Il poeta T.S.Eliot scrisse che “gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dei…ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima” [1]. In un clima nel quale è possibile solo vagamente parlare di rinascita del religioso, pare le cose stiano proprio così; non è, forse, che si è fatto del ‘nessun dio’ il pretesto affinché l’uomo prendesse il posto di Dio? Non è inutile stare a discutere cosa si stia materializzando davanti a noi in fatto di religione, ma il punto dal quale deve muovere ogni ricerca, se non si vuole sbagliare l’approccio alla questione, è la consapevolezza di un fenomeno che faceva scrivere sul ‘Corriere della Sera’ del 27 marzo 1995 al sociologo Alberoni: “Dal profondo della società appare il bisogno di un nuovo contatto col divino”. Il fatto è che oggi la religiosità vuole essere vissuta, per lo più, in termini di vaga spiritualità che, spesso, sconfina in un labile senso di benessere interiore; si tratta di credenze leggere, a – dogmatiche, non zavorrate da riflessioni teoretiche di rilievo. Ci si libera da una certa idea di religione in favore di una propria idea di religione. Qui non c’è lo spazio per trattare approfonditamente la questione che mi pongo; tuttavia, qualche parola può giovare ad interessare, almeno, al problema. Un segmento breve, ma denso di provocazioni sull’argomento viene da Elmar Salmann:
“Mi pare che il problema, lo scoglio decisivo dell’attuale mondo occidentale è che non riusciamo più a far funzionare la trasmissione tra fede e quotidianità, tra aspetto ideologico e spirituale e ciò che dobbiamo e possiamo vivere (…): cos’è successo nella nostra economia dell’anima, nelle nostre chiese, nella nostra stessa intima mentalità” [2].
Il compito di noi tutti, dunque, è riallacciare fede e quotidianità e, poi, esaminare cosa, come e perché nella nostra interiorità, nella comunità dei credenti, nella nostra mentalità qualcosa di fondamentale è mutato. Posso soltanto offrire qualche pezzo di tronco (riflessivo) a chi si sente naufrago in un tempo di trionfo del non senso ed a chi comprende la difficoltà di dover riparare la nave delle proprie ricchezze religiose ereditate dal mondo greco/giudaico-cristiano soltanto continuando a restare in mare.
Se in altre epoche, sottolineava Sergio Quinzio, a costituire una minaccia era la “presunzione fanatica di possedere la verità”, ora patiamo la “paralizzante certezza della radicale opinabilità di tutto, che non lascia spazio se non all’indifferenza” [3]. Spostando il discorso in ambito religioso, possiamo dire che, se un tempo ci minacciava la presunzione di poter dimostrare l’esistenza di Dio, di avere certezze inossidabili in materia di fede, ora funesto è il capovolgimento polemico imposto a tutti gli antichi ancoraggi teologici; per cui, si finisce col dire che, in fondo, riguardo al religioso, tutto va bene. Anche Quinzio ammetteva, ritenendolo evidente, il ritorno al sacro, ma non ometteva di denunciarne le anomalie, altrettanto evidenti:
“Si vede (…) chiaramente la radice malata dell’attuale diffuso movimen to di ritorno al sacro, determinato soltanto dalla stanchezza del profano, dal bisogno di ritrovare gli assoluti celesti, determinato soltanto dal vuoto conseguimento alla delusione per quelli terrestri” (p. 212).
Ormai, il profano ha deluso non meno delle religioni che pure hanno conosciuto derive fanatiche o, ad ogni modo, conseguenze invalidanti malgrado le onorevoli premesse; la delusione degli assoluti terrestri quasi impone il rifugio nel ripescaggio degli assoluti celesti. Se ne conclude che il religioso si articola, nel nostro tempo, in un’ atmosfera malata e si dà, per lo più, come fragile rimedio per una psiche stanca e confusa. Tra la non possibilità di offrire continuità ai progetti pasquali laici e il religioso ridotto a nostalgia di un generico Totalmente Altro, siamo lacerati:
“La tragedia sta nel fatto che, per l’uomo contemporaneo, l’assoluto è inattingibile e, insieme, il relativo è invivibile” (p. 214).
Tesi tra due impossibilità e, dovendo pur vivere, alla religione vengono poste questioni un tempo non prevedibili e proprio quando si pensava – allegramente – di aver chiuso i conti con essa.
Michele Federico Sciacca sostenne che la ‘filosofia moderna’ è stata l’applicazione di un pesante silenziatore all’esigenza dell’ infinito e della trascendenza. Lo scollamento, all’origine, fu tra uomo e cosmo e, successivamente, tra uomo e Dio. Platone, nel Timeo, poteva dire:
“Solo dopo aver studiato a fondo i moti celesti (…) potremmo stabilizzare i moti che, in noi, continuano a vagabondare”.
Disincagliato dal cosmo, non più relazionato al Trascendente, l’uomo – come ha detto Hölderlin – è divenuto ein Zeichen sind wir deutungslos: un segno privo di interpretazione! Non è, invece, che ammettendole tutte non ne può ammettere nessuna? [4]. Certo è che, al risveglio del religioso, fa da negativo contrappunto una vaghezza nel credere che piega lo stesso religioso verso esigenze che, sui cardini dell’impianto cristiano, non girano e non vi possono nemmeno stare. L’allarme lanciato dall’antropologa Ida Magli va meditato:
“presto tutte le religioni si accorgeranno (…) che il modello di vita occidentale isterilisce le funzioni di qualsiasi religione” [5].
Minacce provengono anche dalla profonda trasformazione del pensiero che elegge altre direzioni verso le quali andare e può farlo proprio perché è, oggi, diversamente strutturato. Scrive un teologo contemporaneo:
“Il pensiero moderno non è più (…) contemplativo, ma (…) operativo (…) pensiero che genera e che opera (…). Non si verificano le idee stabilendo un confronto con le idee eterne, ma mediante la loro prassi e i loro risultati” [6].
Il pensiero teologicamente orientato, poi, deve necessariamente verificare le proprie idee confrontandole con la prassi che ne scaturisce e con le finalità raggiunte grazie ad esse. Come scrive M-D Chenu, teologia non è altro che la fede solidale con il tempo. Il nostro è, per lo più, tempo di incertezza e ciò induce ad una credenza intermittente: anche il più convinto credente avverte dubbi ed angosce quando rileva discrepanze tra le promesse della fede e l’andamento del mondo. Emily Dickinson, interpretando questa moderna inquietudine, scriveva:
We both believe and disbelieve a hundred time an hour, which keeps believing nimble (‘Crediamo e non crediamo cento volte l’ora, e ciò mantiene la fede agile).
La continua lotta tra fede ed incredulità – a ben vedere – può avere valore positivo: evita il mummificarsi del credere, ne previene il congelamento in stereotipi conferendo ad esso, invece, un’agilità che ne rappresenta la forza vitale e vitalizzante.
Se Sciacca individuava un motivo filosofico alla base della svalutazione dell’anelito umano al Trascendente, la Magli ritiene di dover ammantare di responsabilità, per tale disaffezione, il modus vivendi tipicamente occidentale.Si è, da noi, psicologizzato il religioso: talismano, placebo, terapia…C’è stato, in verità, un lungo periodo nel quale pareva che il modo di credere degli europei fosse finanche troppo statico ed impolverato di pregiudizi dannosi. Il ‘filosofo col martello’ che si è ferocemente impegnato a decostruire i valori occidentali, poteva, infatti, esclamare: “Quasi due millenni e non un solo nuovo Dio!”; aggiungeva: “ancor sempre, e come se esistesse di diritto (…) questo Dio miserando del monotono – teismo cristiano” [7]. Potremmo dire che il Dio cristiano – divenuto miserando sotto i colpi della contestazione moderna – ha perso, per riprendere il lessico nietzschiano, il diritto di esistere. Sì, ma quale nuovo Dio appare all’orizzonte? Il religioso si presenta, infatti, sempre più come una nebulosa di sincretismi costruiti per tacitare le nostre difficoltà psicologiche.
L’uomo, oggi, pare disposto a credere a maghi e cartomanti, ma non pensa di poter rinvenire nelle grandi narrazioni (Lyotard) (filosofiche o religiose) alimenti ed elementi per guardare al futuro con occhi meno allucinati, con sguardi non impauriti. Ha scritto un sociologo che
“l’esito religioso della fine delle grandi narrazioni (…) lascia l’individuo senza punti di riferimento e rende precario il legame dei significanti con i significati istituzionalmente codificati. I beni di salvezza, con la loro disseminazione, tendono a sfuggire ai loro produttori e i significati possono transitare da una tradizione all’altra. Le credenze non sono più legate necessariamente a delle solidarietà, ma diventano provvisorie, effimere, senza strutture di plausibilità forti. L’allentamento dei legami tra credenze e comunità genera la propensione a consumare, la crescita di una ‘religione a scelta’ in cui la coerenza è più un fatto del consumatore che del produttore” [8].
Dalla modernità in poi si può davvero parlare, come sostengono i sociologi, di realtà liquida; sì, anche in ambito religioso. Tutto si trasforma a velocità vertiginose, da capogiro. Il cristianesimo di oggi è diverso da quello di un tempo e nulla ci impone di credere che non possa cambiare in futuro. L’ambiente in cui si esercita influenza il cristianesimo come questo influenza l’organizzazione sociale nella quale opera. Un teologo del Novecento, così riflette:
“ciò che sta passando non è il cristianesimo stesso, ma una particolare attuazione del cristianesimo in una data organizzazione sociale (…) il cristianesimo (…) deve per forza adottare le forme delle società umane, incarnandosi come cristianità adatta al suo tempo, ma ogni successiva cristianità sarà solo provvisoria e transitoria, abiti da gettar via quando sono dimessi” [9].
Ponendosi l’interrogativo siamo noi gli ultimi cristiani? – il domenicano canadese Jean-Marie Roger Tillard diede una risposta che si salda perfettamente con la tesi ora rubricata:
“Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani” [10].
Nel mondo antico, non solo quello ebreo – cristiano, il divino coabitava con l’uomo e nessuna filosofia poteva facilmente ed a buon prezzo applicare un silenziatore all’esigenza di infinito. Platone, nelle Leggi (X, 887 d-e), scrive che si adoravano gli dei ovunque e ciò rendeva inconcepibile persino ai bambini, greci o barbari, ammettere “la possibilità della non esistenza degli dei”. Dapprima il dio ebraico si mostrò trascendente la natura, altro da essa, poi tutto si svuotò di divino, anche il cielo e l’animo umano. De – sacralizzare la natura, va bene; disincantare l’uomo per trarlo fuori da una avviluppante religiosità immatura, non si discute; quello che non va tralasciato, ad ogni modo, è il prendere coscienza che, ormai, abitiamo – smarriti – una eliotiana terra desolata. Uno studioso non ha torto quando sottolinea che siamo
“ormai destinati a vivere nella nudità e nell’angoscia ciò che c’è stato più o meno risparmiato dall’inizio dell’avventura umana per grazia degli dei” [11].
Vi invito a fare caso ad uno strano fenomeno che si delinea tra le nostre argomentazioni; pare, a ben guardare, che o la religione induce a vivere da incantati (il che non equivale a stare inebetiti di fronte al mondo) o che, abbandonandola, ci renda disperati. Credo si esca dal dilemma soltanto attraverso due percorsi: 1) le religioni vanno criticate dall’interno; se le si esamina con strumenti rilevati da campi eteronomi succede che, non corrispondendo ai canoni di verità o verificabilità e falsificabilità eletti, esse subiscano una bocciatura fin troppo prevedibile; 2) si tratta di comprendere che la fede – per come richiesta dal cristianesimo – poco o nulla ha che vedere con certe forme di religiosità. L’uomo contemporaneo non accetta che qualcuno (il Dio ebraico - cristiano, la gerarchia ecclesiastica…) dica come vivere il rapporto col Trascendente; il rifiuto di qualsiasi autorità si riverbera, soprattutto, sui rapporti con le istituzioni religiose. Quanto pare frenare la volontà di potenza va rigettato senza discussione. Lo storico Georges Gusdorf ha mostrato come a partire dal XVIII secolo “l’idea di religione si dissocia dal concetto di ortodossia confessionale” [12].
Il credere, dunque, non pare possa più fondare su basi oggettive. Alla constatazione di Gusdorf si affianca quella di un filosofo francese:
“non esiste più un vincolo fra l’atto di credere e segni oggettivi” [13].
Si tende a divenire sempre più cristiani senza chiesa e credenti fai da te, in quanto, dei dogmi e degli insegnamenti morali della gerarchia ecclesiastica, si sceglie solo quanto non entra in conflitto con le proprie, personali idee su temi come la sessualità, l’aborto, ecc… Come non sono più proponibili indicazioni teologiche raccolte in poderose Summe – vere e proprie cattedrali erette coi mattoni del pensiero – parimenti non sono gradite guide maestose di provenienza gerarchica. La scarsa frequenza della messa domenicale anche da parte di chi si dice ‘convinto cattolico’, è indicativo del fatto che credere diviene sempre più una dimensione privata nella quale il soggetto si regola come può e come vuole. Qualche anno fa, uno studioso, in un saggio pubblicato in America, rubricò una riflessione di adamantina chiarezza:
“nel mondo moderno pluralistico, per mantenere la credenza religiosa la gente non ha più bisogno di cosmi sacri macroinglobanti, ma (…) solo di ‘ombrelli sacri’ (…) piccoli mondi portatili” [14].
Non sono state abbandonate soltanto le possibilità di proporre una riflessione sulla fede cristiana in un sistema teologico – filosofico di stampo Scolastico, ma hanno perso credibilità anche i grandi progetti utopistici di natura politica. Le ideologie hanno grondato sangue e l’umanità ha paura di sognare in grande! Cosa ha che vedere questo con la teologia? Cerchiamo di capire.
Il filosofo marxista Ernst Bloch, in libri sovraccarichi di riferimenti biblici, ha secolarizzato il linguaggio ed il pensiero ebraico: speranza, salvezza, escatologia erano diventati alleati della sua visione marxista della storia. Scrisse:
“non è forse straordinario che la Bibbia ed il suo linguaggio parlino a tutti ed ovunque?” [15].
L’oppressione patita da Israele ed il suo riscatto non erano estranee ai desiderata dell’ebreo Marx che profetizza, riguardo al proletariato, un’epopea non dissimile da quella che interessò il popolo eletto. Sarebbe interessante leggere anche un libricino del filosofo della morale e della politica Michael Walzer, Esodo e rivoluzione (ripubblicato da Feltrinelli nel marzo del 2004). Nella prefazione, fa immediatamente notare come ‘fuga dalla schiavitù, viaggio nel deserto, terra promessa’ siano immagini ricorrenti nella ‘letteratura della rivoluzione’. Alle pagine 15 – 16, poi, sottolinea come l’esperienza degli israeliti si sia ripetuta nel tempo:
“Molti uomini e donne che credono nell’onnipotenza di Dio (…) hanno sfidato i faraoni del proprio tempo (…) hanno compreso quello che facevano grazie alla lettura dell’Esodo”.
Le ultime parole del saggio mostrano come il paradigma biblico dell’esodo sia una lezione sempre valida:
“Noi crediamo ancora, o almeno molti di noi credono, in quello che l’Esodo voleva insegnare (…): - primo, che, ovunque si viva, probabilmente si vive in Egitto; - secondo, che esiste un posto migliore, un mondo più attraente, una terra promessa; - e terzo, che (cita Davies) ‘la strada che porta alla terra promessa attraversa il deserto’. L’unico modo di raggiungerla è unirsi e marciare insieme” (p. 99).
In tempi di sfrenato individualismo o di indistinta massificazione degli individui, certi paradigmi potenti, rivoluzionari perdono spessore, credibilità. Le vie degli israeliti non paiono essere più le nostre e lo zelo apostolico rintracciabile alle origini del cristianesi mo non suscita più imitatori e si preferisce, ognuno per sé, vivere la fede. Con la scusa di lasciare agli altri il diritto di pensarla come vogliono in materia di fede, si finisce col disinteressarsi dell’indiscutibile valore insito nella trasmissione fedele e corretta del kerygma cristianesimo. Soprattutto a noi cattolici siano di monito e consiglio le parole di un teologo italiano contemporaneo:
“Per rievangelizzare il mondo post-cristiano, è indispensabile (…) conoscere la via seguita dagli apostoli per evangelizzare il mondo pre-cristiano! Le due situazioni hanno molto in comune” [16].
La proposta religiosa non può mai disconoscere di essere, in primo luogo, offerta di senso; si tratta anche di un modo di relazionarsi all’esistente; o, per dirla con Henri Dominique Lacordaire, va compreso che Presence au monde est presence à Dieu (Presenza al mondo è presenza a Dio). Essere uomini di fede significa anche occuparsi di stabilire il senso del mondo e di quanto lo rende problematico, complesso. L’ha riconosciuto finanche un avversario dell’intera impalcatura assiologica cristia na:
“L’uomo era principalmente un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda a che scopo soffrire? restasse senza risposta” [17].
Attraverso le figure bibliche (una su tutte, Giobbe…), la domanda acquista una dimensione Trascendente e trova compagnia nella presenza di Dio. L’uomo impara che la sua identità è costituita dal fatto di essere erede e co-erede: “se siamo figli – dice Paolo -, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo”(Rm 8, 17). Lasciar sbiadire nella ‘memoria’ la condizione di eredi, comporta lo scolorire della consapevolezza di avere un’identità cristiana. Per il cristiano in particolare, poi, il Figlio è Colui al quale mirare per poter essere quanto più fedeli al progetto che Dio aveva sull’uomo. Questo implica, non esclude, che il soggetto abbia autonomia di giudizio, capacità di scelta; infatti, se non si assume consapevolmente il contenuto teologico della nostra memoria, non si sviluppa pienamente la propria identità creaturale; o, meglio, la si sviluppa come autonoma, indipendente dal Trascendente. Sul rapporto (dinamico e necessario) tra il conflitto coram se ipso/ coscienza ed il coram Dei, si è espresso Paul Ricoeur:
“Per noi che veniamo dopo l’Aufklärung (Illuminismo) la tensione è divenuta acuta in seno alla struttura dialogale tra il polo della coscienza ‘autonoma’ e l’obbedienza della fede. Questo carattere tensivo in seno al sé rispondente esplica il seguente paradosso: è nella misura in cui il sé è
capace di giudicare di per sé (…) che può rispondere in maniera responsabile alla Parola che gli viene dalla Scrittura. La fede cristiana non consiste nel dire semplicemente che cos’è Dio che parla nella coscienza. Questa immediatezza (…) misconosce la mediazione dell’ interpretazione tra l’autonomia della coscienza e l’obbedienza della fede” [18].
Tra la coscienza autonoma e la Parola della fede che chiama ed obbliga, c’è l’interpretazione. Solo con essa riusciamo a rendere feconda, nuova e parlante ai nostri tempi, l’immensa ricchezza teologica che è rinserrata nella memoria e, solo svolgendo questo lavoro ininterrottamente, sviluppiamo e comprendiamo sempre più chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Nel Novecento, Heidegger si affidò alla parola dei poeti ed al linguaggio degli antichi filosofi greci ed in questo, qualche critico, pensa di rintracciare un allontanamento dal cristianesimo. Il filosofo si appella al sacro, ma è il Dio umano del cristianesimo che ci ha liberato dall’assoggettamento ad esso, per renderci attori sulla scena del mondo. Ad ogni buon conto, l’anima occidentale è impregnata di teologia e categorie di pensiero greche strettamente intrecciate. Lodevole lo sforzo di alcuni pensatori, come Lévinas, di liberare Dio dalle categorie filosofiche che lo catturano entro la definizione di essere. Fu lo stesso Heidegger – che ammise di provenire dalla teologia – a dire che la fede non ha bisogno di pensare l’essere che, premetteva, non è identico a Dio. Anticipando di molto la prima enciclica di Benedetto XVI, il filosofo Jean – Luc Marion, ribadì che il proprium di Dio è l’amore piuttosto che l’essere. Direi che, comunque la si pensi, abbiamo una memoria teologico/filosofica profonda e ricca di provocazioni inevase da affrontare ed è solo una via di fuga credere di gettare alle ortiche zavorre dogmatiche inutili ricorrendo al sincretismo religioso, alla religione fai da te o facendosi sedurre da non applicabili forme di spiritualità orientale!
Tempo fa, George Steiner richiamò i punti essenziali che danno un’idea – quanto più corretta possibile – di Europa. Sta di fatto che anche a lui non sfuggì l’esigenza di parlare di eredità. Il chi siamo ed il chi dovremo e potremo essere, in fondo, passa attraverso questa categoria. Steiner evidenziò la doppia eredità di Atene e Gerusalemme. Che intendeva dire?
“Essere europei significa cercare di negoziare sul piano morale, intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese, le praxis contrastanti della Città di Socrate e di quella di Isaia” [19].
Lo studioso evoca tre figure, le matrici dell’anima moderna europea: Marx Freud Einstein. Padri della modernità che, a dire di Steiner, sottendono la questione complessa del giudaismo secolarizzato. Tutte le istanze di liberazione moderne, sul piano politico economico con Marx, sul piano terapeutico con Freud e su quello scientifico con Einstein, si sono materializzate ed ancora (palesemente o in maniera occulta) agiscono nelle nostre questioni fondamentali grazie al fondamento teologico secolarizzato. Bloch, Walzer, come abbiamo mostrato, non hanno saputo leggere le esigenze dell’uomo moderno se non attraverso il paradigma dell’Esodo! Steiner insiste affermando che la denuncia delle ingiustizie operata da Marx non è che la ripresa delle denunce dei profeti Amos e Geremia. Il giudaismo presenta, per dirla con il nostro autore, “due principali note a piè di pagina”: cristianesimo e socialismo utopico; vengono entrambi direttamente dal Sinai! Se perdiamo la memoria riguardo alla vera origine dei lasciti cristiani e delle teorie politiche preoccupate di riscattare l’uomo da qualsivoglia forma di schiavitù, dimentichiamo di avere ‘anche’ una identità teologica. C’è un lungo e non facile lavoro dietro al nostro modo di pensare. Scrive, infatti, Steiner:
“Il rapporto non è mai stato facile. La tensione fra l’ebreo e il greco ossessiona l’invenzione paolina del cristianesimo” (pp. 44 – 45).
Abramo ed Ulisse coabitano in noi! L’uno, con il suo semplice fidarsi di una Parola e che si mette in viaggio senza preoccuparsi di tornare nella propria terra, ma guarda oltre gli orizzonti della storia; l’altro, che parte, affronta ogni genere di pericoli, ma nel cuore non lascia mai Itaca e, nostalgico, malconcio, vi fa ritorno. L’uomo della erranza pura e senza garanzie e l’uomo della nostalgia (nostos – algos, dolore per il ritorno). Questa tensione portiamo e viviamo tra il desiderio di sradicarci e la nostalgia di tornare al suolo natio. D’altro canto, come può davvero pensare un europeo di trovare giustificazioni accettabili all’evanescenza della sua memoria (e, dunque, identità) cristiana? Steiner dice una sacrosanta verità:
“L’idea di Europa s’intreccia con le dottrine e la storia della cristianità occidentale. La nostra architettura, l’arte, la musica, la letteratura, il pensiero filosofico sono impregnati di valori e di elementi cristiani” (p. 54).
Respiriamo teologia nel mentre parlano poeti e scrittori, trasudano cristianità le chiese, gli edifici che abbelliscono le nostre città…Ebbene, non si può tacere la denuncia che Steiner affaccia in maniera interrogativa, malgrado abbia mostrato come sia evidente la radice cristiana (ebraica e, perché no?, arabo/islamica) della nostra identità europea:
“Oggi il cristianesimo sta perdendo la propria forza (…). Sentiamo oggi la voce di un grande teologo cristiano che parli all’Europa colta?” (p. 56).
Va preso sul serio la provocazione: la teologia deve parlare all’ Europa colta! La forza del cristianesimo sta nel trarre dalla propria memoria riserve di senso, provocatorie eppur propositive, per rinnovare un momento storico che molti intellettuali definiscono tempo della stanchezza. Non si dimentichi, inoltre, che la proposta cristiana ha una valenza escatologica che consente di criticare – proiettandole verso il Telos del compimento storico – le ideologie dominanti. Il cristiano, accettando la lezione biblica sulle origini, è consapevole da dove e da Chi viene ma, facendosi provocare dall’escatologia, sa anche chi dovrà essere e con Chi.
I riferimenti forti al passato ed al futuro fanno in modo che si possa andare sul presente con progettualità e con linguaggio che consenta una personale e convinta ermeneutica di un tempo che molti, pur di non tentare il ripescaggio dell’eredità cristiana, si affrettano a definire, scanzonati ed ironici, desemantizzato. Ci vuol poco ad essere ironici, debolisti nel pensare, ma riagganciare la doppia eredità di cui parla Steiner comporta una visione anche metafisica della realtà.
Tutto quanto rimane aperto nel nostro tempo ricco di inquietudini ermeneutiche e di tensione interrogante, disse Gadamer; aggiunse: anche la possibilità della metafisica. Sapere chi siamo significa non impedire alla domanda su noi stessi – pena il restare, come ricordava Hölderlin, un segno privo di significato – di esplodere verso la Trascendenza !
Metafisica, nel senso in cui qui la intendo, non è la mera ri – percorrenza dello sviluppo storico di un’idea, bensì la presa di coscienza che l’uomo non si appaga solo di una realizzazione – piena quanto si vuole – storica, orizzontale.
Rimettere le preoccupazioni metafisiche al centro del pensare significa scoprire se nella nostra memoria greco/romano/giudai co-cristiana vi siano o no semi buoni per coltivare un futuro nuovo. Metafisica è l’amore della ragione per la trascendenza e, senza amore, non c’è nulla che renda vitale, imprescindibile il domandare, il sapere circa noi stessi. L’uomo, quando oggi si interroga, lo fa in maniera inquisitiva e partendo da (almeno come lui crede) un atteggiamento terapeutico:
pensa di essere patologico e vuole guarirsi onticamente e trova fastidiosa l’idea che abbia bisogno, piuttosto, di salvezza a livello ontologico.
Dobbiamo problematizzare creativamente la nostra eredità greco/ giudaico-cristiana; con e per amore dell’uomo che verrà e non per appagare la nostra puntigliosità di intellettuali.
Nietzsche, che solo chi fa teologia in maniera superficiale e partigiana evita, aveva ragione: “I grandi problemi esigono tutti il grande amore” e chi li accosta “solo con i tentacoli del suo freddo, curioso pensiero” sperimenterà addolorato che “non ne verrà fuori un bel nulla”.
In conclusione, chi accosta la questione del religioso, del cristianesimo in particolare, attraverso la lente filosofica, dovrebbe avere costantemente lo sguardo su di un avvertimento offerto da un pensatore ebreo contemporaneo:
“il filosofo dovrebbe riconoscere e confessare che la sua idea dell’ assoluto viene eliminata là dove l’Assoluto vive, là dove l’Assoluto viene amato; poiché là l’Assoluto non è più ‘l’assoluto’ sul quale si può filosofare, ma è Dio” [20].
La lezione rivolta al filosofo, in realtà, si addice anche al teologo che non deve mai perdere Dio per trovare, alla fine, niente altro che il suo Dio!
Fare teologia, in un tempo in cui la confusione in materia religiosa aumenta a velocità esponenziale, implica un lavoro di sgombero: rimuovere detriti e ciottoli concettuali che possano farci inciampa re sulla strada che conduce al Trascendente.
Più che preoccuparsi di spiegare Dio a modo nostro ai confusi frequentatori dei nuovi bazar religiosi, si tratta di ripulire delle scorie (di origini cattolica come di provenienza altra) la Parola autentica che ci convoca.
Ha scritto la martire e filosofa carmelitana Edith Stein:
“In fondo è questo il fine di ogni teologia: liberare la via che conduce a Dio stesso” [21].
Si tratta di svolgere questo lavoro senza strepiti e senza trionfalis mi chiassosi.
L’unico linguaggio che Dio ascolta è quello dell’amore silenzioso – disse San Giovanni della Croce.
La memoria è la sola fornitrice di alimenti cristiani autentici per conservare e sviluppare l’identità cristiana.
Rifiutare l’eredità cristiana equivale a minare seriamente la possibilità di dare continuità ad un progetto identitario (personale e collettivo) che si rivela fecondo soltanto se la misura dell’uomo si rivela essere l’amare Dio e gli altri senza misura.
[2] Cfr., e. salmann, Presenza di Spirito. Il Cristianesimo come gesto e pensiero, Padova 2000, pp. 473 – 474.
[3] Cfr., s. quinzio, La croce e il nulla, Milano 2006, p. 210.
[4] Il verso del poeta tedesco è citato e commentato in m. heidegger, Che cosa significa pensare?, vol. I, Milano 1971, pp. 43 – 45.
[5] Cfr., ida magli, Il mulino di Ofelia. Uomini e dei, Milano 2007, p. 13.
[6] Cfr., j. moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1974, p. 278.
[7] Cfr., f. nietzsche, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, § 19, Milano 1970.
[8] Cfr., r. marchisio, “Ritualità senza miti nell’attuale contesto della religiosità soggettiva”, in Mistica e ritualità: mondi inconciliabili?, Padova 1999, p. 70.
[9] Cfr., j. daniélou, The Lord of History, Chicago 1958, pp. 25 – 26.
[10] Cfr., j-m roger tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del duemila, Brescia 1999, pp. 33 ssg.
[11] Cfr., marcel gauchet, Il disincantamento del mondo. Una storia politica della religione, Torino 1992, p. 303.
[12] id., Dieu, la nature, l’homme au siècle des Lumières, Paris 1972, p. 166.
[14] Cfr., carl smith, American Evangelicalism, Chicago 1998, p. 106.
[15] id., Ateismo nel cristianesimo, Milano 1976, p. 49.
[16] Cfr., r. cantalamessa, La fede che vince il mondo. L’annuncio di Cristo nel mondo d’oggi, Cinisello Balsamo (MI) 2006, p. 10.
[17] f. nietzsche, Genealogia della morale, II, 28, Milano 1997.
[18] p. ricoeur, Le sujet convoqué À l’école de récits de vocation prophétique, in “Revue de l’Institut Catholique de Paris”, 28 octobre – dicembre 1988, pp. 83 – 99, p. 98.
[19] Cfr., g. steiner, Una certa idea di Europa, Milano 2006, p. 40. L’idea che l’Europa non possa dimenticare la componente cristiana che ne costituisce l’anima appartiene anche allo storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi: “Il nostro mondo europeo è laico e pluralista, ma ha un rapporto particolare con il cristianesimo, che non è solo una radice storica, ma anche il vissuto di milioni di europei” (id., Convivere, Roma – Bari 2006, p. 145). Riccardi, poi, cita Olivier Clément, teologo che partecipa della cultura occidentale ed, allo stesso tempo, della sensibilità orientale; per il teologo, dunque, “c’è un compito fondamentale: ‘convocare lo spirituale nel cuore della cultura europea’. E ha aggiunto (…): ‘Se non vogliamo ritornare all’uomo delle caverne, dobbiamo scoprire l’uomo interiore nelle caverne dell’uomo’. La grande tradizione religiosa europea – conclude Riccardi – ricorda la dimensione spirituale dell’uomo, la cui vita è anche un mistero” (p. 146).
[20] Cfr., m. buber, L’eclissi di Dio, Milano 1990, p. 57.
[21]id., Vie della conoscenza di Dio. La ‘teologia simbolica’ dell’ Areopagita e i suoi presupposti nella realtà, Bologna 2003, p. 93.
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