Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Perchè la Fede dà ancora a pensare

La fede è la grande amica della nostra mente, e può benissimo parlare alle scienze umane che si vantano di essere più evidenti della fede.
(Francesco di Sales, Trattato dell’amore divino)

Il cristianesimo ha davvero detto tutto? La fede pacifica tutte le inquietudini del cuore umano? In primo luogo, vorre intrudurre il dibattito a cui siamo stati chiamati chiarendo che, a mio avviso, stiamo sperimentando la fine di un “modello di cristianità”, ma il nucleo essenziale del cristianesimo ci convoca ancora ad una discussione franca e profonda. La fede, poi, ha ‘risposte’ capaci di generare nuove ‘domande’. Credo che in ogni credente convivano, accanto a certezze, molti dubbi. L’espressione dell’evangelista Marco – Signore, aumenta la mia fede – è emblematica: la fede cresce con chi crede, proprio come la Scrittura, diceva un Padre della Chiesa, cresce con chi legge.
Vi è perfetta simmetria tra i nostri percorsi di vita ed il nostro cammino di fede. Il cristianesimo, poi, rivela una “radice errante”: l’ossimoro sta a significare che, l’evento Incarnazione, si misura senza paura e senza presunzione, con i tempi nei quali va riproposto. Il pensiero non può mancare di appuntare la propria attenzione critica su “cristianesimo” (aspetto storico della questione) e “fede” (aspetto individuale) perché la ragione allarga i propri orizzonti ‘misurandosi’ con quanto pretende di eccedere la sua ‘misura’.
Prima di introdurre con più articolate argomentazioni il confronto, vorrei dire che va sovvertita una idea che prende corpo nel pensiero di Hegel: il cristianesimo è la pienezza, la fine dei giorni avendo pacificato nel suo seno ciò che il peccato aveva scisso. Il pensatore di Jena vedeva, per questo, “mondo cristiano” e “mondo moderno” coincidere; in realtà, sappiamo bene che la fede cristiana è una ‘visione altra’ rispetto al mondo nel quale si rende attuale (ne è la critica), ma pure si lascia interrogare dalle istanze avanzate da esso.
Il problematico, con buona pace del filosofo tedesco, non potrà mai staccarsi dal cristianesimo, né disertare l’ambito della fede. Leggiamo un passo di Hegel perché è la sua tranquilla visione del cristianesimo che non ci sentiamo di accettare:

«Il mondo cristiano è il mondo del compimento; il principio è giunto alla pienezza, la fine dei giorni è matura: nel cristianesimo l’idea non può vedere più nulla d’inappagato. Invero da un lato la Chiesa è per gli individui preparazione all’eternità, intesa come futuro, in quanto i singoli soggetti come tali si trovano ancora sempre nella particolarità; tuttavia la Chiesa possiede anche lo spirito di Dio presente nel suo seno, perdona il peccatore ed è il regno dei cieli fatto presente. Perciò il mondo cristiano non ha più fuori di sé, un mondo esterno assoluto, bensì solo un mondo relativo, in sé superato e riguardo al quale c’è solo da far sì che così esso anche appaia. Di qui viene che la relazione verso l’esterno non è più il fattore determinante per le epoche del mondo moderno» [1].

Da sedentari a nomadi: un modo nuovo di vivere la religione?

L’uomo religioso moderno è un nomade più che un sedentario […] non costruisce […], si accampa.
(F. Lénoir)

Il mondo cristiano è entrato in crisi e non è più accettabile che esso coincida, come voleva Hegel, col mondo della pienezza e dell’appagamento totale. Altre visioni del mondo lo insidiano! La Chiesa non è più intesa come “preparazione all’eternità” anche perché, ormai, trova largo consenso una etica del finito che si preoccupa, piuttosto, dell’esserci sciolto da ogni riferimento al Trascendente. Il mondo ‘non cristiano’ non è “superato”, ed allestisce la propria opposizione con argomenti feroci e non si può più mostrarlo come meramente “relativo” o “superato”!
Ci sono, oggi, troppe credenze, religioni che reclamano diritto di cittadinanza nell’universo religioso e non è agevole sostenere, come recita il punto di vista hegeliano, che relazionarsi verso l’esterno sia, per il crisitanesimo e l’Occidente, un fattore non determinante. Il panorama delle credenze religiose è frastagliato: l’uomo che lo abita è nomade e, piuttosto che costruire cattedrali dogmatiche nelle quali riposare, si accampa nelle tende delle convinzioni contingenti.
La Chiesa possiede certo – per riprendere Hegel – lo spirito di Dio nel suo seno, ma ciò non è più ritenuto un fatto indiscutibile. Si aprono spazi per declinare la propria adesione al religioso in maniera difforme da quella cristiana. In questo panorama complesso, frammentato, la teologia cristiana deve muoversi ripensando, non snaturando, la fede della Chiesa. L’uomo postmoderno si accampa dove trova un suolo confortevole e poco importa se in esso non possa piantarsi l’albero non sdradicabile delle certezze eterne. Il cristianesimo non è assolutamente, contra Hegel, “il principio giunto alla pienezza”, né la “matura fine dei giorni”: va ‘pensato’, piuttosto, come problematizzazione, allestita su registri evangelici, delle odierne forme di vita (non solo religiose). Solo ciò che si confronta vive; unicamente ciò che ha forza di criticare (senza astio, né pregiudizi) il luogo ed il tempo in cui vive ha futuro. Questo, a mio avviso, giustifica la necessità di collocare ai primi posti nelle agende dei pensatori del nostro tempo la “questione cristianesimo”. La “nostra fede” guarda, per sua intima struttura, al futuro. Al cuore del cristianesimo non c’è un mero fatto, bensì un avvenimento che apre un futuro inaudito. Ha detto uno dei più grandi ingegno del cristianesimo: «I fatti non sono più semplici fenomeni, ma opera ed evento. Incessantemente si crea del nuovo» [2].
La religiosità contemporanea, invece, come si evince dall’esergo di Lénoir, per lo più, è ondivaga: si costituisce attraverso un sincretismo che rasenta il disordine e risponde, per lo più, a bisogni soggettivi; il fenomenologico, lo psicologico, surclassano l’ontologico; il soggettivo soppianta l’oggettivo. Va detto che, se ciò può configurarsi come approccio liberante alle credenze religiose, l’informe paesaggio disegnato dai supermercati religiosi (ognuno vi prende ciò che occorre) genera, in chi approfondisce la questione del senso della fede, un doloroso stordimento che, non di rado, sfocia nell’ angoscia.
Uno studioso francese sostiene che viviamo nella nudità e, appunto, nell’angoscia essendo, ormai, compito di “ognuno” elaborare «per proprio conto le sue risposte» [3].
Siamo assai lontani dal poter parlare, come sopra Hegel, di mondo cristiano come mondo del compimento. La fede cristiana deve pensarsi all’interno della frammentazione dei saperi e della moltiplicazione delle visioni religiose. La stessa teologia conosce al proprio interno questo fenomeno inquadrato in un più diffuso disorientamento patito dai saperi [4].  Perso il gusto per le domande fondamentali, il vuoto lasciato dalla rinuncia ad una “interrogazione radicale” viene malamente riempito facendo ricorso ad un estetismo “disperato” e “disperante”! Si mette in atto quella che un sociologo ha definito la strategia del carpe diem [5]. Sono finiti, dunque, i tempi dell’ateismo appassionato che, almeno con la sua prepotente vis polemica, riconosceva consistenza all’avversario. Gli stessi cristiani, poi, spesso si fermano a forme di culto esteriori, evitando di approfondire “seriamente” le “ragioni della loro speranza”: accendere una candelina in chiesa non è lo stesso che accendere una matura intelligenza della fede [6]. Non si può “privatizzare la religione”; non si può ricorrere ad essa per “motivi personali”. La fede cristiana non è analgesico a buon prezzo, ma una “cura radicale” e, proprio per questo, ricordava Kierkegaard, tutti cercano di rimandarla. Il Dio cristiano ha un progetto che vive unicamente se convoca persone capaci di contagiare altri [7]; sì, ma questo presuppone attenzione agli ‘altri’ e non pensare, seminando nel solco di Hegel, che sia irrilevante per il mondo cristiano intrattenere relazioni con l’esterno! Nessuno può fare riferimento al Trascendente cominciando da se stesso! La fede è vocazione, non illusione: Qualcuno “chiama”; c’è un Tu reale che ci interpella, ci responsabilizza a seconda del tempo e del luogo nei quali l’appello si concretizza.

Cristianesimo autentico: dare il “tu” a Dio.

La fede ci è stata data come complemento della ragione per elevarci al di sopra di quest’ultima
(Claude La Colombière)

Se l’Occidente, a prescindere dalle derive che la ricerca religiosa conosce nel postmoderno, sente ancora di doversi occupare di Dio – fosse anche con intenzioni bellicose – vuol dire che la Sua Presenza o Assenza continua a procuraci inquietudini. Abbiamo, ammettiamolo, nostalgia della Presenza. Il termine “nostalgia” viene dal greco nostosalgosdolore per il ritorno (desiderato) a qualcosa, a qualcuno o di qualcosa, o di qualcuno. Il dolore per il non ritorno di Dio è denunciato, a mio avviso, proprio da quelle filosofie, ideologie che Lo combattono. Avrebbe senso battersi accanitamente con un nemico inesistente o considerato incapace di nuocere? Uno dei più accaniti sostenitori della tesi “Dio è morto”, ha scritto: «soltanto quel che non cessa di dolerci resta nella memoria» [8]. La memoria resta impressionata unicamente da ciò che torna ad essa come un pungolo che spinge alla riflessione. Gran parte del mondo odierno, però, tende a stordire quel dolore che, in qualche modo, rammemorava la “questione Dio”. L’ateismo di qualche tempo fa ha poco a che vedere, devo ripetermi perché questo è un aspetto fondamentale del problema che dibattiamo, con l’indifferenza odierna nei confronti della fede. Nietzsche sapeva, dunque, che vive in noi, resta presente soltanto quanto duole, interroga, inquieta… Ormai, chi  più  combatte con Dio corpo a corpo? Meglio cercare alimenti religiosi attingendo un po’ qua, un po’ là! Ha ancora senso parlare di ateismo? Un autorevole teologo, risponde: «Anche in passato non mancavano gli atei, ma l’esistenza di Dio era, più o meno, un dato ovvio» [9]. Che Dio non sia “ovvio”, che la fede accenda confronti e discussioni, non è male; tuttavia, il dibattito intorno alle istanze teologiche non ha lo stesso smalto di un tempo.
Disinteressa, cioè, persino mostrare, o dimostrare la non ovvietà di Dio. Cosa opporre all’indifferenza verso il “messaggio cristiano”? La questione ha inquietato più di un teologo.
In realtà, animare un cristianesimo autentico significa, oggi, fare davvero esperienza del Dio ebraico – cristiano, fino a dare a Lui del “tu” considerandoLo interlocutore reale, vivente. La cosa fondamentale, perciò, secondo Rahner, è non invitare gli uomini ad un approccio esterno, epidermico, meramente enunciativo a Dio: «se ci fosse solo un indottrinamento su Dio fatto dall’esterno, come mi si racconta che esiste l’Australia, io, in fin dei conti oggi non potrei essere cristiano» [10]. Ecco il punto: l’esistenza dell’Australia non mette in gioco quanto, invece, viene agitato nel porsi la questione dell’esistenza di Dio! Un insegnamento esterno, un indottrinamento esterno non equivalgono ad una “esperienza diretta” nemmeno in geografia; infatti, un conto è apprendere da altri che l’Australia esiste e com’è fatta, un conto recarsi sul luogo! Il problema dell’uomo postmoderno viene individuato da Rahner: si tratta di dare, convinti di aprire un dialogo vero, il “tu” a Dio [11].
La Chiesa, dunque, deve mostrare che si avvicina Dio non “unicamente” attraverso la piena accettazione di comandamenti morali ma, innanzitutto, grazie ad una “esperienza dialogale autentica” che renda possibile parlare al Totalmente Altro col “tu”: «La Chiesa, conclude Rahner, prima di inculcare molti orientamenti morali, senz’altro giusti e utili, dovrebbe sforzarsi molto di più per avvicinare gli uomini alla esperienza fondamentale di Dio» [12]. Giova non poco ricordare che anche un teologo protestante come Dietrich Bonhoeffer, dopo aver assistito alla messa solenne della domenica delle Palme in San Pietro, scrisse nel diario:
«universalità della chiesa […] credo di cominciare a comprendere il concetto di chiesa». In una predica del 29 luglio 1938, poi, ribadì: «“chiesa” è questa la parola, il cui senso noi abbiamo dimenticato e il cui splendore e grandezza noi oggi vogliamo comprendere» [13]. Come l’onesto teologo protestante tedesco, noi cattolici dobbiamo “nuovamente” sforzarci – nei confronti della Chiesa – di comprenderne lo splendore e la grandezza!

Come intendere una “cristianità nuova”?

La fede non mortifica l’intelligenza umana, ma la stimola a riflettere permettendole di capire meglio tutti i “perché” che nascono dall’osservazione del reale.
(Giovanni Paolo II)

Finisce, ed insisto molto su questo punto, una forma di cristianità, ma ciò non svilisce, nella sua intima costituzione, il cristianesimo. Si tratta di far parlare nelle modalità linguistico/concettuali comprensibili all’uomo postsecolare l’Evento “unico” dell’ Incarnazione. Ribadiamolo fino a risultare stucchevoli: una “cristianità nuova” non evoca lo spettro di una snaturalizzazione della fede cristiana; essa è configurabile unicamente rimanendo fedele ai punti fermi. Conservare non è mummificare e rinnovare non è costruire dopo aver fatto tabula rasa del preesistente. Un teologo francese ha esposto, con invidiabile chiarezza, un complesso concetto:
«Cristianità nuova […] perché la vera conservazione è una continua creazione; nuova perché nello spirito e per esso è “contemporanea” di tutte le generazioni […]» essa «precede una nuova dimensione, secondo quella umanista nella quale s’incarna. Infatti, l’Incarnazione di Dio […] dura sempre, vale sempre, vale ovunque» [14].
L’Incarnazione è l’assunzione definitiva, da parte di Dio, dell’umana condizione; l’adozione definitiva delle “realtà terrene”. Vuol dire, cioè, che anche il nostro tempo maculato da lacerante disorientamento, riguardo alla fede, può essere non meramente cronologico, ma anche kairologico.
Il “tempo opportuno” per mostrare l’eterna valenza del messaggio cristiano, cioè, può rilucere anche tra le pieghe e le piaghe di un “tempo scristianizzato”; d’altro canto, il cristiano coltiva lo sguardo profetico: legge nelle “tempeste del presente”, le “promesse primaverili” del Dio da sempre in cerca dell’uomo (Heschel)! Doveroso è rendere evidente che, come diceva Chenu, l’Incarnazione di Dio dura, vale sempre ed ovunque; tuttavia, si devono fare seriamente i conti con un interrogativo posto da una studiosa: le Chiese come «possono […] rendere sperimentabile il messaggio cristiano e inserirlo nelle decisioni pubbliche alle mutate condizioni dell’individualizzazione e del bricolage tendenzialmente sincretistico della detradizionalizzazione e dedottrinalizzazione?» [15].

Frammentazione del religioso e perdita del “Senso”

La scienza si occupa soprattutto dei fatti; la religione si occupa soprattutto dei valori.
(Martin Luther King)

Si tende sempre più a volere una credenza priva delle zavorre della “tradizione” e della “dottrina”; questo, tuttavia, si paga con l’impossibilità di rinvenire nell’esperienza religiosa una “riserva di senso” che conferisca valore all’esserci. Al fondo della radice dell’esistenza umana troviamo «il legittimo postulato di senso» ed esso si dà nell’atipica forma di «un grido in sordina, discreto, ma sempre appellante alla verità: Credi che la vita ha un senso! Chi si apre veramente a questo grido, conoscerà la sua verità» perché questa «gli si mostra» [16]. La verità del cristianesimo, dalla quale attingiamo il “senso”, fa conoscere anche la verità su noi stessi! Verità (di stampo ontologico) che nulla ha che vedere con la certezza (di stampo epistemico). Il senso che interessa il cristiano non è quello delle singole realtà, bensì quello ‘globale’, ‘totale’. Cosa sia il Senso per un vero cristiano è stato chiarito da un teologo tedesco contemporaneo:
«Il senso su cui ci interroghiamo (da non confondere con quello delle singole realtà dotate di senso) deve essere e rimanere sempre il mistero […] mai perscrutabile, mai manipolabile […]. Noi prendiamo seriamente la nostra questione di un senso totale […] riteniamo perciò l’esistenza di un tale senso universale, verso cui andiamo senza fabbricarcelo da noi, una realtà assoluta […], Dio. La questione del senso e la questione di Dio sono perciò per noi identiche» [17].
Il senso, per noi, è Dio; dunque, non un nostro prodotto, bensì dono da accogliere e che, rifiutato, non ci lascia come siamo, ma ci depaupera di molto a livello ontologico.
Nella verità cristiana ‘ne va di noi stessi’ e, dunque, aveva ragione chi ha scritto che «il cristianesimo non è cosa davanti a cui si possa restare indifferenti. Bisogna scegliere o pro o contro. Non c’è via di mezzo: ogni posizione intermedia è stata spazzata via dalla cultura moderna» [18].

Il cristianesimo va “testimoniato”, non “difeso”.

La scala della scienza è la scala di Giacobbe: termina ai piedi di Dio.
(Albert Einstein)

La cultura moderna non consente atteggiamento tiepido o pavido di fronte al cristianesimo: rifiutarlo comporta l’impossibilità di vivere come se tale gesto estremo mai fosse stato compiuto. Va precisato, tuttavia, che non è degno di lode il modo di pensare, agire di quanti, pur avendolo scelto, si consumano in una ‘apologia’ che rasenta l’ossessione.
Il cristianesimo non va difeso, bensì, testimoniato; o, se preferite, solo testimoniandolo se ne fa una “sana” e non “faziosa” o “partigiana” apologia. Stare perennemente sulla difensiva e ritenersi muratori sempre pronti a puntellare un palazzo in rovina, nervosamente installati in una infeconda paura, è ‘anticristiano’. Un sacerdote che ha sofferto un periodo di incomprensione da parte delle gerarchie ecclesiastiche, stigmatizzava l’atteggiamento di quanti difendono la fede come se fossero «interiormente rosi dal terrore che non sia poi proprio tutto vero ciò che insegnano… Gente sempre col puntello in mano accanto al palazzo che sono incapaci di custodire e della cui solidità dubitano. Non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato» [19].
Saggio è non fermarsi a quello che uno scrittore cattolico inglese ha chiamato il baluardo esterno della Chiesa perché esso, aggiungeva, è irto, rigido di insegnamenti morali, ma dentro, la vita umana vi danza come fanno i fanciulli (G. K. Chesterton). Va testimoniato, non difeso, il dentro della Chiesa e non unicamente il baluardo esterno. La forza della fede non dipende dal modo col quale forziamo le sue asserzioni. Imprigionare – per mancanza di fiducia verso quanto annunciamo – in rigide definizioni Dio, Chiesa… è vivere la fede nel modo stigmatizzato da Don Milani: in maniera difensiva e disperata.
Si finisce, volendoLo proteggere, con il porre limiti ai modi di essere, di manifestarsi di Dio. Un avvertimento, perciò, è d’obbligo: «Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti che noi stabiliamo» [20].
Se, come sopra dicevamo con Rahner, la “questione del senso” e quella di “Dio” sono la stessa cosa, entrambi ci vengono elargiti in dono e non ammettono superba gestione da parte di chicchessia.





Cosa vuol dire veramente che la Chiesa è Cattolica?

La Chiesa è l’umanità riconciliata con Dio.
(Sant’Agostino)

Uno degli equivoci che dovrebbero costantemente occupare la riflessione ecclesiologica, al fine di mostrare che la Chiesa annuncia un dio credibile, è quello che funesta il termine ‘cattolica’. Cosa vuol dire veramente? Essere “universale” conferisce alla Chiesa il diritto di parlare a tutti in maniera autoritaria e refrattaria ad ogni opposizione? Andiamo per gradi e chiariamoci. La “verità cristiana” è “universale” proprio come la “Chiesa” è “cattolica”; va detto, però, che spesso si intende in maniera distorta la cattolicità della Chiesa: quasi che essa abbia potere su tutto e tutti. In realtà, i numeri non pare giustifichino simile pretesa (accampata, per lo più, da chi è vittima di un fraintendimento). Essa non è maggioranza perché ingloba la parte più grande delle popolazioni mondiali, ma per il fatto che, pur rimanendo piccolo gregge, si dà a tutti affiancandoli nella sofferenza. Da teologo, Benedetto XVI, apportò alla questione un notevole contributo:
«In base al suo numero esteriore essa (la Chiesa) non sarà mai pienamente “cattolica”, cioè non abbraccerà mai tutti, ma rimarrà in fondo piccolo gregge […]. Ma nella sua sofferenza e nel suo amore essa continua a stare sempre per “i molti”, per tutti. Nel suo amore e nel suo patire essa supera tutti i suoi confini ed è veramente “cattolica”» [21].
La sofferenza per chi soffre, il com – patire è ciò che rende la Chiesa vicina a tutti gli uomini! La forza universalizzante, in questo caso, viene dal fatto che la Chiesa non è unicamente istituzione umana, ma è abitata, guidata dallo Spirito Santo.
È lui, infatti, ad attualizzare la Pasqua del Cristo che è sì «nato una volta sola, ha parlato, è morto ed è risorto una volta sola», ma «questa una volta sola deve trovare accoglienza, mettere radici e portare frutto in una umanità che si moltiplica e si diversifica indefinitamente attraverso le culture, gli spazi umani e lo scorrere del tempo […]. Concretamente, ciò significa che le forme che noi conosciamo, per quanto vere e rispettabili siano, non sono l’ultima parola delle realtà che esse rappresentano: i dogmi sono perfettibili, la Chiesa nelle sue strutture è un sistema aperto» [22]. Le affermazioni di Congar, alimento essenziale delle innovazioni maturate col Vaticano II, inducono a pensare come unica e definitiva soltanto la venuta, il messaggio, la morte e risurrezione di Cristo; il resto, i dogmi ad esempio, le strutture visibili della Chiesa – pur vere e rispettabili – non esauriscono definitivamente il Mistero che annunciano. Non c’è teologia, metafisica che possano pretendere di aver dragato l’incommensurabile fiume del “Mistero cristiano”. Dire – come recita il titolo del saggio di Congar dal quale abbiamo attinto – credo nello Spirito Santo, equivale a sostenere che l’immutabile verità del Cristo si inscrive, tenendo conto delle grammatiche, degli stili di vita, nelle vicende del mondo nel quale viviamo e nel quale vivranno gli uomini dopo di noi.

La “fede sconfitta” ci può “salvare”.

Non vi è altro modo di accedere a Dio se non attraverso la mediazione della fede capace di unire lo spirito che cerca e la natura divina che non può essere colta
(Gregorio Nisseno)

Potrebbero obiettare che questa posizione non è difendibile visti gli attacchi subiti dalla fede cristiana. Da questi attacchi è uscita indebolita? Non dobbiamo assolutamente temere di rispondere affermativamente. Per il cristiano la debolezza non è vergogna o cedimento dovuto a vigliaccheria. La debolezza cristiana, piuttosto, si nobilita nella impotenza del Trascendente voluta da Dio stesso per stare accanto alle creature. Perché mai, volendo sostare per un momento su di un piano fenomenico, sarebbe un errore o viltà rileggere la Storia dalla parte dei perdenti, degli sconfitti? Una “fede sconfitta” non parla ancora di più agli uomini che scontano, specialmente nel deserto assiologico, affettivo postmoderno, i postumi di cocenti delusioni post ideologiche? Un compianto testimone di un cristianesimo vissuto senza consolazioni a buon mercato, ha scritto: «La fede cristiana, per quanto sconfitta, e anzi proprio perché sconfitta, ha ancora quel briciolo di forza residuale che rende possibile una lettura della storia di sconfitte e di delusioni alla quale apparteniamo» [23]. L’uomo ha sempre bisogno, per quanto affermi il contrario, di salvezza, di sentirsi redento. Quella che uno studioso del profondo ha chiamato la fatica di essere se stessi non fa che generare depressione nella società [24]. Ci sentiamo autosufficienti, eppure sperimentiamo continuamente i nostri limiti. Si può ancora pensare seriamente ad una salvezza di costituzione mondana?
Sta di fatto che sperimentiamo una secolarizzazione della secolar izzazione: «quella contemporanea è una secolarizzazione dalla salvezza e non più della salvezza» [25]. Ci vogliamo sempre più emancipare da una salvezza donata, ricevuta. Natoli scrive queste parole nel 1999 ma, per amore di verità, il pericolo era già stato individuato e denunciato da tempo, per mano di Heidegger: «Forse il carattere distintivo di questa epoca è, proprio, in ciò: che a essa è chiusa la dimensione della salvezza, ed è forse questo l’unico suo vero male» [26]. Il male della nostra epoca, poi, è che una parte di umanità si ostina a pensare di poter essere se stessa privandosi di Dio e che la salvezza sia faccenda da affidare interamente a ricette umane, troppo umane; in realtà, la teologia, la fede, ma anche la filosofia sanno bene che l’uomo è fatto per sentire il richiamo della Trascendenza [27].

“Pensare la fede” è “adorare” il “Volto del Mistero”: Cristo!

La fede consiste nel non rinnegare nelle tenebre quello che si è intraviso nella luce
(Gustave Thibon)

Il dato innegabile è che non si possono assorbire in categorie filosofiche le provocazioni della fede cristiana. Se ripercorriamo i sentieri dell’antropologia filosofica moderna, a partire da Cartesio, ci accorgiamo che, per lo più, manca all’appello l’uomo vero, quello con “nome e cognome” (Rosenzweig)! Dopo le astrazioni del Cogito, come parlare di “serietà dell’esistenza”, di “necessità della salvezza” e di “vita eterna”? L’unica eternità che il pensiero moderno pare ammettere è – come è stato icasticamente rilevato – quella dei concetti [28]. Stiamo attenti: non si vuol dire che la fede sia aconcettuale; piuttosto, fa esplodere il concettuale fino ai limiti estremi per stabilire se sia davvero meglio intendere l’esistenza decapitata della Trascendenza. Discutere di fede, infatti, non impone di abolire ogni riferimento alla metafisica, all’argomentazione razionale; in realtà, si tratta di non abusarne. Esse forniscono possibilità comunicative alla fede, argomenti razionali appannaggio anche di quanti non credono. Parlerei della necessità di un momento metafisico – filosofico in quanto un uso prolungato dell’armamentario teoretico potrebbe ridurre il cristianesimo ad una “etica”, ad una “visione del mondo”. Un metafisico – nota opportunamente qualcuno – non può avere successo a lungo in questo campo, perché è come «se imprigionasse in una esile rete di idee la verità vivente» [29]. La fede cristiana è verità vivente perché è Qualcuno, non qualcosa; Soggetto e non concetto/oggetto! Il Dio ebraico – cristiano agisce e si compromette con le vicende umane; nulla in comune, dunque, con la testi che Platone deposita nel Convito (203), secondo la quale theos anthropos ou meignytai (Dio non si mescola agli uomini). Un pensatore è libero di denunciare la propria delusione per non aver trovato nella religione risposta soddisfacente a profondi interrogativi; tuttavia, in nome dell’onestà intellettuale, deve ammettere che nemmeno con alchimie teoretiche è andato lontano. Un filosofo che si è misurato seriamente col mistero della fede, ha lasciato una preziosa testimonianza: «nessuna delle risposte della religione mi ha convinto. Però […] nemmeno io sono riuscito a dare delle risposte […] ho un senso religioso della vita proprio per questa consapevolezza di un mistero che è impenetrabile» [30]. Il cristiano è – rispetto a Bobbio – colui il quale dà volto al mistero che non ha inteso “penetrare”, bensì, “adorare”; ma, insisto, adorazione non di un Anonimo, di un volto bensì, piuttosto, del Volto di Cristo che consente, come diceva Rahner, di dare il “tu” a Dio.

La vera fede è antinomica perché interessa la vita.

La fede si nutre di interrogativi
(Henri Fesquet)

Voler contraddire il dettato della fede non è blasfemo. Non deve scandalizzare che il nostro tempo ne evidenzi le contraddizioni interne, poiché la fede non è un teorema; non è, perciò, costretta ad ossequiare né la coerenza logica interna dei suoi enunciati, né deve inchianarsi al principio di non contraddizione. Le Scritture insegnano che la relazione con Dio non si incardina su dimostrazioni di ordine geometrico; piuttosto, sono in gioco passioni, debolezze, cedimenti. Si cade, però, sempre all’interno dello spazio delineato dalle braccia aperte di Dio. Il Dio ebraico – cristiano, perciò, non è un concetto, ma un Tu che si cala nella Storia. Da qui origina la particolarità del cristianesimo che, un anglicano convertito, non ha mancato di sottolineare: «Il Cristianesimo è impostato su una storia soprannaturale e in certo senso teatrale: ci descrive il suo Autore narrandoci i suoi atti» [31]. Si tratta di narrazione, non di speculazione.
La Bibbia, a differenza dei trattati di filosofia, non si sofferma a parlare del Bene, ma presenta uomini che lo fanno o lo avversano. Incontriamo figure, non concetti! Ci sono uomini di fede nella Scrittura che, a tratti, si rivelano capaci anche di commettere peccati che ci lasciano interdetti. Il cuore umano è davvero un groviglio di vipere (Mauriac) e la storia della Salvezza non presenta una antropologia zuccherina o esposta con eleganti eufemismi. La verità della fede non ha paura di accogliere ciò che le si oppone; la santità, nella Bibbia, non è quasi mai nettamente separata dal peccato, dalla debolezza. Alla fine, però, finanche la bestemmia – come in Giobbe – non manca di credere fermamente che vi sia un destinatario e che si tratti di Dio in quanto Tu al quale appellarsi. Ecco come si spiega che anche le figure di peccatori, nella Scrittura, conservino con evidenza i loro tratti di sinceri credenti. In fondo, diciamolo ancora, contestano, non negano Dio! Soltanto l’uomo non dei – formato è inevitabilmente de – formato [32]. Fede e peccato coesistono perché la verità della fede non è quella dell’episteme: ammette contraddizione, convivenza degli opposti, in quanto la vita stessa è per eccellenza antinomica. Sul piano filosofico, potremmo dire: «la verità anticipatamente sottintende e accetta la propria negazione […]. Tesi e antitesi costituiscono insieme l’espressione della verità; […] la verità è antinomica e non può non essere tale» [33]. Se questa configurazione antinomica della verità appare raramente nella teologia è perché, spesso, questa si ammanta di zavorre concettuali desunte dal patrimonio filosofico; in realtà, è la letteratura che può farci scoprire il “volto drammatico” della fede e come nel cuore dei credenti si agitino sentimenti, pensieri contrapposti. Un sacerdote e filosofo del nostro tempo, si dichiarò scolaro di Dostoevskij.
La caratteristica dello scrittore russo è quella, diceva, di presentare il sacro in antinomie quasi indistruttibili. Come dimenticare che, ad esempio, in Delitto e castigo, l’assassino diviene capace di pentimento ricevendo la forza per riuscirvi da una prostituta? Il sacro, qui, viene portato a  latitudini che, i più superficiali, non esiterebbero a definire ‘blasfeme’. Leggendo un episodio de L’Idiota, il sacerdote – filosofo, ne conclude: «è certo che di fronte all’elemento religioso sussistono […] elementi contraddittori […] il credente è in qualche modo stretto fra l’affermare e il negare […]. Far coesistere questo sì e questo no è il dramma mio, come credente» [34].

Conclusione


La fede è carica di tutta un’esperienza di Dio.
(Jean Mouroux)

Il vero credente non vive mai fasciato tra rassicurazioni ottenute a buon mercato; piuttosto, si esercita costantemente nella logica dei doppi pensieri. La fede pensa e dà a pensare. Credo si debba, in conclusione, fare chiarezza su di un punto: non la teologia è debitrice alla filosofia, ma questa deve riconoscere di alimentarsi alla prima. Quelle che uno dei teorici del postmoderno (Lyotard) ha chiamato le grandi narrazioni (lo Spirito, lo Stato di Hegel, il Proletariato di Marx…) sono nate dall’aver capovolto in realtà storiche le figure più potenti (dal punto di vista del senso) della teologia cristiana. Alla lunga, le “grandi narrazioni” non hanno retto, ma sotto la cenere cova ancora il fuoco teologico che le ha accese! È su questa frequenza che si è sintonizzato un filosofo italiano:
«La civiltà odierna è espressione forse culminante di quel processo di scristianizzazione che affonda le sue radici almeno nell’età dell’Illuminismo e, in tappe successive anche se non graduali, ha celebrato tutte le orge – della Ragione, dell’Incivilimento, dello Spirito Assoluto, del Progresso, della Scienza, della Storia, ecc. – cui, secondo circostanze e moda, ha fatto codazzo le grosse parole di libertà di pensiero, di laicismo integrale, anticleralismo, “religione della libertà”, e così via» [35].
Il codazzo delle grosse parole o ha diluito Dio in costrutti politico-ideologici o lo ha impallidito in figure teoretiche che hanno tutti i connotati dei fantasmi che ingombrano quelli che Kant avrebbe chiamato sogni di visionari. La Ragione ha preteso di sostituire Dio dopo aver stabilito che la “questione Dio” fosse un suo affare interno. Questo è il rimprovero che Sciacca muove all’intero blocco dei pensatori moderni: il «pensiero moderno – scrive – ha voluto fare dell’esistenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto Dio: ne ha fatto un problema di “scienza”, di conoscenza “scientifica”, non uno di vita spirituale, d’“intelligenza”, di verità» [36]. La filosofia moderna esiste, per lo più, proprio grazie all’errore evidenziato dal filosofo italiano: volendo fare di Dio un discorso non teologico, spirituale, ha preso forma, consistenza. Mi chiedo: se non fosse stato preceduto da un lascito teologico, Nietzsche avrebbe dato alla luce le sue più estreme riflessioni?
L’ateismo, l’esistenzialismo, si nutrono, in larga parte, di quanto vogliono distruggere e sono costretti ad attraversare quanto vorrebbero evitare. Lasciare ed evitare un percorso non è lo stesso! Una strada la si può evitare e, così, si finsice per conoscerla soltanto per sentito dire; per lasciarla davvero occorre averla interamente percorsa! Ora che si aprirà il dibattito sulla possibilità di “pensare la fede”, credo sia giunto il momento di esternare una mia speranza: mi piacerebbe che nessuno parlasse dei rapporti tra “filosofia e teologia” come se il loro “presunto antagonismo” desse luogo ad un “discorso infinito”, una sorta di infinito intrattenimento (Blanchot). C’è da dire, in realtà, che, fino a quando la grammatica accoglierà la parola Dio, il discorso filosofico non potrà evitarla! Discorsi “anche” filosofici, esistono, per lo più, perché provocati dal dare un certo credito a tale parola o dall’averla svilita.
La filosofia moderna si è fatta carico, direttamente o indiret tamente, polemicamente o apologeticamente, del lascito che la teologia che intendeva surclassare ha depositato, generando inquietudine, nelle menti più raffinate. In sintesi, prima di aprire un dibattito su cosa significhi pensare, oggi, la fede, credo vada meditata la tesi di un filosofo cattolico del Novecento:
«le grandi filosofie moderne, lungi dall’essere pure filosofie, hanno tratto la loro vita dai frantumi della teologia di cui si credevano eredi, e si sono caricate di molti problemi che avevano relazione con quella teologia surrettiziamente spossessata dalla filosofia» [37].
Le filosofie postmoderne, se vogliono interessare, si sentano interpellate dall’eredità teologica che, fosse pure in sordina, continua a insinuare che non possiamo dirci davvero “umani”, se non camminando sulle strade infuocate che conducono al Senso che, per noi, è Dio!




[1] Cfr., g. w. f. hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Roma – Bari 2003, p. 284.
[2] Cfr., agostino, De Civitate Dei, 1. 12, c. 20, n. 3: PL 41, 371.
[3] Cfr., m. gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Torino 1992, p. 303. Ricorrere alla religione come analgesico per non sentire il duro morso della mancanza di senso, il peso del nulla installato nella nuova forma di “allegro nichilismo” imperante è non comprendere appieno il mondo nel quale viviamo. È stato, infatti, scritto che «chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del nulla e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca» (e. jünger, Oltre la linea, Milano 1989, p. 104).
[4] L’argomento è stato affrontato da autorevoli studiosi alcuni anni fa e meriterebbe di venir conosciuto. Per questo, mi permetto di rimandare al volume a.a. v.v., La frammentazione del sapere teologico, g. lorizios. muratore (edd.), Cinisello Balsamo 1998.
[5] «La strategia del carpe diem è una risposta a un mondo svuotato di valori che pretende di essere duraturo» (z. bauman, Intervista sull’identità, a cura di b. vecchi, Roma – Bari 2003, p. 62).
[6] Sto pensando ad una polemica affermazione di un filosofo del passato: «Quanto non è la follia di coloro che offrono una candelina alla Vergine Madre di Dio, persino […] senza alcun bisogno, e quanto pochi invece coloro che cercano di assomigliarle nella castità della vita, nel pudore, nell’amore delle cose celesti?» (erasmo da rotterdam, Elogio della follia, § 47, Torino 2002, p. 145).
[7] «La manifestazione del disegno di Dio è coinvolgente. Le persone che ne fanno diretta esperienza, si lasciano coinvolgere dal rapporto con Dio, al punto da contagiare altri uomini» (g. l. cardaropoli, Essere cristiano nel terzo millennio, Assisi 2002, p. 197). Dio non è una parola che ognuno può pronunciare, gestire ed utilizzare pro domo sua; piuttosto, come insegnava un mistico tedesco, «Dio è una Parola […] non pronunciata: chi può esprimere questa Parola? Nessuno […], se non chi è questa Parola» (meister eckhart, I sermoni, Milano 2002, p. 397). La Parola di Dio è Cristo; il solo che, insegna l’evangelista Giovanni, può e sa fare l’ermeneutica del Padre!
[8] Cfr., f. nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano 1984, p. 49. Oggi, purtroppo, si tende a “dimenticare di discutere intorno all’oblio di Dio”. Una “dimenticanza della dimenticanza” che svuota ulteriormente l’orizzonte del nostro tempo di argomenti di discussione intorno al “senso”. È stato opportunamente detto: «Nel dimenticare non accade solo che qualcosa ci sfugga. Il nostro dimenticare stesso cade in un nascondimento […] noi stessi insieme al nostro rapporto con la cosa entriamo nel nascondimento» (m. heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, pp. 180 – 181).
[9] Cfr., k. rahner, Confessare la fede. Nel tempo dell’attesa. Interviste, Roma 1994, p. 40.
[10] Ivi., p. 96.
[11] «Per me il problema […] sta […] nella possibilità di potergli parlare con il “tu” […] con amore dargli del tu» (ivi., pp. 135 – 136).
[12] Ivi., p. 40. Il senso della Chiesa, dunque, sta nel mostrare la possibilità di vivere la fede come dialogo con Dio che si svolge dandogli del “tu”; prima, però, occorre essere vicini a quanti non credono a questa possibilità. Oltre ad aprire strade verso Dio, la Chiesa deve porsi come strada aperta all’uomo: «Nel futuro dobbiamo osare di essere non soltanto una Chiesa dalle “porte aperte”, ma altresì una “Chiesa aperta”» (k. rahner, Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance, Brescia 1973, p. 114).
[13] Cit. da m. borghesi, Maestri e testimoni. Profili filosofico – teologici del ‘900, Padova 2009, p. 36.
[14] Cfr., m. d. chenu, Dimensione nuova della cristianità, in id., Il Vangelo nel tempo, Roma 1968, pp. 89 – 111; qui, pp. 90 – 91.
[15] maureen junker – kenny, Chiesa, modernità e postmoderno, in «Concilium» XXXV (1999), 1 (Questioni non risolte), pp. 145 – 154, qui p. 153. Va aggiunto che un filosofo cattolico italiano ha parlato di deteologizzazione del cristianesimo (M. F. Sciacca).
[16] Cfr., b. welte, Dal nulla al Mistero assoluto. Trattato di filosofia della religione, Casale Monferrato 1985, p. 55.
[17] Cfr., k. rahner, Scienza e fede cristiana, Roma 1984, pp. 281 – 282.
[18] l. pareyson, Esistenza e persona, Genova 1985, p. 11.
[19] Cfr., l. milani, Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, Cinisello Balsamo 2007, p. 158.
[20] Cfr., c. m. martinig. sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Milano 2008, pp. 20 – 21.
[21] j. ratzinger, La fraternità cristiana, Brescia 2005, p. 105.
[22] Cfr., y. m. congar, Credo nello Spirito Santo, Brescia 1999, p. 237.
[23] Cfr., s. quinzio, La sconfitta di Dio, Milano 1992, p. 79.
[24] Cfr., a. ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino 1999. Il nostro autore, dichiara: l’uomo è «intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente se stesso» (p. 13). Molte pagine dopo, aggiunge: «la depressione è istruttiva circa l’esperienza attuale della persona, poiché incarna la tensione tra l’anelito a essere semplicemente se stessi e la difficoltà di esserlo» (p. 185). Si può dire che anche un diffuso ateismo ha contribuito, nella modernità, ad alimentare la superbia antropologica. Si è preteso di dar vita ad un umanesimo ateo. Ne è risultato uno sconquasso nei rapporti tra gli uomini ed una degenerazione della nostra interiorità. Il solo uomo era la formula nefasta che avrebbe condotto sempre più al costituirsi dell’uomo solo! Quando era Arcivescovo di Milano, Paolo VI, denunciò tutto questo nel 1957: «da teorica la negazione di Dio sta diventando pratica; da ristretta ad alcuni cervelli imbevuti di utopie speculative sta diventando mito delle folle […]. Sta affermandosi una spiritualità umanistica che è radicalmente egoista, perché chiusa all’amore di Dio, e radicalmente rivoluzionaria, perché chiusa alla speranza di Dio» [Discorsi e scritti milanesi (1954 – 1963), Brescia - Roma 1977, testo 853 del 25-XII-1957] 
[25] s. natoli, Dio e il divino, Brescia 1999, p. 119.
[26] m. heidegger, Che cos’è la metafisica?, Firenze 1953, p. 121.
[27] «L’affermazione filosofica della trascendenza non ha in fondo altro significato se non il riconoscimento che l’uomo non è tutto, tant’è vero ch’egli ha sempre a che fare con qualcosa che non dipende da lui e che anzi gli resiste» (l. pareyson, Ontologia della libertà, Torino 1995, p. 90).
[28] «Il modo col quale la filosofia moderna parla dell’esistenza mostra ch’essa non crede all’immortalità personale; la filosofia in generale non crede, essa comprende solo l’eternità dei concetti» (s. kierkegaard, Diari, Brescia 1963, vol. II, pp. 1008 – 1009).
[29] Cfr., m. blondel,  L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Cinisello Balsamo 1997, p. 415.
[30] n. bobbio, Religione e religiosità, in «Micromega» - Almanacco di Filosofia 2/2000, p. 10.
[31] Cfr., j. h. newman, La grammatica dell’assenso, Milano 1980, p. 59.
[32] «Per ritenere l’uomo un essere divino bisognerebbe essersi già dimenticati di Auschwitz, di Hiroshima […]. L’uomo diviene più umano se è posto nella condizione di lasciare le sue autodivinizzazioni e idolatrie […] È compito della teologia il sottrarre all’antropologia l’assolutezza, la totalitarietà e la legittimità della salvezza […]. Senza la nostalgia del Tutt’Altro l’uomo perde la dignità della sua problematicità. Senza fiducia in Dio si affievoliscono le proteste contro l’ingiustizia e la lotta per l’ingiustizia» (j. moltmann, Uomo, Brescia 1973, pp. 178 – 179).
[33] Cfr., p. florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Milano 1998, p. 195.
[34] Cfr., i. mancini, La ragione contro il sacro, in g. vattimo et al. Filosofia al presente, Milano 1990, pp. 78 – 79. Quella che Mancini denomina “teologia, logica dei doppi pensieri”, genera domande, dubbi, ma nulla ha in comune con il “dubbio cartesiano” che, pur elevandosi a certe temperature, rimane pur sempre entro relativamente rassicuranti perimetri teoretici, epistemici: «il ‘dubbio’ di Cartesio […] manca di ansie e problemi, tanta è la tranquilla sicurezza che gli dà la dommatica fiducia nella ‘ragione matematica’»  (m. f. sciacca, L’interiorità oggettiva, Palermo 1989, p. 43).
[35] Cfr., m. f. sciacca, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Milano 1968, pp. 14 – 15.
[36] id., Filosofia e metafisica, Milano 1962, vol. II, p. 134.
[37] j. maritain, Della verità, in «Approches sans entraves». Scritti di filosofia cristiana, Roma 1977 – 1978, vol. I, p. 46.

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