Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Rieducarsi al Cristianesimo

Ho avuto tra le mani un saggio del cardinale Ruini e mi sono attardato a prendere appunti soprattutto su alcuni capitoli. Mi sono chiesto, poi, quanto del progetto da Lui disegnato – rieducarci al cristianesimo – sia possibile che io prenda in carico. Ne son venute fuori queste note a piè di pagina che vi consegno. Non propongo un commento: non seguo, nelle pagine che leggerete, pedissequamente il percorso del cardinale; tuttavia, un libro riesce quando spinge in direzioni che erano assopite in noi e non avrebbero potuto destarsi senza quello squillo di tromba! In questo, con me, il saggio di Ruini è riuscito. Spero che quanto annoto susciti in voi il desiderio di leggerlo!  
In un passo di Esperienza e educazione, il filosofo e pedagogista John Dewey, afferma che sia una persona che una esperienza, non vivono e muoiono per se stesse; infatti, se ne abbia o no il desiderio e l’intenzione, non vi è esperienza che non sopravviva in quelle future. Piegando al nostro tema questa riflessione, si può dire che l’esperienza primordiale del cristianesimo vive nelle nostre attuali forme di vita; non per nostra scelta, ma per la potenza intrinseca di quella esperienza. Chiaro che – con tale sopravvivenza – il nostro vissuto si trova ‘impegnato’ nell’esperienza cristiana quando in essa si viene ‘educati’. Qui sta il punctum dolens: oggi si educa ancora al cristianesimo? Siamo nel 2008 e, in quest’anno, il Cardinale Camillo Ruini ha scritto un saggio (lo citeremo con precisione più avanti) il cui titolo fa testo: Rieducarsi al cristianesimo! Il sottotitolo insinua – nemmeno tanto velatamente – che il compito, l’invito è urgente: Il tempo che stiamo vivendo. Posso saldare a questo riferimento il prosieguo della citazione di Dewey: «il problema centrale di un’educazione basata sull’esperienza è quella di scegliere il tipo di esperienze presenti che vivranno fecondamente e creativamente nelle esperienze che seguiranno» [1]. Se anche il cristianesimo – stando a Ruini – è questione ‘educativa’, si basa sull’esperienza: non si può non vivere da cristiani per potersi dire tali! Ma il quesito è proprio questo:
il cristianesimo attuale, nel quale sopravvive indiscutibilmente quello antico, può essere definito – per citare alla lettera il pedagogista americano – un tipo di esperienza presente che vivrà ‘fecondamente’, ‘creativamente’ nelle esperienza che seguiranno? Detto altrimenti: si potrà fondare l’educazione dell’uomo futuro sul cristianesimo inteso come esperienza ‘feconda’ e ‘creativa’? La sfida, così, è posta. Discutiamone.

Se l’uomo non è fatto per Dio, perché è felice solo in Dio? Se l’uomo è fatto per Dio, perché si rivela così opposto a Dio? (B. Pascal, Pensées, II, 169).

Iniziamo col mettere in chiaro che si trova davvero complicato far rivivere l’esperienza cristiana – per come ci giunge dalla Tradizione – nei contesti della vita odierna perché si registra la ‘perdita di una innocenza’. Quale? Ci siamo smaliziati anche grazie al troppo sapere di natura critico – storico e ci riesce quasi impossibile posare lo sguardo sul Vangelo in maniera appassionata, come se ancora ci parlasse. Potrei esprimere il concetto (onestamente aggrovigliato) che mi sta a cuore, con le parole di al – Ghazali: «Una volta abbandonata la fede tradizionale, non sperare più di tornarvi, perché la condizione essenziale di quella fede è che tu non sappia di essere tradizionalista» [2].
Se acquisiamo la consapevolezza che l’esperienza aurorale del cristianesimo sia non più rinnovabile nel vissuto odierno, educare l’uomo attingendo alla ricchezza evangelica, appare impresa non tentabile. Chi si dice ‘tradizionalista’ ha già posto una distanza (critica) tra sé e la ‘cosa’ alla quale dice di appartenere. Siamo passati, in verità, non soltanto attraverso secoli di vita improntata al cristianesimo, ma anche tra i fuochi filosofici di potenti dissacrazioni. In prima battuta, possiamo citare Kant per il quale la ‘modernità’ è l’«epoca della critica» alla quale tutto deve sottoporsi e, per il filosofo tedesco, non si fa eccezione nemmeno per la «santità della religione», né per la «maestà della legislazione» [3]; né la ‘legge divina’, né quella ‘umana’ sfuggono ad una revisione critica! Nella breve citazione kantiana, oserei, passa il senso della modernità. Due altri ‘filtri’ che hanno inteso ripulire l’animo occidentale da quelle che consideravano superstiziose scorie religiose sono Marx e Nietzsche. Dopo di loro – disonesto non ammetterlo – non si può più educare l’uomo al cristianesimo come prima. Max Weber, poco prima di morire, non a caso, dichiarò a Baumgarten qualcosa che aveva a che fare proprio con i due pensatori ai quali ho fatto riferimento. Partiva dall’assunto che è segno di grande onestà intellettuale ammetterne l’influenza profonda e travolgente che hanno esercitato sugli spiriti europei. Vale la pena lasciare al sociologo tedesco la parola: «Chi non ammette che non avrebbe potuto svolgere parti importanti del suo stesso lavoro senza tener conto del lavoro di questi due pensatori, inganna se stesso e gli altri. Il mondo nel quale noi spiritualmente viviamo è un mondo profondamente segnato da Marx e da Nietzsche» [4]. Il primo – capovolgendo Hegel – rimise il mondo, la storia sulle proprie gambe ed insinuò il sospetto (Ricoeur) che il cristianesimo fosse un subdolo aiuto ai sistemi di potere che opprimono i più deboli, i poveri. In uno scritto giunse persino a sostenere che la ‘rivolta proletaria mondiale’ avrebbe realizzato il “Paradiso in terra” [5]. Di Nietzsche è superfluo offrire citazioni!
A questo punto, pur avendo omesso altre argomentazioni, si può agevolmente porre in evidenza quale debba essere il compito di chi, come i teologi, – per parlare ancora col lessico di Dewey – voglia basare l’educazione dell’uomo futuro sull’esperienza cristiana. In un saggio di qualche anno fa, il Cardinale Ruini, scrisse con mano ferma che «per la teologia è importante aver chiaro […] l’obiettivo di mostrare la plausibilità della proposta cristiana nel contesto odierno. Ciò implica inevitabilmente un confronto anche con quelle correnti culturali che ritengono invece questa plausibilità ormai defunta»[6]. Torna, in qualche modo, l’idea di Weber: come non si possono produrre opere intellettuali se si nega il peso delle posizioni teoretiche marxiano - nietzschiane, altrettanto non è possibile, per Ruini, sforzarsi in teologia di mostrare la plausibilità della proposta cristiana nel contesto odierno, ignorando le istanze che, in tale contesto, vanno nella direzione opposta. Un gesuita francese del Novecento, uomo di scienza (era un geologo), soffrì non poco l’incomprensione della Chiesa, ma il tempo ha dimostrato che aveva ragione soprattutto quando scrisse – sto facendo riferimento a Teilhard de Chardin - «la fede ha bisogno di tutta la verità»!


Si dice che la modernità, non soltanto dal versante teoretico, abbia segnato il trionfo del ‘soggetto’; ebbene, ciò non è in netta contrapposizione con la posizione cristiana: educarsi attraverso l’esperienza evangelica non porta in una direzione diametralmente opposta. Lo attesta, laddove ce ne fosse ancora bisogno, quanto Ruini scrive nel saggio che ho richiamato qui, nella Premessa: «del concetto stesso di rivelazione fa parte il soggetto che la riceve e la comprende […] se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato» [7]. Chi ‘si rivela’ lo fa sempre ‘verso qualcuno’! Senza chi percepisce, dunque, non c’è rivelazione. Il soggetto non ha un ruolo marginale in tutto questo perché, senza qualcuno che ne faccia esperienza, non si dà ciò o Chi è da esperire. Siamo, sostengono tutte le agenzie educative del nostro tempo, nell’era dell’informazione e della comunicazione; ebbene, educare l’uomo alla comunicazione è impresa che può ricevere contributi preziosi dall’educare facendo ricorso all’esperienza cristiana che, ancora presente, è di certo ‘feconda e creativa’ (Dewey) per l’avvenire.
Cosa sto dicendo? Il teologo tedesco Gisbert Greshake ha lavorato molto per dimostrare che è dalle origini del cristianesimo che la comunicazione in esso ha un ruolo centrale. Il Dio dei cristiani, argomenta il nostro autore, non è certo un superpadre che vive solitario ‘più in alto delle stelle’ (Schiller): «Il solo e unico Dio si esprime piuttosto in una comunità, in una comunione e comunicazione che si realizza in Lui stesso e nella sua relazione con l’umanità». Studiando la portata teologica della ‘Santa Trinità’ Greshake, poi, mostra che, a partire dal Concilio di Nicea, Dio si mostra come una unità relazionale, come comunicazione in sé. Il teologo, poi, aggancia anche i percorsi teologico – spirituali di Riccardo di San Vittore e, citandolo, scrive: «Il compimento di una persona richiede la comunità con altre persone». La Chiesa è fondata sul dialogo, su l’intersoggettività che mette il fedele in grado di sentirsi in famiglia, a casa (Bernanos, scrittore cattolico del Novecento, diceva: Nella chiesa io mi sento a casa mia). Tenendo conto di queste ed altre lezioni consimili, Greshake conclude: «Dio stesso è comunicazione. Si comunica al mondo consentendogli di essere a sua volta comunicativo in modo che la creazione nel suo processo comunicativo divenga simile a Lui e raggiunga la più intima comunione con Lui. In questa prospettiva il compito essenziale della teologia è quello di realizzare la comunicazione universale» [8].

Educare l’uomo ad una sana, autentica comunicazione, dunque, può coincidere con il compito – caldeggiato da Ruini – di rieducarsi al cristianesimo nel tempo che stiamo vivendo. L’esperienza cristiana è imbevuta di riferimenti preziosi per capire cos’è ‘comunicazione’, tema che assilla ed affascina l’uomo postmoderno. La Rivelazione deve essere mostrata come un ‘fatto concreto’, ‘presente’ e la Chiesa stessa deve avere una visibilità espressa in termini che, in una intervista, ha enunciato il filosofo canadese Charles Taylor: «c’è bisogno di una Chiesa visibile, toccabile, vivibile […] che ha un ruolo dentro la società, ma non lo impone. Non usa l’apertura di credito nei suoi confronti per occupare spazi o per mettersi in concorrenza con il potere civile, ma per evangelizzare» [9]. Un riferimento all’uomo postmoderno che vive di sincretismo religioso, che frequenta i supermercati della religione per individuare quale appaghi meglio i suoi bisogni più psicologici che spirituali, bisogna darlo; e che, in più, poggi su basi solide, consolidate da una lunga Tradizione; appartenere ad essa non deve farci sentire tradizionalisti, come se fossimo in un’ampolla sigillata da secoli ed irrimediabilmente sottratta a ventate d’aria fresca. Una ‘rieducazione al cristianesimo’ deve partire dal fatto che non c’è mai del tutto l’assenza, nel cuore umano, del desiderio di Trascendenza (Albert Camus diceva che la terra stessa è disegnata in modo che il viso si sollevi, e lo sguardo domandi). Lo storico e filosofo polacco Krzysztof Pomian, pur dichiarandosi in una intervista ‘non credente’, non ha evitato di riconoscere almeno la sua curiosità verso chi crede e circa le ragioni che si hanno per credere. Ha sentenziato: «Credere nel trascendente è iscritto nei meccanismi fondamentali del funzionamento della mente umana» [10]. Qui, però, siamo allo scheletro della questione: un generico anelito all’oltre ci abita giù, fino alle radici.
Andare verso il Trascendente è anelito religioso, non è fede; quella cristiana, infatti, inizia non da un movimento umano, ma da un abbassamento divino. A che condurrebbe lo sforzo di viaggiare verso l’Oltre se posto tutto sulle spalle dell’uomo? Avremmo unicamente una erranza senza sosta, senza traguardo. Lodevole fatica, ma inutile, sterile: «Il camminare, poiché la strada è un infinito, non ha valore. Ciò che importa è l’orientamento» - ha detto Primo Mazzolari. Camminare senza meta è ciò che spetta a chi aderisce ad una religione fai da te; esperienza – nella lingua tedesca – significa sì ‘viaggiare’, ma non si può dire che viaggia chi va in giro senza sapere dove né perché. Educare al cristianesimo l’uomo significa aiutarlo a guarire dall’ansia, tutta postmoderna, di doversi considerare un vagabondo senza bagaglio, uno che gira a caso senza portare con sé alcuna provvista di senso, né una cartina che lo aiuti a trovare un porto di vera pace; essere pellegrino, invece, significa sapere che si sta andando nel luogo di Dio e come ci si deve arrivare. Rieducare l’uomo al cristianesimo significa, allora, sia mostrargli un dio che è comunicazione in sé, sia una meta che ci toglie l’etichetta squalificante di ‘vagabondi’ e ci promuove a ‘pellegrini’ che non camminano per una strada infinita rendendo l’andare privo di valore, ma che hanno la ricchezza dell’orientamento. Sapere da Chi, dove stiamo andando è fondamentale per invitare ‘altri’ a camminare con noi; se i cristiani non mostrano che la loro fede è un’esperienza – come diceva più in generale Dewey – ‘feconda e creativa’, sarà difficile che gli uomini del tempo che stiamo vivendo tendano a far rivivere nelle loro esperienze quella che non riesce bene a noi di vivere. Non è, insomma, l’annuncio di un cristianesimo tiepido, opportunisticamente edulcorato, che fa ben sperare circa l’incontro con ambiti di vita drammaticamente scristianizzati. Lo studioso della modernità Robert Spaemann ha sottolineato la necessità di non snaturare il cristianesimo che si annuncia perché la realtà è questa: «Paradossalmente attira di più la presentazione di un messaggio cristiano forte, rispetto a certi annacquamenti». Stiamo passando, aggiunge, da una Chiesa di massa ad una Chiesa che inquadra i cristiani come minoranze creative. Si legga così: cristiani in minoranza, sì; ma si tratta di persone che non sono tali per pigro ossequio alla tradizione, bensì per scelta. Si tratta, conclude Spaemann, di credenti «che hanno scelto personalmente e convintamente la via della fede, e non per sola tradizione» [11].

Minoranza creativa (Spaemann), chiesa visibile, toccabile, vivibile (Taylor): vivere personalmente, con convinzione la fede in una chiesa che si fa vedere, ma non si impone; che si fa toccare perché tutti vi partecipano ed è vivibile perché anima in se stessa il dialogo senza sterili autoritarismi e senza infecondo irenismo. Una Chiesa che partecipi alla vita mondana non necessariamente deve essere mossa da intenzioni punitive, coercitive o accomodanti. Possiamo anche pensare che un indebolimento istituzionale della Chiesa giochi notevolmente a favore del messaggio cristiano. La questione è stata esposta in uno studio sulla storia della ‘Teologia politica’:
«Immerse nel gioco del potere, le chiese sono sempre una potenza fra altre potenze, una istituzione fra altre istituzioni: la loro voce profetica diventa inudibile nella ridda di voci della battaglia politica di posizione […]. La perdita della stabilità istituzionale è un’opportunità per il cristianesimo […]. Infatti, l’impegno speso a difendere l’istituzione […], la partecipazione al gioco delle potenze significa un’inesorabile perdita di concentrazione sul nucleo soteriologico del cristianesimo. In realtà, è come se l’indebolimento istituzionale delle chiese cristiane, sotto la spinta della modernizzazione e della cosiddetta ‘secolarizzazione’, potesse liberare la strada a un inatteso rafforzamento della fede» [12]. La chiesa deve essere forte, non dura. Essa, diceva Berryer, i colpi li riceve senza renderli (non conosce durezza crudele), ma – ammoniva – state attenti: la Chiesa è (qui la forza buona) «una incudine che ha logorato molti martelli». Se la minoranza creativa dei fedeli deve operare nella Chiesa per il bene di essa e per quello del mondo, occorre – da parte della gerarchia ecclesiastica in particolare – fare in modo che divenga preoccupazione costante il desiderio di Giovanni XIII espresso in questi termini: «Vogliamo rendere la Chiesa talmente bella, che tutti se ne innamorino e desiderino entrarvi».
Minoranza o no, aggrappiamoci alla Croce, la Cattedra di Cristo, per educare l’uomo affinché senta il desiderio di vivere l’esperienza cristiana. Solo alimentandoci al Cristo troviamo la forza per animare una retta pedagogia evangelica: «A me basta questo Dio appeso a quattro chiodi» - dichiarava coraggiosamente il poeta Paul Claudel! Essere cristiani deve diventare un vero e proprio, oserei, stile di vita!
Il teologo Christoph Theobald parla proprio di christianisme comme style: un modo di essere, parlare, agire nella postmodernità affinché in essa incida significativamente il ‘marchio cristiano’ [13]. Se il nostro stile cristiano sarà accettato, si avrà modo di arricchire la minoranza creativa alla quale alludeva Spaemann. Un modo di parlare che esprima uno stile cristiano coinvolgente è quello che si dà in forma narrativa: si deve mostrare che raccontare il Vangelo è un modo di educare l’uomo a sentirsi nuovamente ‘immagine di Dio’. Grandi guasti derivano dal non poter più assumere, a modello educativo, l’antropologia cristiana e proprio in contesti culturali segnati da filosofie tendenti, per lo più, verso la valorizzazione della persona. Nel citato Rieducarsi al cristianesimo, precisa Ruini: «il carattere antropocentrico della cultura è stato […] messo in discussione […]. Mi limito a ricordare la tendenza dello strutturalismo […] a considerare l’uomo piuttosto come una struttura accantonando come ormai superato il discorso sulla persona, fino allo slogan della “morte dell’uomo”: il senso è che l’umanesimo sarebbe un fenomeno culturale ormai superato» (pp., 38 – 39). L’esperienza cristiana, invece, che ha come riferimento anche la Scrittura, va in altra direzione… decisamente umanistica. Ancora Ruini: «è bene ricordare in primo luogo che tutta la Sacra Scrittura ci parla dell’alleanza tra Dio e l’uomo, ha Dio e l’uomo come poli del suo discorso […]. Essa contiene dunque […], una specifica e speciale antropologia, un discorso sull’uomo fatto dal punto di vista di Dio e in funzione di condurre l’uomo a Dio. Nel Nuovo Testamento questo discorso sull’uomo assume un carattere totalmente cristologico e cristocentrico, da cui emerge con il massimo della forza l’unità di Dio e dell’uomo in Gesù Cristo» (p. 37).

Assodato è che non è ‘necessario’ ispirarsi esclusivamente a certe filosofie, ideologie per costruire ed educare l’uomo: anche il cristianesimo ha una lezione importantissima da offrire! Coraggiosamente occorre proporre l’impianto teologico (in particolare cristologico) nei contesti odierni. È stato significativa mente ricordato che l’uomo vero «non abita lungo il perimetro delle culture esistenti», ma «sta più in alto, ci trascende» [14]. Tutto questo, però, non può non passare attraverso l’analisi del filosofo e sociologo delle religioni Frédéric Lenoir. A suo dire, infatti, il cristianesimo – assieme ad altre religioni – sperimenta una profonda metamorfosi. Nel passato, tuttavia, ha mostrato di saper affrontare i cambiamenti mai a scapito della propria identità fondamentale rintracciabile nell’elemento cristico che lo studioso ritiene essere «il punto cardine della storia umana» [15]. Due, secondo Lenoir, sono gli ‘ostacoli’ che minacciano il cristianesimo futuro:
1) sbiadisce sempre più, in generale e non soltanto in Occidente, la memoria religiosa; si avrà un futuro unicamente se verrà conservata una memoria collettiva. L’individualismo religioso, il ripiegamento delle credenze in ambito privato sono pericoli reali. L’amnesia del religioso, ad ogni modo, per lo studioso, è ‘parziale’ anche se le religioni si riducono sempre più «a referenti identitari vuoti o» a «serbatoi simbolici ad uso di individui che in maniera più o meno profonda o superficiale compongono il loro personale dispositivo di senso» (Ibid.). 2) Ortodossi, cattolici, molte chiese protestanti ritengono che solo in Gesù gli uomini trovano la salvezza. Egli è l’unico mediatore tra ‘noi’ e ‘Dio’! «Una simile posizione» – per Lenoir – stride drammaticamente con le istanze di un tempo nel quale viene esaltata «la relatività di ogni verità» e che confina nella storicità gli eventi religiosi (p. 326). Cosa costituisce, dunque, il quesito cruciale per la teologia cristiana? La «possibilità – risponde lo studioso – di mantenere la propria unità, coerenza e identità, facendo nel contempo evolvere la propria teologia cristologica ed ecclesiologica in una direzione che gli permetta di prendere in considerazione il pluralismo religioso» (Ibid.). Qui si salda la lezione di Ruini scolpita a chiare lettere nel Suo saggio: la teologia deve essere consapevole dei limiti del proprio discorso.

Se, però, si indebolisce la pretesa di riconoscere in Cristo la sola possibilità di salvezza, il cristianesimo si riduce ad un’etica esplicitata in una vaga speranza riguardo ad un futuro di pace e d’amore. Il filosofo Richard Rorty, infatti, ha sostenuto che il suo senso del sacro («nella misura in cui ne possiedo uno») risiede interamente nella ‘speranza’ che «in un millennio indeterminato» si possa vivere in una civiltà globale la cui sola legge sarà amare senza sforzo [16]. Nella storia del cristianesimo si è registrata una grande apertura verso il mondo contemporaneo grazie al Concilio Vaticano II; ebbene, ammesse le positive novità che in esso hanno preso forma, resta da dire che un ottimismo facile risulterebbe – tenuto conto di quanto avviene nelle società occidentali e negli ambiti del sapere – improponibile oltre che deleterio. Lo stesso Paolo VI, con impareggiabile onestà, dichiarava: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza» [17]. Una ricca quanto sintetica disanima delle questioni ‘serie’ apertesi finanche tra le belle novità conciliari è stata offerta da un attento studioso della teologia postconciliare e vale la pena ripercorrere, passo passo, la sua illuminante esposizione: «il messaggio del Concilio […] si trovò, per certi aspetti, immediatamente spiazzato da una nuova ondata di pensiero, proveniente soprattutto dall’ambiente protestante americano, che, appropriandosi della sentenza di Nietzsche, si autodefiniva “teologia della morte di Dio”. Era un pensiero che esasperava la situazione di forte secolarizzazione creatasi nella nostra cultura […]. La recente ideologia si coniugava nel post Concilio a un crescente interesse per la politica […]. Si sosteneva che ormai era impossibile parlare di Dio nel mondo contemporaneo […] e che l’unico modo di essere credenti era quello di dare testimonianza della fede attraverso la lotta per la giustizia. Questo forte movimento di pensiero, che trovò un terreno fertile nel mondo giovanile e in molti settori della nostra società e della nostra cultura, trovò la Chiesa impreparata. Ne derivarono crisi, che i più conservatori attribuivano tout – court al Concilio. La realtà andava invece ricercata nella profonda svolta culturale […] di fronte alla quale era ovvio che anche la Chiesa si trovasse impreparata» [18]. Con le conseguenze di questi sconvolgenti scenari ancora dobbiamo fare i conti ed in essi – con ciclopiche difficoltà– rinegoziare la rieducazione al cristianesimo.

La povertà insinuatasi nel cuore della ricchezza conciliare, dunque, impone umiltà teologica che mai deve convertirsi in umiliazione e, poi, in rinuncia ad evangelizzare. C’è da riconoscere al nostro modo di fare teologia come caratteristica dominante una componente esodale, di uscita non aggressiva né presuntuosa verso gli altri. Il pastore valdese Fulvio Ferrario ha fatto bene a sottolineare come «non solo la teologia, ma la fede stessa è fides viatorum, cammino di pellegrini, i quali inoltre non possiedono la mappa dell’itinerario, ma procedono giorno per giorno, accompagnati dalla presenza di Dio, come il popolo dell’Esodo. L’aspetto lieto e quello impegnativo, o anche tragico, di questo messaggio non sono separabili» [19]. C’è un impegno da mantenere nella tragicità di un messaggio di fede che si declina in dimensione esodale: camminare anche a fianco dell’umanità non ‘educata’ cristianamente, giorno per giorno… Il conforto deve venire unicamente da quella precisazione di Ferrario: si è pellegrini, ma accompagnati dalla presenza di Dio! Si tende, per lo più, a portare il ‘messaggio’ nei contesti odierni e si rischia di operare forzature che riescono odiose, offensive alle coscienze non educate cristianamente; allora, si può tentare una strada diversa suggerita dal teologo valdese: «il compito teologico […] – a suo dire – non consiste in primo luogo nel tradurre il messaggio biblico nelle categorie caratteristiche dei diversi contesti culturali, bensì anzitutto nell’operazione inversa: leggere le realtà a partire dalla storia della libertà d’amore di Dio» (p. 53). A ben pensare, si tratta di mostrare che c’è davvero un modo altro di intendere il cammino della Storia, la formazione dell’uomo; non è forzando il dettato biblico – come se la questione fosse risolvibile costruendo un letto di Procuste – entro i contesti odierni che si rieduca al cristianesimo, bensì mostrando che la novità cristiana non smette di essere tale anche nel mondo contemporaneo. La fede non deve ‘adeguarsi’ alla realtà, ma leggerla con occhi nuovi, diversi e solo così catturerà l’attenzione dei non cristiani. Non sono completamente scomparsi i nutrimenti teologici che la modernità ha tentato, proprio servendosi di essi, di esorcizzare. Ha ragione, a mio avviso, lo studioso di filosofia politica Armin Adam: la modernità (e, perché no, la postmodernità) «è pur sempre condizionata da ciò che crede di essersi lasciata alle spalle, cioè: da modelli teologici» [20].

Di quanto sopravvive dei ‘modelli teologici’ occorre tirar fuori il meglio se vogliamo rieducare e rieducarci al cristianesimo. Compito urgente non solo perché sollecitato da ambienti non ostili alla nostra fede, ma soprattutto perché stiamo entrando sempre più in quello che un uomo politico cattolico del Novecento ha identificato come disumanesimo. Con poche, ma grevi pennellate, così esplicitava la propria convinzione: «Dal macchinario industriale si è passati al macchinario sociale, in cui gli uomini sono rappresentati da schede, come numeri da casellario; dall’era industriale all’era amministrativa signoreggiata dalla macchina burocratica» [21]. Il trono reso vacante dalla ‘morte di Dio’ è stato inesorabilmente occupato da queste ‘forze brute’. Non si può più vivere, perciò – conclude il nostro autore – in modo da voler che si svolga «il dramma senza il protagonista, che è Dio, col risultato di abbandonarci all’antagonista, che è Satana. La lotta è dura: il cammino della croce sbocca alla morte, ma come balzo alla risurrezione» (p. 158). Ecco su cosa insistere per far comprendere la reale alternativa, ai problematici, complessi contesti odierni, insita nella nostra fede: non si disconosce l’esistenza e l’amarezza della Croce, ma si afferma – nel contempo – che solo attraverso essa possiamo balzare, realmente, alla Risurrezione! Non c’è soltanto la ‘morte’ ad occupare realisticamente la scena dell’evento cristiano; c’è, nel futuro, la fondata Speranza di superarla; invece, sugli scenari del nostro tempo, pare che la morte sia l’ultima parola e l’unica dimensione – ignota e terrificante – nella quale ci sia consentito saltare. La ragione (debole) postmoderna vede tiepidamente grigio e, più forzatamente, nero; la novità cristiana, invece, dilata le capacità razionali umane e tende a proiettarci su scenari maggiormente capaci di ospitare la Speranza. Ruini, nel saggio che ci sta provocando a pensare, scrive che è proprio «questo il senso di quel programma di “allargare gli spazi della razionalità” che Benedetto XVI propone con insistenza e che riguarda sia la ragione scientifica sia la ragione storica. Questo programma implica il duplice convincimento che la rivelazione di Dio in Gesù Cristo offre alla ragione un aiuto prezioso per proseguire il suo cammino» [22]. Tutto quanto educa (o rieduca) l’uomo fondando sull’esperienza cristiana, non escludendo le zone problematiche di tale progetto, tende a superare il fondo pessimistico, cupo sul quale oggi si tende a costruire l’esistenza. Albert Camus, sebbene si dichiarasse ateo e ci abbia lasciato capolavori filosofico, letterari e teatrali imbevuti di pessimismo, non esitava ad affermare: Quello che non posso perdonare alla società contemporanea è di essere una macchina per trascinare gli uomini alla disperazione.

Credo che la fede cristiana abbia nella Croce la forza che può allargare – con la propria portata scandalosa – la ‘razionalità umana’; inoltre, nell’evento Risurrezione ha la spinta escatologica che rivitalizza la speranza. Rieducare l’uomo su queste basi, allora, ci porta a riconsiderare – seminando nel solco teologico aperto da uno studioso del Novecento – morte e Risurrezione di Cristo come «una memoria pericolosa e liberatrice, che continua a sollecitarci oggi affinché ci ricordiamo non di un qualsiasi futuro, ma di quello descritto nella vita di Gesù […], che ci induce continuamente a cambiare dietro l’impulso di questa memoria, così che possiamo corrispondergli»; tale memoria, dunque, «opera effettivamente in maniera pericolosa in una società stabilita, tranquilla e attiva in determinati rapporti di dominio» [23]. Si può richiamare l’esperienza della Teologia della Liberazione: il Vangelo è dalla parte dei poveri e, dunque, si può educare alla speranza, all’impegno contro l’oppressione la popolazione sudamericana invitando a guardare al paradigma evangelico. Chiaro che non tutto, in questa posizione teologica, sia condivisibile; vi sono devianze che non vanno taciute. Salviamo certamente, però, la potente carica di riscatto dalle prepotenze dei poteri forti contenuta in una educazione alla vita cristiana. La Chiesa è talmente vicina all’uomo concreto che non condanna del tutto simili posizioni teologiche, ma è talmente fedele alla Verità da non consentire nemmeno che in esse si annidino pericolose corruzioni. La posizione equilibrata, giusta da assumere di fronte ad una teologia che individua nell’esperienza cristiana fermenti preziosi per l’educazione alla libertà è stata espressa il 13 marzo del 1986 in un intervento di Giovanni Paolo II: «Purificata da elementi che potrebbero adulterarla, con gravi conseguenze per la fede, questa teologia della liberazione è non solo ortodossa, ma necessaria» [24]. La memoria pericolosa della Speranza donata in Cristo all’umanità va pure declinata in maniera ‘particolare’ in ambienti bisognosi di educare al cristianesimo per opporsi a quanto opprime ed offende l’uomo, ma la fede non deve mai lasciarsi abitare da elementi che potrebbero adulterarla. Posta questa premessa, c’è da dire, in tutta tranquillità, che soltanto la memoria pericolosa e liberatrice cristiana rappresenta l’antidoto efficace contro il ripiegamento nell’anima, nel privato di un cristianesimo alquanto snaturato che perde visibilità, tipica di una fede vissuta ed articolata in dimensione comunitaria: si lascia spazio a quanto diseduca e disumanizza se la fede cristiana diventa – per riprendere l’espressione di un sociologo – invisibile [25].
Si tende sempre più a cacciare Cristo (Rosa Alberoni) dagli ambienti vitali; non ultima l’esclusione di riferimenti cristiani nella Costituzione dell’Unione Europea che ha fatto parlare, si badi, uno studioso ebreo, di cristofobia [26].C’è la paura che affermare un dio forte come quello ebraico – cristiano minacci l’atmosfera discorsiva nella quale principalmente ama respirare un impianto etico contemporaneo; c’è la paura che essere titolari di una fede integra possa scadere nell’integralismo. Va detto, in realtà, che il ‘vero credente’ non pensa di avere Dio in tasca; ed è significativo che sia stato un intelletuale non tenero verso il cristianesimo attuale a dover ricordare che il ‘dubbio’, la ‘crisi’ non sono luoghi dell’animo non frequentati da chi ha fede. Camminiamo, per un po’, in compagnia dell’autore al quale alludo.
Lo studioso di Diritto costituzionale Gustavo Zagrebelsky – in un recente saggio – sfata un luogo comune: il dubbio non è la condizione esclusiva nella quale vive il laico! D’altra parte, un conto è ‘essere nel dubbio’, un altro è l’essere ‘scettici’. Il giurista coglie ed espone magistralmente la differenza tra le due situazioni: «Essere […] nel dubbio, ma non nella schepsi, significa avere convinzioni, ma non cedere alla superbia fino al punto di non essere disposto a metterle in questione» [27]. La stessa Bibbia, in fondo, non rinuncia a mostrarci finanche un ‘eroe della fede’ alle prese con dubbi, paure, incertezze… Zagrebelsky, infatti, chiude il saggio richiamando l’esperienza del profeta Elia sull’Oreb (1Re 19, 11 – 13): lì Dio si rivela come una voce di silenzio sottile! Non – come accade in altri momenti – nel fuoco, nella tempesta…
Da qui il nostro autore conclude che si può proporre in democrazia soltanto un dio che non schiacci con la propria potenza. Il dio che parla ‘debolmente’ al profeta mostra che nemmeno un ‘uomo di Dio’ può avere la pretesa di affermare: ho sentito chiaramente, senza alcuna possibilità di equivoco, quanto il Signore vuole che io faccia. Il giurista italiano, attingendo ancora alla Sacra Scrittura, stavolta cita il verso 12 del Salmo 62: Una parola ha detto l’Eterno, due ne ho udite; ciò significa, per il nostro autore, «il dubbio, l’assillo di non avere bene compreso, che è la condizione esistenziale di chi vive nella fede (solo chi crede in qualcosa può dubitare, infatti)» (p. 165). Chi non crede non può nemmeno dubitare! La fede ha in se stessa la possibilità del dubbio. Credo di poter affermare che più di un saggio teologo non esiterebbe a trovarsi d’accordo con una simile tesi. A proposito del rapporto dilemmatico Cristianesimoò - Europa, Zagrebelsky ha le idee chiare e, anche su questa posizione, non riesco a polemizzare. Scrive: «diamo al cristianesimo il posto che gli spetta nella storia spirituale europea, non come tutto, bensì come parte di un tutto assai più vasto e composito; riconosciamo alla Chiesa il pieno diritto di partecipare […] alla definizione delle nostre identità collettive, ma in parità morale con ogni interlocutore, senza che il nome cristiano giustifichi alcuna pretesa d’incontestabilità» (p. 78). Il problema è che si può sperare di vincere la cristofobia mostrando che, da cristiani, siamo disposti a riconoscere che l’anima europea va educata anche riconoscendo i meriti della cultura araba, islamica, ebraica e non soltanto quelli ascrivibili ai valori evangelici; non bisogna, in più, sentirsi – solo perché ci si può dire ‘cristiani’ – in diritto di togliere o elargire patenti di moralità agli altri: l’incontestabilità pretesa è uno dei generatori più potenti e sempre in funzione di cristofobia! Mostrare che siamo testimoni di un dio che parla soltanto nella tempesta, nel fuoco, ma non nel vento sottile, quasi nel silenzio, non solo equivale a tradire l’insegnamento biblico, ma anche a porsi sullo stesso piano di molte altre religioni che riteniamo false: l’uomo religioso vuole dio dalla propria parte perché ne desidera la potenza; il cristiano – come dicevo sopra citando il poeta Claudel – è uno al quale basta questo Dio (Cristo) appeso a quattro chiodi.
Il credente che vuole mostrare il vero volto del cristianesimo e suscitare negli altri il desiderio o di educarsi o rieducarsi guidati dal Vangelo, deve mostrare che Dio ci incontra anche al centro delle nostre incapacità, debolezze, infermità. Un teologo luterano del Novecento ha scritto parole illuminanti per evidenziare quella che potremmo definire la differenza cristiana (E. Bianchi): «Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo; Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare. In questo senso si può dire che l’evoluzione verso la maggiore età del mondo, con la quale si fa piazza pulita di una falsa immagine di Dio, apre lo sguardo verso il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo grazie alla sua impotenza»  [28].

Impotenza, debolezza, non sono categorie, attenzione, da assumere – riguardo l’annuncio e la testimonianza del Dio ebraico – cristiano – in accezione psicologica. D’altro canto, educare o rieducare al cristianesimo, può accadere soltanto facendo i conti con un fenomeno evidenziato, in un recente saggio, dal sociologo ungherese Frank Furedi: la colonizzazione di quasi ogni aspetto della vita ad opera di una nuova cultura delle emozioni; ne è segno il prevalere di un linguaggio e di pratiche terapeutiche che incoraggiano le persone a riconoscersi deboli, insicure. La vulnerabilità viene considerata caratteristica umanizzante e tutti mostrano – come accade nei talk show e nei reality – la loro fragilità interiore. Sia ha un conformismo emotivo che mira a governare le persone, a minimizzare tensioni sociali, a prevenire conflitti ed a tacitare possibili voci di ribellioni allo status quo. Tutto ciò accade grazie alla capacità, propria della cultura terapeutica, di ridefinire le questioni pubbliche come problemi privati dell’individuo. Si è pensato – scrive Furedi – che l’etica terapeutica potesse sopperire ai vuoti lasciati «dal declino della religione organizzata»; ad esempio, alcuni studi sul modo di vivere il lutto identificano nella scelta della psicologia una risposta al bisogno di trovare qualcosa che prenda il posto lasciato vacante dalla religione. Più che rieducare l’uomo ispirandosi ad un registro religioso (cristiano o no, qui non importa), lo si fascia nei pannicelli caldi di rassicurazioni psicologiche che lo mantengono convalescente, senza che sia possibile preventivare una completa guarigione. Il sociologo ungherese, a questo punto, cita il collega James Hunter, il quale si chiede: Perché la psicologia ha assunto una simile posizione egemone? Hunter trova, per se e per noi, questa risposta: “Perché la teologia in tutte le sue forme è screditata come linguaggio pubblico, la psicologia ha offerto un modo apparentemente neutrale di comprendere e coltivare le qualità migliori della personalità umana”. Qui sta il punto: c’è un innegabile (a volte motivato) scollamento tra linguaggio teologico e linguaggio pubblico; le attese vengono deluse! L’etica religiosa – leggiamo nel saggio di Furedi – non riesce a competere con medicina e psicologia che vantano titoli scientifici. Lo studioso ungherese può concludere con una ammissione che deve darci a pensare: «Non solo la religione ha perso terreno, ma è stata anche costretta a fare propri alcuni importanti elementi della cultura terapeutica. Ne prese atto esplicitamente l’arcivescovo di Canterbury, George Carey, quando si rammaricò che, nei sermoni annacquati dei ministri della Chiesa, “Cristo salvatore” stesse diventando “Cristo consigliere psicologico”» [29].

Bisogna stare sempre molto attenti – nell’educare o rieducare al cristianesimo – a non scadere nello psicologismo soltanto perché non è sbagliato, nelle cose della fede, includere le dimensioni affettive. Essere cristiani è qualcosa di concreto e che origina dal rapporto con una persona reale. Posso compendiare quanto intenderei dire citando Origene: ego Corpus Iesu Evangelium puto (considero il Vangelo Corpo di Cristo, In Ps. 147). Il nostro rapporto con il Libro, in realtà, è rapporto personale con il Verbo. Fortificati da questa certezza bisogna annunciare la Parola in modo che, come diceva un indimenticabile Pontefice, appaia «ad ognuno come un’apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un’allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni» [30]. Il futuro dell’uomo, al quale purtroppo molti giovani finanche non credono più, ha per il cristianesimo una anticipazione nella vicenda del Cristo morto e risorto. Il cristiano deve educare alla – non sembri paradossale – memoria del futuro. Cristo ci ha anticipato cosa sarà di noi e del creato nella Risurrezione. In un Documento la Pontificia Commissione Biblica ha parlato di escatologia realizzata: «significa che il cristiano è obbligato a vivere ora in vista del futuro che la fede nella risurrezione anticipa e desidera pienamente»; battersi concretamente qui ed ora: a questo educa o rieduca chi porta o riporta al cristianesimo. Continua il Documento: «Gesù si è impegnato a combattere la malattia e la fame proprio in ordine a quella liberazione finale da ogni male che sarà raggiunta al momento della perfetta unione con lui» [31]. Cristo insegna a vivere amando il tempo senza disprezzare l’eternità e ad amare l’eternità senza disprezzare il tempo: li mette entrambi in relazione armonica essendo ‘vero Dio’ e ‘vero uomo’! È Lui la ‘vera novità’ della e nella Storia: Cristo «ci ha recato ogni novità portandoci se stesso» - scriveva acutamente Ireneo (Adversus Haereses IV, 34, 1). Cristo ci ha mostrato che Dio è dialogo in se stesso, apertura e, quindi, educarci al vero cristianesimo è quanto di più aderente vi sia all’esigenza primaria del nostro tempo: l’ecumenismo. Mettere in dialogo le varie voci. Per entrare nel futuro adeguatamente educati ai valori del riconoscimento della pluralità, alla fondamentale importanza di animare una sana ed autentica ‘vita comunitaria’, nulla di meglio che voler sperimentare il Dio ebraico – cristiano.

Non è un caso che i vescovi di Navarra e del Paese Basco, in un documento che risale alla Pasqua del 1986, abbiano registrato delle affermazioni che fanno comprendere come educarsi alla vita guardando al Dio – Trinità, sia la sola possibilità di alimentarsi ad un credo che incoraggi l’amore, la condivisione, il rispetto dell’altro. Ecco il testo che merita la nostra attenta meditazione: «Quando noi cristiani confessiamo la Trinità di Dio, vogliamo affermare che Dio non è un solitario, chiuso in se stesso, ma un essere solidale. Dio è comunità, vita condivisa, dedizione e donazione reciproca, comunione gioiosa di vita. Dio è insieme colui che ama, l’amato e l’amore. Confessare la Trinità non vuol dire soltanto riconoscerla come principio, ma anche accettarla come modello ultimo della nostra vita. Quando affermiamo e rispettiamo le diversità e il pluralismo tra gli esseri umani, in pratica confessiamo la distinzione trinitaria di persone. Quando eliminiamo le distanze e lavoriamo per realizzare l’uguaglianza effettiva tra uomo e donna, tra i fortunati e gli sventurati, tra i vicini e i lontani, affermiamo nella pratica l’uguaglianza delle persone della Trinità. Quando ci sforziamo di aver “un cuore solo e un’anima sola” e di imparare di mettere tutto in comune, perché nessuno abbia a patire l’indigenza, stiamo confessando l’unico Dio e accogliamo in noi la sua vita trinitaria» [32] .

Per affidarci ad una conclusione che possa invitarci a meditare oltre le pagine del mio lacunoso contributo, non trovo di meglio che saccheggiare da un saggio nel quale si studia il rapporto tra cattolicesimo e società moderna. Si cerca, in definitiva, di individuare il senso della nuova evangelizzazione. Per Campanini, l’autore, si tratterà di inaugurare un movimento in avanti più che di un recupero di elementi antichi; si richiede, cioè, l’elaborazione di una nuova cultura, di una nuova missionarietà e non soltanto la ricerca di nuove piste per la pastorale. La Chiesa si trova, per il nostro autore, in mezzo al guado: deve chiudere un lungo percorso e, senza patire la “sindrome del torcicollo”, aprirne uno nuovo. «Quasi tutto è da inventare» - sentenzia Campanini. A questo punto, ci vengono poste innanzi tre piste: 1) L’evangelizzazione si rinnoverà non più passando, in maniera preponderante, per le strutture (famiglia, scuola…), bensì maggiormente attraverso le coscienze:
«L’attuale società occidentale è […] fortemente individualista […], la presa delle strutture sui singoli si fa sempre più debole»; 2) Saranno sempre più i laici a promuovere l’evangelizzazione: «La nuova missione sarà laicale o non sarà»; ciò, precisa, non perché vi sono meno sacerdoti. Spessore considerevole si dovrà conferire, inoltre, al genio femminile che, per Campanini, rimane «risorsa in larga misura ancora inesplorata dalla stessa chiesa»; 3) Una mediazione fra ‘parola’ e ‘silenzio’ sarà necessaria al movimento dell’evangelizzazione. Troppo frastuono e ridda di voci scomposte e confuse agitano la società. Il nostro autore auspica, perciò, la creazione di oasi di silenzio e ciò presuppone un ruolo centrale da attribuire alla pedagogia del silenzio [33].

Ho riflettuto sulla prima parte del saggio di Ruini ben oltre il tempo necessario per stendere queste pagine. Ogni testo è una riscrittura, ma spero che il mio intervento sia stato foriero di qualche novità rispetto al testo che l’ha ispirato. Ad ogni modo, credo che, dopo una fatica teologica, vi siano sempre e comunque domande nuove e vecchi quesiti rimasti insoluti; non c’è sapere umano che sia esaustivo. La teologia non è la fede, ma il pensiero della fede e, perciò, chi pensa può sbagliare. Il grande scrittore di aforismi, il polacco Stanislaw Lec, a chi gli chiedeva se ‘fosse un credente’, rispondeva: Dio solo lo sa! Certezze che potrebbero scatenare presunzioni non ne deve avere chi intende rieducare al cristianesimo – a partire da se stesso – gli uomini del nostro tempo. Una sola ambizione mi concedo e lo faccio citando alla lettera il grande teologo e geologo gesuita Teilhard de Chardin: Non ambisco ad altro, che essere gettato tra le fondamenta di ciò che crescerà. Se non mi è dato di essere nutrimento, che io sia almeno seme!  
      

         



[1] Cit. in a. porcarelli, Cammini del conoscere, Giunti, Firenze 2008, p. 88.
[2] Cit. in e. r. dodds, I Greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 243.
[3] Cfr., i. kant, Critica della ragion pura, UTET, Torino 1967, p. 65.
[4] Cit. in w. hennis, Il problema di Max Weber, Laterza, Bari 1991, p. 193.
[5] Cfr., id., «Discorso sul congresso dell’Aia», in k. marxf. engels, Critica dell’anarchismo, Einaudi, Torino 1974, p. 99. La posizione cristiana, però, non può accettare queste pretese interamente intramonda ne. Un Documento del Vaticano, argomenta: «L’ordine giusto, creato attraverso i mezzi politici, non può soddisfare tutti gli aneliti del cuore umano. L’impegno morale della Chiesa per l’amore del prossimo nelle diverse sfere della comunità umana, può raggiungere le più profonde aspirazioni dello spirito umano. Le tradizionali opere di carità della Chiesa, su livello individuale e istituzionale, possono ispirare l’ordine politico a riconoscere la bellezza trascendente e il destino ultimo della persona umana creata da Dio» (pontificia commissione biblica, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, p. 191).
[6] c. ruini, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti, Mondadori, Milano 2005, p. 57. La Chiesa, pur dialogando col ‘mondo’, non può ignorare che deve la Sua stessa vita ad una realtà che non produce da sé, ma la riceve dalla grazia di Dio. Ci spieghiamo con le parole illuminanti del Pontefice, Sua Santità Benedetto XVI: «la Chiesa non trae la sua vita da se stessa, ma dal Vangelo ed è a partire dal Vangelo che essa non cessa di orientarsi nel suo peregrinare» («Ad Conventum Internazionalem», La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa (16. 09. 2005). AAS 97 (2005), p. 956.  Il Vangelo dà la vita perché è Qualcuno, non qualcosa!
[7] id., Rieducarsi al cristianesimo. Il tempo che stiamo vivendo, Mondadori, Milano 2008, p. 27.
[8] Cit. da franz – josef eilers, Comunicare nel ministero e nella missione. Un’introduzione alla comunicazione pastorale ed evangeliz zatrice, Elledici, Leumann (TO) 2007, pp. 13 – 15.
[9] In p. giovanetti, Europa, religioni, laicità. Dieci interviste, Ancora Editrice, Milano 2007, p. 29. Una evangelizzazione che, sia detto per inciso, deve trovare nei nuovi media occasioni per diffondersi e non motivi per attardarsi a combatterli. Come Paolo dovette faticare per farsi comprendere ricorrendo, all’Areopago, ad idee greche e citando il poeta Arato (At 17, 22 – 31), altrettanto la Chiesa, oggi, deve aver chiaro che «il primo areopago del tempo moderno è il mondo della comunicazione che sta unificando l’umanità […] l’utilizzazione dei media è diventata essenziale all’evangelizzazione […]. La Chiesa si sentirebbe colpevole davanti al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi […]. In loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi riesce a parlare alle moltitudini» (congregatio pro clericis, «Directorium generale pro catechesi» (15.8.1997), in Enchiridion Vaticanum 16, EDB, Bologna 1989, p. 844).
[10] In p. giovanetti,  Europa, religioni, laicità, cit., p. 69.
[11] Ibidem., p. 99.
[12] Cfr., a. adam, Teologia politica, Claudiana, Torino 2008, pp. 158 – 159.
[13] Cfr., c. theobald, Le christianisme comme style. Une manière de faire théologie en postmodernité, Cerf, Paris 2007.
[14] Cfr., e. balducci, L’uomo planetario, Ed. Cultura della Pace, Fiesole (FI) 1990, p. 173.
[15] f. lenoir, Le metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale, Garzanti, Milano 2005, p. 325.
[16] Cfr., r. rorty, «Anticlericalismo e teismo», in id.g. vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, Garzanti, Milano 2005, pp. 44 – 45.
[17] «Omelia per il nono anniversario dell’incoronazione» del 29 giugno 1972. In Insegnamenti di Paolo VI, vol. X. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1972, pp. 703 sgg.
[18] Cfr., s. dianich, «Prospettive per la Chiesa a quarant’anni dal Concilio», in aa. vv., La primavera della Chiesa. A quarant’anni dal Concilio Vaticano II, a cura di p. ciardella, Edizioni Paoline, Milano 2005, pp. 99 – 111; qui, p. 103.
[19] f. ferrario, Dio nella Parola. Frammenti di teologia dogmatica, I, Claudiana, Torino 2008, p. 43.
[20] a. adam, Teologia politica, cit., p. 7. Non è vano, qui, rubricare anche le sollecitazioni del Cardinal Martini: «La Chiesa deve innanzitutto saper guardare alla modernità e alla postmodernità con occhi critici e disincantati, conscia delle fragilità e ambiguità di questo processo, ma riconoscendo che in esso vi è anche spazio per la valorizzazione della libertà e dell’autonomia dell’uomo a lode di Dio» (C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare [Discorso del 6 dicembre 1996], in «Rivista del clero italiano», 1 (1997), p. 13).
[21] Cfr., i. giordani, Disumanesimo, Città Nuova, Roma 2007, p. 150.
[22] Cfr., c. ruini, Rieducarsi al cristianesimo, cit. pp. 25 – 26.
[23] j. b. metz, Sul concetto della nuova teologia politica 1967 – 1997, Queriniana, Brescia 1998, p. 73.
[24] In «Acta Apostolicae Sedis», 88 (1986), 1044.
[25] Mi riferisco al saggio di un sociologo contemporaneo che discute, in generale, i cambiamenti intervenuti nel modo di ‘sentire’ la propria religiosità: th. luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1976.
[26] Si veda l’ampio dibattito suscitato e discusso da una mente, formata nell’ebraismo, assai critica verso l’atteggiamento anti – cristiano imperante in Europa: j. weiler, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, Rizzoli (Bur), Milano 2003.
[27] Cfr., g. zagrebelsky, Contro l’etica della verità, Editori Laterza, Roma – Bari 2008, p. 155.
[28] Cfr., d. bonhoeffer, Resistenza e resa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 440; lettera del 16 luglio 1944.
[29] Cfr., f. furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 111 – 114.
[30] Paolo VI, «Voti e norme per il IV Congresso Nazionale Francese dell’insegnamento religioso» (1 – 3.4. 1964), in L’Osservatore Romano (4.4. 1964), p. 1.
[31] pontificia commissione biblica, Bibbia e morale, cit. p. 211.
[32] Il testo lo si può rinvenire in e. cambon, Trinità modello sociale, Città Nuova, Roma 2005, p.3. La stessa Parola è ricca, infinita nell’accensione del ‘senso’, ma non per questo divisa, scissa, frammentata. Scriveva Origene: «La Parola di Dio […] non è, nella sua pienezza, una molteplicità di parole; essa non è molte parole, ma una sola Parola che abbraccia un gran numero di idee di cui ciascuna è una parte della Parola nella sua totalità […]. E se il Cristo ci rimanda alle “Scritture” […] considera i libri della Scrittura un unico rotolo, perché tutto ciò che è stato scritto di lui è ricapitolato in un solo tutto» (In Johannum V, 5 – 6).
[33] Cfr., g. campanini, Quale fede nella stagione della post-modernità, Portalupi Editore, Casale Monferrato (AL) 2004, pp. 15 – 17.

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