anche il mondo.
Mi piace chiudere, volendo rafforzare questa mia convinzione, con una storiella perché, dicevano i sapienti ebrei, talvolta la strada più breve tra un uomo e la verità è una storia.
Un giorno, un papà rimase solo in casa col figlioletto alquanto irrequieto. Per tenerlo occupato, gli propose un gioco: tagliò in piccoli pezzi un foglio di giornale sul quale era raffigurato l’immagine del mondo, affinché, come un puzzle rudimentale, il bimbo la ricomponesse. Questo, pensava il papà, l’avrebbe tenuto impegnato un bel po’; in realtà, fece presto a ricomporre l’immagine del mondo e, allo stupito genitore, spiegò:
dall’altro lato del foglio c’era una grande foto di un volto umano; rimettendo a posto, operazione semplice data la grandezza dell’immagine, i frammenti di quel volto, l’immagi ne del mondo si era ricomposta rapidamente.
In questa storiella si dice una gran verità:
se non cancelliamo, non sfiguriamo, ma trasfiguriamo il volto umano, acquista senso ed armonia il mondo!
Gesù non indica cosa vada o non vada considerato positivo nella Legge, ma ne mostra il fine, il destinatario: l’uomo. Gli avevano consegnato un uomo dalla mano inaridita, una Legge che ne impediva la guarigione, ma Gesù tiene a restaurare innanzitutto il volto dell’uomo debole e malato. Ridando all’altro una dignità, una identità da riconoscere insegna che non si deve abolire nulla della sacralità codificata, ma va incardinata sul suo vero asse centrale: l’uomo!
Nessun commento:
Posta un commento