AVVERTENZA:
In questo testo passo in rassegna alcuni autori allo scopo di organizzare un medagliere di idee riguardo all’uomo mediatico/informatico che, a mio avviso, rappresenta la nuova e predominante configurazione antropologica. Il testo, dunque, si articola non nella forma di un discorso rigoroso, lineare. Riporto i momenti essenziali di un discorso pronunciato a Pompei, nel maggio del 2010, sul tema “Media, Rete, Computer: l’uomo mediatico/informatico”. Ritrovandomi tra le mani le schede dei riferimenti utili per la mia introduzione al dibattito pompeiano, ho deciso di dare un ordine diverso al mio intervento di allora e, laddove possibile, di ampliarlo. Offro, dunque, nomi di studiosi e posizioni teoriche che possano aiutarvi ad accendere un certo interesse per il tema della Comunicazione legato profondamente all’Antropologia ed all’Etica. Alla fine della mia riflessione asistematica, pur di conferire ad essa un tono più scientifico, accompagno un elenco di libri che sarebbe bene, almeno in parte, riuscire a leggere.
***
La comunicazione è meno frequente della felicità, più fragile della bellezza: basta un nulla a fermarla o a spezzarla tra due soggetti (E. Mounier)
Lo scrittore Herbert George Wells (1866 – 1946), sosteneva che, un “futuro” preparato male, porta ad un “progresso” destinato a configurarsi come “barbarie”. In un suo romanzo del 1898, The Sleeper Awakes (L’addormentato si sveglia), definiva l’uomo medio un “addormentato” che, risvegliatosi, si accorge di essere una marionetta della cospirazione di una setta di intellettuali. Oggi, chi si risvegliasse dalle “seduzioni mediatico – informatiche”, si renderebbe conto di essere una marionetta, imbottita di informazioni, nelle mani dei new media. Wells era dotato di sguardo profetico e, perciò, scrisse: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Questo brano è stato citato da Valéry, da Mayer, da Benjamin. Aggiornandolo, possiamo dire che l’uomo mediatico/informatico, senza sforzi, si vede arrivare in casa una enorme quantità di ‘immagini, informazioni…’ che, però, come i “suoni” dei quali parlava il nostro autore, subito ci lasciano. Il sociologo Luhmann – riguardo alla “comunicazione di informazioni” – giunge a dire che non gli uomini formano la società, bensì essa è costituita solo di comunicazione. Sono i media ed il rapporto che abbiamo con essi le questioni fondamentali da porre nell’agenda delle discussioni da affrontare con urgenza e miranti a conoscere il “mondo della complessità”! Il trionfo del digitale, dell’informatica, dei mezzi di comunicazione impongono, rileva Flusser nel saggio La cultura dei media, una nuova ontologia ed una nuova antropologia. Si tratta di ridiscutere l’idea che abbiamo di realtà, mondo e di uomo. Siamo quelli che Baudrillard definisce uomini dell’opulenza: ci circondiamo, preferibilmente, di “oggetti” (per lo più tecnologico – informatici) e non dei nostri simili. Il tempo che stiamo vivendo, per l’autore francese, è quello degli oggetti (aggiungerei, insistendo, “soprattutto di natura mediatico – informatico”). I “modelli antropologici” li domina la logica tecnologica (Pinkus). Ci dobbiamo interrogare nuovamente sull’essere e su noi stessi tentando di capire cosa sono e come funzionano i media. Marshall McLuhan sosteneva l’impossibilità di comprendere i “mutamenti sociali e culturali” se si prescinde da questo sforzo conoscitivo.
Una civiltà democratica si salverà solo se farà del linguaggio delle immagini una provocazione alla riflessione critica, non un invito alla ipnosi (U. Eco).
Tra gli anni Venti ed i Quaranta del Novecento, alcuni studiosi già lamentavano che i mass media manipolavano le persone; fa riflettere, nell’alveo di simili denunce, la convinzione del sociologo americano Charles Robert Wright: «Ogni membro del pubblico di massa è direttamente attaccato dal messaggio». L’attacco del messaggio è virulento, imprevedibile… Niklas Luhmann affermò che sono i “mass media” ad elargirci tutto ciò che possiamo sapere della società, del mondo; forse è per questo che, aggiunge, fermo restando la legittimità del ‘sospetto’ riguardo all’operato dei media, continuiamo a fondarci su di essi. Un fondarsi portato talmente agli estremi che, come scriveva il canadese McLuhan, siamo diventati un organismo che ha ora il cervello fuori dal cranio e i nervi fuori della pelle. Per il nostro autore, infatti, cosa sono la radio, il telefono? Estensioni e potenziamenti ad extra delle nostre facoltà. Il poeta francese Mallarmé sosteneva che il mondo esiste per finire in un libro. Lo studioso canadese (che lo citava) oppose che, ormai, si consegna tutto alla memoria di un cervello elettronico. Uno studioso italiano – Longo – parla di delega narrativa. In un articolo nel quale analizza lo stato della “narrazione al tempo di Internet”, spiega: «Il bagaglio dei vacanzieri è gremito di tecnologia» utile a riprodurre la realtà, a replicarla dopo averla immagazzinata. L’uomo mediatico/tecnologizzato, scrive Giuseppe O. Longo, è «affetto da bulimia comunicativa». Raccontare è compito che “deleghiamo” agli aggeggi tecnologici che ci accompagnano. In sintesi: fondiamo su media, verso i quali qualche sospetto pure nutriamo, che ci “attaccano” direttamente con i loro messaggi; inoltre, ci consegniamo ad essi perché svolgano le nostre funzioni essenziali (pensare, sentire, narrare). Tutto lasciamo finire nella “memoria di un cervello elettronico”!
[Le comunicazioni] sono apparenza e merci (G. Debord).
L’uso di alcuni media determina la direzione culturale verso la quale una civiltà volge lo sguardo. In un saggio del 1951, Harold Innis parla di sviluppo della comunicazione tenendo conto innanzitutto della crescente corrispondenza medium usato/orientamento culturale sociale. La proposizione centrale del ragionamento di Innis, recita: L’orientamento culturale di una civiltà cambia a seconda del medium usato. Le antiche civiltà, per esempio, mostrano di essere state in possesso di una cultura saldata tenacemente alle categorie di ‘tempo’ e ‘spazio’ [si pensi alla scrittura su pietra (durata) ed al papiro (leggerezza)]. La società tecno/informatica, invece, elimina entrambi! Viene abolita la memoria: il ‘messaggio’, ormai, ha una durata notevolmente compressa e viene estesamente diffuso, mentre la gamma della risposta ad esso assai si restringe. Il comandamento che l’uomo mediatico/informatico deve assolutamente osservare è sii speedy! È Paul Virilio ad affermare che, nel XXI secolo, domina l’Istantaneità delle telecomunicazioni. Passato, presente, futuro subiscono una drastica contrazione nell’istante onnipresente. Si sa che istante è in – stans, “ciò che ‘non sta’”. Impossibile pensare alla lunga durata visto che sono diventate egemoni, piuttosto, le nano – cronologie. Il tempo che consentono di vivere i media è patologico; essi, per Pinkus, non fanno che proporci una vita che si svolge come mero accumulo indebito di tensioni in rapida sequenza: non si può che rispondere scaricandosi. Prevale – per Virilio – l’estetica della scomparsa: nel “ciò che non sta” la tradizionale scansione temporale si incenerisce e ciò non può non causare guasti psichici. L’istante si dilata a tal punto, cioè, da decretare la morte dell’origine e della fine. Con la virtualizzazione, incalza il nostro autore, si può amare il lontano, non il prossimo che inquieta poiché, con la “perdita dei corpi”, si perde l’autentico contatto con l’altro! Si può esemplificare richiamando il “dilemma” che ci propone uno scrittore portoghese, Eça de Queirós, nel racconto Il mandarino. Un povero impiegato, Teodoro, comprò ancora una volta un vecchio libro al mercatino delle pulci per alleviare, con l’assidua lettura, la sua misera vita. A casa si dedicò al nuovo volume e stava per scivolare nel sonno; ad un tratto, però, venne bruscamente richiamato alla piena coscienza da un passo dell’opera che aveva sottomano: «All’estremo confine della Cina esiste un mandarino più ricco di tutti i re di cui narrano le favole o le storie. Di lui non sai nulla, né il nome, né l’aspetto […]. Per ereditare le sue immense ricchezze basta che tu suoni quel campanello sul libro, lì a tuo fianco. In quei lontani confini della Mongolia, egli esalerà soltanto un respiro; sarà allora un cadavere e tu vedrai più oro ai tuoi piedi di quanto ne abbia mai sognato la cupidigia di un avaro. Tu che mi leggi e sei un uomo mortale, suonerai il campanello?». La virtualizzazione rende fisicamente assente il prossimo e, per questo, appare più facile sopprimerlo che se fosse davanti a noi. Sara Kiesler ed i suoi collaboratori analizzarono, in laboratorio, il comportamento di persone che dibattevano gli stessi temi tentando di trovare punti comuni, di mettersi d’accordo. I gruppi che discutevano via computer (conferenze asincrone, chat online…) si insultavano con maggiore frequenza e non rare addirittura erano le bestemmie. Quelli che si confrontavano, per così dire, vis – a – vis erano più calmi e moderati. Patricia Wallace, che richiama l’esperimento nel saggio La psicologia di Internet, commenta: «Gli utenti di Internet sono sparsi per tutto il globo: i membri di una comunità virtuale […] possono trovarsi alla porta accanto così come dall’altra parte del globo […] mai nella stessa stanza, cosa che garantisce una distanza fisica sempre superiore a quella delle riunioni tradizionali. È più facile attaccare qualcuno se è fuori dal campo visivo e molto lontano; non possiamo vedere l’espressione dolente e ferita del suo volto e ci sentiamo immuni in caso di contrattacco». La Rete può contribuire al nascere di una Umanità intesa come un “tutto unico” incardinato sulla solidarietà? Vale la pena tentare questa ardita intrapresa, ma altrettanto è bene non farlo in maniera superficiale. Credo sia istruttiva la prudenza contenuta in una riflessione del sociologo Edgar Morin. Parte da un dato incontestabile: il computer ci «catapulta virtualmente a piacere in tutti i punti del globo». Si noti il peso problematico dell’avverbio ‘virtualmente’! I punti del globo vengono tutti raggiunti, ma senza effettiva compromissione (soprattutto corporea) dei soggetti. È – diremmo – una planetarizzazione virtuale lo scenario che ci si apre davanti. La domanda è inquietante: l’uomo mediatico/informatico, il sempiterno connesso con tutto e tutti, può ritenere questo status un qualcosa che sia almeno lontanamente imparentato con una autentica Umanità unita e solidale? La risposta di Morin: «Ormai tutti i frammenti dell’umanità che si sono dispersi da decine di migliaia di anni si trovano inconsciamente in connessione». Alla drammaticità di quel virtualmente sottolineato sopra, si affianca un avverbio non meno disturbante: inconsciamente. Siamo, con la Rete, virtualmente catapultati a piacere in tutti i punti del globo e, allo stesso tempo, inconsciamente connessi con tutti i frammenti dell’umanità un tempo dispersi. Cosa abbiamo, qui, di reale? Le connessioni, conclude il sociologo, «non costituiscono per nulla […] un tutto unico che si potrebbe chiamare Umanità». Perché esso possa darsi, dunque, occorre lavorare ancora tantissimo e non fidando unicamente nelle risorse telematiche. Quanto intendevamo dire è stato espresso a sufficienza; torniamo, perciò, alla questione dell’istantaneità.
[Comunicazione è] la capacità di un individuo (o gruppo) di trasmettere i propri sentimenti a un altro individuo (o gruppo) (J. Brown).
L’istantaneità delle telecomunicazioni rischia – continua Virilio – di far scomparire la “storia” e la “geografia”: la fa da padrone, ormai, l’avvento di un tempo mondiale unico che soppianta la molteplicità dei tempi locali. Chi si connette in rete in questo momento mi è, in qualche modo, anche se solo virtualmente, presente: poco importa se da noi è giorno mentre da dove ci parla l’altro/a è, invece, notte. Siamo istantaneamente e contemporaneamente connessi! I “tempi locali” svaniscono. Il pensiero individuale, l’intelligenza del singolo cedono ad un pensiero collettivo e ad una intelligenza collettiva (la Rete). Il cosiddetto Cyberspazio modifica l’assunto base della filosofia di Cartesio che inaugurava la storia della soggettività moderna. Il filosofo francese affermava cogito, ergo sum (penso, dunque sono). Con l’avvento del Cyberspazio, dal cogito (autonomo) si passa al cogitamus (pensare assieme). Il fatto è che il Cyberspazio, termine coniato da William Gibson (scrittore di fantascienza) nel 1984, genera competenze eterogenee e collettivi intelligenti deterritorializzati. Si da – come afferma Pierre Lévy – una intelligenza collettiva; essa, dunque, è distribuita ovunque e si mobilitano le competenze. Si pensi soltanto a quel fenomeno noto come instant referendum democracy (democrazia del referendum istantaneo): basta un lasso di tempo assai ristretto per sapere come e cosa pensano tutti riguardo ad un qualsiasi argomento. Indiscutibile è che, come afferma il sociologo spagnolo Manuel Castells, le “tecnologie dell’informazione”, a velocità impressionante, mutano la base materiale della società.
[Teorie e comunicazione] La maggior parte delle teorie messe in circolazione sul mercato si conforma a un modello immediatamente funzionale alle esigenze di manipolare l’opinione pubblica in una direzione prestabilita (J. Heller).
Cosa mutano, cosa generano le informazioni, le opinioni che a velocità elevatissima ci raggiungono? Lazarsfeld e Merton sostengono che la gran quantità di informazioni rischia di formare un cittadino che si appaga di tutto ciò che sa e nulla, però, decide; rinuncia ad agire accontentandosi di essere ben informato! Essere informato leggendo, ascoltando la radio, guardando la televisione, attingendo alla Rete, è un atteggiamento che costituisce, per i nostri autori, un surrogato dell’azione. Migliorare l’informazione? D’accordo. Il rischio, insistiamo, è che si può verificare un triste fenomeno: le energie che avrebbero potuto trovare impiego nella partecipazione vengono interamente dedicate all’acquisizione della conoscenza passiva. Siamo inevitabilmente avvolti in quelle che Regis Debray definiva mediasfere. Lo studioso individuava tre periodi: nel primo prevale la “mediasfera” logosfera (periodo della cultura trasmessa oralmente); nel secondo la grafosfera (civiltà della scrittura); infine, abbiamo la videosfera (oggi dominante). Tre momenti che interagiscono e non si escludono reciprocamente. Inquietante, al fondo di tutto, resta la domanda: ci sentiamo sempre più soli pure essendo continuamente connessi. Il fatto è che la comunicazione autentica, quella interpersonale, tra un Io ed un Tu, sembra ora improponibile: si ha – nei modi di comunicare odierni – uno scambio many to many (da molti a molti).
Se c’è un potere informatico, questo è proprio il potere del capitale di impadronirsi di questo mercato
(J. F. Lyotard).
Mi dà non poco a pensare un fenomeno: l’anarchia sacrosanta della Rete. A parte che una anarchia manifestata di diritto cessa di essere anarchica, va pure detto che, per quanto riguarda la Rete, nemmeno i suoi più accaniti sostenitori giustificano del tutto il diritto a rigettare norme e regolamentazioni. Berners Lee è, pensate, l’inventore del Web; eppure, non ebbe tentennamenti quando scrisse di non credere assolutamente che dal caos della Rete possa emergere – spontaneamente – un “ordine”. La Rete – concludeva – non può fare a meno di una sua politica di indirizzo, di un suo “governo”. Diamo, adesso, alcune informazioni necessarie per affrontare questi temi con più consapevolezza storica. Internet, innanzitutto, è l’abbreviazione di interconnected network (rete interconnessa). L’invenzione, avvenuta nel 1969, aveva come scopo la difesa militare e si chiamava ARPANET: una rete di computer che avrebbero comunicato tra loro anche se, volutamente o incidentalmente, alcuni fossero stati danneggiati. A documentare l’origine militare della Rete, ci pensa D. Schiller: «L’emergenza di Internet […] ebbe tanto a che fare con il complesso militare – industriale della guerra fredda». Internet venne usato per la prima volta nel 1975. Nel 1991, invece, il CERN di Ginevra, nella persona del ricercatore Tim Berners Lee elaborò il protocollo di comunicazione Hyper Text Transfer Protocol per consentire una lettura di file saltando da un punto all’altro grazie ai link (legami). Era nato il World Wide Web (www), cioè, internet. Nel 2004, poi, “O’Reilly Media” da vita al web 2.0: si possono creare e condividere, in tutta semplicità, “file multimediali”. Nel saggio Confucio nel computer Furio Colombo scrive che «il progresso tecnico non sempre è il meglio, anche se è inevitabile». Oggi la Rete non sarà il meglio (vedremo in rapida sequenza i mali che gli studiosi individuano), ma è certamente inevitabile; giova, dunque, conoscere i suoi aspetti negativi. Cogliamone almeno sei:
1) lurking: osservare discussioni senza prendervi parte, omettendo, cioè, di segnalare la propria presenza;
2) flaming: si comunica con espressioni forti, ricorrendo a pesanti insulti;
3) bombing: si inviano ad un utente un alto numero di messaggi e gli si impedisce, così, di comunicare con altri utenti; 4) hacking: si entra nelle reti protette evitando i codici segreti di accesso;
5) spamming: si adopera una tecnica per inviare messaggi certo sgraditi al ricevente (spesso di tipo commerciale);
6) spoofing: è uno pseudonimo che un utente si dà per crearsi una falsa identità in comunità virtuali. In alcuni casi si dichiara di essere del sesso opposto a quello reale.
Un allarme particolarmente accentuato, infine, procura una patologia tipicamente giapponese, ma ormai ampiamente diffusa su tutto il pianeta. C’è un nutrito numero di giovani affetti da “totale dipendenza da Internet”.
Tutto ciò che non si realizza nella comunicazione non esiste […]. La verità comincia a due (K. Jaspers).
Il termine che designa i giovani giapponesi colpiti da tale patologia è hikikomori. Compiono una vera e propria fuga nella rete! Il termine lo dobbiamo al Dott. Tamaki Saito (in Italia si occupa del fenomeno il Dott. Nardone che già cura in clinica giovani che hanno lo stesso male dei loro coetanei nipponici). Chi sono, nello specifico, gli hikikomori? Spiega Giuseppe O. Longo: «per lo più adolescenti che per mesi e anni si rifiutano di vivere una vita normale […] e si rifugiano nei contatti mediati da Internet. Il loro mondo virtuale li assorbe in misura quasi esclusiva: non fosse per le minime necessità vitali, sarebbero già scomparsi nel ciberspazio». Lo studioso italiano si affretta ad aggiungere che, senza voler scomodare casi estremi, resta ampiamente documentato che «anche l’uso moderato della tecnologia comporta conseguenze precise. Per esempio la velocità crescente degli scambi comunicativi porta a disturbi psicologici e comportamentali rilevanti: compulsione, ansia, sovraccarico mentale, irrequietezza, attesa spasmodica, distrazione da altre attività. La coazione a reagire con immediatezza crescente agli stimoli (messaggi) impedisce la riflessione e il ragionamento». Siamo frenetici in maniera assai distruttiva! Pollano sottolinea che siamo perennemente in circolazione. Vaghiamo – scrive – di canale in canale (tele realtà); di persona in persona (eros); di chiacchiera in chiacchiera e di guadagno in guadagno. Si parla con sempre più giustificata preoccupazione di autismo informatico. Si dà, in sostanza, una vera e propria – per dirla con Taddei – mentalità multimediale grazie alla quale si vedono le cose come i mass – media ce le fanno vedere. È sorta una vera e propria generazione video elettronica decisamente distante dal “reale”. Esiste addirittura un farmaco, il Ritalin, utile a contrastare quella patologia che va sotto il nome di attention deficit disorders (disturbo dell’attenzione). Ci si agita, più che agire. Chi riuscisse a procurarsi una copia del Guardian del 13 settembre 2004, troverebbe, sulla prima pagina, i risultati di una indagine condotta dall’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra in collaborazione con l’Università di Manchester. Il titolo è già un testo: Todays youth: anxious, depressed, antisocial. Sì, i giovani, oggi, mostrano essere ansiosi – depressi – antisociali. Per quanto riguarda l’incidenza del computer negli studi giovanili, poi, va detto che ha portato dei benefici, ma soprattutto non poche preoccupazioni. Il filosofo Salvatore Natoli, da professore, ha registrato, di recente, una lamentela che non può non allarmarci: «Navigare in rete, di per sé, non vuol dire divenirne operatori attivi: se ne può divenire parassiti. Non è difficile verificarlo: basta leggere alcune ricerche scolastiche dei ragazzi o la compilazione di alcune tesi di laurea per rendersi conto che sono unicamente un collage di materiali “scaricati”, senza una linea di pensiero». Una simile ammissione non abbia bisogno di commento!
Non è esagerato affermare che il futuro della società […] e la stabilità della sua vita interiore dipendono in gran parte dal mantenimento di un equilibrio tra la forza delle tecniche di comunicazione e le capacità di reazione dell’individuo (Papa Pio XII).
Sento di dover accettare, a questo punto, la lezione di Jean Baudrillard. A suo dire, infatti, sperimentiamo una virtualità senza freni. Essa, come tutti gli altri strumenti informatico – tecnologici che ci troviamo tra le mani, ci illudono che siamo in grado di padroneggiare il mondo; in realtà, esso si impone a noi per mezzo di armamentari tecnologici che ci relegano alla mera funzione di operatori. Il mondo, in definitiva, per l’intellettuale francese, ha un’aura non più sacra. Il mondo, così, più che essere l’orizzonte sacro delle apparenze, diviene il ricettacolo della merce assoluta. L’essenza del mondo, per così dire, è decisamente pubblicitaria. L’oggetto, poi, agli occhi di Baudrillard si rivela essere il superconduttore dell’illusione e del non senso. Il virtuale – inasprisce i toni il nostro autore – ha sterminato l’Altro inteso nella sua concretezza, corporeità. Baudrillard imputa alla virtualità il compimento di una sorta di “pulizia etnica” che mira a combattere e ad annientare tutte le forme di alterità. Ecco perché, rinchiusi nella prigione delle seduzioni virtuali consumate in Rete, gli hikikomori rifiutano la realtà ed il contatto con altri. E – si badi – Baudrilliard ha scritto queste cose prima che il fenomeno giapponese si verificasse. Finiremo per non distinguere più ciò che è “reale” da quanto, invece, è “virtuale”? Il filosofo tedesco Habermas ha dovuto constatare la fine della distinzione, da lui significativamente definita severa, tra facta e fiction. Chomsky non fa mancare la sua geremiade e si precipita a denunciare i guasti prodotti da una integrazione, una relazione tra soggetti unicamente digitale: essa porta, per il linguista americano, inevitabilmente ad animare una relazione astratta, a distanza; ciò, conclude Chomsky, di certo «avrà conseguenze spiacevoli sulla personalità».
Nel futuro […] i beni materiali saranno prodotti in grande quantità e potranno quindi essere virtualmente gratuiti […] mentre sembrerà sempre più ragionevole far pagare l’uso dell’informazione, che sarà la vera fonte del valore aggiunto (A. J. Cordell).
Nicholas Negroponte, nel saggio Essere digitali, scrive che verranno tempi (non lontani) in cui «guardando fuori dalla finestra potrete vedere qualcosa distante da voi cinquemila miglia e sei fusi orari. Un’ora di televisione può essere stata mandata a casa vostra in meno di un secondo. Un reportage sulla Patagonia potrà darvi la sensazione di andarci di persona». Tutto questo, però, ci fa essere più solidali con i lontani? Si tratta, qui, di conoscere davvero il mondo o non, piuttosto, di vederselo precipitare addosso in maniera rapida e confusa? Il filosofo Günther Anders – pensava alla Tv, alla Radio (immaginarsi oggi con il computer e la Rete) – anni fa sottolineava che la “casa”, ormai, «è ridotta a un container per la ricezione del mondo esterno». Accogliamo – altra perplessità – il mondo o non, piuttosto, immagini di esso? Brandelli di realtà? A quale realtà apparteniamo? Il sociologo indiano Arjun Appadurai sottolinea che i “media” istituiscono, rinunciando al legame con un territorio, dei vicinati virtuali! Quelle che definisce forme convenzionali dell’appartenenza politica vengono attinte solo accedendo a software e ad hardware! I “vicini” sono tali virtualmente e non tenendo conto del radicamento su di un territorio comune. La mutazione socio/politica rispecchia fedelmente la mutazione antropologica. È stato giustamente rilevato che non è più concesso esprimersi così: c’è homo sapiens e, in aggiunta, la tecnologia. L’homo sapiens, piuttosto, si è mutato in homo technologicus e si parla, ormai, di Anthropos 2.0 (ricalcando il Web 2.0). È indiscutibile l’assioma di Paul Watzlawick: è impossibile non comunicare. Il male è che la “comunicazione” è stata interamanete consegnata nelle mani di aggeggi e mezzi tecnologico/informatici altamente sofisticati. Come dar torto ad Armand Matterlart quando fa riferimento ad un immaginario tecnologico e lo definisce millenario? Dal seme di questo tipo di immaginario discendono i frutti delle odierne tecnologie informatiche. Il mondo ci entra in casa rapidamente e con una ingovernabile sovrabbondanza di informazioni. Sono polemico con gli apocalittici e non sono più tenero certo con gli integrati. Con i due termini Umberto Eco voleva distinguere quelli che vedono nei progressi tecnico/scientifico/informatici solo delle minacce da quanti individuano in certe forme di progresso unicamente dei benefici. A dire il vero, però, in questo momento mi danno maggiormente da pensare (mi preoccupano) i cantori delle nostre nuove magnifiche sorti e progressive un tempo individuate e cantate da Leopardi. Sarei più cauto, ad esempio, nel patrocinare l’ottimismo di Steven Clift. A suo dire, infatti, la democrazia è stata salvata in passato dalla televisione; tale ruolo soteriologico, ora, verrà svolto da Internet. I cantori entusiasti della Rete, in verità, su qualcosa già fanno retromarcia. Clifford Stoll, ad esempio, sull’impiego del PC nella scuola rivede le sue posizioni inizialmente inclinate al “sì incondizionato”: «Un computer – ammette con onestà intellettuale – non può sostituire un buon insegnante»; purtroppo, incalza, con l’elettronica digitale «gli studenti sfornano risposte senza elaborare concetti: la soluzione di problemi diventa la pressione di tasti».
Oramai il solo ostacolo alla diffusione di un’informazione uniforme nel mondo è la differenza culturale. Questa divide ciò che l’elettronica unisce (J. L. Servan – Schreiber).
Si dice che il mondo informatizzato, amministrato per mezzo dei prodigi della tecnologia, della tecnica non ha più bisogno di Dio (nemmeno come ipotesi). In realtà, di fronte ai propri ritrovati tecnico/ informatico/scientifici, l’uomo mostra di non aver reciso definitivamente i legami con la Trascendenza. Con toni decisamente mistici, riguardo ad Internet, il Prof. David Weinberger sostiene che non abbiamo ancora finito di inventare tutto quello che si può fare con questo regalo della storia (perché Internet non ha, per Weinberger, una funzionalità preconfezionata). Grandi cose vennero profetizzate riguardo alla potenza dei computer. Sapete cosa dice la legge di Moore? Venne elaborata, nel 1964, in un articolo, da Gordon Moore: la potenza elaborativa dei computer raddoppia ogni diciotto mesi! Lasciamo stare se la previsione è esatta: la questione è tecnica e ci porterebbe lontano. Interessante, piuttosto, è comprendere come l’intenzione di portare il computer verso lusinghieri traguardi non è fresca di giornata. Torniamo a Weinberger: Internet un regalo della storia! Espressione da autentico fedele del Verbo Informatico (mi si perdoni il blasfemo neologismo)! Un pessimista clamorosamente smentito riguardo al futuro della comunicazione informatica è il Presidente Ibm del 1943, Thomas J. Watson. Disse, ridete pure, di non credere che più di cinque computer sarebbero stati venduti in tutto il mondo! A tanto pessimismo, meritevole (col senno di poi) di una olimpica risata, fa da contraltare un ottimismo esagerato e che tradisce come la nostalgia di Dio venga tenuta in vita finanche con quanto pretende mostrarne l’inutilità. Sergey Brin, fondatore di Google, riguardo alla capacità dei motori di ricerca di offrirci qualsiasi informazione, disse: «il motore perfetto sarebbe come la mente di Dio». Credo che sia proprio questo il movente che spinge l’uomo mediatico – informatico a perfezionare sempre più la possibilità di accedere in ogni momento, in ogni luogo, in maniera veloce e semplice, a qualsiasi informazione: dotarsi della “mente di Dio”. Mi permetto una provocazione: cosa stiamo facendo, però, per cercare di dar vita, in noi, al “cuore di Dio”? Scusate se mi son fatto prendere la mano dalla mia passione per la teologia…
Chissà che un giorno non ci capiremo così bene che non avremo più nulla da dirci (W. Kula).
Si dice che lo strapotere del virtuale abbia generato un “processo di dematerializzazione”. Davvero, però, il computer ha condotto a tutto questo? Non lasciamoci ingannare: anche il virtuale ha bisogno di materialità. Il filosofo Maurizio Ferraris lo spiega in maniera semplice, ma esaustiva: «non abbiamo cedimenti alla moda postmoderna del sostenere che con l’informatica siamo entrati in un mondo dematerializzato. Se basta staccare la spina per spegnere un computer, si capisce facilmente quanto sia importante il materialismo anche nella sfera dell’incorporeo». Il vero problema, diciamolo, non è questo. A darci pensiero deve essere, piuttosto, la ossessiva pioggia di immagini, il prevalere del visivo! Basti pensare che già nel 1895, nel suo Psicologia delle folle, Gustave Le Bon, annotava: «le folle si lasciano impressionare soprattutto dalle immagini». Si parla di Homo videns! Daniel Bell, anni fa, sostenne che l’“estetica moderna” è divenuta sempre più una estetica visiva. Da qui discende la convinzione di Furio Colombo: il nostro è, ormai, un «mondo fasciato di immagini, ossessionato dal bisogno di vedere tutto […]. Si può lottare e morire pur di entrare dentro uno schermo, allo stesso modo in cui si lottava, una volta, per conquistare un territorio». Chi non sa che la smania di “apparire” assume in moltissime persone livelli preoccupanti? La Tv par essere, per tanti, l’unica occasione per mostrare che il loro credo è appaio, dunque sono! Eppure, l’uomo mediatico si presenta, spesso, come un solitario fruitore di immagini. Uno psicologo della percezione e studioso d’arte ha sostenuto che la televisione (ed io affiancherei ad essa il computer) ci porta, dopo una secolare evoluzione, dal fuoco dell’accampamento, dalla piazza del mercato e dall’arena all’attuale consumatore di spettacoli in solitudine. L’uomo – dicevamo sopra – non riesce a passare dall’essere informato all’essere protagonista negli eventi dei quali sa tutto. Per Lazarsfeld e Merton l’uomo mediatico finisce di cenare e, «ascoltati i suoi programmi preferiti e scorso il secondo giornale della giornata, non gli resta che andare a letto». Si finisce, denunciano i due autori, per confondere il ‘conoscere’ i problemi del giorno con il ‘fare’ qualcosa in merito ad essi.
[La tecnologia dell’informazione] sta cambiando tutti gli aspetti della vita, sta cambiando il come, il dove viviamo e il che cosa facciamo, sta modificando la nostra cultura passata, presente e futura. Sta trasformando insomma ciò che viene chiamato realtà (H. Inose – J. R. Pierce).
Ognuno si informa quanto più può e poi, quando è davanti ai problemi, resta incapace di agire. Ci si preoccupa soltanto di rimpinzarsi, in proprio, di immagini, informazioni, emozioni… C’è, così, il rischio – osserva Talbott – che il cyberspazio si dissolva in «una mera disgiunzione di universi soggettivi». Si rischia, diciamolo, di essere colpiti da autismo telematico, autismo informatico. McLuhan parlò, in generale, di idiota tecnologico. L’uomo mediatico/informatico è il destinatario di un radicale, interessante e preoccupante mutamento antropologico. Nel 1996 Jonathan Cassell, parlando di microprocessori, asserì che essi «più che cambiare il mondo, hanno cambiato il modo come gli uomini percepiscono il mondo, il modo come ciascuno di noi interagisce con gli altri, e il modo come noi ci vediamo». Cambiano i mezzi di comunicazione, i modi di comunicare e noi con essi. Si pensi a quello che definirei senso di colpa per la mancata risposta. Spiega Maurizio Ferraris: «Immaginiamo un vecchio telefono amnesico in tempi pre – segreterie telefoniche e pre – telefonini. Squillava, noi non eravamo a casa, tornavamo e vivevamo felici e senza obblighi. Oggi non è più così. Ogni “chiamata senza risposta” […] rimane registrata sul telefonino, e questa chiamata genera l’obbligo di rispondere, […] suscita la fitta di rimorsi». L’uomo mediatico, l’homo comunicans si sente in colpa se non si rende sempre reperibile. L’uomo della reperibilità obbligatoria è anche lo spettatore confuso, stordito da una ininterrotta rappresentazione spettacolarizzata di fatti che accadono in ogni parte del mondo. Rappresentazioni che ci arrivano – ripetiamo – con una velocità dannosa per la nostra capacità di ricezione. McLuhan già diceva che il mondo modellato dai nuovi media è «fatto di subitaneità»! Guy Debord, dal canto suo, asseriva che la vita delle nostre società si riduce, in fondo, ad una «immenso accumulo di spettacoli». Quando direttamente un tempo si viveva – precisa – oggi si muta in rappresentazione!
[Mezzi di comunicazione] La voce nei fili e nei ferri/ha perso l’anima (E. Fabiani).
Essere obbligati alla reperibilità; essere spettatori instancabili e voraci di una informazione spettacolarizzata; rischiare di rimanere soggetti solitari nel disorientamento prodotto dall’offerta inesauribile della Rete ci porta a dichiarare con fermezza che occorre ripensare l’antropologia filosofica e l’etica. I luoghi stessi nei quali abitiamo divengono appena un supporto sul quale depositare pubblicità, informazioni, iscrizioni varie… McLuhan sottolineava che la città, più che mostrare una dimensione funzionale, acquisisce sempre più quella comunicativa. Lo studioso canadese definì la ‘metropoli’ un’aula nella quale i “maestri” sono gli avvisi pubblicitari. Riguardo al proliferare impazzito di “elementi figurativi” che coprono quasi tutti i luoghi che frequentiamo, si chiede Gillo Dorfles: possiamo seriamente pensare che la “mente”, il “gusto”, la “capacità percettiva” e “rappresentativa” non subiscano significative (e non sempre positive) modificazioni? Si sono manifestate già agli inizi della moderna storia della comunicazione, negli intellettuali, molte perplessità. Nel 1927, commentando l’inizio, negli Stati Uniti ed in Europa, delle diffusioni radiofoniche, il drammaturgo Bertolt Brecht, parlò di trionfo della tecnica; alludeva, in particolare, alla possibilità – fino ad allora inedita – di «rendere accessibili a tutto il mondo un valzer viennese e una ricetta di cucina». La Tv, poi, produsse, con ancora più forza, un notevole processo di democratizzazione: mettere sullo stesso piano un valzer di Strauss ed una ricetta di cucina, fornire musica colta ed informazioni di basso livello culturale a tutti egualmente! Il filosofo Ferraris dice che il tubo catodico è un tubo cattolico; nel senso, cioè, che è davvero universale! Attraverso questi media, Radio e Tv, tuttavia, si possono anche lanciare messaggi pubblicitari, programmi che hanno il deprecabile scopo di essere una dittatura rosata, morbida, mascherata. Paul Felix Lazarsfeld e Robert King Merton non avevano remore nel denunciarlo: «I programmi radiofonici e gli annunci pubblicitari prendono il posto dell’intimidazione e della coercizione».
La sociologia della conoscenza è stata sostituita dall’analisi delle comunicazioni di massa […]. La relazione tra idee e gruppi sociali è stata trasformata nella relazione tra ‘pubblico’ e ‘fonti di comunicazione’
(K. Mannheim).
L’uomo mediatico, dunque, per dirla con Neil Postman, patisce una quotidiana indigestione di informazioni. Essere informati, in sé, non è un male… anzi! Essere iper – informati ed impiegare tutte le proprie energie per assumere quanta più informazioni è possibile è nocivo. I media sono buoni se informano perché si dia inform – azione (formano, cioè, per agire); sono nocivi se soltanto sommergono sotto una torrenziale pioggia di cose da sapere. È questa, forse, la ragione che faceva dire, ancora a Postman, che non si dà tecnologia che non sia al contempo “danno” e “benedizione”. La domanda fondamentale è proprio questa: in che percentuale è ‘danno’ o ‘benedizione’ quanto ci viene, in generale, dalla tecnologia? Partiamo dalla considerazione di Gilbert Simondon; a suo dire, infatti, accanto all’essere vivente prende consistenza un essere tecnico che gode di una certa indipendenza. Aggiunge, poi, che le “reti tecniche” stanno colonizzando la “sfera organica” dell’organismo e tendono a dirigerlo. Sempre più si immetteranno protesi, chip, dentro il corpo umano e questo imporrà di allestire una antropologia radicalmente nuova; il simbionte, il cyborg è ancora un uomo per come lo si è inteso fino a non molto tempo fa? L’uomo mediatico/informatico è diventato assai “complesso” e, in più, vive in un mondo, in una realtà, in una semiosfera (U. Volli) pure altamente complessa! Il mondo – affermava il sociologo tedesco Niklas Luhmann – è diventato così complesso da imporre con urgenza una riduzione della complessità: questa, cioè, deve rientrare in una dimensione che consenta di viverla come espressione di un determinato senso. Un senso che, però, il sociologo vedeva indipendente dal soggetto. La complessità dei nuovi media dipende anche dalla loro sovrabbondante produzione di informazioni, stimoli, impressioni… sì, l’uomo mediatico/informatico merita di venir continuamente soccorso a causa – come dicevamo sopra con Postman – di una quotidiana indigestione di informazioni.
[La propaganda è] una parola sconcia (R. Magritte).
Il filosofo Jürgen Habermas, nel libro Storia e critica dell’opinione pubblica, lamenta che l’umano interesse viene convogliato verso il mixtum compositum di un materiale informativo ameno che è gradevole e facile da accettare. L’adeguatezza della realtà viene sostituita dalla fruibilità consentendo di consumare, in maniera impersonale, stimoli. La distensione – aggiunge Habermas – sta in luogo dell’uso pubblico della ragione. Il pubblico, così, si divide fra “specialisti” (una minoranza) che dibattono “non pubblicamente” alcuni temi di nicchia e la gran maggioranza di consumatori. Evadere, distendersi… computer e televisione pare si affannino, per lo più, ad offrire soltanto queste due opportunità! Leandro Castellani giudica la televisione un magico “elettrodomestico”, una scatola delle meraviglie che offre la possibilità di evadere dal reale, di accedere a svaghi e sogni. Si tratta, precisa, di “offerte” un tempo appannaggio delle ‘feste sociali’, dei cantastorie che si esibivano nei mercati. Ai desideri, ai gusti, denuncia Baudrillard, subentra una curiosità generalizzata che lascia trionfare quella che battezza fun – morality il cui credo si esaurisce miseramente in due imperativi: divertitevi, provate tutto! La televisione, per questa ed altre innumerevoli ragioni, è – in moltissimi casi – una – diceva Popper – cattiva maestra. In una intervista, Karl Popper lasciava trasparire la sua preoccupazione; si diceva, sebbene liberale, convinto che la “censura” vada applicata alle proposte del mezzo televisivo. Il filosofo austriaco lamentava che stiamo educando i bambini, per mezzo della televisione, alla violenza! Sostenne che gli insegnanti sono in una situazione disperata di fronte ai guasti prodotti dalla ‘cattiva maestra’ Tv. Faceva un esempio. Ci vuole, nei confronti di quanto diffonde la televisione, “autodisciplina” e “disciplina” come si fa per il traffico stradale. Per guidare – continua ad esemplificare Popper – è necessaria la patente che, però, viene ritirata a chi guida in maniera pericolosa; ebbene, conclude, facciamo la stessa cosa per la Tv.
[La pubblicità] L’arte di esercitare una pressione psicologica sul pubblico per scopi commerciali
(P. Robert).
Il più grave errore che si possa commettere è quello di sottovalutare i rischi corsi dall’uomo mediatico/ informatico. Basti pensare che uno dei primi temi che la sociologia sviluppò riguardo alla comunicazione fu quello della “propaganda”. Nel 1952, infatti, vide la luce un saggio di Serge Tchakotine il cui titolo faceva riferimento esplicitamente alla propagande totalitaire. Alcuni autori diedero vita alla cosiddetta Teoria dell’ago ipodermico. L’iniezione intramuscolare agisce con i tessuti del corpo grazie all’iniezione diretta della sostanza; ebbene, allo stesso modo i media fanno con la massa. I mezzi di comunicazione, detto diversamente, inoculano sotto la pelle delle persone qualsiasi tipo di messaggio! L’uomo mediatico/informatico non ha più, oltre alla capacità di narrare, la voglia di rischiare per andare a vedere il mondo. È pericoloso non domandarsi se acquisire una ‘certa’ conoscenza (?) del mondo attraverso i media elettronici possa valere come esperienza. Günther Anders, riferendosi a Radio e Tv, riguardo al problema ora sollevato, era assai polemico: «dato che il mondo ci è fornito in casa, non ne andiamo alla ricerca; rimaniamo privi di esperienza». Ecco il punto: sperimentare ‘davvero’ il mondo significa non aspettare che ci venga in casa, ma andarlo a cercare, a sfidare dove si trova. Siamo un elemento del pubblico, dei numerosi utenti, degli abbonati di Tv e di Internet e non sperimentiamo la vita che conosciamo unicamente nei suoi aspetti virtuali. A proposito di pubblico, si hanno buoni motivi per accettare la tesi di Gabriel Tarde secondo la quale esso non è altro che “folla spiritualizzata”, “astratta”. Ognuno, continua, appartiene ad un ‘certo pubblico’ determinato dal mezzo di comunicazione al quale ci si rapporta. Mezzo che, conclude il nostro autore, agisce non per la forza emotiva che mette nell’argomentare su qualcosa ma, piuttosto, penetrando, un po’ alla volta, nelle nostre abitudini. Penetra un po’ alla volta… Mi viene da pensare a Wolf che parlava di effetti deboli della comunicazione di massa: essa ha effetti mediati, indiretti.
Settanta milioni di apparecchi e seicento canali televisivi ci hanno trasformato in una generazione di ‘guardoni’ […]. Il mondo bombarda il nostro cervello (J. Lahr).
La Rete, la Tv hanno mutato i nostri rapporti con il libro, con la parola stampata. Parlare di come va inteso oggi un testo in riferimento all’uso che se ne fa in Rete imporrebbe una trattazione monografica e, per questo, mi permetto di rinviare ad un libro. È una raccolta di saggi: La parola nella galassia elettronica. Il volume a più voci è curato da Massimo Baldini e Donatella Marucci, edito da Armando Editore (Roma 2005) e realizzato col contributo del “Centro di ricerca sulla comunicazione della Luis Guido Carli di Roma”. Nella sezione antologica si spiega come il word processor abbia mutato il modo di intendere il linguaggio! Nello spazio concessomi posso accogliere almeno una frase pregna di significato del testo citato. Scrive Jay David Bolter: «fino agli anni Ottanta la maggior parte degli autori e dei lettori non considerava il computer una tecnologia di scrittura. Fino all’avvento del personal computer e del word processor, la nostra cultura alfabetizzata considerava i calcolatori dei ‘macina – numeri’ per scienziati e ingegneri, o una versione migliorata di archivio a uso della burocrazia». È di recente, dunque, che ci tocca occuparci, per esempio, di ipertesto. Alcuni studiosi parlano del Digital Dilemma: il digitale presenta un dilemma, una questione problematica. Quale? Quello della Intellectual Property in The Information Age (la proprietà intellettuale nell’epoca dell’Informazione). Le accademie nazionali statunitensi hanno profuso molte energie nello studiare la spinosa questione. La questione linguaggio – Rete interessa in particolare i giovani. Morcellini scrive che sperimentano vagando tra media un nomadismo che «oscilla fra la voglia di protagonismo, discendente dal rinnovato individualismo moderno, e il disagio esistenziale di chi risente di una carestia di punti di riferimento». Si vuole essere protagonisti a tutti i costi: è il protagonismo; non si sa verso quali valori polarizzare le capacità acquisite riguardo all’uso dei mezzi di comunicazione ed informatici: è il disorientamento assiologico. In fondo, chi si lascia più, tra i giovani, guidare da quelli che un tempo erano i “romanzi di formazione”? Più in generale, poi, è interessante il problema generazionale che insorge a questo punto. Cosa sto dicendo? Penso al linguista Raffaele Simone che ci informa del fatto che siamo in quella che si può definire la Terza fase della storia della conoscenza della quale sono protagonisti, in particolare, il “computer” e la “televisione”. Stiamo, così, acquisendo nuove forme di conoscenza ma – per il linguista italiano – altre stanno scomparendo o sono già definitivamente tramontate. La cosa più interessante in questo contesto, però, Simone ce la dice sui giovani. Il nuovo clima epistemico, comunicativo ha portato all’inversione dei ruoli svolti da giovani e vecchi. Un tempo erano i vecchi ad insegnare, a trasmettere competenze; dopo il 1970, invece, i nuovi nati hanno acquisito forme complicate di conoscenza pratica (Tv, PC, Internet). Si tratta di mezzi che i giovani padroneggiano con facilità rispetto ai vecchi. Conclude Simone: «i nuovi ‘vecchi’ – quanto a esperienza e a sapere – sono oggi in molti campi i giovani». Le forme di sapere che i giovani stanno perdendo (e non pochi tra gli adulti) sono quelle che hanno a che fare con la lettura, la scrittura intese in senso tradizionale. Essere sotto la dittatura dell’immagine che scorre veloce deve pur significare qualcosa! Prendiamo ad esempio la televisione: presenta un universo a frammenti ed ogni fatto sta per conto proprio refrattario alla possibilità di legarsi ad un “prima” e ad un “dopo”. Dice Postman: nel contesto di nessun contesto non c’è più contraddizione. Tutto scorre liscio e anything goes. Tutto si concentra nel “qui ed ora” e patiamo quella che Pinkus definisce la dis – percezione del futuro: tutto si consuma nel presente. E si consuma con impressionante velocità (un particolare sul quale non si tornerà mai abbastanza). I giovani amano molto guardare in Rete ed in televisione, ad esempio, i videoclip dei musicisti preferiti. Cosa cambia questa preferenza? È Bettetini ad illustrarlo: il “videoclip” è rapido, frammenta tutto in una serie di particolari. Ecco la ragione del fatto, conclude lo studioso, che si dà sempre più una “comunicazione” che sollecita continuamente senza lasciar pensare. Young, dal canto suo, afferma che i “mass media” hanno, quale scopo primario, quello di diffondere velocemente l’informazione e poi venderla. La riducono a merce. Il mondo non viene esperito, vissuto, ma virtualmente rappresentato. Guy Debord aveva ragione: nella società dello spettacolo, quanto si viveva direttamente, ormai si è allontanato in una rappresentazione. Per arrivare al cuore del problema: il trionfo dell’iconico, dell’immagine sulla parola scritta, del videoclip sulla lettura impongono di fare una differenza. Ci affidiamo nuovamente a Raffaele Simone: «Nella visione […] il ritmo è etero – trainato dall’emittente: chi guarda è costretto a seguire un ritmo interno all’evento visivo, e non è in grado di determinarlo personalmente»; invece, «chi non capisce o non si ricorda quel che ha letto può tornare indietro a rileggere. Invece, chi ha perduto un’inquadratura di un film non può tornare indietro a ricercarla».
In realtà, possiamo rivedere sul DVD, la scena di un film; ma, diciamolo, non è questo il problema. Resta che i giovani (e molti adulti) non devono meritare la critica di Benasayag e Schmit; a loro dire, infatti, si intrattiene un rapporto con le tecno scienze di esteriorità assoluta. Tutto quanto rientra in ciò che è di natura scientifica, informatica, mediatica, è generalmente inerente alla Comunicazione, va pensato criticamente, attentamente, quanto meglio possibile va conosciuto! Neil Postman da una indicazione che ci gioverà seguire: nessun mezzo è pericoloso se gli utenti ne conoscono i pericoli. In primo luogo, va accettato che, ormai, due spazi convivono e, perciò, vanno messi in relazione. Paul Virilio ci invita ad imparare a vivere nella stereo – realtà. Sta a significare che i due spazi, “attuali” e “virtuali”, vanno praticati con equilibrio. Bisogna capire davvero cosa volesse dire Orson Wells quando affermava che la televisione scorre come l’acqua in bagno, sta accesa come la luce in cucina. Essa fluisce, è flusso. Torna il problema della comunicazione linguistica. Il “flusso”, a differenza del “testo”, non è conchiuso da confini. L’inizio e la fine vengono a dipendere dall’arbitrio del fruitore. Il “flusso” accoglie testi eterogenei; si pensi alla radio: vi sono canzoni, opere teatrali, conversazioni… Tutto s’intreccia seppure nello scorrere unitario. I media vanno conosciuti e per i “pericoli” e per le “opportunità” che da essi derivano. Capire come agiscono i media è comprendere cosa e come sono i “ritmi di vita” di una popolazione. Nel 1924 venne lanciato in Italia il primo sondaggio del mensile Radiofonia: qual era il programma preferito? Ebbene, la maggioranza degli ascoltatori /ascoltatrici scelse il segnale orario. La radio valeva come orologio sociale. Oggi la Tv organizza i ritmi di programmazione tenendo conto dei ritmi di vita della popolazione.
[Cultura e comunicazione di massa] Non si fa più né giornalismo né filosofia, ma un frastuono che assorda e occulta il vero pensiero, costringendolo a rifugiarsi nell’esilio interiore o esteriore (J. – M. Domenach).
L’americano Tony Schwartz ha sottolineato un capovolgimento interessate accaduto da tempo. Chi voleva sapere qualcosa, un tempo, spalancava le finestre per ascoltare le voci della strada; ora, all’opposto, le finestre vanno chiuse per ascoltare i messaggi radiotelevisivi estromettendo i rumori, le voci della strada. Si sentirono certamente autorizzati a tagliar fuori dalle quattro mura domestiche qualsiasi voce che dalla strada potesse gridare qualcosa di interessante i parigini che sperimentarono, nel 1881, un nuovo servizio radiofonico. Era il Théatrophone. Il servizio lanciato all’Esposizione internazionale di elettricità offriva ad un centinaio di abbonati, in diretta, opere teatrali e concerti. La televisione, poi, oltre a portare anch’essa il mondo in casa, induce con ancora più veemenza a starsene lontano dalla possibilità di esperire concretamente la realtà. Uno dei pionieri della televisione, Kurt Wagenfhür, documentò, nel 1938, che, pur tra delusioni per le scadenti immagini e per la diffidenza, il mezzo televisivo era decisamente invasivo. Si imponeva prepotentemente: «la televisione è capace di imporsi nella vita domestica con una forza stupefacente. Appena l’apparecchio viene collocato in casa e messo in funzione, si nota l’azione di alcuni meccanismi di difesa, che non sono dovuti però a un rifiuto, ma solo a un effetto di choc […]. Comunque, quasi sempre, le difese vengono abbassate rapidamente, anzi fin troppo presto». Sono parole del 1938 e paiono scritte appena un quarto d’ora fa! Restiamo ancora troppo spesso sotto effetto di choc quando osserviamo di cosa sono capaci gli oggetti mediatico/informatici. Si pensi al profluvio di immagini che ci aggrediscono; esse ci collocano in – scrive Vézin – un ambiente sfavorevole allo sviluppo dell’attenzione contemplativa. Il sociologo Zygmunt Bauman, citando Jacques Attali, qualche anno fa sosteneva che, in breve tempo, oltre due miliardi di apparecchi televisivi saranno accesi in ciascun momento della giornata.
[L’industria delle comunicazioni di massa] È una massiccia operazione di appiattimento unidimensionale degli utenti (U. Eco).
I filosofi – davanti alle questioni che abbiamo, seppur rapidamente, sollevato – devono prendere necessariamente posizione. Gianni Vattimo, nella “Prefazione” al volume di Franco Cuomo I media e la costruzione del reale, scrive che la sfida per la filosofia del XXI secolo consiste nel ripensare l’esistenza umana – ancora, la questione della libertà e della storia – in relazione al delinearsi delle potenzialità telematiche e della “smaterializzazione” tecnologica. La nozione di “realtà”, per il filosofo italiano, abbisogna di radicale ridefinizione. Gli strumenti che abbiamo vengono da Vattimo ritenuti tragicamente impossibilitati a svolgere il compito di orientarci nella “complessità telematica” che ci avviluppa. Abbiamo un “armamentario concettuale”, insiste, pieno di residui ideologici ed intrinsecamente indeboliti da patetiche nostalgie realistiche. Risulta “patetico”, dunque, concepire la “realtà” come un tempo era possibile fare. La comunicazione si è resa esasperatamente “complessa”. Il fatto è che, insegna Castells, nelle società industriali i mezzi di comunicazione erano «caratterizzati dalla diffusione massiccia di un messaggio unidirezionale dall’uno ai molti. Il fondamento della comunicazione nella società in rete, invece, è la ragnatela (web) globale delle reti di comunicazione orizzontali che consentono uno scambio multimodale di messaggi interattivi da molti a molti, in tempo reale o differito». L’etica, in tutto questo, ha un ruolo fondamentale; infatti, anche riguardo alla Rete occorre porsi la questione delle virtù! Quello che intendo dire è stato esemplarmente esposto dal filosofo Salvatore Natoli: «non c’è dubbio che attraverso la rete si può acquistare conoscenza, ma è anche vero che si può navigare a vuoto, perdere tempo […] con Internet è nata una nuova figura di perditempo, il “fannullone mediatico”». È chiaro, dunque, che si produce un guasto a livello antropologico. Girare a vuoto, fare collezione, in maniera disordinata ed ateleologica, di informazioni, nozioni, toglie il gusto per la “ricerca della verità”.
Esistono uomini e gruppi che detengono le informazioni essenziali e le adoperano senza alcun controllo. Si ripete comunemente che informazione è potere. Senza una modifica del modo di accesso alle informazioni, quindi, appare estremamente difficile pure una diversa distribuzione e gestione del potere politico
(S. Rodotà).
Vorrei chiudere con le parole di una personalità religiosa del mondo contemporaneo che ha fatto della gioia di comunicare un impegno quotidiano: Giovanni Paolo II. Durante il Suo lungo e fecondo pontificato inviò una lettera a Paolo Scandaletti per i 40 anni dell’Ucsi. Il contenuto era costituito, tra le altre cose, da una denuncia riguardo a giornali, radio e televisioni. Per il Pontefice polacco, dunque, in questi “media”, i parametri di valutazione degli eventi sono non di rado improntati più a criteri di tipo commerciale che di tipo sociale. Il sensazionale è la “categoria fondamentale”. Si attua, così, la distorsione della verità! Giovanni Paolo II invitava tutti i cristiani impegnati nel mondo delle comunicazioni ad operare in favore di un più grande rispetto della verità [1]. La mia speranza è che questo invito possa risuonare anche nelle coscienze dei non cristiani perché, in queste cose, per riprendere una espressione di Heidegger, davvero ne va della vita.
Bibliografia essenziale
Raccolte di studi:
f. colombo (a cura di), Atlante della comunicazione, Hoepli, Milano 2005.
m. stazio (a cura di), La comunicazione. Elementi di storia, discipline, teorie, tradizioni di ricerca, Ellissi, Napoli 2002.
Articoli:
l. m. pinkus, La vita in offerta speciale, in «Il regno attualità», 18 (1996).
l. vezin, La forza dell’immagine, in «Progetto», 11 (1992).
n. young, I mass – media e la morte dell’infanzia, in «Il Nuovo Areopago», 1 (1986).
Testi con più autori:
g. bettetini – f. colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, Bompiani, Milano 1999.
m. mastroianni – a. prigiobbo – d. vellutino, New media, Ellissi, Napoli 2000.
Libri fondamentali:
m. baldini, Storia della comunicazione, Newton & Company, Roma 2003.
j. baudrillard, Requiem per i media, Mazzotta, Milano 1974.
id., La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 1976.
d. de kerckhove, La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Costa & Nolan, Genova – Milano 1996.
r. lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996.
g. lughi, Cultura dei nuovi media, Guerini, Milano 2006.
w. j. mitchell, La città dei bits. Spazi, luoghi ed autostrade informatiche, Elécta, Milano 1997.
m. morcellini, Lezione di comunicazione, Ellissi, Napoli 2003.
m. mcluhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967.
n. p. negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano 1995.
n. postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
p. scaldaletti, Etica e deontologie dei comunicatori, Luiss University Press, Roma 2007.
p. virilio, Estetica della sparizione, Liguori, Napoli 1992.
jan van dijk, Sociologia dei nuovi media, Il Mulino, Bologna 2002.
[1] Il Regnante Pontefice, Benedetto XVI, dal canto Suo, nel Messaggio per la XL Giornata delle Comunicazioni (24 gennaio 2006), affermava: «L’impatto incisivo che i media elettronici in particolare esercitano nel generare un nuovo vocabolario e immagini, che introducono così facilmente nella società, non sono da sottovalutare». Nel Messaggio per la XLII Giornata delle Comunicazioni (24 gennaio 2008), Benedetto XVI tocca il tema che mi sta più a cuore: le nuove problematiche che i media generano nel pensiero antropologico: «il ruolo che gli strumenti della comunicazione sociale hanno assunto nella società va ormai considerato parte integrante della questione antropologica […]. Anche nel settore delle comunicazioni sociali sono in gioco dimensioni costitutive dell’uomo e della sua verità». Un ulteriore brano di Papa Ratzinger va accolto; anche perché, in questo segmento di riflessione, l’importanza di pensare criticamente funzioni, possibilità e rischi del new media, assume la dimensione di un invito a toccare questioni di respiro globale, planetario. Nella Lettera Enciclica Caritatis in veritate (29 giugno 2009), al n. 73, si legge: «Nel bene e nel male, [i mezzi di comunicazione sociale] sono così incarnati nella vita del mondo, che sembra davvero assurda la posizione di coloro che ne sostengono la neutralità, rivendicandone di conseguenza l’autonomia rispetto alla morale che tocca le persone. Spesso simili prospettive, che enfatizzano la natura strettamente tecnica dei media, favoriscono di fatto la loro subordinazione al calcolo economico, al proposito di dominare i mercati e, non ultimo, al desiderio di imporre parametri culturali funzionali a progetti di potere ideologico e politico. Data la loro fondamentale importanza nella determinazione di mutamenti nel modo di percepire e di conoscere la realtà e la stessa persona umana, diventa necessaria un’attenta riflessione sulla loro influenza specie nei confronti della dimensione etico – culturale della globalizzazione e dello sviluppo solidale dei popoli». Quali sono, per Benedetto XVI, infine, il senso e la finalità dei “mezzi di comunicazione sociale”? Nella stessa Caritatis in veritate e sempre al n. 73, leggiamo: «il senso e la finalizzazione dei media vanno ricercati nel fondamento antropologico. Ciò vuol dire che essi possono divenire occasione di umanizzazione non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispecchi le valenze universali».
Nessun commento:
Posta un commento