Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Pensare Teologia


Questa è la vera definizione del cristiano: uno che guarda a Cristo (John Henry Newman)


Le ragioni di un percorso

Ci tocca rispondere ad una domanda tanto inquietante quanto urgente: quale contributo può ricevere il nostro tempo dallo sviluppo di una mente – teologica che insegni a pensare “anche” teologica – mente? Si noti: anche. Interessa, in questa sede, non tanto stabilire primati, individuare inviolabili gerarchie tra i campi del sapere, ma soltanto interrogarci sul patrimonio di provocazioni che verrebbero utilmente ad installarsi nei dibattiti epistemologici, etici, filosofici e religiosi attuali ricorrendo “anche” alle argomentazioni allestite con mente – teologica/teologica – mente! Qui si aprono vie possibili! Apertura è un termine quanto mai appropriato nei dibattiti teologici odierni poiché Dio stesso – come titola un saggio di un teologo cattolico olandese – è una domanda aperta [1]. Una domanda inevitabile: nello spaesamento diffuso nel quale versano le nostre sempre più complesse e perplesse vite, quale punto fermo segna un luogo dal quale prendere l’abbrivio verso questioni Trascendenti? È mia convinzione che, se non sappiamo dove stiamo andando, almeno siamo certi di alcuni elementi costitutivi del nostro presente. Come stanno le cose, oggi, riguardo alla fede, alla teologia? Ci aiutano a riflettere alcune considerazioni donate, nel 1913, da un filosofo di origine spagnola agli americani: «L’epoca presente è critica, ma anche interessante da vivere. La forma di civiltà caratteristica del Cristianesimo non è scomparsa, anche se un’altra forma di civiltà sta prendendo piede. Siamo ancora in grado di capire il valore della fede religiosa […]. D’altra parte il guscio del Cristianesimo è ormai infranto. L’incontenibile mentalità orientale, il passato paganesimo, il futuro industrial – socialista si confrontano con il Cristianesimo con pari autorità. Tutta la nostra vita e la nostra mente è saturata da un lento salire e filtrare di un nuovo spirito: quello di una democrazia internazionale emancipata e ateistica» [2]. Il Cristianesimo si è trovato ad essere, da visione del mondo egemone che era, una tra le tante proposte che tentano di conferire senso alla realtà. Altre proposte religiose, ideologiche, economiche e filosofiche ritengono di avere lo stesso diritto di parola riconosciuta ai fedeli del dio ebraico – cristiano. Il guscio del Cristianesimo – diceva Santayana – è ormai infranto; l’epoca presente, proprio perché complessa, è sia critica che interessante da vivere. Della forma di civiltà cristiana resta molto, ma non si deve né si può disconoscere che un’altra forma di civiltà sta prendendo piede. Il panorama si carica di ombre sempre più perché, ammettiamolo, in Europa, quando si parla di religione inevitabilmente, spesso inconsapevolmente, si pensa alla fede nel Dio ebraico – cristiano. Rimuovere secoli di riferimenti religiosi non è cosa da poco e, dunque, va riconosciuto che «quando parliamo di un qualunque argomento legato alla sfera religiosa di rado siamo consapevoli di ricorrere al filtro concettuale elaborato dal cristianesimo […] e anche quando affiora una qualche curiosità per forme di religione diversa […] categorie e concetti restano quelli di matrice cristiana» [3]. Consapevolmente o no, dunque, ragioniamo e parliamo in termini cristiani; ebbene, basterebbe questa considerazione per mostrare come si debba compiere qualche sforzo per imparare a pensare teologica – mente/con mente – teologica sempre avvertiti delle più pressanti e fondamentali questioni religiose.  Un saggista francese, infatti, giudicava una sorta di aberrazione intellettuale l’allontanarsi dalla religione; faceva pure riferimento ad una invincibile inclinazione che ci riporta ad essa: «L’incredulità è un accidente, la fede è lo stato permanente dell’umanità» [4]. L’umanità riflette sul proprio stato permanente (aver fede) ed il precipitato di tale riflessione è la teologia; il costitutivo antropologico fondamentale, la fede, dunque, spinge a dotarci di una mente e di un linguaggio che argomentino intorno a Dio. L’uomo è un essere sociale, dialogante perché ha il logos che, non potendosi trattenere nel fenomenico, tenta di “dire Dio” e diviene logos teologico. La prima ragione per imparare a pensare teologicamente è che il “logos teologico” è strutturalmente operante in noi; ci appartiene non a livello superficiale, culturale, meramente linguistico, bensì, ontologico! Le nostre singole vite, così come la storia della parte di mondo nella quale viviamo, devono (lo accettino o lo rifiutino) fare i conti con il lascito ebraico – cristiano (mai dimenticando altri nutrimenti vitali per la nascita e lo sviluppo dell’Europa). Sottoscrivo l’affermazione di Hilaire Belloc: la fede è l’Europa e l’Europa è la fede; resta, però, che, per molti, questa tesi non è più sostenibile. Riflettiamo seriamente sulle parole che Giovanni Paolo II, il 10 gennaio del 2002, rivolse al Corpo diplomatico: a Suo dire, aver reso marginali le religioni che hanno costituito i nutrimenti vitali  della cultura, dell’umanesimo, motivi di fierezza per l’Europa, è stato una ingiustizia ed un errore di prospettiva. Persi riferimenti culturali, umanistici (frutti cristiani), non sappiamo da quale angolo visuale osservare il mondo; sic stantibus rebus, tutto viene lasciato al gusto, alla preferenza, alla dittatura dello psicologismo più becero. La cultura non è più alleata dei processi di autentica umanizzazione. Giovanni Paolo II ci ha lasciato considerazioni che potrebbero costituire una sorta di antidoto contro gli avvelenamenti culturali oggi non infrequenti: «La vera cultura è umanizzante, mentre la non cultura e le false culture sono disumanizzanti». Ci giochiamo tutto nel non far passare attraverso il vaglio delle considerazioni teologiche i prodotti culturali: «l’uomo non può […] realizzare totalmente la sua umanità, se non riconosce e non vive la trascendenza del proprio essere sul mondo ed il suo rapporto con Dio. All’elevazione dell’uomo appartiene non soltanto la promozione della sua umanità, ma anche l’apertura della sua umanità a ‘Dio’» [5]. La cultura umanizza ma, affinché l’umanizzazione si realizzi totalmente, occorre riflettere anche sul rapporto che si intrattiene con Dio! L’uomo, ricordava Giovanni Paolo II, si eleva promuovendo l’umanità (questione orizzontale), ma anche aprendosi a Dio mettendo in gioco la parte migliore di sé, quella umanizzata (questione verticale). Il primo momento, elevarsi trascendendo il mondo, è compito che la cultura sa e può assolvere; siamo, tuttavia, ad un “primo livello di umanizzazione”. Il secondo momento, aprirsi a Dio trascendendo anche se stessi, necessita di una capacità di pensare, di dire (logos) Dio (theos): necessita, cioè, di pensare teologica – mente il che consegue da una paziente e sapiente costruzione di una mente – teologica. L’uomo, diceva sempre Giovanni Paolo II, è la via della Chiesa; se il mondo deve imparare a pensare in termini teologici, la Chiesa deve imparare a conoscere cosa costituisce il nucleo essenziale del vivere quotidiano. Essa, dunque, «deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole delle di lui (dell’uomo) “situazioni” […]: […] deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all’uomo […] di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché la vita umana divenga sempre più umana» [6]. La Chiesa deve conoscere le “situazioni” nelle quali l’uomo si trova in modo sempre nuovo! Significa che essa segue gli sviluppi della storia ed impara i linguaggi del momento, studia le forme di pensiero imperanti; allo stesso modo, però, affinché si possa valutare se la proposta cristiana può calarsi in maniera feconda nelle maglie del presente, occorre che il mondo, gli uomini imparino a pensare come il Vangelo, come la Chiesa. Ci si deve dotare, torniamo al punto di partenza, di una “mente – teologica”. Per i forti contenuti antropologici ed etici, alcune religioni (in particolare la fede cristiana) sono chiamate a dire una parola pesante nelle odierne derive del nichilismo e del relativismo antiumanistici; per farlo, occorre che i patrimoni religiosi dell’umanità vengano esposti con un linguaggio ed una forma mentis comprensibili. Giusto! Ad ogni modo, vero e giusto è pure che i linguaggi e le forme di pensiero odierne imparino a comprendere il linguaggio ed il pensiero della fede anche per evitare che, al posto di essi, vengano contrabbandate ideologie ed idolatrie. Dotarsi di una mente teologica, di una capacità di leggere il reale attraverso le lenti della nostra ineliminabile dimensione religiosa è una necessità perché – in queste cose – ne va davvero di noi, della vita. È compito della religione, oggi,  «mostrare che nella profondità più sacra della loro esperienza c’è una convinzione […] forte che ogni uomo e donna ha diritto a essere onorato come tale» [7]. Recuperare l’umano attraverso il religioso, la fede, è possibilità da non tralasciare visto che, quando si è lasciato fare ai saperi che non hanno voluto pensare teologicamente, si sono verificati molti tristi eventi; d’altro canto, perché non provare davvero a scoprire i frutti derivanti dallo sforzo di dotarsi di una mente teologica per vedere se possiamo definitivamente lasciarci alle spalle la minaccia del ritorno della barbarie? Il nostro compito è quello di fare in modo che mai più un periodo storico possa ammettere la definizione pensata per il Novecento: secolo delle idee assassine [8]

La fede cristiana: un supplemento d’anima per i saperi mondani

Il poeta e saggista T. S. Eliot affermava che un cittadino europeo può certo non ritenere vero il cristianesimo; tuttavia, quanto dice e fa ne è comunque impregnato. Voltaire e Nietzsche, insiste, sono frutti cristiani! Se scompare il cristianesimo dall’Europa – concludeva Eliot – porta via con sé l’intera nostra cultura e finanche il nostro stesso volto. Credo che a scomparire, al più, sia un certo modo di intendere il cristianesimo; per cui, alla domanda che un teologo canadese (Tillard) ci rivolgeva – siamo gli ultimi cristiani?   possiamo rispondere, come lui, no: siamo, piuttosto, gli ultimi a rappresentare un “certo tipo” di cristianesimo. Dalla fede ebraico – cristiana, tuttavia, questo mondo può attingere, di là delle questioni di fede, risorse preziose che salvaguardino l’umanità dell’uomo. Privarsi di simili risorse lascia crescere, mostruosamente, un sapere straricco di “mezzi” e spaventosamente povero di “fini”! Lo sviluppo elefantiaco del sapere tecnico – scientifico – informatico richiede, mai come oggi, un correttivo sapienziale. La modernità ha sciolto ogni conquista di tipo scientifico dai legami umanizzanti della sapienza che insegna all’uomo come servirsi delle cose per impedire che queste si servano di lui. La dimensione religiosa e, più marcatamente, quella della fede aiutano l’uomo a non idolatrare un sapere che può rivoltarsi contro di lui. Ripensare il cristianesimo nell’epoca della globalizzazione, del dominio tecno – scientifico – informatico significa non replicare l’errore della modernità: «L’uomo moderno ha sacrificato la sapienza alla scienza, invece di unirle» [9]. Il cristiano che vive le inquietudini postmoderne deve operare in favore di un supplemento di sapienza – perfettamente corrispondente al supplemento d’anima invocato da Bergson – affinché la scienza possa avere sempre più un volto umano.

Rileggere la storia del cristianesimo nella modernità

Uno studioso, riflettendo sul romanzo di Aldous Huxley Il mondo nuovo, sosteneva che potremmo essere sani, felici in un mondo nuovo totalmente amministrato dalla tecnica, dall’ordine perfetto, ma di certo non saremmo più “esseri umani”; nessuno lotterà, aspirerà a qualcosa di altamente ideale, verranno tralasciate decisioni assai impegnative in campo morale e ci si priverà anche della famiglia! Il mondo sarà, dice il nostro autore, in – naturale perché la stessa “natura umana” risulterà gravemente deformata a livello ontologico. Avremo una umanità composta «di schiavi felici della loro schiavitù» [10]. Ad un uomo simile è sfuggito per sempre il valore della Sapienza: è “felice di essere schiavo” perché rinuncia a pensare in proprio. La fede cristiana è un potente antidoto a questa velenosa curvatura antropologica che assume sempre più un profilo sinistro; la fede, infatti, richiede una risposta personale. L’ordine perfetto, garantito per mezzo di sofisticati congegni tecnici, non spegnerebbe l’inquietudine dell’uomo che vuole essere qualcosa di più di quello che è. La fede “dà a pensare” in quanto, credere in Dio, non si può demandare all’esperto, al tecnico: è incontro tra soggetti e, perciò, assume l’imprevedibilità, il rischio, elementi costitutivi di ogni relazione tra esseri intelligenti, viventi! Dio ed uomo non sono termini manipolabili nei laboratori della teoretica, né si può prenderli in considerazione ognuno per se stesso: qui in gioco è una relazione vera, viva e dall’esito non scontato [11]. Da quanto detto finora, emergono due punti fermi: 1) non bisogna considerare a cuor leggero la crisi del cristianesimo o una sua eventuale sparizione dall’Europa: con esso se ne andrebbero le costellazioni di idee accese a beneficio di un pensiero “laico” che le ha trascritte entro registri politici con linguaggi secolarizzati ma, sullo sfondo, un focolaio di provocazioni cristiane continua a luccicare. Aveva proprio ragione il Cardinale Newman a dire su tale questione: la bella struttura della società, che è l’opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo. La modernità merita di venir smascherata per due pericolose mistificazioni: la prima ha fatto credere che si possa rendere assoluta la “scienza” degradando a rottame ancestrale la sapienza ebraico – cristiana; la seconda è stata quella di far valere certe idee cristiane dopo averle separate da quanto del cristianesimo non ci va a genio: «La modernità […] ha apprezzato alcuni valori fornitile dal cristianesimo e vorrebbe conservarli poi senza il cristianesimo. Il punto è di notevole importanza perché il cristianesimo inteso come animatore di civiltà è tollerato e perfino apprezzato da parte di tanti che ne negano però l’indispensabilità. Accettare il cristianesimo come suscitatore di valori è un modo per ritenerlo utile, ma non indispensabile» [12]. Continuiamo a commettere questo errore generato dal pensiero moderno: fino a quando il cristianesimo accetta di essere un fornitore di valori che animino e garantiscano la civiltà, va bene; se, poi, esso pensa di volere essere, oltre che “utile”, anche “indispensabile”, la cose iniziano a mettersi male. 2) essere cristiani “oggi” vuol dire lavorare affinché non vi sia più una assenza della Sapienza dentro i saperi del nostro tempo; la scienza, la tecnologia, l’informatica, fanno dell’uomo un essere in corsa perenne, in fuga verso la novità! L’uomo, oggi, è «dominato dalla velocità e smemorato per essere all’altezza del rapido mutamento deve vivere come se fosse sempre su un wind - serf, deve abituarsi a vivere come se fosse sempre in viaggio, trascinandosi dietro il minimo indispensabile della tradizione, degli affetti, della propria identità» [13]. Rivedere la modernità teologica – mente porta a scoprire che le verità cristiane impazzite ne sono state i principi ispiratori. Le distorsioni patite dalla proposta cristiana nella modernità, indagate bene, possono insegnarci molte cose per non ripetere certi errori (ed orrori) nel futuro.

L’antropologia filosofica e le provocazioni teologiche

L’uomo, sempre in corsa verso novità “tecno – scientifico – informatiche”, deve muoversi trascinandosi dietro il minimo indispensabile. La leggerezza dell’essere (Kundera) diviene necessaria dismissione di elementi costitutivi dell’uomo. Si deve snellire l’essere. Da dove inizia questa opera di “dimagrimento ontologico”? Dalla rinuncia ai nutrimenti della tradizione, degli affetti, dell’identità e, perché no, della nostra fede. Viaggiamo più leggeri, ma paghiamo questa pseudo – comodità impoverendoci a livello di saperi, credenze costruite faticosamente nei secoli; ci sentiamo fluidi, liquidi – direbbe Bauman – perché l’affettività viene svalorizzata. L’identità e l’eventuale “carico affettivo” che l’accompagna pesano perché impediscono di ossequiare la flessibilità richiesta (imposta?) da una società sempre più vittima delle seduzioni del “demone – novità”! Essere cristiani in un mondo che patrocina una ragione cinica [14] equivale al rischio di tagliarsi fuori dai giochi: meglio viaggiare verso il futuro non zavorrati da certi contenuti. Prima di analizzare la crisi del cristianesimo, di parlare di scristianizzazione, laicismo, relativismo, mettiamo un punto fermo: la precedenza va alla questione antropologica. Avevano ragione gli esponenti dello Strutturalismo (Foucault, Lévi – Strauss): dopo la “morte di Dio” anche l’uomo è destinato – in quanto invenzione recente della filosofia (Foucault) – a scomparire come un’orma sulla sabbia cancellata dall’onda del mare! Meditando su di un saggio che annuncia il ritorno sulla “scena pubblica” di Dio [15], un filosofo sostiene che al ritorno di Dio «manca qualcosa di essenziale: il ritorno dell’uomo. Il massimo problema oggi […] non è quello teologico, ma quello antropologico. Se Dio comincia a tornare, l’uomo continua ad andare» [16]. Pensare teologica – mente il “nostro tempo”, dunque, significa pensare ‘assieme’ la crisi del cristianesimo e dell’antropologia. “Uomo” e “proposta cristiana” sono questioni da ripensare unendo “teologia” e “saperi mondani” per progettare una umanità piena, mancante di nessuna delle sue dimensioni essenziali.

Sanare la cultura: una possibilità offerta e richiesta al cristianesimo

Oggi pare improponibile la posizione caldeggiata, agli inizi del Novecento, da un teologo svizzero: a suo dire, l’uomo che si proclama autonomo in maniera del tutto mondana e profana pretende di fare qualcosa di impossibile: deve e può dirsi “autonomo”, invece, solo in maniera religiosa [17]. La vita, sguarnita di riferimenti Trascendenti, non è, in fondo, esaltante: ormai «si vive tra l’inutilità, o la necessità, di dare un senso alla condotta individuale e sociale che vada al di là delle precauzioni per non beccarsi l’Aids e dell’abbonamento alla televisione via cavo» [18]. Si deve assolutamente trovare un senso alla condotta individuale e sociale che travalichi le questioni di piccolo cabotaggio. Se – come diceva Possenti – l’uomo continua ad andare verso il “nonsenso” è irrilevante che Dio cominci a tornare. Ci vuole un riarmo (in senso positivo) della cultura: deve narrare nuovamente la “grandezza” e la “miseria” dell’uomo indicando traguardi significativi e qualificanti. Solo recuperando una antropologia forte, una cultura che coltivi persone, si prepara il fondo sul quale edificare la casa al Dio che ritorna. Un sociologo scrive che, purtroppo, quella che lui chiama cultura liquida, «non ha persone da coltivare. Ha invece clienti da sedurre» [19]. La cultura, ridotta a merce, non ha che da sedurre consumatori! Essa, perciò, «è fatta a misura della libertà di scelta dell’individuo, sia che venga perseguita volontariamente e gioiosamente, sia che venga subita come obbligatoria e inevitabile» [20]. La stessa fede, poi, diventa questione di gusto, di scelta… La crisi del cristianesimo sta dentro il contenitore infuocato di una crisi culturale! Il cristianesimo paga la crisi culturale ma, pensato in profondità, può fornire indicazioni preziose per riscrivere una cultura per la piena umanizzazione dell’uomo. Pensare le proposte culturali contemporanee, anche le più irritanti, con mente – teologica può attivare una concezione alternativa del pensiero e delle opere umane.

La modestia teologica: un “correttivo” alla superbia antropologica

Un uomo nutrito (si fa per dire) da una cultura che “seduce clienti” e non “coltiva persone” può condurre a buon fine il progetto che stava a cuore a Maritain? (mettere in relazione vitale “scienza” e “sapienza”). Il Dio che ritorna (Kepel) che uomo troverà? Registrare seri guasti a livello antropologico, ereditare dalla modernità un estratto di principi cristiani mentre la fonte di essi viene essiccata, impone di lavorare molto in orizzontale se si vogliono godere, poi, gli innesti verticali. Malati ontologicamente, ne risente la dimensione religiosa che, sebbene si declini in termini storici, è costitutivo fondamentale della persona [21]. Quando una delle nostre dimensioni più umanizzanti subisce un depauperamento, esistere diventa impresa quasi insostenibile. Non si riconosce più di aver bisogno di Salvezza, di Redenzione! Un neopelagiano è l’uomo ammalatosi di superbia antropologica: ci si può salvare con le proprie forze e unicamente entro un orizzonte mondano. Si aveva, un tempo, un motivo per sviluppare la propria dignità, per umanizzarsi sempre più. Spenta l’attesa della Salvezza, tanto vale vivere nel puntiforme, nel contingente lussureggiante di merci seducenti. Franz Kafka, nel 1912, annotava nei Diari: Anche se la salvezza non dovesse venire, vivere sempre in modo da essere degno di essa. L’uomo avvelenato da esalazioni antimetafisiche ed anticristiane, invece, pensa: Visto che la salvezza non solo non viene, ma nemmeno ci va di attenderla, viviamo come ci pare, poiché non dobbiamo essere degni di alcuna promessa sovrannaturale. La creatura umana, per noi, è voluta da Dio come grammatica di una possibile automanifestazione divina [22]. Siamo la “grammatica di Dio”. È nei deboli logoi umani che il Logos si è fatto ascoltare; nella fragile ed oscura sarx si è calato. Le parole dicono e non dicono; chiariscono e confondono allo stesso tempo; eppure, aprono, inquietandoci non poco, al mistero. Il teologo è figura emblematica nel mondo odierno: è l’uomo dell’equilibrio che convive con la “possibilità” e l’“impossibilità”, con il “dubbio” e la “certezza”, con la “credenza” e la “miscredenza” (Italo Mancini diceva: la mia credenza in Dio è sempre un po’ atea). È intelligenza aperta e ricettiva, quella del teologo, perché non si congela né nella rinuncia disperata, né si disperde nell’esaltazione ingiustificata: tenta di dire Dio pur consapevole dei limiti del linguaggio [23]. La modestia del teologo può essere salutare in un mondo che spinge ostinatamente ad irrobustire le ragioni della superbia antropologica. Cercare come se si dovesse di nuovo trovare e trovare come se fosse necessario cercare ancora (per parafrasare Agostino) induce a cogliere nella modestia non un mortificante limite, bensì l’opportunità di fare della vita una attività zetetica rischiosa, ma bella (per parafrasare, stavolta, Platone). Pensare il limite teologicamente tiene al riparo e dalla superbia e dall’esaltazione: la fede è dono e compito! L’uomo di fede cerca nell’attesa che la verità, dopo aver compiuto tutti gli sforzi di cui è capace, gli si riveli come “dono”.

Pensare teologica – mente la crisi del nostro tempo

L’importanza della teologia, la presenza benefica del teologo, benché a noi sembrino pacificamente acquisite, per gran parte del mondo attuale rappresentano, al più, i cascami di un’epoca definitivamente tramontata. Che dire? Invece di fare una patetica apologia del cristianesimo, invece di scusarsi perché si tenta di parlare di Dio, entriamo lucidamente nelle trame più fitte e nascoste della crisi che investe la nostra fede e comprendiamone le ragioni. Scrive un filosofo italiano: «Perché il cristianesimo abbia qualcosa da dire nel mondo presente, bisogna che il cristiano riconosca la realtà della crisi» [24]. Riconoscere la realtà della crisi di senso per come si manifesta nel mondo presente significa anche, ricordava Possenti, impegnarsi a fare si che se sulla scena pubblica si intravede il ritorno di Dio, esso venga accompagnato (necessariamente) da un ritorno dell’uomo. Iniziamo con l’andare, senza facili irenismi, incontro a chi vaga ansioso e privo di riferimenti alla ricerca del senso! Evitiamo di proporre un cristianesimo pulito ed ordinato, con le stanze sontuosamente decorate da dogmi al riparo da ogni minaccia del tempo e della critica. Mutiamo linguaggio: «Preferiamo parlare di esperienza religiosa piuttosto che di certezza religiosa, in quanto l’atto religioso non è solo consapevolezza del senso positivo della realtà e del nostro rapporto con essa, ma abbandono fiducioso, invocazione, speranza»[25]. All’uomo postmoderno piacciono più parole come esperienza che non termini come certezza. Adottare i giusti vocaboli è un bene per la religione e, particolarmente, per la fede cristiana. L’atto religioso non interessa unicamente alla comprensione positiva della realtà e del nostro modo di rapportarsi ad essa, ma investe quelle zone del soggetto che, di là dei ceppi razionali, vivono di fiducia, di risposta ad un appello, di apertura alla speranza. L’affettività, la fiducia, la speranza non sono vie razionali a Dio, ma non per questo le si può ritenere strade che conducono ad una erranza insensata [26]. Proporre il messaggio cristiano tenendo in gran conto l’affettività aiuta anche a sanare le relazioni interpersonali. L’uomo di fede sa che il senso della vita sta tutto nel rispondere alla chiamata di un Altro la Cui voce va udita non tacitando quelle che tendono a soffocarla, ma esattamente in mezzo ad esse. La fede amplifica la voce di Dio, ma non spegne le voci che Lo negano perché, gli oppositori, udendo i due linguaggi possano scegliere consapevolmente dove risieda la parola sensata. Chi pensa teologicamente accoglie le voci lamentose e polemiche contro Dio perché solo chi prende su di sé il dolore del mondo può parlare della Croce come della Speranza che salva.

Una sfida da accettare: pensare teologicamente nella pluralità delle visioni del mondo

L’uomo di fede deve riconoscere la realtà della crisi diceva Pareyson; riconosce che c’è una grave “crisi antropologica” oltre che “teologica”.Viviamo il tempo della parentesi: come se avessimo separato il presente dal passato e dal futuro; non siamo – insomma – né qui, né lì [27]. Molte versioni del mondo ci precipitano addosso ed è quasi impossibile fornire una visione del mondo cristiana che possa valere universalmente: i media mostrano che le letture del reale non solo sono tante, ma addirittura pare che esse stesse siano il reale. L’immagine uccide la realtà, il simulacro trionfa e Baudrillard dice che l’uccisione dei fatti consumata nei media attuali è il delitto perfetto. In fondo, «radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione di Weltanschauungen, di visioni del mondo» [28]. La generale esplosione di visioni del mondo affolla la mente, la psiche dell’uomo e disorienta: alla ricchezza di proposte corrispondono, dapprima euforia per l’abbondanza di materiale, poi, sconforto e confusione. Le religioni stesse si servono dei media ed, inoltre, fanno propaganda al supermarket delle religioni. Tutto ciò fa sì che l’abbondanza dell’offerta giustifichi, in questa delicata materia, l’esercizio indiscriminato ed indisciplinato del gusto. Ecco la sfida per i cristiani: riconoscere le crisi che mettono in pericolo la trasmissione della fede avendo l’onestà di prendere sul serio quanto impone di metterci in discussione. Contestata, spesso, non è la nostra credenza, ma le deformazioni alle quali, consci o inconsapevolmente, la sottoponiamo. Il cristiano ricordi che convertire è qualcosa che riguarda sempre anche se stesso! La pluralità di visioni del mondo è pensata teologicamente in maniera corretta quando non diventa una scusa per non annunciare il Vangelo, ma quando viene convertita, con umiltà e perseveranza, in una moltiplicazione di opportunità per mostrare che la Parola può fecondare ogni modo di vivere e di pensare.

Fare teologia per non lasciar morire Cristo nel cuore umano

Si deve compiere lo sforzo, non lieve, di comprendere “come” arriva agli evangelizzati il messaggio cristiano. Mettiamo sotto esame il nostro modo di parlare di Dio: spesso, per parafrasare Mauriac, gli uomini confondono la voce di Dio con lo stentato parlare dei Suoi balbuzienti ministri. Ostinarsi a trasmettere un messaggio destinato a raggiungere gli altri in maniera disturbata, piuttosto che comprendere origine e natura del ‘disturbo’, è improduttivo: significa non solo non comprendere la paziente pedagogia di Dio, ma anche non comprendere il terreno nel quale la Parola deve attecchire [29]. La Rivelazione avviene lungo un arco di tempo enorme: Dio non ci ha detto tutto subito perché – dicevano i Padri della Chiesa – non saremmo stati in grado di comprendere. Si fa l’esempio del bambino: assume prima il latte e, solo man mano che cresce, si nutre di cibi più sofisticati. Diveniamo consapevoli di cosa, di Chi si ha fame e ragioniamo sulla possibilità di proporre gli alimenti evangelici. Porteremo Dio agli uomini imparando la loro grammatica e leggndo il loro vissuto alla luce del Vangelo. H. Cox ammetteva di non saper rispondere alla domanda: “Dio legge i libri dei teologi?” Si diceva certo, però, del fatto che Dio legge il New York Times. Dio prende sul serio la storia sapendo che è la strada sulla quale ci incontra. Chi ha fede nel Dio ebraico – cristiano, ha il dono della profezia e non può non testimoniare che Egli non si stancherà di noi, della Storia.  L’uomo contemporaneo ha bisogno di testimoni e non di professori di Teologia. Chi prende sul serio la crisi che l’uomo sta patendo fa teologia accettando le condizioni dettate dal Ezra Pound: sono disposto a rispettare la verità – diceva – purché si sposi con la tenerezza. Il cristiano, il teologo annunciano la Verità sapendo che possono chiederne il rispetto unicamente se ad essa associano la tenerezza mostrando autentica comprensione per le debolezze di un mondo che stenta a credere! Sono d’accordo con Natalia Ginzburg: la fede è una candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d’inverno. Il cristiano deve essere l’instancabile collaboratore dell’uomo che stenta a credere, non il suo giudice. San Basilio diceva che un Vescovo deve riposare cambiando fatica; questo, in realtà, sia l’atteggiamento di perenne servizio all’uomo adottato da ogni cristiano. La fede è una strada che viene da Dio e passa attraverso l’uomo. Essa precede la teologia che, spesso, scade in ossificazione di un fuoco vivo. Se si spegne la fede andiamo verso il mondo con in mano una serie di teoremi metafisico – teologici che nulla provano e nulla accendono. Fede è relazione autentica, viva con Qualcuno, il Cristo: se Egli, invece di farsi carne, grazie alla degenerazione accademica dell’esercizio teologico si fa carta, manchiamo di dare risposte significative alla crisi del nostro tempo. C’è una bella storia che risale al cristianesimo antico, ma parla con la freschezza della notizia del giorno. Isidoro il Piccolo, maestro nella scuola di Antiochia, abbandonò i libri e l’insegnamento per vivere in santità. Si rifugiò nella Tebaide dell’Egitto. Una mattina, mentre pregava, vide un essere luminoso che si avvicinava. Il Signore lo ispirò e gli fece comprendere che si trattava del grande esegeta Origene. Isidoro, dopo un saluto entusiasta, chiese come mai fosse giunto fino a lui: “Passavo di qui dopo aver percorso la terra”. L’altro: “Cosa hai visto nel mondo, santo Origene?”. L’essere di luce rispose: “Ho visto la fede vacillare. Quando Cristo muore nel cuore degli uomini, allora nascono le scuole teologiche”. Ecco il punto: contrastare, dopo averla davvero compresa, la crisi che tarla il cuore del nostro tempo e delle nostre società, significa non “far morire Cristo nel cuore degli uomini” sapendo che, se ciò accade, a nulla vale aprire scuole teologiche. Il sapere teologico è un mare immenso e possiamo sia ottenerne dei pesci per sfamarci, sia dolori alle ossa per essere stati troppo nell’umidità. La teologia può essere inutile e dannosa se si limita a moltiplicare inutilmente astrusità. Arsenio si lamentò, deluso, con un anziano: aveva studiato tanta teologia, ma ben poco aveva trovato. L’anziano replicò: “Molti vanno a pesca nel Nilo e portano a casa solo reumatismi”. Pensare, per il teologo, significa non finire col prendere dal proprio cercare la parte peggiore: pescare nel Mistero non deve terminare con il portare a casa reumatismi. L’acqua del Mistero è gelata solo per i cuori che già vi si immergono freddi. Il monaco Siloès, per lanciare un fruttuoso avvertimento a quanti lavorano per la nascita di una mente – teologica, diceva: se Dio avesse incaricato i teologi di scrivere i Dieci Comandamenti, invece di dieci ne avremmo diecimila o anche di più!

Pensare teologica – mente è lasciare la “verità oggettiva” per la “verità solidale”

Teologi e credenti dobbiamo andare a scuola dal geniale pensatore cattolico Gabriel Marcel che si definiva filosofo della soglia; uno, cioè, che «si è mantenuto, in modo peraltro abbastanza scomodo, su di una linea mediana tra credenti e non credenti» [30]. Essere su di una linea mediana è posizione saggia ancor più oggi visto che si inaspriscono le posizioni che dividono credenti e non credenti. Prendere sul serio la verità è, per noi, assumere atteggiamento prudente, da umili pensatori della proposta cristiana [31] interessandoci anche alla verità dei “saperi” e degli “spazi di vita” lontani dal “sentire teologico” [32]. Prendere sul serio la verità: in che modo? Un filosofo americano ha richiamato una costante del pensiero occidentale: la nozione di ricerca della verità. Si è cercato sì un “senso” all’esistenza attivando tale ricerca, ma ci si è allontanati dalla solidarietà in favore dell’oggettività. La verità viene perseguita “di per sé” e non perché la si ritiene utile a qualcuno, ad una comunità. Il cristiano, piegando pro domo sua le parole di Rorty, deve cercare un “senso all’esistenza” ricercando la verità per la solidarietà (a beneficio di altri, singoli e collettività) e non per soddisfare un teoretico desiderio di oggettività [33]. Per il cristiano la verità, oggi, non può non coniugarsi con “solidarietà”, “carità”! La Chiesa cattolica, ad esempio, è ontologicamente disposta alla solidarietà, all’alterità; sì, perché ha imparato molto dagli altri. È carità che dona ed è caritatevole nel dare ospitalità alle ricchezze intellettuali, spirituali e religiose di altri: «Dall’Oriente ha tratto la percezione del mistero e della trascendenza di Dio, aprendosi a una forma mentis di natura più mistica e contemplativa. Dagli antichi greci ha imparato ad amare la ragione, il senso della proporzione e della bellezza. Dai romani ha raccolto […] l’organizzazione amministrativa universale e un senso pratico della legge. Dai francesi ha preso […] il brillante splendore delle idées claires e la prontezza di parola. Dai tedeschi la metafisica, una formidabile erudizione storica […] dagli angloamericani […] una certa dose di common sense e la passione per la libertà religiosa e la coscienza individuale» [34]. La Chiesa si è perfezionata avendo bisogno degli altri: una mente teologica priva di elementi dei saperi mondani rischia mortale clausura. Accogliere e donare sono momenti di una stessa missione: solo accogliendo il mondo dei poveri cristi con le loro croci si mostra che la Croce di Cristo riguarda tutti. Il protagonista di un lavoro di Paul Claudel, diceva: sono davvero confitto in croce; ma la croce da cui pendo non è più attaccata a nulla. Pensare il dolore teologicamente insegna che la verità di Cristo non è quella oggettiva dei filosofi, ma è quella solidale di chi soffre con noi. In un suo vecchio libro, Benedetto XVI (allora Joseph Ratzinger), citando il poeta francese, concludeva: solo una misera traversa di legno lega ancora il credente a Dio; ma, nonostante tutto, egli la abbraccia senza mai staccarsene, sapendo come, alla fin fine, quel legno sia ancora più forte del nulla che ribolle sotto di lui. La solidarietà fra l’uomo e Dio è un legame che fonda solo su una misera traversa di legno; eppure, il vero cristiano l’abbraccia e non se ne stacca perché il legno al quale si stringe non è sospeso sul nulla, ma è legato alla misericordia divina. La verità per il cristiano non è oggettiva in senso stretto filosofico, anche se il teologico deve in qualche modo attingere all’armamentario concettuale della filosofia; la verità è il “legame con Dio”, solidarietà che cammina sulla pericolante linea di una “traversa di legno” che, tuttavia, non pende sul nulla. Dio – insomma – è verità solidale! Egli – diceva Quevedo – è unico, ma non è solo! Il cristianesimo è dalla parte dell’uomo in maniera assoluta; Marx, intonando una, per lui, non usuale “nota tenera”, si diceva disposto a perdonare molte cose al cristianesimo perché ci ha insegnano ad amare i bambini. La fede cristiana fa i conti con la Croce, con la Passione, con la morte, ma apre, infine, sulla vita piena, eterna e ci insegna che l’evoluzione dell’umanità non può essere soltanto, come diceva Kafka, un crescere della capacità di morire.

Pensare teologica – mente è proporre una ontologia della relazione

La scristianizzazione del mondo contemporaneo, il rifiuto di una fede informata di dogmi e di elaborate teologie in favore di un più fluido, psicologistico ‘sentire’ religioso (vago) [35] , dipende, in gran parte, dal modo errato col quale abbiamo parlato di Dio [36] : spesso, infatti, si è dimenticato di fondare la teologia su di una ontologia relazionale garantita graniticamente da una cristologia fortemente compromessa con le istanze dell’antropologia [37].  Una teologia impiantata sull’ontologia, recita: Dio è! Se si incardina, invece, su di una “ontologia relazionale”, formula così il proprio incipit: Dio è con! Dio è verità solidale con l’uomo! Egli non fagocita, ma lascia essere la realtà umana e cosmica. Cristo è la conferma che il Creatore elegge a luogo di dialogo la storia, la carne, il linguaggio umano… vuole che il Logos, animando viva relazione, si incontri profondamente nei nostri logoi: «Dio […] non assorbe in sé l’essere – uomo ed il mondo, ma li restituisce al loro essere – altro […]. L’incarnazione di Dio afferma […] che mondo e uomo sono luogo del vangelo proprio nella loro secolarità e umanità […]. La preoccupazione per l’uomo nella sua profanità e la preoccupazione per la profanità dell’uomo sono il servizio del Vangelo affidato alla Chiesa» [38]. Dio non assorbe in sé mondo ed uomo: li lascia essere perché possano super – essere! La crescita umana, quando si è separata dalle indicazioni dell’antropologia teologica, è diventata affare di filosofie patrocinanti un bieco volontarismo che ha nel DNA i veleni della Wille zur Macht (volontà di potenza) di stampo nicciano. Un autore – ispirandosi proprio a Nietzsche – dichiara il lascito del pensatore tedesco l’espressione attendibile, perché chiaramente formulata, dell’aspirazione umana: «L’aspirazione estrema, incondizionata dell’uomo è stata espressa per la prima volta da Nietzsche a prescindere da un fine morale e dal servizio a un Dio» [39]. Ecco il punto: l’aspirazione umana diviene estrema (l’aspirazione degenera in dissipazione) quando pretende di prescindere dalla morale e da Dio. La verità morale e quella divina, al più, vengono considerate oggettivamente, di per sé e non come solidali, nutrimenti per qualcuno, per una comunità. Dio e morale, così, divengono insignificanti per la vita concreta e, dunque, inizia una svalutazione della verità che giunge a livelli allarmanti e non si può non ammettere che una società si giudica dal posto che in sé e al di sopra di sé è capace di assicurare alla verità, che non è una cosa, ma spirito [40]. L’uomo educato cristianamente aspira a crescere senza cadere in alcun “estremo”; cerca la verità senza scadere nel titanismo, perché riconosce che la verità dà senso all’esistenza se non si allontana dalla solidarietà per raggiungere l’oggettività. La verità della fede non ha interesse a conquistare un “più di oggettività” di tipo filosofico se poi lo si paga con un deperimento delle sue “potenzialità di solidarizzare” con i viandanti sulla strada del Senso. Una visione oggettiva della fede portata all’estremo è dominata dal “principio di esclusione”, moltiplica differenze e non le vede come occasioni, bensì come giustificazioni per ragionare entro le categorie di “amico – nemico” (Schmitt). Un taglio solidale  conferito alle nostre ragioni di credenti, invece, apre spiragli di dialogo sincero e mostra di «saper togliere importanza a più e più differenze tradizionali (di tribù, religione, razza, usi e simili) in confronto alla somiglianza nel dolore e nell’umiliazione […] saper includere nella sfera del “noi” persone immensamente diverse da se stessi» [41].

Questo il programma: meno differenze che dividano e più aspetti dell’umano vivere che invitino a cercare le verità per e nella solidarietà. Il teologo elegge un “pensiero solidale” non perché rinuncia alla “ragione”, al “razionale”, ma perché, piuttosto, instaura una relazione (solidale) tra fides et ratio. Un autore ha proposto, rileggendo un brano evangelico, un percorso: muovere lungo la strada che da Gerusalemme va a Gerico. È il cammino sul quale il “buon samaritano” incontra un uomo ferito, debole… Si ferma e soccorre! La fede può essere la samaritana della ragione e ciò accadrà se essa ha «olio e vino per le sue [della ragione] ferite, se sa presentarsi con il volto riconoscibile di un’intelligenza liberata, se sa parlare il linguaggio della prossimità fraterna, anziché quello dell’estraneità paternalistica» [42]. Le forme diverse di ragione appartenenti agli uomini di altre culture, fedi, non meno della ragione intesa nelle forme coniate dal pensiero occidentale, meritano che la fede e le ragioni della speranza che è in noi abbiano le caratteristiche invocate da Alici. La fede deve avere il volto riconoscibile dell’intelligenza liberata. L’intelligenza della fede non deve essere vittima di manipolazioni. È liberata quando consente la relazione con Qualcuno, non una appropriazione concettuale di qualcosa. Il linguaggio della fede è logos della fraternità: legéin significa raccogliere, adunare ciò che è sparpagliato. La fraternità è raccogliere, adunare gli “altri”, ma non in una morsa ferrea ed asfissiante; il logos della fede è fraterno, solidale. Chi presenta, invece, un logos paternalista vuole raggiungere gli altri sulla strada dell’‘autorità’. La voce del cristiano deve essere a disposizione di quanti patiscono dolori ed umiliazioni. Quando i tedeschi iniziarono a minacciare la vita degli ebrei, un teologo protestante (che perderà la vita per mano dei nazisti) invitò i cristiani a prendere posizione e disse in maniera assai incisiva che «chi non alza la voce per gli ebrei non è degno di cantare il gregoriano» [43].

L’uomo può fare il dio perché Dio si è fatto uomo

L’uomo pensa di essere “misura di tutte le cose” e questo porta alla superbia antropologica, all’ipertrofia dell’ego, al narcisismo; può anche pensare, però, di essere più di quel che è perché legittimato da Dio che si è fatto uomo proprio per mostrarci che siamo destinati a superare noi stessi. La fede parla della grandezza e della miseria dell’uomo ispirata da Dio: «Dopo che Dio è divenuto uomo, l’uomo è misura di tutte le cose» [44]. L’uomo gioca a fare il dio perché è da Dio che ha ricevuto l’ispirazione: il divino e l’umano possono tenersi per mano! La verità dell’uomo, per il cristiano, l’ha Dio e soltanto Lui può illustrarci a noi stessi. L’Incarnazione è l’antropologia più esaltante e responsabilizzante: ci dice che la nostra verità è rivelabile solo da Dio e che ricevere l’onore e l’onere di “misurare le cose” significa svolgere un compito vitale sotto il Suo sguardo. Grandezza sempre temperata dall’umiltà: ecco l’antropologia cristiana cosa dice al progetto – uomo del nostro tempo. Rivelati a noi stessi, spiegati e non solamente spieganti, siamo esseri esodali: sempre in cammino! Sempre vicini ad essere cristiani, ci accorgiamo che ancora un lungo tratto di strada va percorso. È questa la catena di riflessioni che porta Barth a scrivere che il cristiano «non è fatto per essere il rappresentante fanatico di un punto di vista. Non si è mai nemmeno cristiani, giacché lo si può sempre soltanto divenire […]. La comunità cristiana […] è composta da puri principianti e questo è […] il vero bene: farsi piccoli […], ricominciare daccapo» [45]. Ricevere la propria verità dalle mani di un Altro implica una lezione fondamentale come quella che viene dal filosofo Jaspers. Egli riteneva che la fede permane nella distanza e nella domanda. Si tratta – in breve – di comprendere che non si può eliminare la potente carica arrischiante che caratterizza la “fede”: vivere fondando su di essa, dunque, «non significa appoggiarsi a un sapere calcolato, ma vivere rischiando tutto sull’esistenza di Dio» [46]. Fede e rischio, dunque, sono i vocaboli per narrare della relazione con Dio. Assumendoci il “rischio”, però, ammettiamo che la discussione intorno alle “cose della fede” rimane aperta. I filosofi inquietano i teologi? Bene! Per entrambi, dall’acceso confronto dialettico, non può derivarne che bene. Jaspers si mostrava profondamente addolorato quando era costretto a rilevare una chiusura da parte dei teologi nei confronti delle provocazioni del pensiero filosofico: «è una sofferenza […] il constatare che la discussione coi teologi si arresta sempre nei punti più decisivi […] e non mostrano alcun autentico interesse per la discussione […] si sentono […] terribilmente sicuri nella loro verità […]. Ma un vero dialogo […] esige che ogni proposizione fideistica […] possa essere messa di nuovo in questione […]. Chi si trova nel possesso definitivo della verità […] interrompe la comunicazione autentica» [47].

Pensare teologica – mente implica “fedeltà creatrice” alla Rivelazione

Sentirsi nel possesso definitivo della verità è, però, ormai, una possibilità che nemmeno i più coriacei tra i cristiani si concedono. A partire dalla modernità, infatti, dal cilindro magico del “dubbio cartesiano” è saltato fuori un nuovo modus pensandi: si deve azzerare quanto appreso, quanto ereditato dalla tradizione e pensare a partire dal solo possesso sicuro, l’io (cogito). Il problema, però, è che la fede cristiana è nuova proprio perché antica: si può rinnovare, cioè, unicamente mantenendo una fedeltà creatrice nei riguardi del deposito della stessa fede! Per essere ‘fedeli’ occorre che si abbia alle spalle qualcosa, qualcuno che suscitino appartenenza. Dalla modernità in poi, invece, si è pensato che la potenza creatrice dell’uomo potesse operare prescindendo dall’idea del ritorno al passato. Una renovatio smemorata della propria eredità. È un grosso problema pensare teologicamente dopo che la modernità ci insegnato che il rinnovare è privo dell’idea del ritorno: «il moderno ha inizio quando l’idea di renovatio […] si separa dall’idea del ritorno, all’antichità classica come al cristianesimo primitivo […]. Il moderno è la riaffermazione di essa (dell’idea di renovatio) liberato dall’idea del ritorno» [48]. Più che rinnovare, oggi si tratta di inseguire la novità fine a se stessa. La teologia ha molto da condividere con il “nuovo”, ma vi si relaziona consapevole di avere una proposta antica da calare sul tavolo per svolgere una funzione critica di quanto si annuncia come imminente nella storia. Una religione, la fede (due dimensioni differenti) hanno senso solo in quanto prendono in considerazione la renovatio, ma la passano al vaglio di una prospettiva antica e davvero altra. La proposta cristiana spesso è una voce contro lo status quo: inquieta assai e le coscienze deboli ed edoniste difficilmente accettano quanto le mette in crisi (anche se ciò è un evento salutare). Si ricordi la leggenda narrata da Dostoevskij: Cristo ritorna, ma viene respinto dal vecchio inquisitore perché – volendo l’uomo libero – lo condanna a turbamenti pesanti; meglio la felicità che la libertà. Dio è troppo impegnativo. Un autore, raccontando la propria conversione alla Chiesa Cattolica, stigmatizza la posizione del personaggio dello scrittore russo: Dio deve inquietarci. Sì, non «abbiamo bisogno di una religione che sia nel giusto quando anche noi siamo nel giusto. Quello che occorre è una religione che sia nel giusto quando noi abbiamo torto […]. Una parola che dica ciò che non sappiamo pesa più di un migliaio di parole che ci dicano ciò che già sappiamo» [49]. La religione, la fede mostrino quando, come, perché siamo in errore: essere nel giusto non deve necessariamente coincidere con quello che riteniamo giusto. Se religione, fede dicono le cose in un modo finora ignoto, turbano ma, allo stesso tempo, sono più feconde ed utili di una gran quantità di parole ferme nel comodo ma sterile, improduttivo pantano del ‘già noto’. La Chiesa Cattolica, per Chesterton, ci strappa alla soggezione dello spirito del presente; laddove le religioni si conformano a situazioni nuove, lo fanno spesso, purtroppo,  adattandosi completamente ad esse. La fede, per noi, è irrorata di una freschezza che la rende nuova, eppur ricca di un antico patrimonio spirituale, dogmatico: «La Chiesa Cattolica è l’unica cosa in grado di salvare l’uomo da una schiavitù degradante, quelle di essere figlio del suo tempo. L’ho confrontata con le Religioni Nuove, ma è proprio qui che se ne differenzia: le Religioni Nuove sono per molti versi adatte alle nuove condizioni, ma solo a queste […]. Se la fede ha tutta la freschezza di una religione nuova, possiede anche tutta la ricchezza di una religione antica»[50]. Pensare teologicamente significa testimoniare una fede nuova ma radicata in un credo antico. Si può avere una autentica fedeltà creatrice legando nuovamente l’idea di renovatio a quella di ritorno.

Passeggiare in un giardino di Kyoto:
pensare teologica – mente è comprendere che c’è più di quanto vediamo

La Chiesa cattolica deve relazionarsi ai luoghi nei quali risiede, non inaugurando, tuttavia, un rapporto esclusivo con essi: «deve riconoscere il suo rapporto privilegiato con l’Occidente, a condizione di non intenderlo come esclusivo o comunque tale da ostacolare la propria missione universale» [51]. Prendersi cura del particolare ed aver a cuore l’universale. La Chiesa è radicata in luoghi specifici, ma la sua missione è universale: stia «molto attenta a distinguersi dall’Occidente. Senza negare i profondi legami che ha con esso, deve affermare la propria differenza, la propria non riducibilità all’Occidente» [52]. Ciò significa – in buona sostanza – che la Chiesa ha la possibilità di mostrare al mondo cosa voglia dire prendere sul serio identità ed alterità che, se stanno in una sana tensione dinamica, conducono al bene. La Chiesa non può identificarsi completamente con l’Occidente, ma solo riconoscere i profondi legami che ha con esso: avere legami, per quanto profondi, non vuol dire essere prigionieri. Appartenere profondamente a qualcuno non significa restare indifferente verso tutti gli altri. La Chiesa riconosce i legami forti, profondi con i luoghi che ne ricordano e testimoniano la storia, ma non tradisce la sua differenza: mira all’universale! Se leggiamo attentamente alcuni passaggi storici della storia della Chiesa ci accorgiamo come anche eventi accaduti in un tempo ed in uno spazio recintabili facilmente hanno pesato su tutta la cristianità, sul futuro del mondo. Che poteva essere quella piccola parte di mondo nella quale nacque Gesù rispetto alle potenze del tempo? Chi poteva essere – mentre altrove imperatori, condottieri facevano rumorosamente la storia – quel figlio di falegname che ha radicalmente mutato il modo di concepire la storia? Eppure, la fede, il nostro Salvatore, nati e cresciuti in un luogo specifico, nemmeno tanto importante sullo scenario politico di allora, hanno assunto valenza universale. L’uomo di fede vive di questa dialettica tra ciò che è visibile (apparentemente insignificante) e quanto è invisibile (mistero). Andremo alla verità, ma passando per immagini, enigmi, simboli che lasciano vedere soltanto rivelazioni penultime. Il cardinale Newman sulla sua tomba fece incidere queste parole: Ex umbri set imaginibus in veritatem (andare, attraverso ombre ed immagini, alla verità). Immagini, tracce, storie, memorie dicono chi siamo perché narrano la nostra genealogia. Cercare di sapere da dove si viene, da chi siamo stati originati non è un espediente per non aprirsi agli altri. La fede cristiana, consapevole delle sue origini storiche, deve pure avere la certezza del futuro escatologico. La vera novità per sempre è proprio questa visione altra del tempo, del futuro dell’uomo. Cosa fa la Chiesa in tutto ciò? Essendo missionaria, aprendosi a tutti, si consegna, sapendo di correre rischi, al nuovo portando la propria novità dal cuore antico. Sopra, citando Jaspers, dicevo che vivere di fede non significa appoggiarsi a un sapere calcolato. In questo la fede cristiana è assai vicina al nostro tempo qualificato come era dell’incertezza, del rischio (Beck); tuttavia, è anche quanto se ne distanzia in quanto non ha mai espunto dal proprio lessico il termine Speranza che, invece, pare improponibile a detta delle “grammatiche del disastro” che raccontano le nostre esistenze liquide (Bauman). La fede cristiana ci insegna che siamo nel già e non ancora: il compimento effettivo, infatti, non sarà questione cronologica, ma escatologica. Molte tracce di Dio vediamo, ma sono solo tracce! Non ancora vediamo pienamente. L’umiltà del cristiano viene dalla consapevolezza di essere sulla strada giusta, ma anche dalla certezza di dover camminare ancora molto. Qualcosa vediamo, tutto vedremo: la realtà sta a cuore all’uomo di fede, ma egli non ne fa il suo tutto! Il cronologico ha intrinseca consistenza, ma il “senso pieno” è sempre e soltanto escatologico! Chi pensa il tempo, la storia, la vita con mente – teologica sa che possiamo dire su tutto ciò soltanto parole penultime. Qualcosa di simile si insegna nella spiritualità orientale. In riferimento ad  essa potremmo dire che l’uomo, tutta la vita, passeggia in un giardino di Kyoto. In un giardino shinto di Kyoto, in Giappone, sorgono dal terreno quindici obelischi, ma disposti in modo tale che, da qualunque parte ci si metta, se ne vedono sempre e solo quattordici: uno resta sempre coperto da un altro. Il significato è questo: la realtà non si esaurisce in quel che si vede! Vale anche per il cristiano.

Occorre superare l’amnesia del Trascendente

C’è una questione fondamentale: il mondo contemporaneo rischia molto se continua ad alimentare l’amnesia del Trascendente che informa ogni iniziativa, ogni sapere, ogni politica. Patiamo una crisi anche nel rapportarci alle cose più comuni: cose e nomi soffrono di uno scollamento inquietante. C’è confusione, frammentazione, ma se non si ha un patrimonio di riferimenti condiviso e condivisibile (non soltanto dal punto di vista linguistico), non c’è mondo. Il rabbino Harold S. Kuschner interpreta un passo di Cent’anni di solitudine, un romanzo di Gabriel Garcìa Màrquez. Nel brano esaminato si racconta di un villaggio nel quale gli abitanti patiscono una contagiosa amnesia: dimenticano i nomi di tutte le cose. Una donna, la sola ad essere rimasta immune dal virus, ha un’idea: sistemare su ogni cosa un cartellino con la scritta “questo è un tavolo”, “questa è una finestra”, e così via… Sulla strada principale, prima di entrare nel villaggio, colloca due grossi cartelli; il primo, ricorda il nome di quel posto, mentre il secondo reca la scritta, Dio esiste. Commenta Kuschner: «Il messaggio che […] trasmette questo brano è che possiamo dimenticare tutto ciò che abbiamo appreso […]. Questa dimenticanza non costituirà una grossa perdita. Ma se dimenticheremo a cosa apparteniamo, se dimentichiamo che Dio esiste, perderemo qualcosa di molto profondamente umano» [53]. Ricordare che “Dio esiste” non è unicamente un problema filosofico, una battaglia teologica sfiancante, ma qualcosa di cui ne va di noi stessi: perdere Dio – ci dice Kuschner – significa perdere qualcosa di profondamente umano. La donna nel romanzo di Màrquez, non a caso, colloca la scritta “Dio esiste” all’ingresso del villaggio: non possiamo entrare nel villaggio globale del presente e del futuro sotto il giogo dell’amnesia del Trascendente. È bastato, in quel luogo funesto, che almeno una donna non dimenticasse Dio ed ecco che la notizia della Sua esistenza viene ricordata a beneficio di tutti; nella memoria intatta della donna è la rimembranza salvifica. Chiunque ricorda a questo mondo smemorato di Trascendenza che “Dio esiste” mostra che la propria memoria è salva, ma anche che è l’unico a poter sanare un mondo disperso nei frantumi di una vita ingovernabile in maniera sensata. Dio resiste di là di ogni tentativo di dimenticarlo: ci sarà sempre qualcuno nel villaggio del futuro di memoria sana. Dimentichiamo o ricordiamo, Egli trova il modo per farci sentire il Suo Nome, la Sua reale Presenza. Cosa è reale? Per Philip K. Dick, lo è tutto ciò che, quando smetti di crederci, non svanisce. Dio non svanisce a causa dell’incredulità degli uomini. All’ingresso del villaggio – futuro ci sarà sempre chi annuncerà, con un cartello leggibile da tutti, che Dio esiste. Se nel romanzo di Màrquez il virus causalmente risparmia una donna, nel caso della fede, invece, sta a noi decidere se appartenere agli smemorati o essere uno che ridà nome alle cose e mostra che il Padre c’è e guarisce la memoria perché il Suo Nome resti sulle labbra e nei cuori umani affinché si umanizzino sempre più.

L’esergo della mia riflessione, appartenente ad un teologo (Newman) che da anglicano si convertì al cattolicesimo, dice che si è cristiani se si guarda a Cristo e, completando con San Paolo, se si impara ad avere i suoi stessi pensieri. Pensieri che non sono incompatibili con l’assimilazione dei saperi mondani. Anticipando di molto i tempi, Newman avvertiva che i laici sono tenuti ad affiancare alla cultura umanistica, scientifica, il sapere teologico. Quando si trovò impegnato a svolgere il suo ufficio pastorale a Littlemore fece costruire sia una chiesa che una scuola: “cultura” e “sapere teologico” dovevano informare, assieme, la mente del laico: «Voglio un laicato non arrogante – scrisse - , non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere. Voglio un laicato intelligente e ben istruito […]. Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo […]. Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c’è Dio, e ricordiate che avete un’anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata» [54]. L’elenco dei requisiti del buon laicato: allargare le conoscenze – coltivare la ragione – vedere le cose come stanno – conoscere la relazione che vive tra fede e ragione. Si tratta di attributi acquisibili anche per mezzo di saperi secolari. Cosa, però, per Newman impedisce che, familiarizzando con questi argomenti, si divenga meno cattolici? In primo luogo, conoscere i fondamenti e i principi del cattolicesimo: consapevolezza dogmatica, teologica. Si aggiunga: la ferma, viva convinzione che c’è Dio. La mente coltivata con i saperi secolari e nutrita, allo stesso tempo, da robusta formazione teologica, necessita della fede: è questa, in realtà, che invera ogni processo di crescita umana. Il cristiano pensa sì teologica – mente ma, per non arenarsi in un mero accademismo, deve sapere che è cristiano, come diceva Newman, perché “innanzitutto” guarda a Cristo imparando, come esorta Paolo, ad avere i Suoi stessi pensieri. Il primo passo è costruirsi una mente solida con i saperi mondani e con la sapienza teologica; il secondo, più importante, è passare dalla capacità di ragionare teologica – mente alla certezza di pensare e vivere cristologica – mente. Conformare la propria mente sui pensieri di Cristo è imparare a vedere, in qualche modo, il mondo attraverso lo sguardo di Dio.        


[1] Cfr., Anton W. J. Houtepen, Dio, una domanda aperta. Pensare Dio nell’era della dimenticanza di Dio, Queriniana, Brescia 2001.
[2] Cfr., J. Santayana, cit. da Jude P. Dougherty, La logica della religione, Cantagalli, Siena 2010, pp. 179 – 180.
[3] P. Scarpi, Si fa presto a dire Dio. Riflessioni per un multiculturalismo religioso, Ponte alle Grazie, Salani Editore, Milano 2010, pp. 6 – 7.
[4] Cfr., Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Cappelli, Roma 1957, pp. 131 – 132.
[5] Cfr., Giovanni Paolo II, Discorso agli uomini di cultura. Rio de Janeiro, 1 luglio 1980, «La Traccia», a. 1. pp. 563 – 564.
[6] Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 14.
[7] Cfr., A. Melloni, L’Europa come kairos, in «Jesus», settembre 2002, pp. 64 – 65.
[8] Cfr., R. Conquest, Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano 1999.
[9] Cfr., J. Maritain, Il filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, p. 55.
[10] Cfr., F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo, Mondadori, Milano 2002, p. 12.
[11] «La cultura teologica […] non può studiare Dio in se stesso, né l’uomo in se stesso, ma Dio che va incontro all’uomo e l’uomo che si incontra con Dio: del loro dialogo e della loro storia» (K. Barth, L’umanità di Dio, Claudiana, Torino 1997, p. 105).
[12] Cfr., S. Fontana, Parola e comunità politica. Saggio su vocazione e attesa, Cantagalli, Siena 2010, p. 113. È nota la posizione del giurista Carl Schmitt: i concetti della moderna dottrina dello Stato – a Suo dire – non sono altro che säkularisierte theologische Begriffe (concetti teologici secolarizzati). (C. Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972).
[13] F. Bellino, Etica della solidarietà e società complessa, Levante, Bari 1988, p. 15.
[14] «l’intelligenza appare oggi incapace di produrre esperienze simboliche suscettibili di consenso e rischia di ridursi a una intelligenza cinica, che per cancellare il disagio della perdita di centri di gravità si compiace e si inebria del qui e dell’ora, del presente nella sua più puntiforme ed effimera attualità, del senso nella sua più immediata consumazione» (F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma – Bari 1996, p. 97).
[15] Ci riferiamo a G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.
[16] V. Possenti, Radici dell’ordine civile, Marietti, Genova – Milano 2006, p. 151.
[17] R. Guardini, L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana, in Opera Omnia III/2, Morcelliana, Brescia 2009, p. 381.
[18] Cfr., M. V. Montalbán, Pamphlet dal pianeta delle scimmie, Feltrinelli, Milano 2010, p. 51.
[19] Z. Bauman, Lo spettro dei barbari. Adesso e allora, Francesco Benevino Editore, Milano – Roma 2010, p. 37.
[20] Ivi., p. 26. Riguardo alla cultura, come ad ogni altra cosa, conclude il sociologo, l’individuo viene eletto unico gestore (legislatore, esecutore e giudice) della politica della vita.
[21] In questo caso seguo fedelmente la posizione di un teologo che ha dato molto alla riflessione antropologica: «La religione non sopraggiunge in un secondo momento all’essere umano dell’uomo. Piuttosto, fin dall’inizio, sembra essere stata per gli uomini altrettanto caratteristica quanto l’uso del fuoco e degli utensili e la facoltà del linguaggio» (W. Pannenberg, cit. in H. Zahrnt, La sfida della moderna critica della religione, Queriniana, Brescia 1977, p. 28).
[22] Cfr., K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 290.
[23] «Come teologi dobbiamo parlare di Dio. Ma siamo uomini e come tali non possiamo parlare di Dio. Dobbiamo sapere tutte e due le cose, cioè sia il nostro dovere che il nostro non – potere, e proprio con ciò onorare Dio» (K. Barth, cit. in H. Ott, Dio, Queriniana, Brescia 1975, p. 165). 
[24] L. Pareyson, Esistenza e persona. Saggi teorici, Taylor, Torino 1970, p. 54.
[25] Cfr., A. Rigobello, Certezza morale ed esperienza religiosa, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1983, p. 84.
[26] Qui vale quello che diceva un poeta islamico: variano le vie, ma la meta è unica (G. Mandel, La saggezza dei sufi. Rûmi e gli altri mistici dell’Islam, Rusconi, Milano 1999, p. 140).
[27] Cfr., John Naisbitt, Megatrends, Sperling & Kupfer, Milano 1984. Uno storico si allinea sulla posizione di Naisbitt e scrive: «Non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto» (Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, p. 674).
[28] G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p. 12.
[29] Comprendere – diceva giustamente una filosofa ebrea del Novecento – significa che la realtà, qualunque  essa sia, va affrontata in maniera spregiudicata, attenta! (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967). 
[30] Cfr., G. Marcel – P. Ricoeur, Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, Edizioni Lavoro, Roma 1998, p. 53.
[31] È fruttuoso richiamare una proposta alternativa a quella della de Il pensiero debole contenuta nell’omonima raccolta di saggi ispirata, anni fa, dai filosofi Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. All’alternativa pensiero forte/pensiero debole, c’è chi affianca una terza via: quella di un pensiero umile: Cfr., R. Repole, Il pensiero umile in ascolto della Rivelazione, Città Nuova, Roma 2007. Si tratta di un pensiero «capace di non catturare ma di mettersi in ascolto della Rivelazione» (p. 12). Il postmoderno «ha respirato fino in fondo la promessa di Prometeo» che, come sappiamo, rubò il fuoco agli déi per emancipare l’uomo. L’incanto del fuoco catturato, però, è passato nelle mani di Narciso che è «alla ricerca di una luce da non portare più sul mondo, sull’essere, sulla verità, ma sulle mille maschere che l’io può assumere» (pp. 16 – 17). Dopo l’orgoglio, la protervia di Prometeo necessariamente segue Narciso, l’io minimo (Lasch)? Repole risponde “no!”. Il nostro autore, infatti, ci riporta a Mosé che, come Prometeo, fa l’esperienza del fuoco (roveto ardente), ma vi si accosta non «con la protervia di chi vuole possederlo […], bensì con l’umiltà di chi riconosce di essere alle prese con il mistero dell’essere e della vita […]. Se Prometeo è il simbolo del pensiero forte che ha contrassegnato la modernità e se Narciso è simbolo del pensiero debole che contraddistingue la postmodernità, Mosé è simbolo di un pensiero che vorremmo definire umile, alternativo al primo e […] anche al secondo» (p. 18).
[32] La verità del Vangelo va tenuta viva, ma una teologia che mettesse totalmente in ombra le pretese e le proposte di verità di altre forme di sapere e di vita sarebbe colpevole di alto tradimento. Jüngel, interpellato sul tema, rispose: «se la teologia ha oggi ancora una funzione nel mondo è quella di tener desta la domanda sulla […] verità dell’Evangelo in primo luogo, ma anche sulla verità in tutti gli altri ambiti del vivere e del sapere» (In G. Garaventa, “L’esito della teologia”: Dio è altro dall’uomo. Intervista con E. Jüngel, in «Il Regno – attualità», 32 [2/1987]). La verità, si cerchi in ambito teologico o filosofico, deve non ritorcersi contro altri; deve essere solidale: «Quando qualcuno dice la verità senza tener conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza, ma non la sostanza della verità» (D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 309).
[33] Cfr., R. Rorty, Solidarietà o oggettività?, in G. Borradori, Il pensiero post – filosofico. Percorsi e figure della nuova teoresi americana con un’antologia di testi inediti in Italia, Jaca Book, Milano 1988, pp. 289 – 308, pp. 289 – 290.
[34] M. Novak, Nessuno può vedere Dio. Il destino comune di atei e credenti, LIBERAL EDIZIONI, Roma 2010, p. 327.
[35] Bisogna ammettere, purtroppo, che, oggi, lo «psichismo del sentire sembra l’unico, in tempi di decostruzione metafisica dell’anima, che possa garantire un contenuto concreto alla realtà spirituale e all’esperienza interiore» (P. Sequeri, Il sentimento del sacro: una nuova sapienza psicoreligiosa?, in AA. VV., La religione postmoderna, Glossa, Milano 2003, pp. 67 – 68).
[36] La questione conosce, nelle parole di uno studioso di antropologia filosofica e teologica, una formulazione chiara e corretta: «Si può affermare che l’uomo senza Dio […] sia frutto di un Dio senza l’uomo […]. È necessario, allora, ridare Dio all’uomo, per poter ridare l’uomo a Dio» (I. Sanna, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana, Brescia 2001, pp. 144 – 145).
[37] «La novità […] della fede cristiana “il Verbo si è fatto carne” costringe la teologia a sostituire gli otri vecchi della concezione aristotelico – tomista con quelli nuovi del paradigma relazionale. All’interno di questo diverso orizzonte ermeneutico, affronteremo il dialogo […] con le altre religioni. La relazione essenziale di Dio con il mondo, realizzata in Gesù di Nazaret, è principio e fondamento perché ogni uomo sia assunto in Dio. Il mistero trinitario […] vuole esprimere che Dio fin dall’eternità ha incluso l’umanità nella definizione della sua divinità. Il modello relazionale di cristologia rende ragione di come umanità e divinità di Gesù possano essere pensati insieme solo se compresi in una concezione trinitaria di Dio» (P. Gamberini, Questo Gesù (At 2, 32). Pensare la singolarità di Gesù Cristo, EDB, Bologna 2005, p. 12).
[38] Cfr., W. Kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1975, p. 165. L’“essere altro da Dio” è poter crescere spiritualmente e non pacificarci in una sterile accettazione di noi stessi. L’uomo, che per il cristiano è autotrascendimento, è chiamato «ad essere più di quanto non sia» (A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, Rusconi, Milano 1971, p.70).  
[39] G. Bataille, Su Nietzsche, Cappelli, Bologna 1980, p. 30. In un'altra opera, lo stesso autore dimostra di aver metabolizzato alla perfezione la lezione del “filosofo col martello”: «Ogni essere umano che non si spinge all’estremo è il servo e il nemico dell’uomo» (G. Bataille, L’esperienza interiore, Dedalo, Bari 1970, p. 78).
[40] Cfr., G. Marcel, Il mistero dell’essere, Borla, Roma 1987.
[41] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma – Bari 1989, p. 221. Il dolore e l’umiliazione sono elementi che hanno contribuito molto, nel Novecento, a mostrare come gli uomini possono sentirsi solidali quando vengono posti sotto uno stesso mortifero giogo. In questi momenti, le belle architetture concettuali, teologiche o filosofiche, inceneriscono e si scopre che l’idea hegeliana di far coincidere “reale” e “razionale” viene sconfessata: «Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale: “Auschwitz” confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale» (J. – F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987, p. 38).   
[42] Cfr., L. Alici, La filosofia tra verità e sapienza, in R. Fisichella (ed.), Fides et ratio. Lettera enciclica di Giovanni Paolo II e commento teologico – pastorale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, p. 11. La teologia, ammettiamolo, si è pure giovata dell’armamentario filosofico; ecco perché, a mio avviso, ai teologi non dovrebbe rimanere sconosciuta la tesi del pensatore cattolico Jacques Maritain; era solito dire, infatti, che è stato meglio aver avuto Platone, Aristotele, Kant e san Tommaso che aver avuto solamente san Tommaso! La parte concettuale, sebbene non decisiva, è necessariamente presente nel lavoro teologico: «è certo che in quell’indagine e approfondimento della fede che costituisce la teologia, entra pure un elemento conoscitivo anche di tipo concettuale e raziocinativo» (C. Vagaggini, «Teologia», in Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Roma 1977, p. 1598).
Teologia e filosofia ci aiutino a non sottoscrivere l’intuizione di un poeta tedesco: Ein Zeichen sind wir deutungslos (siamo un segno privo di interpretazione) (F. Hölderlin, Die Nymphe, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2001, p. 1106). 
[43] D. Bonhoeffer, cit. da E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer. Una biografia, Queriniana, Brescia 1975, p. 639.
[44] Cfr., K. Barth, Momenti. Testi di meditazione, Queriniana, Brescia 2005, p. 164.
[45] Ivi., p. 119. Un uomo che abbia una sincera fede religiosa deve avere piena consapevolezza del fatto che il credo che veicola incide realmente nel mondo e non rimane quasi mai convinzione intima priva di conseguenze per gli altri. Conferisco autorevolezza alla mia tesi citando uno stimato studioso: «Le tradizioni religiose hanno un ruolo centrale […] in quanto determinanti per la definizione delle norme, i valori, i significati, per fornire il sostegno etico per la vita collettiva e per forgiare gli strumenti culturali per la cooperazione» (L. R. Kurtz, Le religioni nell’era della globalizzazione. Una prospettiva sociologica, Il Mulino, Bologna 2000, p. 15). 
[46] K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 40.
[47] Cfr., K. Jaspers, La fede filosofica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, pp. 132 – 133.
[48] A. Del Noce, Problemi del periodizzamento storico. L’inizio della “filosofia moderna”, in «Archivio di Filosofia» 1/1954, p. 189. 
[49] Cfr., G. K. Chesterton, La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento, Lindau, Torino 2010, pp. 87 – 88.
[50] Ivi., p. 85.
[51] E. Galli Della Loggia – C. Ruini, Confini. Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Mondadori, Milano 2009, p. 98.
[52] Ivi., p. 109.
[53] Harold S. Kuschner, cit. da T. L. Friedman, Le radici del futuro. La sfida fra la Lexus e l’ulivo: che cos’è la globalizzazione e quanto conta la tradizione, Mondadori, Milano 2000, p. 43. 
[54] J. H. Newman, Discorsi sul pregiudizio: la condizione dei cattolici, Jaca Book, Milano 2000, p. 374 (sottolineature nostre). La complessità, la ricchezza intellettuale ed esperienziale di questo “genio del cristianesimo” è stata esposta recentemente in una agile, ma esaustiva biografia: P. Gulisano, John Henry Newman. Profilo di un cercatore di verità, Ancora, Milano 2010.

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